La tutela del patrimonio culturale
L’individuazione di quel che oggi chiamiamo «patrimonio culturale» come oggetto di specifiche preoccupazioni e norme di tutela è un processo secolare, che ebbe negli Stati italiani anteriori all’unità nazionale un momento formativo di grande intensità e pregnanza. Tale processo non coincise con quello (più tardo) di concettualizzazione dei «monumenti storici», nozione che, secondo una tesi spesso ripetuta, venne a formarsi per reazione al rischio di distruzione di edifici e oggetti di un passato più o meno remoto e, più in particolare, dei monumenta antiquitatis che, almeno da Petrarca in poi, furono sempre più al centro degli studi, della curiosità erudita e della brama collezionistica prima in Italia e poi nel resto d’Europa.
La più autentica radice della normativa di tutela del patrimonio culturale può invece rintracciarsi in un sistema, formatosi già nel Medioevo, di valori non solo artistici e storici, ma più latamente civici ed etici, che abbracciavano in uno l’edificio «storico» da preservarsi e la forma della città nella sua quotidiana evoluzione. Tali valori e principi, spesso menzionati in testi letterari (come le laudes urbium), ma anche in cronache, deliberazioni, pattuizioni e documenti privati e pubblici, e prima ancora presenti nella vita delle città specialmente comunali, per naturale evoluzione presero anche forma giuridica negli statuti dei comuni e, in Italia meridionale, delle città regie. Veniva allora elaborandosi, a partire almeno dal sec. 12°, un concetto alto e forte di cittadinanza, del quale fecero parte i monumenti, storici o in fieri, delle singole città, che vennero intesi come ragione di orgoglio, principio di identità civica, punto focale di un’identificazione emotiva che coincideva con l’idea stessa di comunità ben governata. Nel Costituto volgare di Siena (1309), per esempio, la «belleça della città» è indicata come massima preoccupazione dei suoi governanti, e giustificata tanto «per cagione di diletto et allegreça» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et acrescimento de la città et de’ cittadini di Siena». Alla bellezza, da coltivarsi sia mediante la protezione di edifici e opere preesistenti sia normando l’aggiunta di qualcosa di nuovo, si associano spesso il decoro, la dignità, l’ornamento, la salubrità dei luoghi, il rispetto di specifiche norme (per esempio sull’altezza delle case e il regime delle acque), sempre visti come segnali delle virtù civiche e come fonte di gloria e vanto per i cittadini. Il riferimento a pratiche costanti e a valori condivisi («in ogni buona città si provede a l’adorno et aconcio de la città», Siena 1398) si tradusse anche in apposite magistrature a ciò preposte, come i magistri viarum a Roma, gli ufficiali dell’Ornato a Siena e in molte altre città. Comune riferimento di questo orizzonte di norme e di buone pratiche fu allora l’idea di «bene comune» o di publica utilitas, che trovava più o meno espresso fondamento nel diritto romano, e in particolare nel legatum ad patriam o dicatio ad patriam, secondo cui quanto venisse posto dai privati in luogo pubblico (per esempio la facciata di un edificio) ricadeva almeno in parte nella condizione giuridica di res populi romani, e pertanto comportava la costituzione di una sorta di servitù di uso pubblico. Veniva per tal via delineandosi l’idea di base senza la quale non può darsi alcuna valida normativa di tutela: e cioè la preminenza del pubblico interesse sopra i pur sussistenti diritti di proprietà di ciascun cittadino.
Il febbrile interesse per le antichità romane, tratte dopo secoli dalle rovine per obbedire ai nuovi impulsi e ambizioni di umanisti, artisti e sovrani in caccia di exempla nell’antica Roma (e in altre civiltà antiche, per es. la greca e l’etrusca), si innestò su questo già assai vitale movimento di pensieri e di idee. Sempre più chiaro divenne che i monumenti degli antichi imperatori dovessero essere gelosamente conservati (ma i senatori di Roma già nel 1162, in nome dell’onore pubblico della città, minacciarono di morte chi danneggiasse la Colonna traiana), e che si doveva fare il massimo sforzo per impedire che venissero esportate da Roma le sculture antiche che pure, fino a poche generazioni prima, giacevano inerti nelle rovine. Al suo naturale primato come immensa cava di antichità, Roma aggiunse dunque un’imponente serie di norme che tentavano di arginare distruzioni ed esportazioni di antichità, e che si dispiegano dai pontificati di Martino V (1425), di Eugenio IV (1437), e specialmente di Pio II (1462), finoagli editti dei camerlenghi Aldobrandini (1624), Sforza (1646), Altieri (1686), Spinola (1704, 1717). Più articolata coscienza di una nuova etica della tutela si manifesta nell’Editto Albani (1733), che fra i propri motivi indicava espressamente, oltre al «pubblico decoro di quest’alma città di Roma», anche «il gran vantaggio del pubblico, e del privato bene», e che in senso analogo venne sviluppato dal successivo Editto Valenti (1750). In coincidenza con l’Editto Albani, Clemente XII, che lo aveva ispirato anche per suggerimento del nipote cardinale Neri Corsini, acquistò un’imponente collezione di antichità formandone il Museo Capitolino, primo museo pubblico d’Europa (1734).
Nel sec. 18° prese forma l’idea della conservazione contestuale del patrimonio culturale nel suo stesso luogo di formazione: a essa fu improntata anche la Convenzione di famiglia Medici-Lorena (1737) che, al momentoin cui il granducato di Toscana passava dall’una all’altra dinastia, legò per sempre a Firenze le collezioni che ivi si erano formate, e che ancor oggi costituiscono il nucleo degli Uffizi. Alla stessa idea vennero a ispirarsi in un’altra capitale italiana, Napoli, le prammatiche del re Carlo di Borbone (III come re di Spagna), che nel 1755 ripresero il linguaggio dell’Editto Valenti per arginare la fuga di antichità dal regno meridionale. Una tale emulazione fra sovrani italiani si radicò e divenne anzi più consapevole e intensa nel sec. 19°, mentre veniva affermandosi in Francia e in Europa, a cavallo fra Rivoluzione e Restaurazione, quello stesso concetto di «patrimonio culturale» a cui facciamo ora riferimento. La denominazione di patrimoine, o patrimoine national, germogliò allora su una radicale innovazione, l’attribuzione di una personalità giuridica alla Nazione, cioè al popolo, alla collettività dei cittadini, e corrispose all’acuta consapevolezza della centralità del patrimonio per promuovere la cultura e per definire il carattere nazionale. Non meno importante fu allora, tra Francia e Italia, la discussione innescata dal grande bottino di opere d’arte trasferite a Parigi dalle armate francesi, e giustificato con l’idea (ispirata a Winckelmann) che le arti si sviluppino solo in regime di libertà, e con la pretesa che la nuova patria della Liberté, la Francia, dovesse ormai essere di diritto la sola patria dell’arte. Rispondendo duramente a questa party line della Convention, Antoine Quatremère de Quincy sostenne con vigore (1796, 1815) che rimuovere le opere d’arte dal loro contesto originario è un delitto contro la memoria storica, in quanto comporta la distruzione della loro funzione sociale, che è quella di incarnare l’essenza e le necessità di una determinata cultura. In quell’aspro contrasto presero nuovo senso e pregnanza le antiche norme pontificie di tutela, che Carlo Fea andava raccogliendo in varie memorie erudite (1783, 1802 e 1806). Come commissario alle Antichità (dal 1799), il Fea ebbe un ruolo cruciale nel Chirografo di Pio VII del 1802, che fu influenzato anche da Antonio Canova; a esso seguirono nel 1819 gli Editti del camerlengo Pacca, che rivendicavano espressamente la continuità delle norme di tutela dall’impero romano agli antichi pontefici al presente.I provvedimenti del governo papale sulla soglia del sec. 19° si stringono entro due date (1802, 1819) assai prossime ai due traumi che segnarono allora la città del papa: la forzata emigrazione di tanti capolavori e il loro festoso ritorno. Essi corrispondono dunque a un momento di alta focalizzazione sulle ragioni del patrimonio culturale, e spiegano bene perché gli Editti Pacca fossero assai più elaborati e consapevoli di ogni norma più antica, e perché essi siano stati presto imitati negli altri Stati italiani, ma anche altrove in Europa (per es. nella Grecia non appena raggiunse l’indipendenza dall’impero ottomano). In Italia, questa emulazione si fondava sulla secolare tradizione di predominio del pubblico bene sull’interesse privato, a sua volta radicata nel diritto romano.
Questo non era tuttavia il caso del regno di Sardegna, dove lo Statuto albertino (1848) dette priorità assoluta al diritto inviolabile della proprietà privata. Dopo l’unificazione nazionale, in cui quel regno aveva giocato un ruolo-guida elevando lo Statuto albertino a legge fondamentale del nuovo regno d’Italia, divenne perciò assai arduo contemperare le due opposte tradizioni giuridiche, quella «piemontese», che lasciava prevalere i diritti privati, e quella «romana» (ma anche di tutto il resto d’Italia) dove dominava la priorità della publica utilitas. È per questo che la strada verso una legge nazionale di tutela fu lunga e difficile, mentre intanto si arginava malamente la fuga delle opere d’arte dall’Italia prorogando la validità delle norme degli Stati preunitari. Cavour aveva incaricato Terenzio Mamiani di scrivere un disegno di legge, un altro fu elaborato nel 1868 dal Consiglio di Stato, altri ancora furono proposti da vari ministri della Pubblica istruzione: Cesare Correnti (1872), Ruggero Bonghi (1875-76), Michele Coppino (1878, 1886), Francesco De Sanctis (1878), Pasquale Villari, Ferdinando Martini (entrambi nel 1892). Un ulteriore disegno di legge impegnò, dal 1898 al 1902, due ministri (Niccolò Gallo e Nunzio Nasi) attraverso tre governi, prima di potersi materializzare nella l. 185 (12 giugno 1902) sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e d’arte. Essa era però assai imperfetta, e anzi talmente permissiva che, onde frenare una nuova emorragia di opere d’arte, si dovette quasi subito provvedere con una «legge-catenaccio» (1903), poi prorogata di anno in anno per ben sei volte; si metteva intanto a punto l’amministrazione nazionale della tutela con il sistema delle soprintendenze (l. 386 del 1907). Si giunse poi finalmente alla l. 364 (10 giugno 1909) «Per l’antichità e le belle arti», prima vera legge nazionale di tutela, il cui merito va ascritto al ministro Luigi Rava e al deputato Giovanni Rosadi, ma anche a Felice Barnabei (direttore generale alle Antichità e Belle arti, poi deputato) e a Corrado Ricci (direttore generale); essa fu seguita dal Regolamento emanato con R.D. 363 del 1913. Nel 1939 il ministro Giuseppe Bottai si fece promotore di una vasta revisione della normativa, che accanto alla l. 1089 (1° giugno 1939) sulla tutela del patrimonio culturale incluse quelle sulla tutela dei paesaggi (l. 1497 del 29 giugno 1939) e altre norme sull’Istituto centrale per il restauro (1939), sull’Istituto per la patologia del libro (1938), sugli Archivi di Stato (1939), sul riordino del Consiglio superiore (1938) e delle strutture ministeriali di tutela (1939). Il regolamento della l. 1089, già firmato dal re, non fu tuttavia varato perché al 25 luglio 1943 mancava ancora la firma di Mussolini: perciò è ancor oggi sostanzialmente in vigore il regolamento del 1913. La normativa della legge Bottai venne poi riversata più o meno tale e quale nel Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (d. lgs. 490 del 1999) che, nella parte sul paesaggio, inglobò anche le disposizioni della legge Galasso del 1985. Più radicale riscrittura delle norme di tutela rappresentò il Codice dei beni culturali e del paesaggio (approvato con d. lgs. 42 del 2004, novellato con i d. lgs. nn. 156 e 157 del 2006 e poi con i d. lgs. nn. 62 e 63 del 2008). Esso è la prima legge organica, e non semplicemente compilativa, in cui patrimonio e paesaggio vengano inclusi entro una cornice unica, e per molti aspetti ancora radica i principi della tutela nella tradizione delle leggi Rava (1909) e Bottai (1939), riaffermando in particolare la priorità del pubblico interesse sulla proprietà privata.
Il legame fra tutela del patrimonio culturale e tutela del paesaggio era stato intanto affermato con forza nella Costituzione del 1948, secondo cui «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Nonostante i pochi precedenti (Repubblica di Weimar, 1919, e Repubblica spagnola, 1931), è questo il primo caso in cui i principi della tutela entrano fra i principi fondamentali di una Costituzione (come più tardi avvenne in altri Stati, per es. il Portogallo e Malta). Nonostante questo alto principio e il suo rango costituzionale, i meccanismi e le normative della tutela sono stati progressivamente logorati negli ultimi decenni dall’incerto e desultorio decentramento di funzioni alle regioni, dalla scarsa progettualità e incisività politica del nuovo ministero per i Beni culturali e ambientali (fondato nel 1975, e nuovamente denominato «per i Beni e le Attività culturali» nel 1999), dal progressivo contrarsi del personale per gravi deficienze nel turnover, dalla scarsezza delle risorse e infine, sul fronte del paesaggio, per l’ardua delimitazione fra la materia paesaggistica e quella urbanistico-territoriale, regolata da norme e competenze autorizzative che con quelle sul paesaggio non furono mai ben coordinate. La Costituzione e la legislazione ordinaria ruotano tuttavia ancora intorno al principio che, con varia intensità e consapevolezza, ha ispirato tutta la storia italiana in questa materia, e che della legislazione italiana ha fatto un modello di riferimento in tutto il mondo: la priorità del pubblico interesse. Secondo tale principio, in quello che chiamiamo «patrimonio culturale» convivono due distinte componenti patrimoniali, perché due sono le utilità che esso genera: una si riferisce alla proprietà del singolo bene, che può essere privata o pubblica; l’altra ai valori storici, etici e culturali, sempre e comunque di pertinenza pubblica, cioè della comunità dei cittadini. In questa prospettiva, la stessa espressione «patrimonio culturale» assume un significato particolare, che è l’opposto di ogni individualismo proprietario, e si rifà invece a valori collettivi, a quei legami e responsabilità sociali che proprio e solo mediante il riferimento a un comune retaggio di cultura e di memoria prendono la forma del patto di cittadinanza, rendono possibile la «pubblica utilità», e dunque ogni comunità organizzata, dal comune allo Stato.