Laicità
Termini attuali
La laicità è un concetto problematico che indica una tensione o un conflitto sempre nuovo da dipanare o risolvere, di cui si può ragionare solo nelle situazioni storiche in cui istituzioni politiche e istituzioni religiose si trovano a coesistere, in un contesto costituzionale superiore che le abbraccia entro un ordine dove siano riconosciute le ragioni delle une e delle altre. Così posta la condizione del concetto, si comprende che si può sensatamente discorrere di laicità soltanto in situazioni dualiste caratterizzate, innanzitutto, dalla distinzione tra esperienza politica ed esperienza religiosa e tra le loro istituzioni e, poi, dal principio di reciproca incompetenza delle une e delle altre, nell’altrui sfera di competenza. Non c’è laicità né quando la religione si ingerisce nelle cose dello Stato, facendosi essa stessa Stato, né quando lo Stato si ingerisce nelle cose della religione, facendo della religione un affare di Stato. La laicità, in breve, quali che siano le sue traduzioni storiche concrete (Randazzo 2008) significa questo: divieto di ingerenze, in un senso e nell’altro.
Se si guarda alla storia, non c’è dubbio che questa concezione dei rapporti tra politica e religione, che designiamo con il termine laicità, rappresenta un’eccezione, per di più recente, in una vicenda storica plurimillenaria, in cui si intrecciano conflitti e connivenze: conflitti per la pretesa della religione di diventare politica e della politica di diventare religione o, quantomeno, per la pretesa dell’una di piegare l’altra a sé; connivenze nello scambiarsi reciproci sostegni, offrendo doveri religiosi a sostegno di obbligazioni politiche e viceversa.
In questa vicenda, la laicità (parola sconosciuta fuori dell’ambito europeo occidental-continentale) è il prodotto di una specifica e cruentissima storia per la libertà religiosa e di coscienza e per la fondazione della convivenza civile su basi indipendenti dalla professione di fede religiosa, una vicenda che non data più di cinque secoli. Essa è un risultato e un connotato della civiltà liberale, di una storia limitata nel tempo e nello spazio, durante la quale la vita politica è venuta emancipandosi dalle ipoteche confessionali. Mentre dal punto di vista concettuale, la laicità può considerarsi una nozione neutrale a due facce, che unifica o affratella entrambe le parti nell’identica pretesa d’essere rispettate entro l’esperienza che compete loro, dal punto di vista storico non si può dire lo stesso. Storicamente, laicità è stata la parola d’ordine che riassume la lotta per l’affrancamento politico dall’autorità religiosa e dalla sua pretesa d’egemonia (Scoppola 2005), che essa sempre avanza in ragione del suo ministero spirituale.
È perciò da ritenere un rovesciamento e un’appropriazione indebita da parte del magistero cattolico la recente ascrizione che esso ne ha fatto al proprio patrimonio ideale originario (Bellini 2007, pp. 31-42), un’ascrizione che sottintende l’aspirazione della Chiesa di porsi essa stessa come autentica assertrice e garante di laicità: una pretesa sorprendente per l’ardire del suo assunto, solo che la si confronti con la pratica bimillenaria del suo potere e con la teoria contenuta in innumerevoli proposizioni ufficiali della sua dottrina, mai ritrattate. Il fatto che la laicità si sia affermata dall’interno del mondo cristianizzato non autorizza infatti il passaggio successivo: che essa sia un prodotto (e quindi un merito, per chi la considera tale) del cristianesimo, come fenomeno storico. La sua affermazione è avvenuta contro, non con la Chiesa. L’irrigidimento organizzativo che Gregorio VII diede alla Chiesa dell’11° sec., come istituzione potestativa indipendente, ne fece il contro-altare dei principi cristiani (Prodi 2000), ma non mirava affatto allo stabilimento di un rapporto duale di rispettoso equilibrio tra i ‘due fori’, spirituale e temporale. La ragione suscitatrice della ‘riforma gregoriana’ era la lotta per la supremazia ‘ierocratica’ del primo sul secondo: era un fine monista. I successivi sviluppi in senso dualistico sono dati di puro fatto, anzi contraddittori, rispetto agli intendimenti di quella iniziale vicenda chiesastica.
La base dottrinale invocata per ascrivere la laicità al patrimonio dottrinale della Chiesa, è il celeberrimo motto di Gesù di Nazareth, in risposta alla domanda dei farisei se fosse lecito agli israeliti pagare il tributo a Cesare: «date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26), una formula che indica bensì un dualismo di ambiti d’esperienza e di sfere di potere, ma che è totalmente priva di contenuto sostanziale, non risolvendo la questione essenziale, che cosa è di Cesare e che cosa è di Dio. Quella formula può dare giustificazione a qualunque rapporto di pura forza tra Chiesa e Stato, ciò che spiega la permanente fortuna di questa citazione da parte dei testi ecclesiastici. Ma oggi quel motto evangelico serve a qualche cosa di più che una semplice giustificazione dell’equilibrio della forza, quale che sia. Serve come base per la pretesa di primogenitura e di autenticità nella definizione di una nozione cristiano-cattolica di laicità; di ‘sana’, ‘vera’, ‘giusta’, ‘nuova’, ‘positiva’ laicità, da contrapporre alla ‘falsa’, ‘insana’, ‘ingiusta’, ‘superata’, ‘negativa’ laicità, prodotto di una storia sbagliata, nemica della religione, una storia che i tempi attuali si dovrebbero incaricare di correggere (Zannotti 2005; Ferrone 2008).
Questo paradossale tentativo di appropriazione a parti rovesciate del principio di laicità si accompagna, in effetti, a un atteggiamento liquidatorio nei confronti dell’humus storico-culturale che l’ha nutrito nei secoli, la ‘secolarizzazione’, cioè il processo di affrancamento delle forme di vita politico-sociale dalle loro originarie matrici religiose ed eteronome e la sostituzione di queste ultime con ragioni legittimanti puramente mondane e autonome, funzionali non alla salvezza delle anime nell’al di là, ma al vivere civilizzato degli esseri umani nell’al di qua.
Tale rovesciamento delle basi di legittimità delle forme del vivere sociale, dal sacro al profano, pur determinato da cause originate nella storia moderna europea, quali i conflitti civili di religione, a lungo è apparso dotato di valenza universale, legato necessariamente a processi profondi di democratizzazione, tecnicizzazione e funzionalizzazione, dell’autorità. Fino a qualche decennio fa, le profezie di Émile Durkheim (1858-1917) – la vittoria di una ‘morale sociale’ integralmente funzionale alle esigenze organiche della società industriale – o di Max Weber (1854-1920) – il ‘disincanto’ come carattere del razionalizzato e burocratizzato mondo contemporaneo – potevano apparire, pur diversamente motivate, come incontestabili constatazioni. La religione, in quanto tessuto connettivo della società civile, sembrava destinata a regredire, per opera della ragione dell’Occidente. I critici di questa ‘ragione’, peraltro, hanno sempre collegato la secolarizzazione a fattori disgreganti, come individualismo, economicismo, materialismo, funzionalismo, ragione strumentale, produttivismo, edonismo e così via. Ma, per lo più, questa tendenza, per quanto deprecata, sembrava inarrestabile.
Ora, invece, l’agire sociale, nelle sue manifestazioni economiche, tecniche, politiche, culturali, affettive e sessuali, si è bensì reso progressivamente autonomo dalle premesse metafisiche di un tempo, a custodire le quali stava il potere dogmatico della Chiesa. Ma questo processo, durato secoli, lungi dall’aver definitivamente sconfitto le concezioni della realtà umana metafisicamente e teologicamente orientate, e lungi dall’averle relegate, dove sopravvivono, nel campo del privato, irrilevante nella sfera pubblica, secondo la visione corrente fino a qualche decennio fa (Identités religieuses en Europe, éd. G. Davie, D. Hervieu-Léger, 1996), espressa in sintesi con la formula fortunata «credere senza appartenere» (G. Davie, Religion in Britain since 1945. Believing without belonging, 1994), sembra ora avere generato un contro-movimento. Il ‘postsecolarismo’ – un concetto che, per ora, allude soltanto all’esaurimento di una fase storica, lasciando aperta la domanda circa la possibile ‘ri-cristianizzazione’ della società – sarebbe questo movimento contrario, determinato dalla crisi della soggettività raziocinante. Non pochi soggetti ‘secolari’ della vita pubblica sembrano rivolgersi di nuovo alla religione, non per semplice nostalgia e conforto o soddisfazione di esigenze interiori, e nemmeno solo per semplice calcolo strumentale, ma per ragioni costitutive del senso del loro stare e agire nel mondo. Le Chiese e specialmente la Chiesa cattolica romana, non solo in Europa, a loro volta sono pronte a rispondere all’appello.
La laicità, dunque – questa grande e faticosa costruzione della storia e dello spirito europeo che ha collocato lo Stato e la politica, le Chiese e la religione, in sfere distinte e reciprocamente indipendenti – si trova oggi fare i conti con la contestazione della sua ragione fondativa. La religione è riscoperta come risorsa politica e la politica è riscoperta come risorsa religiosa e questa duplice riscoperta colloca la laicità tra l’incudine e il martello. Parlare però di questa riscoperta in termini di laicità, sia pure ‘nuova’, pare semplicemente uno dei tanti casi di abuso lessicale.
La salvezza delle anime
Questo ‘contro-movimento’, che tende a far apparire l’esperienza europea della laicità come una deviazione, un Sonderweg, o addirittura una ‘anomalia’, se non ‘la vera anomalia’ (Habermas 2004) del nostro tempo e delle nostre società, pone problemi nuovi o, meglio, ripropone problemi antichi in modo nuovo, circa i rapporti tra autorità civile e autorità religiosa. C’è in effetti una novità, un cambio di paradigma, rispetto al tradizionale fondamento delle «interposizioni prelatizie nel governo della cosa pubblica» (Bellini 2000). La constatazione di questa novità è il punto più importante per la comprensione degli sviluppi odierni del rapporto religione-politica. Da qui è opportuno prendere avvio.
Storicamente e teologicamente, la potestas circa temporalia della Chiesa si è giustificata in base al triplice presupposto che a) la salvezza dell’anima è la vocazione suprema, la risposta alla quale è doverosa per ogni essere umano; b) solo la Chiesa cattolica, apostolica, romana è dispensatrice di salvezza (extra Ecclesiam nulla salus, con la sola eccezione che riguarda coloro che, senza loro colpa, ignorano Cristo e la sua Chiesa); c) la via cristiana alla salvezza non è il distacco indifferente, il contemptus mundi, proprio dell’ascetismo delle sette dei primi tempi, caratterizzati dall’attesa del ritorno imminente del Cristo, ma comporta l’impegno dei cristiani a instaurare omnia in Christo e a fare del tempo finito il saeculum christianum.
In base a queste premesse, le deviazioni dalla recta via, come interpretata dalla Chiesa, finivano per coincidere con la dannazione dell’anima, e il compito della Chiesa stessa era, per l’appunto, di preservarne i cristiani: un compito che si indirizzava in primo luogo ai governanti, membri della Chiesa al pari di tutti gli altri, ma il cui peccato nei negotia regni, il peccatum Caesaris, era da considerarsi, per l’elevatezza della funzione loro assegnata e l’entità delle ripercussioni, più grave di quello compiuto dai sudditi. La potestas corrigendi della Chiesa aveva così ragione d’indirizzarsi con particolare forza proprio nei confronti dei governanti.
Nel corso dei secoli, questo rapporto della Chiesa con l’autorità politica ha subito molte variazioni ed è stato teorizzato nel modo più vario, dalla dottrina del Sole e della Luna contenuta nella lettera Sicut universitatis conditor di Innocenzo III del 1198, a quella delle due spade (entrambe nelle mani del clero), citata nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, nel 1302, a quella dell’anima e del corpo di Tommaso d’Aquino, richiamata ancora dall’Immortale Dei di Leone XIII, nel 1885. Ma, al di là delle forme e delle metafore, nella prospettiva della salvezza del genere umano in Cristo, la propria autorità preminente è sempre stata considerata dalla Chiesa, esplicitamente o implicitamente, una necessità imposta dalla natura peccaminosa della società: lo Stato, in breve, in funzione strumentale alla lotta contro il peccato, e la Chiesa, in funzione del perseguimento della salvezza.
È chiaro che, su queste premesse, l’indifferenza dell’uno rispetto all’altra o la reciproca indipendenza sono inconcepibili. Lo Stato può essere abbassato a strumento (braccio secolare) della Chiesa, o essere innalzato alla dignità di collaboratore della Chiesa, come nella scolastica e nelle sue riprese postmedievali: ma, in ogni caso, alla Chiesa deve spettare l’ultima parola in tutte le questioni che, a suo esclusivo giudizio, comportano conseguenze per la salvezza delle anime e del genere umano. La bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, certo uno dei testi curiali che consideriamo più militanti sul terreno politico, non ragionava in termini politici, ma, per l’appunto, in termini salvifici, terminando con le parole: «Pertanto noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa [la potestà civile] sia sottomessa al romano pontefice». Ma ancora l’enciclica tardottocentesca Immortale Dei, già richiamata, fondata sull’idea bellarminiana delle ‘due società’ (e non più su quella medievale dei due poteri entro l’unica società cristiana), ma pur sempre sulla necessaria duplice appartenenza degli esseri umani e all’una, come cittadini, e all’altra, come fedeli, ribadisce la tradizione: se è vero che «Dio volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile […] entrambi sovrani nella propria sfera», è altrettanto vero che «tutto ciò che nelle cose umane abbia in qualche modo a che fare col sacro, tutto ciò che riguardi la salvezza delle anime e il culto di Dio, che sia tale per sua natura o che tale appaia per il fine cui si riferisce, tutto ciò cade sotto l’autorità e il giudizio della Chiesa». Pertanto, i governanti «tra i loro più sacri doveri devono porre quello di favorire la religione, difenderla con la loro benevolenza, proteggerla con l’autorità e il consenso delle leggi, né adottare qualsiasi decisione o norma che sia contraria alla sua integrità».
La rottura dell’unità cristiana nella società civile
Questa costruzione, in tutte le sue innumerevoli varianti anche giuridico-canoniste, non è più sostenibile oggi; o, meglio, non è più sostenibile come formula costitutiva delle relazioni tra la Chiesa e la società civile come tale, nel suo insieme e rispetto ai governanti che di questo ‘insieme’ sono responsabili. Resta ferma con riferimento al rapporto tra l’autorità ecclesiastica e i suoi fedeli, i christifideles, ma tende a sfumare o a essere messa in ombra (nulla è mai abrogato nella dottrina della Chiesa), con riguardo alla società civile tutta quanta. Il presupposto della pretesa egemonica della Chiesa è una società caratterizzata in senso cristiano, cioè una società nella quale l’essere cittadino coincide con l’essere cristiano, e, per di più, cristiano cattolico-romano. Solo questa doppia, totale, simultanea e comune appartenenza – alla società civile e all’unica comunità dei credenti – poteva consentire alla Chiesa la pretesa all’ultima parola, con riguardo alla società civile tutta intera, nelle questioni in cui, ratione spiritualium, è implicata la salvezza delle anime. Ma quel presupposto non esiste più, né come dato di fatto numerico, né come orientamento spirituale collettivo. La Chiesa è perciò indotta dalle circostanze a proporsi in altra chiave, come autorità sociale.
La percezione di questa situazione nuova, che finisce per collocare l’azione della Chiesa in un ambiente, se non ostile, almeno in parte indifferente alla sua azione pastorale in re civili, ha scosso dalle fondamenta l’autocomprensione dei suoi fini e dei suoi mezzi: essa non è più ‘il tutto’, è solo ‘parte’ (maggioritaria o non, non ha rilievo). La scissione sempre crescente tra il cittadino e il cattolico, determinata dal progressivo diffondersi e mescolarsi nelle società contemporanee di ateismo, agnosticismo, indifferentismo, generico teismo, pluralismo delle fedi religiose, cristiane e non cristiane, e l’incontrollabilità di questa ‘esplosione’ delle coscienze con gli strumenti coercitivi disciplinari d’un tempo, è la condizione del ‘mondo moderno’, che ripropone, ma in situazioni completamente diverse, aspetti della condizione della Chiesa dei suoi primi tre secoli di vita, delle quali si è perduta completamente la memoria, se non la memoria storica, certo almeno quella pratica.
La Chiesa, ormai, non può parlare il linguaggio della salvezza alle società umane, con la pretesa che esse l’ascoltino in forza della comune appartenenza al medesimo orizzonte religioso. Il linguaggio della Chiesa può pretendere ascolto soltanto da parte dei fedeli. La portata universale del messaggio cristiano è, naturalmente, continuamente proclamata e ribadita bensì dalla Chiesa, il cui «impero non si estende soltanto sulle popolazioni cattoliche […] ma abbraccia anche quanti sono privi della fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo» (enciclica Annum sacrum, 1899, di Leone XIII, ripresa da Pio XI, nell’enciclica Quas primas del 1925). Ma, una cosa è pretendere ‘impero’, un’altra è vederselo riconosciuto.
La percezione della rottura del vincolo cristiano dentro le società civili deve essere stata un trauma, perfino più profondo, anche se meno ostentato, di quello provocato dalla Riforma e dalla rottura dell’unità cattolica tra i popoli e gli Stati d’Europa. Se allora si era trattato di una divisione della cristianità tra diverse unità politiche, ora si trattava del rischio dell’emarginazione, dell’irrilevanza, dell’espulsione della Chiesa dalla vita pubblica. Per centocinquant’anni, dalla rivoluzione del 1789 al pontificato di Pio XII, la Chiesa ha reagito arroccandosi in sé stessa, bollando, con parole tanto più dure quanto più sconfortate, tutto ciò che i tempi consideravano conquiste di civiltà e la Chiesa considerava, all’opposto, malattia sociale mortale. In primo luogo, la libertà di coscienza: «corrottissima sorgente dell’indifferentismo», «assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio», «errore velenosissimo», «precipizio», «pozzo dell’abisso», «instabilità degli spiriti», «depravazione della gioventù», «disprezzo nel popolo delle cose più sante»: «in una parola: peste della società» (parole, riferite al ‘cattolicesimo liberale’ d’Oltralpe, dell’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI, del 1832). Ma, dalla libertà di coscienza, la condanna si estende via via al pluralismo delle idee, alla libera manifestazione del pensiero, ai ‘deliramenti’ democratici (enciclica di Leone XIII Diuturnum illud del 1881) e, finalmente, alla separazione dello Stato dalla Chiesa, cioè all’idea della laicità dei poteri pubblici, al diritto dei non cattolici di professare pubblicamente le loro convinzioni: in breve, a tutto ciò che costituisce l’essenza dell’era nuova, aperta dalle idee del liberalismo politico postrivoluzionario.
La munizione definitiva e compiuta di questo fortino assediato è certamente l’infallibilità pontificia, affermata nell’enciclica Quanta cura (1864) di Pio IX, e la condanna delle «pravae opiniones et doctrinae» liberali del tempo, contenuta nel Syllabus (sempre dello stesso anno) ed espressa nel modo più perentorio. Questi documenti non esprimono soltanto l’arroccamento della Chiesa ma anche, altrettanto chiaramente, il suo spavento epocale di fronte a un mondo in cambiamento che non riconosce e dal quale, a sua volta, rischia di essere misconosciuta. Le citazioni di letteratura curiale ottocentesca, su cui il Sillabo argomenta le sue condanne, sono a contrariis un’impressionante silloge degli argomenti dai quali la Chiesa si sentiva, per così dire, assillata. Se ci chiediamo come le sue drastiche condanne, che non lasciavano margini di flessibilità, abbiano potuto permetterle di coesistere con quel mondo, senza scendere sul terreno di una guerra all’ultimo sangue, la risposta è nella distinzione pragmatica, cui sempre la Chiesa si attiene, in attesa di tempi più favorevoli: la distinzione tra la tesi e l’ipotesi. Ciò che è vero ‘in tesi’, cioè secondo gli articoli della fede, può non essere possibile ‘in ipotesi’, cioè nelle condizioni storiche date. Dunque, ciò che ‘in tesi’ è falso, può non essere impossibile, può anzi essere doveroso per evitare mali maggiori, ma solo fino a quando si sarà costretti a ‘tollerare’, cioè a ‘subire’ (questa è la nozione curiale di tolleranza).
Il bene della società
Quella condizione di rigetto del ‘mondo moderno’ si è prolungata nel tempo. L’idea di una restauranda respublica christiana penetra nel 20° sec. e si manifesta, addirittura simbolicamente, nel 1925, con l’istituzione della festa di Cristo Re, re ‘anche’ di questo mondo (enciclica Quas primas di Pio XI del 1925, in continuità con la già citata Annum sacrum di Leone XIII). Tuttavia, la crisi della società liberale della fine del secolo e la sfida portata dal socialismo agli ordinamenti costituiti, tra i quali la Chiesa poneva sé stessa, offrì a quest’ultima l’occasione per proporsi nel governo delle cose del mondo in termini nuovi. Anche in quella circostanza, si trattò di un’offerta di alleanza. La novità stava però nella circostanza che, nel passato, il ‘governo delle anime’ coincideva con il fine politico del ‘governo dei corpi’, conformemente a una massima della ragion di Stato («Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora»; G. Botero, Della ragion di Stato, libro II, 1589, p. 93); ora si trattava, invece, di una formula politica: la ‘dottrina sociale della Chiesa’, una proposta non per le anime, ma per le società. Questa ‘dottrina’ è elaborata in termini teologici, come non avrebbe potuto non essere, e il fine resta pur sempre quello della salvezza in Cristo dell’umanità. Ma i termini dell’elaborazione riguardano direttamente l’azione in re civili e il fine spirituale è posto in secondo piano, mediato da un programma sociale. C’è come una torsione, dalla salute delle anime alla salute delle società. Conseguentemente, la cerchia degli interlocutori del magistero cattolico si allarga, dal popolo dei fedeli, che non coincide oramai più con la popolazione tutta intera, a tutti quanti hanno a cuore la difesa contro quelle che già Pio IX aveva definito «le stolte e pericolose invenzioni del comunismo e del socialismo» (enciclica Noscitis et nobiscum, del 1849), contro quelle congreghe che «diversis ac pene barbaris nominibus socialistae, communistae vel nihilistae appellantur» (enciclica Quod apostolici muneris di Leone XIII, del 1878). Su questa piega, per accogliere la parola della Chiesa, bastava avere a cuore le buone sorti della società. La fede era irrilevante.
La svolta è capitale: quelle parole parlavano di cose del mondo, non di cose dello spirito. La salvezza non è (solo) quella dell’anima (che riguarda i buoni cristiani), ma il bene della civitas, di cui si può parlare a tutti, incominciando dai governanti, senza presumere in loro la comunanza nella fede della Chiesa cattolica. Alla vocazione tradizionale di traghettatrice delle anime in cielo si aggiunge, diventando preminente, quella di nocchiera dei popoli nelle mondane traversie.
Lo spirito della novità soffia indiscutibilmente nell’enciclica Rerum novarum del 1891, definita dal magistero, addirittura, la «magna Charta dell’ordine sociale» (enciclica del 1931 Quadragesimo anno, conclusione della I parte). Il documento di Leone XIII è significativo già nelle parole che lo intitolano, se le confrontiamo con la tesi LXXX, oggetto dei fulmini del Sillabo: la tesi che «il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso […] e con la moderna civiltà», cioè con le res novae. Con la Rerum novarum non si trattava certo di un venire a patti con ideologie atee e sovversive. Tutto il contrario: si trattava di elaborare una risposta alla ‘questione sociale’, la res nova, per l’appunto, in cui quelle ideologie trovavano alimento e forza. Ma, per rispondere alla ‘questione sociale’, occorreva entrare in concorrenza e proporre una propria ‘dottrina sociale’, cioè una visione della società, contrapposta a quelle degli altri, che non sapevano che farsi della Chiesa, propugnavano l’abolizione della proprietà privata e proclamavano l’uguaglianza tra gli esseri umani, disconoscendo la ‘naturale’ struttura gerarchica dell’organismo sociale della quale la Chiesa si proponeva come garanzia.
Sotto certi aspetti, la Rerum novarum fu, rispetto al socialismo, l’equivalente di ciò che era stata la Quanta cura, rispetto al liberalismo. Con una differenza essenziale, tuttavia: rispetto al liberalismo, la Chiesa non aveva fatto altro che riproporre, nei confronti delle autorità civili, sé stessa come autorità di ultima istanza; rispetto al socialismo, la Chiesa proponeva una dottrina sociale, o ‘sociologia cattolica’ che implicava un’azione sociale corrispondente. Mentre la condanna del liberalismo implicava una ripulsa, la condanna del socialismo implicava un impegno e, perfino, una competizione. Il laicato cattolico, in tutta Europa, veniva scoprendo la dimensione sociale non più solo come luogo d’esercizio individuale delle virtù cristiane verso il prossimo (la carità del quod superest, la compassione verso i deboli ecc.) ma come luogo d’azione collettiva, cioè di impegno civile. La Chiesa cattolica, in breve, oltre a (continuare a) pretendere una supremazia sulla vita civile, secondo l’autorità che essa si era autorappresentata per tanti secoli, diventava una forza operante entro la vita civile, nella quale essa si ritagliava un vasto spazio d’azione, invocando il principio che, poi, sarebbe diventato senso comune: la sussidiarietà, accennata nella Rerum novarum e sviluppata nella Quadragesimo anno (al n. 34). Uno spazio, occorre aggiungere, ‘non politico’ ma solo sociale, come precisato nell’enciclica Graves de communi di Leone XIII, del 1901, in cui (al n. 4) si trova una definizione di ‘democrazia’ assai particolare, ma al contempo significativa dello spirito curiale del tempo, totalmente staccata dalla sfera della politica: la democrazia nel senso cristiano non è il governo del popolo, ma è ‘azione benefica a favore del popolo’.
Nella Rerum novarum, la salvezza delle anime è pur sempre il fine ultimo, in nome del quale il papa Leone XIII prende la parola sulla ‘questione sociale’, ma il fine immediato, dettato dall’urgenza delle circostanze storiche, è salvare la società dalla minaccia del socialismo, cioè la minaccia di rivolgimenti pericolosi per il giusto ordine sociale. In questo documento – parole dello stesso Papa nel preambolo della Graves de communi – si trattava «ampiamente dei diritti e doveri su cui era spediente che convenissero in reciproco accordo le due classi sociali dei capitalisti e dei lavoratori» e si mostravano «ad un tempo i rimedi derivanti dalle dottrine evangeliche, che […] sembrarono soprattutto efficaci a tutelare la causa della giustizia», oltre che della Religione, e «a togliere ogni contesa tra i vari ordini di cittadini». Questa era la res communis, in cui la Chiesa entrava con la pretesa di competenza e di ascolto ‘comune’, da parte di credenti e non credenti.
La dignità degli esseri umani
Indipendentemente dal significato politico di quell’intervento, questa sollecitudine in re sociali è un punto di snodo, evidentissimo negli sviluppi novecenteschi. Da allora in poi, non si tratterà più soltanto, per la Chiesa, di una sollecitudine in re christiana, rispetto a specifiche dottrine e pratiche politiche. Si allargherà fino a diventare sollecitudine verso l’umanità come tale: «ora più che mai […] siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici: a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica»: parole del papa Giovanni XXIII ampiamente sviluppate nelle encicliche Mater et magistra (1961) e Pacem in terris (1963).
L’espressione più pregnante del cattolicesimo sociale di quella fase sta forse nell’autodefinizione degli uomini di Chiesa, data dal papa Paolo VI nel celebre discorso all’ONU del 4 ottobre 1965: «noi, esperti in umanità», una formula ripetuta numerose volte (a incominciare dall’enciclica Populorum progressio del 1967, al n. 13) che non può intendersi riduttivamente nel senso dell’atteggiamento di benevolenza cristiana verso il prossimo, cioè di compassione verso le sofferenze altrui (un significato peraltro ben presente, che sta alla base dello sviluppo delle opere ‘umanitarie’ della Chiesa), ma deve intendersi nel senso pregnante dell’ambizione a farsi maestra e dare un’impronta ‘cattolica’, cioè – secondo la Chiesa – ‘umana’, alla soluzione dei maggiori problemi che incombono sulla vita delle società. Così, si spiega l’altrimenti impensabile fiorire, all’interno della Chiesa, di istituzioni, commissioni, associazioni, movimenti, accademie ecc., che promuovono scienze che si autoqualificano come ‘cattoliche’, nei campi – per fare solo degli esempi – della medicina, della biologia, della sessuologia, della genetica, della fisica, della sociologia, della giurisprudenza, dell’economia, del giornalismo, dell’arte e della cinematografia, in dichiarata concorrenza e competizione con le corrispondenti scienze coltivate nel mondo profano.
C’è dunque continuità tra il primo impegno nelle umane cose della Chiesa tardottocentesca e l’ispirazione sociale della Chiesa del tempo del Concilio Vaticano II: «si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana società», dice impegnativamente la costituzione Gaudium et spes (n. 3, 1965).
Lo strumento di questa azione sono i diritti della persona umana, di cui la Chiesa si fa paladina. La nozione che essa ne ha, è diversa da quella della tradizione umanistica e individualistica, talora anzi opposta. Ma, su questa base, sia pure spesso attraverso equivoci e cose non dette, essa poteva sembrare aver lasciato alle spalle la condanna radicale dei diritti dell’uomo della tradizione liberale-rivoluzionaria, all’inizio considerati eretici (‘protestanti’) fattori di disgregazione delle società e attentati alla concezione della Chiesa come societas di origine soprannaturale e per ciò superiore alla società civile (enciclica Quod aliquantum di Pio VI, del 1791). Poteva cercare di entrare in rapporto e di ‘dialogare’ con il ‘mondo moderno’, proponendosi come ‘madre e maestra’ non del mondo cattolico, ma del mondo intero.
Così, pur pensosi dei destini delle società umane, i documenti conciliari contengono una novità di grande rilievo: l’apertura fiduciosa verso il ‘mondo moderno’ e i ‘segni del tempo’, dai quali anche la Chiesa trae aiuto: un atteggiamento indubbiamente divergente rispetto sia alla chiusura antiliberale, sia all’ostilità antisocialista delle epoche precedenti. Si tratta del riconoscimento che «nella comunità politica si riuniscono insieme uomini numerosi e differenti, che legittimamente possono indirizzarsi verso decisioni diverse» (Gaudium et spes, n. 74), in base a diverse visioni del bene comune. Fino ad allora, la dottrina sociale della Chiesa si appoggiava sulla verità del Cristo e, dunque, fuori di sé, non poteva che prevedere l’errore. La novità sta nell’apprezzamento positivo del pluralismo nella vita civile; anzi, addirittura nella vita religiosa, in foro interno e perfino esterno, dovendo essere rispettata la libertà incoercibile dei credenti e dei non credenti (dichiarazione Dignitatis humanae, n. 2, di Paolo VI, del 1965): una libertà – la ‘cosiddetta’ libertà di culto – che l’enciclica Libertas del 1888 aveva definito anticamera dell’ateismo.
Queste posizioni, che hanno suscitato scandalo presso i cattolici tradizionalisti, i quali pensano alla fede cristiana come militia Christi, contenevano i germi di una svolta, anche per quel che riguarda i rapporti con il potere politico. La Chiesa non rinunciava (né avrebbe potuto) ad autoproclamarsi portatrice di verità, ma il riconoscimento del pluralismo comportava il riconoscimento di una sfera di convivenza più comprensiva in cui le altrui, diverse posizioni, legittimamente portatrici di loro visioni della verità, dovevano convivere. Questa sfera è quella propriamente politica, nella quale la verità cristiana doveva essere oggetto di confronto, esperienza e testimonianza; da lì, per la sua forza morale, si confidava che si estendesse liberamente, cioè per la stessa capacità diffusiva del bene e del vero, alla società e, attraverso l’organizzazione democratica della vita, alle strutture dello Stato, alle sue politiche, alle sue leggi; ma non avrebbe potuto pretendere di imporsi allo Stato e, per il suo tramite, alle realtà terrene, dotate di ‘legittima autonomia’ dalla religione (Gaudium et spes, n. 36).
La riscoperta della religione come religio civilis
Per giungere a un tentativo di comprensione della situazione attuale e dei problemi che essa pone nei rapporti politica-religione, si possono riassumere le tappe del passato prossimo, a partire da quando la Chiesa si autocomprende come autorità universale in società secolarizzate, nel modo seguente: a) dalla religio (o theologia) socialis dell’ultimo scorcio del 19° sec., quando la religione si offriva nella veste di ‘dottrina sociale’, b) alla religio (o theologia) humana della seconda parte del secolo scorso, quando la religione si offriva nella veste di difesa della dignità dell’esistenza umana, c) alla religio o theologia civilis (o politica) del tempo attuale, quando la religione si offre come tessuto connettivo delle società politiche in autodisfacimento: «prendere una […] chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società» (parole del papa Benedetto XVI, durante la visita a Parigi il 13 sett. 2008). Quest’ultimo – il ‘consenso etico di fondo’ –, un concetto molto ambiguo che non si sa che cosa significhi (ma forse qualcuno, con lo sguardo rivolto alla storia della Chiesa, può temere di saperlo), è il punto che riguarda la situazione odierna. Prima di esaminarlo, occorre però chiarire che si tratta non di passaggi per sostituzione, ma per accumulazione: nuove funzioni si sommano ad altre del passato, talora velandole temporaneamente, ma mai abrogandole. Su tutto, poi, domina il postulato, con tutte le potenziali conseguenze, circa le pretese della Chiesa in nome del suo possesso monopolista della verità.
L’ultimo passaggio, la religio civilis, è presentato come un prodotto della ‘postmodernità’ o del ‘postsecolarismo’, di cui s’è detto all’inizio. Sembra che si voglia ricominciare da capo, poiché, in verità, essa è la ri-proposizione di una funzione antichissima, anzi addirittura originaria (Assmann 2000), della religione come fattore politico, secondo il senso che quella formula assume nella classica tripartizione sviluppata nelle Antiquitates di Marco Terenzio Varrone, di cui Agostino d’Ippona, nel De civitate Dei (libri VI e VII), dà ampio ragguaglio: religione ‘mitica’, ‘fisica’ e, per l’appunto, ‘civile’: ‘religione civile’ come pratica religiosa dei sacerdoti a vantaggio non della vita eterna delle anime, ma come salute dei popoli e delle città e come fattore connettivo o presupposto socializzante della convivenza nelle comunità umane.
Questa ri-proposizione è avvenuta nell’ambito del dibattito odierno circa le ‘premesse sostanziali’, necessarie alla vita delle istituzioni liberali e democratiche. In un saggio del 1967 il costituzionalista tedesco cattolico Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un ‘motto’ che, forse al di là delle sue stesse intenzioni, è diventato quasi una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla base della vita politica, non nell’interesse della religione, ma nell’interesse della politica: «lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà» (Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, in E.-W. Böckenförde, Recht, Staat, Freiheit, 1991, trad. it. in Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, 2007, p. 53; si veda la ripresa in J. Ratzinger, Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? Über die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt, in Pro fide et Justitia, Festschrift für Agostino Kardinal Casaroli zum 70. Geburtstag, hrsg. H. Schambeck, 1984).
Il focus di questa «pregnante formulazione» (Habermas 2004, p. 239) sta nel doppio aggettivo: liberale e secolarizzato. Qui si troverebbe condensata la ragione di un deficit di «forze che tengono unito il mondo», che «creano vincolo» (Bindungskräfte) sociale, senza le quali lo Stato sarebbe come appoggiato sul niente. Da qui, l’esigenza della religione, per «rianimare» le nostre società secolarizzate, che «amano la libertà».
L’interesse di quel motto sta in questo, che la fondazione della vita civile su premesse religiose è prospettata come un atto di amicizia, non d’inimicizia, nei confronti delle società liberali. È un’offerta di salvezza che segue a una profezia altrimenti nefasta, formulata in risposta a una serie di domande retoriche circa la sopravvivenza di ordinamenti politici in cui la forza vincolante della fede religiosa è venuta meno. «È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una ‘morale naturale’? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini? Tutte queste domande ci riportano a una domanda più profonda, di principio: fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere cioè un legame unificante che preceda tale libertà?» (E.-W. Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, 1991; trad. it. 2007, p. 52). Lo Stato basato sulla libertà, non potendo confidare su forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria base di legittimità, ad accrescere utopisticamente e illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi con le sue stesse mani in una spirale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere e da cui uscirà distrutto.
Si tratta di ri-formulazioni. Proposizioni analoghe si possono trovare facilmente nella polemica ottocentesca antiliberale, antindividualista e antiugualitaria. In termini più attuali, questa diagnosi costituisce una generalizzazione a tutti gli aspetti della vita sociale, compresi quelli etici, della critica già contenuta nella teoria della ‘crisi fiscale dello Stato’, venuta alla luce negli anni Sessanta. Essa si basa, in primo luogo, su una connessione sottintesa, data per inevitabile: tra la libertà, da un lato, e le pretese di benessere individuale, dall’altro; in secondo luogo, su una sorta di reciproco effetto moltiplicatore: la libertà moltiplica le pretese e le pretese soddisfatte moltiplicano la libertà. Ciò dato, la prognosi appare senz’altro senza speranza, quasi una condanna a morte a effetto ritardato. Al processo di ‘formazione’ dello Stato moderno secolarizzato, seguirebbe inevitabilmente il processo della sua ‘dissoluzione’. Un sistema di convivenza basato esclusivamente sui diritti immanenti dei suoi membri, rivolti come pretese individualistiche ed egoistiche nei confronti dello Stato e come armi offensive nei confronti dei concittadini, non solo non garantisce, infatti, le sue basi di legittimità, ma le distrugge, consumando progressivamente le proprie risorse etiche. Questa erosione corrisponde al venir meno della forza dell’obbligazione politica, verticalmente, e all’affievolirsi del vincolo di solidarietà sociale, orizzontalmente. Portando avanti questa proposizione, facilmente si arriva a concludere che lo Stato democratico basato esclusivamente sui diritti, privo della capacità d’appellarsi a principi etici materiali, comuni e trascendenti, e impossibilitato a pretendere dai suoi cittadini limiti, moderazione e rinunce altruistiche, è destinato alla catastrofe.
Questa denuncia teorica, circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti normativi, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali, parallela a quella corrente nell’Europa del secolo scorso, tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a ‘odiare sé stesse’, secondo una vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità e l’invecchiamento delle generazioni; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di anima, fini a loro stesse e dotate di ambizioni smisurate; la riduzione della ragione a mera ‘ragione strumentale’ al servizio di nichilistiche volontà di potenza; minacce esterne all’identità europea – allora il bolscevismo internazionale, oggi l’islam –: tutto questo in un ambiente di debilitazione morale e di ‘relativismo’, di cui il cosiddetto ‘pensiero debole’ sarebbe la teorizzazione filosofica.
In questo contesto, la religione cattolica romana, traendosene fuori e dando per presupposta la propria attualità e idoneità a fronteggiare i problemi del presente, si propone come religione civile, come sostegno della società politica, come medicina delle sue infermità, come fattore d’identità ed esorcismo nei confronti della violenza che quella società in frantumi cova al suo interno. Consapevolmente o inconsapevolmente, ‘il sacro’ è evocato nella sua funzione sociale purificatrice più profonda: isolare il non integrabile e spostarlo fuori della comunità. In certo senso, alla religione civile si viene ad attribuire un compito di ordine pubblico, cioè il compito di selezionare ciò che l’ordinamento può e non può tollerare, in riferimento ai suoi valori aggregativi. Che una tale concezione della religione civile appaia congeniale agli ‘organicisti’, oggi ‘neo-comunitaristi’, è una logica conseguenza.
In questo clima di religione civile, o di religione a fini identitari o d’ordine pubblico, i problemi della laicità non sono solo più quelli posti da una Chiesa che rivendicava spazi, oltre che per l’esercizio della sua azione sacramentale, per una sua azione di promozione sociale e umana. Di fronte all’ambizione di contrastare il degrado della civiltà secolare, le sue antiche rivendicazioni – di quando operava come forza sacramentale nei confronti dei credenti o come forza di promozione sociale e umana – appaiono davvero poca cosa. Le recriminazioni nei confronti dello Stato laico riguardavano allora questioni come il riconoscimento della rilevanza civile di atti ecclesiastici, per es., nella materia matrimoniale, il diritto di esercitare funzioni assistenziali ed educative e la pretesa di sostegno giuridico e finanziario di tali attività, la protezione penale dei ministri del culto e delle cerimonie religiose, esenzioni e privilegi in funzione della missione spirituale della Chiesa e dei suoi ministri. Al massimo, si poteva trattare, secondo l’art. 1 dell’Accordo di modifica al Concordato lateranense del 18 febbr. 1984, di una generale prospettiva di «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese»: formula, di per sé vuota ma, invero, non priva di ambiguità sotto l’aspetto della laicità e aperta agli sviluppi sostanziali che si sarebbero poi constatati nei decenni successivi. Oggi, a quei tradizionali problemi, se ne aggiungono altri, davvero fondamentali o ‘costituzionali’. Per mettere in evidenza un rovesciamento di prospettiva, potremmo esporre la situazione in questo modo: mentre in passato la questione era il ‘posto della religione rispetto allo Stato’, oggi, in presenza della rivendicazione di una funzione civile da parte della religione, la questione è del ‘posto dello Stato rispetto alla religione’.
Religione civile e principio costituzionaledi laicità
Di religio civilis si tratta tuttavia con una leggerezza che non corrisponde alla gravità dei principi in gioco. Il sostegno e la partecipazione della Chiesa alla vita politica sono offerti e richiesti, ignorando la loro radicale incompatibilità con il principio di laicità, principio che, nell’ordinamento italiano, è stato definito ‘supremo’ (Corte cost., sentenza n. 203 del 1989), per indicare non solo un irrinunciabile modo d’essere e di agire delle istituzioni civili, ma innanzitutto la pretesa di sufficienza della loro base di legittimità esclusivamente secolare. In breve, è contraddetta la concezione della società civile come societas perfecta, cioè capace di perseguire e realizzare i propri fini ‘sovranamente’, senza dipendere da altre legittimità. È quanto l’art. 7, 1° co., nella Costituzione stabilisce, quando rivendica allo Stato «indipendenza e sovranità nel proprio ordine».
In secondo luogo, è violato il carattere liberale e democratico dell’organizzazione politica della società civile. Rammentiamo che la questione cui, attraverso la religione civile, si vuol dare risposta è: fino a che punto i popoli uniti in Stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà. L’attenzione deve cadere su quel ‘precede’. Se la garanzia precede la libertà, non può non venire da fuori, cioè non può venire dall’autonomia dei singoli: consisterà in un legame indotto, se non imposto nella vita civile, per via di autorità. Poiché la Chiesa non dispone di strumenti diretti, ecco che, se non teoricamente, almeno praticamente risorge l’antica dottrina bellarminiana della potestas indirecta in temporalibus: l’uso delle istituzioni civili per l’esecuzione di direttive chiesastiche, a garanzia di principi e valori che essa considera irrinunciabili per la buona condotta della società. Da qui contatti diretti, formali e informali, con le autorità costituite; pretese d’inserimento di uomini di provata fedeltà nelle istituzioni civili; rapporti d’intimità con partiti politici o frazioni di partiti, allo scopo di orientare, come per mezzo di una longa manus, l’azione degli organi governativi e legislativi; appoggio o contrasto, accompagnati da prospettazioni di conseguenze elettorali, a questa o quella strategia di questa o quella forza politica: un ‘far politica’ non certo solo di oggi, ma oggi anche alla luce del sole, una volta accettata l’idea della funzione civile della religione. Qui si verifica non un aiuto allo ‘Stato secolarizzato basato sulla libertà’, ma una duplice lesione: nei confronti dello Stato costituzionale e dello Stato democratico. Sul primo punto – lo Stato costituzionale –, l’esigenza di principi e valori irrinunciabili è fondativa e, per questo, essi sono iscritti nella sua Costituzione, che prevede organi e procedure per la loro difesa. L’ordine pubblico, nello Stato costituzionale non è altro che la Costituzione. La religione civile pretende di porsi al di sopra, come l’ultima e più vera delle costituzioni, che per lo più ignora la Costituzione positiva (o, se non l’ignora, è soltanto per trarre argomenti a proprio favore). Circa il secondo punto – lo Stato democratico –, questa ‘iper-costituzione’, che dovrebbe assicurare la saldezza della compagine sociale organizzata in Stato, proviene da istanze totalmente estranee alle regole della democrazia, istanze che ragionano e operano in nome di indiscutibili verità, coessenziali a un certo modo (un modo dogmatico) di concepire la religione, ma impermeabili al confronto democratico delle posizioni.
In terzo luogo, la religione civile, in un contesto di pluralismo culturale e religioso, comporta di per sé lesione del principio di laicità, nel suo contenuto ugualitario. Laico è lo Stato che non prende posizione a favore di una o di un’altra religione, come pure non prende partito tra le diverse posizioni religiose, e, ancor prima, tra queste e quelle atee o agnostiche. Si tratta del principio di imparzialità o equidistanza in materia di professioni di fedi e convinzioni, religiose e non religiose, principio che vieta non solo di assumere una religione come ‘religione dello Stato’, ma anche di assicurare trattamenti privilegiati, in corrispettivo della funzione che essa svolge nella compagine sociale. Soprattutto con riferimento alle religioni monoteiste, il cui Dio è un ‘Dio geloso’, la funzione civile della religione, però, non può essere svolta da più religioni, in concorrenza tra loro nel proporre la propria verità e il proprio ethos. Più religioni significherebbero inevitabilmente non rafforzamento di un ‘io comune’, ma disgregazione. Il riconoscimento alla religione di una funzione civile comporta perciò il privilegio e la discriminazione, anche se non il divieto e la persecuzione in materia religiosa. La tolleranza è, o dovrebbe essere, fuori discussione. Ma gli ordinamenti liberali non si possono accontentare della tolleranza (nel senso minimo della tradizione curiale, della sopportazione dell’inevitabile), ma pretendono diritti in condizione di uguaglianza. Le religioni diverse da quella, unica, chiamata a improntare di sé la società nel suo complesso, cioè le religioni minoritarie, dovrebbero invece – è stato detto (Böckenförde 2007) – adattarsi a ‘vivere nella diaspora’, cioè in un ambiente sociale, politico e giuridico che è d’altri, non anche loro, dove le proprie ragioni circa la vita buona in comune non hanno rilevanza pubblica, dove devono accontentarsi d’essere ‘tollerati’. ‘Nella diaspora’ è un’espressione terribile e precisa nell’indicare dove conduce l’assegnazione alla religione della funzione ‘civile’, ma tuttavia più esplicita di altre, correnti e ugualmente orientate alla difesa di pretese identità storico-morali e, naturalmente, religiose (J. Ratzinger, Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? Über die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt, 1984).
Ragione pubblica e ragione religiosa
Fin qui, la laicità come esigenza di separazione di Stato e di Chiesa, in quanto politica e fede religiosa istituzionalizzate. Ma la laicità riguarda anche un altro rapporto, il rapporto tra ‘ragione pubblica’ e ‘ragione religiosa’, tra legge dello Stato e norme morali delle religioni. Anche a questo proposito, la pretesa assunzione da parte della religione della funzione di garanzia delle ‘premesse’ sostanziali della vita civile comporta conseguenze.
La ‘ragione pubblica’ è il prodotto di procedure deliberative attraverso le quali, a partire da ‘visioni del mondo’ particolari, religiose ma non solo (ideologiche, filosofiche, morali), si perviene ad accordi sulla gestione delle questioni politiche – cioè sul ‘governo del mondo’ – che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini (Rawls 1999; trad. it. 2001, pp. 173 e sgg.). Un sistema di governo in cui le decisioni politiche siano la traduzione immediata e diretta, cioè senza il filtro e l’esame della ragione pubblica, di precetti e norme religiose, sarebbe una teocrazia guidata da sacerdoti (ierocrazia) o perfino anche una democrazia (come nelle democrazie religiose, islamiche per es.), ove la popolazione politicamente attiva coincida senza residui con i fedeli. Nel pluralismo delle fedi e, in genere, delle ‘dottrine comprensive del vero e del giusto’, una simile traduzione immediata e diretta è inammissibile, risolvendosi in prevaricazione e negazione del pluralismo medesimo. Di ogni dottrina comprensiva particolare, occorre il filtro, l’esame e l’assunzione da parte di una ‘ragione pubblica’, liberamente formata. Questa è laicità, nient’altro che un aspetto irrinunciabile della democrazia pluralista.
L’ordinamento giuridico, nella concezione laica, non è la traduzione in leggi dello Stato di un qualsivoglia ordinamento morale, di natura religiosa o non. Tali ordinamenti non coincidono per contenuto e scopi. Il diritto, a differenza della morale, non riguarda l’intima fibra degli esseri umani, i loro destini ultimi e il loro legame con la parola di Dio: riguarda, laicamente appunto, l’organizzazione della convivenza tra gli esseri umani, i rapporti tra di loro e con l’autorità dello Stato. Sebbene vi siano questioni in cui il diritto necessariamente incontra le concezioni morali vigenti (questioni cosiddette eticamente sensibili, oggi in rapida estensione in conseguenza dello sviluppo delle possibilità tecniche di influire sulle radici stesse dell’esistenza), è vero però che «il diritto non è primariamente un ordine fondato sulla virtù e sulla verità, ma un ordine di pace e libertà» (Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation 1991; trad. it. 2007, p. 71) che mira a permettere a ciascuno, nella misura più ampia possibile, compatibilmente con le esigenze della vita di tutti, di praticare le proprie virtù, di sperimentare la propria verità e, in particolare, di esprimere i contenuti della propria fede religiosa. Ciò non significa affatto, necessariamente, nichilismo o indifferentismo; significa invece libertà nella vita morale. Ma le religioni fanno fatica ad accettare un simile ‘relativismo etico’, per la semplice ragione che esso esige che la verità, di cui le religioni si proclamano banditrici nel nome della parola divina, ceda il passo alla libertà, rinunci a imporsi, in qualche misura e riconosca diritti, se non propriamente alla non-verità o all’errore, certo agli erranti. Per questo, la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II (1965), che contiene aperture a questo riconoscimento e, quindi, è considerata una svolta epocale nella storia della Chiesa cattolica, è stata ed è contestata, interpretata riduttivamente, se non surrettiziamente disinnescata del suo potenziale innovativo, anche in documenti ufficiali successivi.
Gli argomenti religiosi o, in genere, le ‘dottrine comprensive’, non hanno tuttavia da essere banditi dalla discussione pubblica (ciò che comporterebbe il costo di assolutizzare, a propria volta, una dottrina della stessa natura ma di contenuto opposto). Il problema – e la difficoltà – è come incorporarli pacificamente e costruttivamente nella ragione pubblica. Alle collettività umane che adottano idee assolute e fideistiche – come rilevato diversi decenni or sono da Hans Kelsen – per il loro fondamento a priori non assoggettabile a discussioni, verifiche e correzioni a posteriori, sono congeniali i regimi politici autocratici, dove l’autorità procede dall’alto, non i regimi politici democratici, dove l’autorità si forma dal basso.
La ‘ragione pubblica’ è una sfera dove si confrontano argomenti da ogni partecipante considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazioni, cioè di discorso comune: una sfera che trascende – senza negarle – anzi dando loro accesso, le singole ragioni particolari. Le decisioni pubbliche su di essa fondate sono quelle sostenute da ragioni non necessariamente da tutti condivise, ma almeno da tutti comprensibili; non necessariamente da tutti accettate, ma almeno da tutti accettabili, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Decisioni motivate in base alla sola verità religiosa, come pure alla sola verità storico-ideologica o morale, professate da particolari gruppi sociali, in contesti pluralisti rompono necessariamente il quadro della ragione pubblica, promuovono ostilità e determinano le condizioni per decisioni sopraffattrici, percepite come violenza. Perfino la regola della maggioranza non elimina a priori tale loro carattere: l’essere ‘in maggior numero’, infatti, non esclude, anzi comporta facilmente, l’esercizio di violenza nei confronti del ‘minor numero’.
Per queste ragioni, decisioni politiche determinate possono bensì essere motivate soggettivamente e parzialmente (cioè secondo punti di vista particolari) con argomenti di qualunque genere, religioso, filosofico, morale, ma devono poter essere sostenute nel dibattito con argomenti potenzialmente ‘persuasivi’ in generale, cioè capaci di persuasione, perché appartenenti a categorie motivazionali più ampie e comprensive di quelle appartenenti esclusivamente a specifiche religioni, filosofie, sistemi morali. È questo il senso della ri-proposizione recente dell’«etsi Deus non daretur», la celeberrima espressione di Ugo Grozio che esprime il tentativo, a partire dal 17° sec., di una fondazione razionale del diritto naturale, affrancata dall’ipoteca religiosa, che stava iniziando allora ad apparire espressione di un modo di vedere unilaterale (Rusconi 2000). Questo tentativo è stato rigettato dal magistero della Chiesa, con argomenti che ribadiscono la valenza diretta delle verità cristiane come argomenti politici, pena il disfacimento del mondo (enciclica di papa Giovanni Paolo II Evangelium vitae del 1995, n. 22 e 23) e la formula è stata rivoltata, stavolta come invito ai non credenti ad agire veluti si Deus daretur (Ratzinger 2005).
Entrambe le formule non hanno aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. Non si tratta affatto di esigere rinunce di questa natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, rinunciando così a sé stessi. Deve essere tenuto per fermo, nello Stato fondato sulla libertà, che è pienamente lecito «introdurre nella discussione politica la nostra [di ciascuno di noi] dottrina comprensiva, religiosa o meno», «a patto però – questo è il punto decisivo – che si sia disposti, al momento opportuno, a difendere i principi e le politiche che la nostra dottrina a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche» (Rawls 1999; trad. it. 2001, p. 191), su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni comunemente accettate, pur partendo da posizioni religiose, filosofiche e morali diverse. Le misure politiche motivate esclusivamente su ragioni di fede e la traduzione diretta in provvedimenti legislativi dei contenuti di una fede, ancorché siano sostenute dal peso di una maggioranza di voti, sono invece inammissibili, come violenza alla ragione propriamente ‘pubblica’.
Ovviamente, il rischio del ‘punto morto’ è sempre presente. Per punto morto si può intendere il fallimento della ragione pubblica, quando le diverse visioni comprensive del vero e del giusto si confrontano con immediatezza, senza riuscire a elaborare un terreno argomentativo comune, su cui le parti si attirino reciprocamente. Ciò comporterà risentimenti e desideri di rivincita, in relazione alle decisioni politiche assunte o impedite per ragioni estranee alla ragione pubblica. Ma, in democrazia, questi fallimenti sono da considerare sempre contingenti e provvisori, poiché ogni decisione (salvo quelle che fondano la democrazia stessa) è sempre rivedibile democraticamente, sulla base della riattivazione delle forze generatrici della ragione pubblica. Ciò che invece la democrazia condanna è, a fronte del fallimento delle proprie ragioni nel libero dibattito, il disconoscimento delle decisioni prese, l’invito alla disobbedienza, l’obiezione di coscienza unilateralmente decisa, ciò cui accedono talora le confessioni religiose, ritenendo così di ‘obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini’ e di far prevalere incondizionatamente la giustizia. Guardando questi atteggiamenti dal punto di vista della democrazia, valgono due osservazioni: innanzitutto, che con essi non si difende ‘la giustizia’, ma ‘una’ concezione della giustizia la quale per gli altri è ingiustizia; in secondo luogo, che le pratiche di rifiuto non sono altro che il tentativo di far prevalere le proprie convinzioni unilateralmente, sottraendosi agli oneri, alla fatica e ai rischi della partecipazione alla formazione della ragione pubblica.
Le ragioni contrarie al diritto di resistenza contro decisioni considerate unilateralmente ingiuste, per ragioni religiose, o anche ideologiche o morali, valgono però solo se e finché le regole della democrazia sono vigenti e dunque è effettiva quella sempre aperta possibilità di rivedere e migliorare le decisioni precedentemente prese, cioè se è aperta la possibilità di far valere sempre di nuovo le proprie ragioni nel dibattito pubblico. La democrazia aperta è dunque la via per evitare che il ‘punto morto’ possa avere effetti distruttivi.
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