LAMAISMO
. La parola è ormai diventata d'uso generale per indicare il buddhismo tibetano. Essa deriva da bLama "maestro", appellativo usuale e onorifico con cui ogni tibetano laico designa i monaci. Ma negli ambienti religiosi "lama" può chiamarsi soltanto chi è notoriamente arrivato a un alto grado di santità e dottrina ed è perciò in grado di comunicare agli altri le sue esperienze o la sua sapienza.
Si è convenuto dare questo nome di lamaismo alla religione tibetana e per fare avvertiti del carattere prevalentemente magico che essa a prima vista presenta e per contrapporre il buddhismo tibetano a quello indiano, che ancora prospera nei conventi di Ceylon. Occorre però notare che quella contrapposizione ha scarso valore perché il buddhismo tibetano continua le tradizioni non già del "piccolo veicolo" (hīnayāna, v.), che sopravvive a Ceylon, ma del "grande veicolo" (mahāyāna, v.) di cui esso è derivazione diretta, e che inoltre il lamaismo non si riduce soltanto a semplice magia ed esoterismo, ma degnamente perpetua le tradizioni esegetiche e dogmatiche delle grandi università indiane. Fino a oggi si è data troppa importanza alle manifestazioni popolari e spesso anche degeneri del lamaismo, mentre si è trascurata la parte dottrinale che esso pure contiene, e della ritualistica tibetana, che del resto quasi in nulla si differenzia da quella indiana, si è vista soltanto la forma esteriore e poco si è compreso della sua significazione reale e del suo contenuto simbolico e mistico.
Sono dunque due gli aspetti principali sotto cui ci si presenta il lamaismo, e conviene tenerli ben separati, perché non si corra il rischio di giudicare imperfettamente tutte quante le manifestazioni di questa religione. L'aspetto popolare non si presta ancora a una descrizione completa, perché è vivo nella pratica anziché codificato o sistemato in un corpo di dottrine, e perciò necessariamente vario. Possiamo soltanto dire che esso conserva e accoglie molti culti e credenze e riti e persino deità, oggi più o meno trasfigurate in veste buddhistica, della primitiva religione dei bon po. Questa religione sistemata, specialmente, nel Tibet occidentale (Guge), per opera del riformatore gŠen rabs subì in tale sua formulazione definitiva larghi influssi indiani e anche iranici, forse dopo l'introduzione del buddhismo nel Tibet; ma nella sua essenza è di origine antichissima e certo autoctona. Essa si riduce a un complesso animismo che popola di spiriti e demoni ogni passo di montagna, la terra (sa bdag), i fiumi (klu) e le sorgenti: sono tutte deità nocive e irascibili che conviene in vario modo propiziare, molte volte anche con sacrifici cruenti e persino umani, come fino a poco tempo fa si costumava nell'alta valle della Sutlej e come ne resta traccia in molta ritualistica simbolica delle feste religiose tibetane.
Queste divinità aborigene non sono ancora scomparse, ma sopravvivono in ogni villaggio, sebbene il loro culto abbia perduto molti dei suoi caratteri barbari e primitivi, e subito, in maniera più o meno palese, l'influsso buddhistico. Il buddhismo infatti trionfò, specialmente perché accolse e sanzionò culti e credenze bon po così radicate nella coscienza tibetana da diventare insostituibili. Anche oggi ogni passo di montagna, ogni fonte, ogni bosco ha le sue divinità tutelari che bisogna propiziare o recitando preghiere o innalzando i rdo bum, cioè accumulando mucchi di sassi a ricordo dell'esorcismo o della preghiera detta dal passante o annodando, mentre si pronunciano formule determinate, bandierine di stoffa (dar lcog) ai bastoncini che li sormontano, o compiendo cerimonie speciali quando si costruisce una casa o si fabbrica un ponte.
Il lamaismo monastico e il suo contenuto dottrinale invece non si differenziano gran fatto dal mahāyāna, del quale sono appunto derivazione e adattamento sul suolo tibetano. Come questo, il lamaismo accetta, quale fondamento della sua dottrina, l'insegnamento che il Buddha avrebbe impartito nella Prajñāpāramitā - in appresso illustrato e sistemato da Nāgārjuna (II-III sec. d. C.) -, che, cioè, creature e cose non sono di per sé esistenti ma condizionate, contingenti, relative e perciò vuote (scr. śūnya, tib. stoṅ pa). Tutto ciò che ne circonda è vuoto, mentre il solo reale è l'assoluto, o il puro essere oltre il fluire della contingenza e del divenire, sebbene esso sia la scaturigine prima del contingente medesimo. Le deità infinite del pantheon lamaistico hanno perciò anch'esse una realtà relativa; proiezioni del subconscio individuale e collettivo sono semplici simboli di stati mistici cui l'uomo si solleva nel processo della meditazione e debbono essere via via superate ed eliminate nella lucentezza immacolata della coscienza cosmica, che è chiamata usualmente il Tathāgatagarbha, o il Dharmakāya, il corpo trascendente da cui tutto scaturisce. Ognuna delle braccia o delle teste delle molte deità lamaistiche ha perciò un significato che al devoto rivela, con la chiarezza di un richiamo mistico, tutto un piano di realtà spirituali; se, per esempio, un dio è rappresentato con 16 braccia queste servono a rievocare le 16 gradazioni del "vuoto" che dissolvono progressivamente tutta l'apparenza fenomenica. Se esso è accoppiato con una divinità femminile (Yab yum "padre-madre"), ciò rammenta al credente che la liberazione non può conseguirsi prescindendo dalla prajñā (tib. šes rab, la "mistica sophia" = la "madre") e senza l'upāya, "il mezzo" appropriato (tib. t'abs, il "padre") che nel mahāyāna è appunto la karuṇà, cioè la compassione per tutte le creature.
Il lamaismo si serve largamente delle esperienze mistiche prescritte e regolate dallo yoga indiano; infatti i Tantra che esso accoglie come la parte più profonda dell'insegnamento buddhistico non sono che complessi sistemi di mistica, secondo i cui precetti e con i riti e le cerimonie che essi impongono, è possibile un'esperienza diretta e un possesso permanente delle verità da quello proclamate.
La mistica, con queste scuole connessa, ha elencato e sistemato un gran numero di pratiche speciali per cui l'uomo acquista piena coscienza e dominio delle sue forze psichiche e fisiologiche e consegue lo stato di samādhi in cui si opera o si realizza il completo distacco dalla contingenza. Fra le tante pratiche di questo genere vanno citate ad esempio: a) quella del gtum mo, per cui l'asceta, con un lungo processo di autosuggestione e con il controllo del respiro, riesce a sviluppare un calore interno facilmente verificabile. Esso fonde e libera dagl'inceppi della materia grossa quell'elemento germinale (scr. bindu, tib. t'ig le) che si manifesta fisicamente come potenza riproduttiva e psichicamente come il veicolo dell'illuminazione e del conseguimento del nirvāṇa; b) quella del gcod (pr. ciòd) che consiste nell'esteriorizzare e quindi nel riassorbire in sé le divinità terrifiche che animano il pantheon lamaistico, e quindi nell'acquistare la consapevolezza che esse null'altro sono se non emanazione del nostro subconscio; c) quella ancora del p'o ba (pr. fová) per il quale si assume che è possibile predeterminare la rinascita successiva di un individuo dominandone, al momento della morte, il principio cosciente, il quale sopravvive alla disgregazione dei singoli corpi, contiene in sé tutte le esperienze del passato e quindi è forza attiva capace di proiettare la serie individuale in nuove forme di esistenza.
Spesso però queste pratiche che avevano originariamente semplice valore di mezzo, cioè di controllo e di dominio del nostro io e delle sue forze, si tramutarono in puri acrobatismi fisiologici e taumaturgici, che sono fine a sé stessi, le cosiddette siddhi o poteri mistici che tanto ascendente esercitano sulle masse incolte.
Oltre a queste pratiche necessariamente individuali e di valore soprattutto ascetico il lamaismo comprende riti e cerimonie collettive le quali si compiono dai monaci riuniti nei loro conventi o nel tempio, con una liturgia che offre, in alcuni suoi elementi, sorprendenti analogie con quella cattolica e consiste nella recitazione di formule religiose fatta ad alta voce, in coro, in benedizioni, offerte, agapi, cui prende parte tutto il capitolo.
Storicamente il lamaismo comincia, secondo le tradizioni tibetane, con Padmasambhava, il grande taumaturgo oriundo della valle dello Swat, che nel sec. VIII introdusse nel Tibet, da poco risvegliato alla civiltà e consolidato politicamente attraverso le conquiste del re Sroribtsan sgam po (sec. VII), alcuni sistemi tantrici, e quindi la prima esperienza buddhistica. Ma, sebbene la leggenda abbondi di particolari, non v'ha dubbio che la figura di Padmasambhava è soprattutto il simbolo di un'epoca: alla sua attività si attribuiscono avvenimenti la cui precisa determinazione cronologica si era col tempo perduta. L'opera da lui iniziata venne continuata da una folla di dottori indiani venuti nel Tibet per invito del re K'ri sronlde btsan (sec. VIII) e dei suoi successori e dai Lotsāva o traduttori indigeni i quali, appreso il sanscrito, proseguirono e condussero a termine una poderosa opera di versione dei principali testi buddhistici, siano essi libri canonici o commenti.
La penetrazione buddhistica, interrotta dalla persecuzione del re gLan darma (sec. IX), che segna un momentaneo rifiorire della setta bon po, riprese con molta energia nel sec. XI e XII per volontà dei discendenti del re apostata stabilitisi nel Tibet occidentale, che, nel loro fervore di neofiti, invitarono e accolsero nella loro corte i maestri indiani che la rinascita delle religioni indù e le prime invasioni musulmane inducevano a trovare pace e riposo fra le vette del Himālaya. Continuò per essi l'opera di traduzione iniziata dai loro predecessori fino a che Buston, nel sec. XIII, ordinò e dispose nelle grandi raccolte conosciute sotto il nome di bKa'agyur (pron. Kanghiùr) e bs'Tan agyur (pron. Tanghiùr), questa mole immensa di traduzioni, le quali ci hanno tramandato, in veste fedelissima, gran parte della letteratura buddhistica che sarebbe altrimenti andata perduta.
Alcune grandi figure di mistici e dottori iniziarono nel Tibet scuole particolari che ebbero grande sviluppo e la cui caratteristica consiste nell'aver seguito piuttosto uno che un altro dei varî indirizzi tantrici o di avere accettato i presupposti dogmatici di una piuttosto che di una altra scuola mahāyānica. Fra queste sette vanno specialmente ricordate, per la grande importanza sia storica sia dottrinale, le seguenti:
a) quella dei rÑiṅ ma pa (pron. gninmapà) o degli "antichi", la quale continua le tradizioni più vetuste e si vanta di discendere da Padmasambhava. Essa ha conservato e accettato molti culti e credenze di origine bon po. I seguaci di questa scuola eccellono nell'arte magica e negli esorcismi e non sono tenuti a rispettare il voto del celibato.
b) quella dei bKa'gdams pa si riconnette con la seconda penetrazione del buddhismo indiano nel Tibet, che avvenne per opera del maestro indiano Atīśa, il quale nel 1042 si trasferì nel Tibet per invito del re di Guge. Il ciclo tantrico del Guhyasamāja ed in appresso quello del kālacakra ebbero particolare diffusione in questa scuola che rinobilita il sistema tantrico restituendogli tutto il suo valore di esperienza mistica e togliendogli ogni carattere puramente esorcistico.
c) quella dei Bka'rgyud pa (pron. Kāgyur pa) la quale si riconnette con i grandi asceti indiani Tilopā e Nāropā e riconosce come suo primo divulgatore Marpa (sec. XII). Essa è celebre per i suoi ascetismi; i suoi monaci si ritirano in romitorî montani; si fanno murare per anni o anche per tutta la vita in cellette scavate nella roccia e passano il tempo in continua meditazione, cercando acquistare quel dominio completo sul corpo e sullo spirito che le "6 leggi" di Nāropā, uno dei testi più celebri e più diffusi della mistica indo-tibetana, insegnano come possa conseguirsi.
d) quella dei Saskya pa, così denominata dal grande monastero di Saskya, la quale ebbe dalla fine del sec. XIII ai primi del XIV la supremazia politica sul Tibet, concessa ai suoi abati da Kubilai Khan convertitosi al buddhismo. Questa supremazia cessò col decadere della dinastia mongola. La setta ripristinò specialmente le scuole magiche ed esoteriche.
e) quella riformata °dGe lugs pa (pron. gelugpà) fondata da una delle più grandi figure del buddhismo tibetano, cioè da bLo bzàṅgrags pa (pron. lozàntragpà), comunemente conosciuto sotto il nome di Tsoṅk'a pa (pron. Zonkapà) dal suo paese di origine (sec. XV). Egli ingiunse ai monaci l'osservanza di regole monastiche molto severe che imponevano rigorosamente il celibato e proibivano l'uso di bevande alcooliche, vietò loro la magia e gli esorcismi e con una serie di voluminosi trattati, documento mirabile di dottrina, penetrazione e chiarezza, egli, con alcuni dei suoi discepoli principali, fece opera esegetica delle scritture buddhistiche, ridonando alla dogmatica ed alla mistica tutto il loro prestigio.
La scuola da lui riformata si chiamò anche la scuola "gialla" (serpo) dal berretto che i monaci sono obbligati a portare per distinguersi dalle altre sette le quali usano il berretto rosso e vengono perciò conosciute genericamente come "sette rosse" sebbene come vedemmo, includano molti e diversi indirizzi. L'avvento di Tsoṅk'a pa segna anche l'inizio dei grandi monasteri tibetani perché nei tempi più antichi, salvo poche eccezioni, il monastero, come dice la stessa parola tibetana che lo designa (dgon pa, scr. āraṇyaka, posto appartato) era un semplice romitorio, con cappella e tempio e alcune celle per il maestro e i discepoli che intorno a lui si radunavano. Con la riforma di Tsoṅk'a pa i monasteri prendono proporzioni gigantesche: basti ricordare quelli di Sera, aBras spuṅs (pr. depun) e dGa' ldan (pr. galden) fondati appunto dal riformatore e dai suoi due più grandi discepoli, dGe adun grub (pron. gedundrub) e rGyal ts'ab rje (pron. gyalzabrge). La nuova setta tornò a insistere su una idea centrale del mahāyāna, vale a dire su quella del bodhisattva, quella creatura cioè che pur essendo un Buddha in potenza rinuncia alla beatitudine del nirvāna e resta nel giro delle nascite e delle morti (scr. saísāra, tib. ak'or) per indurre gli uomini tutti con l'esempio e la predicazione alla via della salvazione. Questi bodhisattva e, sebbene ciò accada più raramente, le deità supreme, cioè i 5 Buddha: Amitābha, Aksobhya, Ratnasambhava, Amoghasiddhi e, Vairocana che sono le prime proiezioni visibili dell'assoluto, pur rimanendo nelle sedi celesti col loro corpo etereo, possono emanare sulla terra un loro corpo apparizionale (scr. nirmāṇakāya, tib. apr'ul sku, pron. tulku) che serva appunto a perpetuare la continuità della legge e rinnovarne perennemente la rivelazione.
Ogni grande monastero dipende di solito dal tul ku di uno di questi bodhisattva incarnatisi per il bene delle creature, e da molti scrittori di cose tibetane designati erroneamente col nome di Buddha viventi. Il corpo che essi assumono provvisoriamente sottostà alle stesse leggi cui soggiace ogni cosa terrena e si dissolve come il corpo di ogni mortale; ma il principio cosciente che lo animava si trasferisce, alla morte, nel corpo di un fanciullo che alcuni segni particolari o alcuni portenti indicano irrevocabilmente come l'incarnazione del santo momentaneamente disparso dalla terra. Superate vittoriosamente alcune prove di controllo che ne dimostrino fuor d'ogni dubbio il carattere divino, il fanciullo è condotto nel suo monastero in cui seguiterà a incarnarsi fino alla fine dei secoli.
Fra tutte le manifestazioni terrene degli dei o dei bodhisattva occupano il primo posto il Dalai lama (questo nome è per metà mongolico e per metà tibetano: mong. dalai, tib. rgya mts'o "oceano" [di sapienza] appellativo usuale del Gran Lama) ed il Tashi lama. Il Dalai lama è il tul ku del bodhisattva Padmapāṇi o Avalokiteśvara e il capo supremo del Tibet. Il secondo gode, almeno di diritto, di un maggiore prestigio spirituale siccome è la incarnazione di uno dei cinque Buddha supremi, e propriamente di Amitābha di cui lo stesso Avalokiteśvara è, secondo la teologia mahāyānica, la proiezione. Ma il suo potere politico è di gran lunga inferiore a quello del Dalai lama. Questi risiede nel palazzo di Potala a Lhasa; ed il secondo prende il suo nome dal monastero di bKra śis lhun po (pron. Tlashilumpo) vicino a Shigatze, che è la sua dimora abituale.
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