Laboratori spaziali
La corsa verso lo spazio, dominata per molti anni dalla volontà di autoaffermazione delle due principali superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, è stata fin dall’inizio palcoscenico di un confronto che si credeva avrebbe aperto all’umanità la strada verso scoperte e conquiste impensabili, con ripercussioni rivoluzionarie sulla vita quotidiana. A questa prima fase, durata circa quarant’anni, ne è gradualmente seguita una di maggiore distensione, anche grazie alla fine della guerra fredda e del confronto bipolare, che ha creato le premesse per una fattiva collaborazione nel settore spaziale, non soltanto tra i due tradizionali antagonisti, ma in generale tra i Paesi occidentali più industrializzati.
Il fattore essenziale che ha contribuito a valorizzare la cooperazione internazionale è stato la consapevolezza che tale sinergia avrebbe contribuito a rendere possibili programmi ambiziosi, quali quelli di realizzare infrastrutture orbitanti in grado di ospitare attività umane a bordo, in un ambiente microgravitazionale non riproducibile in nessun altro laboratorio sulla superficie terrestre. Infatti, i numerosi laboratori spaziali susseguitisi nel tempo hanno fornito e continuano tuttora a produrre importanti risultati scientifici e tecnologici, con ricadute spesso significative. La condizione di microgravità offre in particolare un’ampia gamma di opportunità d’indagine in diversi ambiti scientifici che soltanto recentemente si è iniziato a conoscere; molte potenzialità restano, tuttavia, ancora da scoprire.
Gli effetti fisiologici della microgravità
Le esperienze maturate attraverso le prime piattaforme abitate, quali le sovietiche Saljut (che rappresentano il primo programma di lungo periodo per lo studio dell’abitabilità umana dello spazio, avviato nel 1971 e protrattosi fino al 1982) e le statunitensi Skylab (lanciate nell’ambito di un programma iniziato nel maggio 1973 e terminato nel febbraio 1974), consentirono di acquisire le prime informazioni di dettaglio relative alla fisiologia umana sottoposta per lunghi periodi a un ambiente completamente nuovo quale quello in assenza di gravità. È, tuttavia, improprio affermare che all’interno di una piattaforma orbitante attorno alla Terra si possa sperimentare la totale assenza di gravità: esiste, infatti, soltanto un punto geometrico all’interno di tale volume (il suo centro di massa) in cui, sotto opportune ipotesi, la gravità terrestre viene perfettamente bilanciata dalla forza centrifuga. In tutti i restanti punti si può invece misurare una debole forza gravitazionale residua, la cosiddetta microgravità, il cui modulo a unità di massa risulta mediamente pari a 10−5 g, essendo g l’accelerazione di gravità sulla Terra. Poiché tutte le forme di vita sulla Terra si sono sviluppate in funzione dell’azione della gravità, nel momento in cui tale campo di forze viene rimosso o alterato, si può assistere a una sorta di disorientamento dei comuni processi fisiologici.
I primi viaggi nello spazio furono condotti con estrema cautela al fine di accertare l’integrità dello stato di salute psicofisico di un essere umano durante e dopo un’esperienza di volo spaziale. Gli animali furono i primi organismi a viaggiare nello spazio; una volta valutate come soddisfacenti le loro condizioni generali dopo il rientro, toccò all’uomo. Il 12 aprile 1961 il cosmonauta russo Jurij Gagarin fu il primo essere umano a entrare in orbita attorno alla Terra a bordo della capsula Vostok 1, per una missione che durò appena 108 minuti. A partire da quella storica data, la durata delle missioni ha subito un costante incremento che ha consentito alla comunità scientifica di iniziare a valutare gli effetti di una prolungata assenza della forza di gravità sul corpo umano. Ciò che colpisce osservando tali effetti è la sorprendente somiglianza con i disturbi prodotti dall’invecchiamento: fenomeni quali l’osteoporosi, l’atrofia muscolare, i disturbi vestibolari e l’astenia sono, infatti, comuni a entrambe le condizioni. Fortunatamente, le complicazioni legate all’assenza di gravità sono pressoché totalmente reversibili. Un altro fenomeno fisico che rende la vita in condizioni di microgravità un’esperienza inusuale riguarda la ridistribuzione dei fluidi corporei. Per effetto della gravità, infatti, questi sono concentrati nella porzione inferiore del corpo umano, mentre in sua assenza tendono ad aumentare la loro concentrazione negli altri distretti corporei, come nella parte superiore del tronco e nel cranio. Questa ridistribuzione è solitamente associata a una perdita degli stessi. Infatti, poiché un incremento del volume di fluidi nella porzione superiore del corpo viene interpretato dal nostro organismo come un aumento generalizzato del volume globale dei fluidi corporei, il sistema nervoso tende a rispondere innescando l’eliminazione di tali fluidi ritenuti in eccesso, esponendo gli astronauti al rischio di disidratazione.
Un’altra conseguenza negativa legata all’assenza di gravità interessa il sistema cardiovascolare. Sulla superficie terrestre la pressione sanguigna è, infatti, proporzionale alla gravità; venendo meno questa azione si riduce la pressione circolatoria. Il cuore, non essendo più sottoposto allo stesso livello di pressione, tende pertanto a ridurre il ritmo e l’intensità della contrazione.
L’alterazione delle ossa costituisce una delle conseguenze più dannose per la salute di un astronauta, una volta rientrato a terra. Il deterioramento, fisiologico con l’avanzare dell’età, risulta tuttavia dipendente dalle sollecitazioni meccaniche applicate. Molti studi hanno dimostrato come lo stress derivante dal sopportare il peso del proprio corpo tenda a stimolare la normale rigenerazione delle ossa e a rafforzarle aumentandone la densità; al contrario, una diminuzione di questa sollecitazione o la sua assenza per periodi prolungati, come avviene vivendo in regime di microgravità, è responsabile della demineralizzazione ossea.
Parallelamente al deterioramento dell’apparato scheletrico, si ha inoltre perdita della massa muscolare. Similmente a quanto visto per i fenomeni di osteoporosi, l’atrofia muscolare deriva direttamente dal disuso. All’interno di una stazione spaziale orbitante, infatti, le azioni e i movimenti richiedono uno sforzo decisamente inferiore a quello necessario sulla superficie terrestre, non sollecitando la muscolatura. Questa è la ragione per cui una parte dell’attività giornaliera di ciascun astronauta deve essere dedicata allo svolgimento di esercizi fisici che aiutano a limitare gli effetti appena citati.
L’anemia da spazio si configura come una delle conseguenze meno gravi per la salute di un astronauta, benché possa inficiare significativamente le prestazioni dal punto di vista operativo. Si è potuta riscontrare, infatti, una diminuita produzione di globuli rossi in relazione alla durata in regime di microgravità; questa condizione deficitaria può, tuttavia, essere ristabilita in breve tempo una volta effettuato il rientro.
I disturbi dell’apparato vestibolare, deputato alla percezione dell’equilibrio, sono tipicamente correlati alla condizione di microgravità e sono causa del disorientamento spaziale. Il corpo umano è, infatti, munito di sofisticati sensori di posizione situati nell’orecchio interno. Il canale cocleare è in collegamento con un rigonfiamento colmo di endolinfa, il sacculo; al suo interno sono inoltre presenti alcuni microcristalli, gli otoliti, che consentono ai recettori sensoriali, posti nella parete del sacculo, di percepire l’accelerazione verticale. Il sacculo è, a sua volta, in comunicazione con un’altra vescicola, l’utricolo, che, tramite un analogo meccanismo, fornisce informazioni sull’accelerazione orizzontale. L’utricolo, inoltre, rappresenta lo sbocco comune dei tre canali semicircolari (con diametro di circa 1 cm, perpendicolari tra di loro e con all’interno endolinfa) del labirinto, che percepiscono le accelerazioni angolari di testa e corpo. La gravità gioca dunque un ruolo essenziale, in quanto regola gli stimoli nervosi secondo una direzione privilegiata. Nel regime di microgravità, invece, questi recettori nervosi perdono la stimolazione a cui erano abituati; tale disorientamento si traduce in concrete difficoltà nella coordinazione oculomanuale e nel mantenimento della postura. Non essendovi più stimoli di natura gravitazionale, ogni posizione assunta dall’astronauta all’interno del veicolo in cui si trova costituisce, di fatto, una posizione di equilibrio. Una volta tornato a terra, se la condizione di microgravità si è protratta per un periodo di tempo sufficientemente prolungato, l’astronauta dovrà riabituarsi a mantenere una posizione di equilibrio.
Anche il sistema immunitario sembra subire gli effetti della microgravità: gli astronauti diventano, infatti, più vulnerabili alle malattie quando si trovano nello spazio. La risposta immunitaria tende a diminuire e in generale si assiste in circa il 50% dei casi a un indebolimento del sistema immunitario. Nausea, mal di testa, letargia e sudorazione sono i sintomi di quella che può essere definita ‘sindrome di adattamento allo spazio’; fortunatamente questa condizione si protrae per pochi giorni. Per la maggior parte, gli effetti della microgravità sopra descritti sono reversibili. Gli astronauti guariscono gradualmente una volta rientrati a terra e il loro organismo riprende progressivamente la funzionalità abituale. Le esperienze finora effettuate hanno anche consentito di stabilire una correlazione diretta tra il tempo necessario per il recupero fisiologico e la durata della missione spaziale.
La collaborazione tra Stati Uniti e Russia
Gli eventi che hanno condotto, all’inizio degli anni Novanta del 20° sec., al dissolvimento dell’Unione Sovietica hanno avuto profonde conseguenze anche sui programmi spaziali allora in corso. Dopo un breve periodo di difficoltà, gli Stati Uniti si sono resi conto che senza uno sforzo di supporto finanziario, tutta quella vasta esperienza nel settore spaziale che l’ex Unione Sovietica aveva acquisito rischiava di andare persa. Queste sono state le ragioni storiche che hanno indotto, almeno in tale settore, le prime forme di cooperazione su base strutturata e continuativa tra le due superpotenze, in passato contrapposte anche nella conquista dello spazio. Ingenti risorse della NASA (National Aeronautics and Space Administration) sono state orientate a supporto delle attività spaziali russe e al contempo ha iniziato a prendere forma il programma ISS (International Space Station), al quale l’Europa avrebbe aderito insieme a Canada e Giappone. L’accordo di cooperazione prevedeva la possibilità di addestrare cosmonauti russi per missioni a bordo dello Space Shuttle, già a partire dal 1994. Sempre nello stesso anno, l’amministratore NASA Daniel S. Goldin e la sua controparte russa Jurij Koptev si sono incontrati in Russia per la definizione di un accordo che consentiva la presenza di astronauti statunitensi a bordo della Mir, una piattaforma orbitante lanciata dall’Unione Sovietica nel 1986. A causa dell’incerta disponibilità economica russa, il contributo economico fornito dagli Stati Uniti è stato ingente. Questi accordi dovevano costituire quella che può essere definita la fase I dell’evoluzione dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’ex Unione Sovietica. Tra il 1994 e il 1997, gli accordi presi in questa fase hanno fatto confluire in Russia circa 100 milioni di dollari all’anno per l’addestramento di astronauti americani. Oltre al settore spaziale, Stati Uniti e Russia hanno stabilito un accordo per l’implementazione di collaborazioni in otto aree di ricerca tipiche del mondo aeronautico: transizione del flusso aerodinamico e studio delle turbolenze, strutture e materiali compositi, flussi attivi dal punto di vista chimico, materiali per la protezione termica delle strutture, sicurezza nell’aviazione, tecnologie ipersoniche, industrie per la sperimentazione d’avanguardia e materiali aerospaziali avanzati. Tale accordo, come sottolineato dalla stessa NASA, dava inizio a una nuova era di cooperazione con la Russia.
La cooperazione nel settore spaziale ha dato luogo anche a una serie di missioni congiunte. Il primo aggancio (docking) da parte di uno shuttle con la Mir avvenne nel luglio 1995, sebbene il primo astronauta statunitense a entrare nella stazione spaziale russa, Norm Thagard, fosse già arrivato a bordo di una Soyuz nel marzo dello stesso anno. Durante il volo dello Shuttle Atlantis verso la Mir nel novembre 1995, furono trasportati alcuni pannelli solari addizionali e un nuovo modulo per il docking. Lo Shuttle scaricò, inoltre, una tonnellata di cibo, strumentazione scientifica e beni necessari per l’abitabilità, quali ossigeno e acqua, e riportò a terra campioni di esperimenti conclusi a bordo della stazione spaziale. Gli astronauti statunitensi trascorsero fino a cinque mesi a bordo della Mir, acquisendo l’esperienza (anche extraveicolare) necessaria per le future missioni a bordo della ISS. Nove missioni dello Shuttle verso la Mir coinvolsero sette astronauti della NASA, per un tempo complessivo in orbita pari a 975 giorni. Nell’ambito di questa collaborazione furono condotti numerosi esperimenti inerenti anche alle scienze biologiche. Ma, soprattutto, la Mir rappresentò la prima vera occasione di acquisizione di un solido know-how operativo e tecnologico finalizzato a consentire agli ingegneri di progettare una stazione spaziale più sicura ed efficiente. Alcuni esperimenti servirono, infatti, ad acquisire dati in merito all’integrità strutturale della stazione; altri avevano come oggetto la stabilità del sistema di potenza così come la possibilità di mantenere la stazione nell’assetto voluto. Oltretutto queste missioni congiunte tra equipaggi russi e statunitensi offrirono l’ineguagliabile opportunità di confrontare i rispettivi regimi di addestramento e di vita a bordo.
La fase II della cooperazione Stati Uniti-Russia ha coperto il periodo compreso tra il 1998 e il 2000 e si è incentrata sullo sviluppo degli elementi centrali della ISS. Il primo modulo, lanciato il 20 novembre 1998, fu Zarya («alba»), finanziato dagli Stati Uniti, costruito in Russia e lanciato dal poligono di Baikonur in Kazakistan. Il 4 dicembre dello stesso anno, lo Space Shuttle (STS-88) mise in orbita il modulo Unity node 1, destinato a svolgere funzioni di collegamento tra il segmento americano e quello russo, effettuando un rendez-vous in orbita. L’equipaggio interno dello shuttle controllò le varie connessioni e i sistemi della ISS, ed eseguì oltre 21 ore di attività extraveicolare per congiungere i primi due elementi. Nel frattempo la Russia continuò a lavorare al modulo di servizio Zvezda («stella»), che subì circa 18 mesi di ritardo rispetto al proposito di lancio iniziale. Le difficoltà incontrate dal programma ISS sono certamente in parte attribuibili alle lungaggini e ai ritardi dell’agenzia spaziale russa. A questo si aggiunga che la scelta di mantenere operativa la Mir, abbandonata soltanto nel giugno 2000 e deorbitata nel marzo del 2001, contribuì ad assorbire le poche risorse ancora disponibili a discapito della partnership internazionale.
Fortunatamente il miglioramento del lavoro sul modulo di servizio consentì la ripresa della sequenza delle operazioni. Il modulo Zvezda eseguì un perfetto docking con la stazione nel luglio del 2000. Tuttavia, a causa di difficoltà, il primo equipaggio congiunto (costituito da due russi e uno statunitense, Jurij Gidzenko, Sergeij Krikalev e William Shepherd), residente a bordo della ISS, è riuscito a effettuare la manovra di docking soltanto il 2 novembre 2000. Il compito della missione Expedition 1 è stato quello di avviare alla piena operatività il primo nucleo orbitante della ISS. La fase II della cooperazione russo-americana può dirsi conclusa con la corretta installazione in orbita del laboratorio Destiny, avvenuta il 7 febbraio 2001, e successivamente dello statunitense Joint airlock (15 luglio 2001) e del russo Docking compartment (14 settembre 2001), che hanno segnato il definitivo avvio delle attività a bordo della ISS, la più grande infrastruttura orbitale mai costruita dall’uomo e permanentemente abitata.
La fase III del programma, che si estende fino a oggi, ha visto invece il coinvolgimento delle altre principali agenzie spaziali internazionali, quali l’ESA (European Space Agency), la giapponese JAXA (Japan Aerospace Exploration Agency) e la canadese CSA (Canadian Space Agency). Questa fase è caratterizzata dal pieno sfruttamento delle potenzialità operative della ISS, soprattutto in termini di sperimentazione in orbita.
Lo Space Shuttle
Il programma STS (Space Transportation System), noto come Space Shuttle, ha rappresentato per molti anni, oltre che un sistema di trasporto riutilizzabile, l’unico laboratorio orbitante americano per svolgere attività scientifiche in condizioni di microgravità. L’intrinseco limite del sistema è relativo ad alcuni apparati di bordo che non consentono missioni di durata superiore a 15 giorni e non hanno permesso lo studio dell’assenza di gravità per lunghi periodi, sebbene il valore scientifico delle attività svolte a bordo del veicolo, in diversi ambiti d’indagine, sia stato certamente di notevole valore.
Lo Space Shuttle fu avviato, agli inizi degli anni Settanta del 20° sec., come programma congiunto della NASA e del Department of Defense statunitense, al fine di disporre di un veicolo riutilizzabile, in grado di effettuare missioni con carichi utili di notevole massa e volume. Tali requisiti, associati a un piccolo turnover manutentivo, hanno reso lo Space Shuttle un programma estremamente innovativo che ha determinato anche un cambiamento fondamentale delle strategie promozionali della NASA. Obiettivo di tali strategie era rendere l’opinione pubblica partecipe del programma Shuttle, facendo leva soprattutto sulle ricadute che sarebbero derivate dalla sua adozione. In questo modo si veniva a giustificare l’ingente spesa richiesta dal programma.
Per potenziare le attività di bordo dello Space Shuttle, la NASA ha realizzato lo Spacelab, un modulo installato nel vano di carico del veicolo al fine di ampliare il volume disponibile per il lavoro utilizzato per ben 25 missioni, dalla prima (STS-9) nel novembre 1983 fino all’ultima (STS-99) nel febbraio 2000.
L’importanza del programma STS non si può, tuttavia, misurare soltanto in termini di dati, competenze scientifiche e operative maturate nel settore spaziale, bensì anche in relazione all’impatto sulla coscienza civile statunitense che, nell’arco della storia dello Space Shuttle, ha vissuto ben due tragici incidenti con perdita degli equipaggi. L’opinione pubblica statunitense fu scossa, una prima volta, dall’incidente del Challenger, esploso il 28 gennaio 1986, 73 secondi dopo il decollo. Di conseguenza, il programma subì un arresto di 32 mesi, molti dei quali spesi per la determinazione delle cause dell’incidente e delle possibili soluzioni per incrementare la sicurezza.
Le operazioni ripresero il 29 settembre 1988, con la messa in orbita di un equipaggio composto di cinque elementi. Da tale data e fino al momento in cui i primi moduli della futura ISS non furono resi abitabili, lo Space Shuttle si configurò come il principale laboratorio orbitante, favorendo la scoperta di importanti risultati in ambito medico, soprattutto per quanto concerne lo sviluppo di macromolecole, quali quelle delle proteine o dei farmaci, in assenza di gravità.
Nel 1998 Alexander McPherson realizzò un esperimento dedicato alla valutazione della crescita di cristalli in regime di microgravità dal quale risultò che le strutture cristalline di alcune macromolecole avevano assunto dimensioni maggiori di un ordine di grandezza rispetto a quelle dei cristalli conseguibili sulla Terra, ed erano inoltre pressoché prive di difetti. McPherson ipotizzò che fosse stato proprio il regime di microgravità a consentire lo sviluppo di questa tipologia di cristalli, permettendo di ottenere oltre il 50% dei dati in più rispetto a quelli ricavabili osservando strutture dalle dimensioni usuali, e concluse che la crescita di una macromolecola, per es. una proteina, doveva essere determinata dalle condizioni esterne, compreso l’effetto della gravità. Proprio attraverso l’intuizione di McPherson è stato possibile comprendere in che modo possano essere sintetizzate macromolecole con un numero minore di difetti. Grazie al progresso delle conoscenze sulla crescita di macromolecole in microgravità sarà, quindi, possibile determinare il tipo di tecnologia più idoneo per la sintesi dei vari tipi di proteine.
L’attività dello Space Shuttle si è interrotta nuovamente il 1° febbraio 2003, quando l’orbiter Columbia si è disintegrato in fase di rientro. La causa ufficiale della perdita del controllo e della conseguente distruzione dell’orbiter è stata identificata nel danneggiamento dell’ala sinistra a seguito dell’impatto, avvenuto in fase di decollo, con una parte del rivestimento termico distaccatasi dal serbatoio principale. L’ingresso del plasma, attraverso la fessura che in questo modo si era venuta a creare, ha prodotto quello che tuttora è ricordato come uno dei più tragici incidenti nella storia del volo spaziale umano. Un’indagine più attenta della sequenza degli eventi ha consentito di mettere in luce una serie di problematiche, forse in parte sottovalutate fino a quel momento, connesse con il rientro di macchine ipersoniche in condizioni asimmetriche: prima fra tutte, e forse più determinante in questo caso, la transizione asimmetrica del flusso supersonico da laminare a turbolento, innescata da inevitabili asimmetrie presenti sul profilo del velivolo.
L’incidente del Columbia ha evidenziato come, a distanza di più di vent’anni dalla prima missione, il volo a regime ipersonico, soprattutto in condizione di asimmetria, rappresenti ancora una fenomenologia non del tutto nota. L’impatto di questa seconda tragedia sull’opinione pubblica e politica degli Stati Uniti ha avuto un effetto ancora più traumatico: per gli elevati costi associati al programma e i rischi ben superiori a quelli inizialmente stimati, è stato fissato il 2014 come termine per una nuova missione.
L’International Space Station
Attualmente la ISS costituisce il più grande laboratorio spaziale e la più estesa infrastruttura orbitante, abitata in modo permanente, mai realizzata. L’obiettivo principale della ISS, infatti, è proprio quello di rendere disponibile un laboratorio orbitale avanzato per la sperimentazione sia nel settore delle scienze di base sia in quello delle tecnologie avanzate, che nel 21° sec. rappresenteranno i pilastri fondamentali per estendere ulteriormente l’esplorazione umana del Sistema solare.
Il programma della ISS è nato all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso e il principale riferimento giuridico che ne regola le attività di programma è l’IGA (Inter-Governmental Agreement), siglato a Washington nel 1992. La ISS, ad assemblaggio completo, sarà un complesso di 108,4 m di lunghezza, 1200 m3 di volume pressurizzato e 500 t circa di massa, posizionata su un’orbita compresa tra 370 e 460 km di quota inclinata di 51,6°. Ciò consentirà alla ISS di sorvolare una regione ampia della superficie terrestre contenente circa il 90% della popolazione mondiale.
Un elemento che rende la ISS un esempio unico d’ingegneria avanzata è l’insieme dei sottosistemi di bordo che devono realizzare il microclima, ossia l’insieme di tutti quei fattori che rendono abitabile l’ambiente dove gli astronauti permangono e svolgono la loro attività. Per mantenere tali condizioni a bordo, considerando che soltanto pochi millimetri di lega di alluminio separano l’equipaggio dalle severe condizioni dello spazio esterno, deve essere implementata una serie di funzioni: la rimozione delle impurità dall’aria, il controllo del livello di CO2 e degli altri contaminanti prodotti dalle attività umane svolte a bordo, il controllo del livello di umidità e della temperatura, il mantenimento della pressurizzazione interna. A questo si aggiunga che la possibilità di effettuare attività di sperimentazione a bordo richiede un articolato e complesso supporto per ospitare gli esperimenti, fornire la potenza elettrica necessaria, controllare i parametri di stato oggetto d’indagine, acquisire e trasmettere i dati. Tutti questi requisiti richiedono la disponibilità di idonee attrezzature, che a bordo della ISS sono gli speciali armadietti pressurizzati interni ISPR (International Standard Payload Rack).
Alcune attività che possono essere svolte dalla ISS riguardano, per es., la biologia, la dinamica dei fluidi, i fenomeni di combustione, le ricerche sui nuovi materiali, le osservazioni astronautiche, la cristallografia.
Per quanto concerne l’architettura della ISS, si è soliti parlare di tre segmenti principali: russo, americano e internazionale. I moduli che costituiscono il segmento russo sono: Zarya, progettato per svolgere in modo automatico le prime operazioni orbitali; Zvezda, che rappresenta il modulo di servizio, ossia il componente del segmento progettato per supportare le attività operative degli astronauti, fornire potenza elettrica, comunicazioni bordo-terra, capacità di calcolo e controllo orbitale; Docking compartment CO1, il modulo al quale possono agganciarsi la Soyuz o la Progress, ma che può essere usato anche per operazioni extraveicolari. Tra i moduli americani, i nodi sono elementi di fabbricazione impiegati per la congiunzione dei diversi moduli; sono previsti 3 nodi, il primo dei quali, Unity, è collegato a Zarya; sono stati lanciati il Node 2 (Harmony) nel novembre 2007 a bordo della missione Shuttle STS-120 e il Node 3 (Tranquility) nel febbraio 2010 con la missione STS-130. Il principale modulo del segmento americano è Destiny, adibito a svolgere funzioni di laboratorio; l’elemento Joint airlock consente di svolgere operazioni extraveicolari; Truss rappresenta la travatura reticolare che svolge funzione di supporto per l’allocazione di tutti i sottosistemi esterni, incluso il braccio robotizzato canadese usato per la movimentazione dei carichi all’esterno dei moduli; Cupola, realizzato dalla Thales Alenia space Italia, è stato lanciato nel febbraio 2010 e offrirà una postazione di belvedere per le osservazioni e per la supervisione di tutte le operazioni esterne.
Il segmento internazionale è costituito dai laboratori europeo e giapponese. Il primo, Columbus, è stato lanciato nel 2008 e rappresenta il principale contributo europeo al programma ISS per le attività di ricerca e sperimentazione in orbita. Il laboratorio giapponese Kibo rappresenta un ulteriore modulo per le attività di sperimentazione: è costituito da tre elementi, due dei quali sono volumi utilizzabili dagli astronauti, mentre il terzo è una terrazza esterna per allocare carichi utili da testare nello spazio e un braccio robotizzato per la movimentazione degli stessi.
Il contributo europeo: il laboratorio Columbus
Il modulo Columbus è una struttura spaziale pressurizzata cilindrica realizzata dalla EADS (European Aeronautic Defense and Space company), in qualità di capo commessa, e dalla Thales Alenia space Italia, in qualità di principale subcontraente. Il modulo è lungo circa 7 m e misura 4,5 m di diametro, con un volume pari a 75 m3 e una massa di 10.300 kg in orbita. In termini di capacità sperimentali, il modulo mette a disposizione un volume di 25 m3 e risorse per supportare fino a 9000 kg di massa di carichi utili. Columbus rappresenta il maggiore contributo dell’ESA alla ISS: è stato lanciato il 7 febbraio 2008, per una durata nominale stimata di dieci anni, durante i quali offrirà allocazione per esperimenti nei campi della biologia, della tecnologia dei materiali, della fisica dei fluidi e di altre discipline in regime di microgravità.
Il modulo è strutturalmente diviso in tre distinti segmenti: il cono sinistro, equipaggiato con un portello di attracco al Node 2 attraverso il common berthing mechanism; la sezione cilindrica centrale, destinata a ospitare i racks (sottolaboratori) scientifici e logistici; il cono destro, cieco e ospitante i computer e la maggior parte dei sistemi operativi e di supporto. Il Columbus ha spazio sufficiente per 10 racks; cinque racks interni erano già installati a bordo del Columbus al momento del lancio. Esternamente sono presenti due strutture EPF (External Payload Facility), una superiore e una inferiore, il cui scopo è quello di alloggiare gli esperimenti esposti all’ambiente esterno: la EuTEF (European Technology Exposure Facility), che trasporta esperimenti riguardanti la valutazione degli effetti dell’ambiente spaziale, e il Solar, una piattaforma con tre strumentazioni scientifiche per lo studio dell’attività solare. I moduli interni sono: Biolab, in grado di supportare esperimenti sui microrganismi, colture cellulari e tessutali, e anche di piccole piante o insetti; EPM (European Physiology Modules), un set di esperimenti destinati a valutare gli effetti di lunga durata del volo spaziale sulla fisiologia umana che, in particolare, serviranno a comprendere meglio i fenomeni di decadimento osseo legato all’età, i disturbi dell’apparato vestibolare e la perdita della massa muscolare; FSL (Fluid Science Laboratory), che ospiterà gli esperimenti concernenti il comportamento dei fluidi in assenza di gravità; EDR (European Drawer Rack), sistema di contenimento modulare e flessibile, adatto a ospitare un’ampia gamma di discipline scientifiche e che fornirà i requisiti di base per moduli sperimentali standardizzati; ETC (European Transport Carrier), che consente l’immagazzinamento degli esperimenti compiuti o in corso di svolgimento; MSG (Microgravity Science Glovebox), in grado di effettuare esperimenti manipolando direttamente eventuali materiali o carichi utili.
Delle strutture elencate, il Biolab e l’EPM rappresentano le più significative dal punto di vista della sperimentazione biofisiologica. L’obiettivo più rilevante nell’ambito della sperimentazione biologica spaziale consiste nell’identificare il ruolo che l’assenza di gravità svolge nell’ambito dei processi dinamici di una struttura, a livello sia cellulare sia di organismi complessi, quale quello umano. I campioni biologici, insieme con le apparecchiature di supporto, possono essere inviati dalle stazioni di terra al Biolab attraverso appositi experiment containers, trasportabili dallo Space Shuttle e dall’ATV (Automated Transfer Vehicle).
Per una corretta valutazione dei dati relativi agli esperimenti svolti nell’EPM, risulta essenziale che i parametri a bordo oggetto d’indagine vengano costantemente monitorati, sia durante l’esperimento, ma anche prima e dopo il volo di trasferimento. Per questo motivo l’apparato EPM è provvisto dei baseline data collection models, cioè della necessaria strumentazione per misurare e registrare le grandezze di riferimento. I ricercatori a terra possono monitorare in tempo reale l’esecuzione dei propri esperimenti dalle loro postazioni-utente presso gli USOC (User Support and Operations Centre). Gli esperimenti di biologia possono durare a bordo della ISS anche fino a tre mesi.
Le potenzialità di sperimentazione a bordo del Columbus sono arricchite da ulteriori dispositivi che consentono di approfondire diversi campi d’indagine. Tra questi si ricordano la GBF (Gravitational Biology Facility) che, per l’analisi degli effetti della microgravità sugli esseri viventi e sulla materia organica in generale, è costituita da due racks per lo studio specifico di carichi utili che richiedano acqua, luce, controllo termico e idrometrico, cibo e aria. La GBF è anche dotata di una centrifuga di 2,5 m di diametro, utilizzata per simulare la gravità terrestre e studiare gli effetti che questa può avere sugli esperimenti in corso, fornendo un ampio spettro di valori nell’intervallo 0,012 g; per ottenere un valore pari a 1 g la centrifuga ruota a 28 giri al minuto. Al fine di evitare fenomeni di disturbo alle altre strutture durante il funzionamento, la centrifuga è dotata di un sistema attivo per il bilanciamento dinamico della struttura. La BTF (BioTechnology Facility) è progettata per esperimenti di lunga durata relativi alla cristallizzazione delle proteine, culture cellulari e biotecnologie in generale che, essendo molto sensibili alle variazioni ambientali, richiedono la continua operatività della struttura. Nella BTF possono essere integrati fino a sette esperimenti contemporaneamente, ciascuno controllato da un computer e un circuito video. La FCF (Fluid and Combustion Facility) è una struttura, articolata su tre racks, che consente di effettuare, anche mediante controllo remoto da terra, una serie di esperimenti di fluidodinamica e combustione. La FCF è dotata di controllo termico, avionica per la gestione dei dati, l’alimentazione elettrica e il controllo delle vibrazioni, nonché videocamere a elevata risoluzione, microscopi, ottiche e laser. La MSRF (Materials Science Research Facility) è composta da tre distinti racks ed è destinata a sperimentazioni nel settore della scienza dei materiali, come per es. processi di solidificazione di metalli o leghe in microgravità, proprietà termofisiche, caratteristiche dei polimeri, cristalli, ceramiche e semiconduttori creati in orbita. L’MSG rappresenta un laboratorio multiuso per esperimenti in diversi settori che vanno dalla fluidodinamica alla bioingegneria. La struttura è dotata di due accessi (glove box) costituiti da speciali guanti attraverso i quali, nella camera di lavoro, l’operatore è in grado di svolgere eventuali interventi manuali. Il volume di lavoro, a pressione minore di 1,3 mbar rispetto a quella ambientale, ha una doppia tenuta in modo da ridurre al minimo il pericolo di contaminazioni esterne. Lo spazio interno è progettato per essere una camera pulita di classe 100.000.
Per quanto concerne, invece, le attività di sperimentazione esterna, il parco dei carichi utili installati nella facility EuTEF è estremamente variegato, consentendo di valutare gli effetti delle radiazioni e delle condizioni ambientali esterne sulle caratteristiche dei materiali, compiere misurazioni dettagliate delle radiazioni e della concentrazione di particelle, calcolare gli effetti biologici e molecolari dell’ambiente esterno su culture organiche, misurare la densità di micrometeoriti e di detriti orbitali, la concentrazione dell’ossigeno atomico e, infine, realizzare osservazioni della Terra con appositi sensori. Al tempo stesso, l’altra facility esterna, il SOLAR, consente di effettuare osservazioni del Sole, misurandone le caratteristiche radiative nello spettro elettromagnetico, e contemporaneamente permette di rilevare le modalità d’interazione tra il vento solare e le particelle cariche circostanti la magnetosfera terrestre.
Prospettive future
Il futuro dei laboratori spaziali è di certo strettamente connesso a quella che sarà l’evoluzione delle attività umane di esplorazione del Sistema solare. La comunità internazionale, Stati Uniti ed Europa in prima linea, si stanno muovendo in modo deciso verso una strategia articolata su due tappe successive: il ritorno sulla Luna, per una definitiva colonizzazione, l’esplorazione di Marte.
In entrambi i casi, il successo delle iniziative dipende fortemente dalla conoscenza della risposta umana, sia fisica sia psichica, alla permanenza per periodi di diversi mesi, anche anni, in ambienti a elevata densità di stress, in condizioni molto diverse da quelle ordinarie: microgravità, spazi chiusi, radiazioni, periodi di solitudine, intensa attività lavorativa. Tutto ciò richiede che i laboratori di oggi vengano ulteriormente modificati per meglio recepire queste esigenze, in termini di sperimentazione. Al momento sono molte le ipotesi, sebbene nessun programma sia ancora avviato in quanto la comunità internazionale è alle prese con i problemi legati all’esigenza di stabilizzare il programma ISS e avviare una piena fase di sfruttamento della stessa.
Numerosi progetti della NASA, e altri progetti in congiunzione con le agenzie spaziali di altri Stati, mirano ad acquisire una maggiore conoscenza in ambito planetologico e a preparare la strada per le prime missioni umane interplanetarie. Il filo conduttore di tutti questi sforzi è la ricerca di acqua sulla superficie degli altri pianeti. La maggior parte degli scienziati conclude che l’acqua doveva costituire, almeno nel passato, una caratteristica della superficie marziana; per questo motivo, oltre che per la sua vicinanza alla Terra, Marte è divenuto l’oggetto principale di indagine scientifica.
Il traguardo rappresentato dal raggiungimento di Marte con equipaggio umano resta tuttora una delle sfide più accattivanti; in particolare, a causa dell’elevato tempo necessario per il trasferimento sul pianeta sono richiesti numerosi studi preparatori per garantire nel modo migliore l’incolumità dell’equipaggio. A tale proposito, l’impiego di semplici microrganismi in condizioni di microgravità e di esposizione alle radiazioni può essere di sicura utilità per la valutazione degli effetti di un trasferimento interplanetario sulla vita di un individuo e può fornire utili suggerimenti su come affrontare tali problematiche. Alcuni esperimenti hanno infatti dimostrato come il 99% delle colonie batteriche esposte ai raggi ultravioletti dell’ambiente spaziale non possano sopravvivere se non in presenza di schermature. Inoltre, l’ambiente spaziale amplifica la possibilità che intervengano mutazioni genetiche per effetto delle radiazioni ionizzanti.
L’esposizione prolungata a un riconosciuto fattore di rischio per l’insorgenza tumorale richiede necessariamente nuove forme di sperimentazione medica in grado di risolvere alcune problematiche legate alla crescita e alla cura dei tessuti organici. Nell’ultimo secolo gli scienziati hanno cercato di riprodurre tessuti umani in laboratorio, e questo al fine di comprendere i processi fisiologici alla base del funzionamento delle cellule. Per progredire ulteriormente nel grado di conoscenza della funzionalità cellulare, gli scienziati hanno inoltre riprodotto in laboratorio tessuti con un’anomala attività cellulare per comprendere meglio i meccanismi proliferativi di cellule cancerose. Il limite intrinseco di tale tipo di ricerca è che le strutture realizzabili sotto l’effetto della gravità sono piane, cioè bidimensionali, e pertanto non somiglianti alle strutture tridimensionali effettive. Ricercatori NASA del JSC (Johnson Space Center) hanno ipotizzato che la crescita di tessuti in assenza di gravità potrebbe portare alla formazione di strutture tridimensionali più somiglianti a quelle umane, offrendo quindi un maggiore grado di utilità scientifica.
Bibliografia
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