Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La drammaturgia tragica cinquecentesca nasce dal tentativo umanistico di dare nuova vita alla tragedia classica. Nell’orizzonte culturale cristiano tale progetto è però destinato al fallimento. Euripide e Seneca guidano gli scrittori nelle loro sperimentazioni letterarie spesso destinate a non approdare alla scena. Alle tragedie regolari, scaturite dal dibattito sulla Poetica di Aristotele, si contrappongono le tragedie “romanzesche” storiche e popolari.
La tragedia del Cinquecento: sperimentazione letteraria versus pratica teatrale
Agli inizi dell’età moderna il progetto umanistico-rinascimentale di rifondazione del teatro occidentale sulla base di un restauro filologico della civiltà classica incontra le più forti resistenze sul fronte della drammaturgia tragica. Se infatti la frattura prodotta nella tradizione comica europea dall’irruzione del cristianesimo è in fondo ricomponibile attraverso un paziente lavoro di rilettura delle categorie drammaturgiche classiche nel linguaggio della teatralità moderna, il mutamento di orizzonte culturale segnato dall’affermazione del cristianesimo condanna invece la tragedia antica a una insuperabile “inattualità”.
L’architettura tragica greca è destinata a crollare: il coro perde la sua funzione mediatrice tra la comunità degli spettatori e l’azione, la catarsi, già di per sé giustificazione dell’insostenibile “negatività” della tragedia, perde il proprio primitivo significato liturgico.
Lo snaturamento della tragedia antica non è però il solo ostacolo al recupero moderno di tale genere: sul piano della rappresentazione scenica un problema altrettanto grave è rappresentato dalla difficoltà di individuare una committenza stabile con una precisa identità socio-culturale. Mentre la classe dirigente del XVI secolo è incline a rispecchiarsi in una commedia che rinuncia al proprio potere eversivo e si trasforma in una carnevalesca apologia dell’ordine costituito, l’aristocratico cinquecentesco appare, al contrario, poco disponibile ad assistere a una rappresentazione tragica nella quale si racconta la catastrofe politica o etica di personaggi di nobile condizione con inquietanti allusioni alla realtà oltre la scena.
D’altra parte il pubblico comune del nascente teatro professionista non è certo interessato a “finanziare” un progetto di restaurazione tragica inevitabilmente elitario nella sua classicità.
La sostanziale continuità tra scrittura e rappresentazione che contraddistingue la drammaturgia comica cinquecentesca, anche là dove uno dei due poli pare prevalere sull’altro, si spezza dunque nel teatro tragico: la non coincidenza tra testo teatrale e trasposizione scenica assicura un ampio margine di intervento ai teorici della tragedia. Contrariamente a quanto accade per la commedia, la riflessione “letteraria” sullo statuto della tragedia gioca un ruolo fondamentale nell’evoluzione di questo genere.
Deformazioni del canone classico: Seneca ed Euripide modelli della tragedia antica
La rinascita cinquecentesca della tragedia passa in primo luogo attraverso il lavoro di recupero dei testi classici tanto sul piano editoriale quanto su quello della rappresentazione scenica.
Il primo tragico a essere pubblicato in età umanistica è Seneca: le sue opere teatrali vengono date alle stampe a Ferrara da Michele Gallico tra il 1481 e il 1484. Le tragedie senechiane sono quindi riedite a Lione nel 1491 e a Venezia nel 1492. Nel 1493 l’umanista Demetrio Calcondila pubblica a Milano i testi di Euripide; una successiva importante edizione del teatro euripideo è curata dal bibliotecario della corte di Lorenzo de’Medici, Giano Lascaris, a Firenze nel 1496. Il canone tragico è infine completato dalla pubblicazione delle opere di Sofocle (ad opera di Aldo Manuzio, Venezia, 1502) ed Eschilo (1518). Negli ultimi decenni del Quattrocento il problema della messa in scena dei testi tragici viene affrontato in seno all’Accademia romana, circolo di eruditi, filologi e archeologi che si riuniscono sull’Esquilino nella villa di Pomponio Leto. Tra il 1486 e il 1488 Sulpicio Veroli cura l’allestimento dell’Hippolytus di Seneca nella versione originale in latino. La tragedia è rappresentata all’aperto, forse davanti alla chiesa di San Lorenzo in Damaso, poi in Castel Sant’Angelo e una terza volta nel cortile di palazzo Riario.
Nell’allestimento di Veroli, Tommaso Inghirami da Volterra interpreta con successo il ruolo di Fedra. L’Hippolytus viene ancora replicato a Roma nel 1498. Le tragedie di Seneca continuano a essere rappresentate nel Cinquecento: superate le Alpi la moda delle rappresentazioni senechiane si diffonde per l’Europa giungendo fino all’Inghilterra dove nel 1551 l’allestimento delle Troades inaugura un ciclo decennale di messe in scena di testi di Seneca presso il Trinity College di Cambridge.
Nel XVI secolo anche i tragici greci arrivano sulla scena: nel 1585 Vincenzo Scamozzi porta a compimento la costruzione del Teatro Olimpico di Vicenza avviata nel 1579 da Palladio. La prestigiosa sala viene inaugurata quello stesso anno con l’allestimento dell’Edipo Tiranno di Sofocle, rappresentato nella traduzione di Orsatto Giustiniani con musiche di Andrea Gabrieli.
La divulgazione del corpus tragico classico è ovviamente coronata dall’opera dei traduttori.
Gettando un rapido sguardo sui risultati dell’esplorazione umanistico-rinascimentale della tragedia classica, colpisce innanzitutto il fatto che, tanto per la precocità delle proposte sceniche ed editoriali quanto per la mole degli interventi, Euripide e più ancora Seneca sono proposti dai filologi quali paradigmi della drammaturgia tragica. Scegliendo a modello della loro prassi creativa gli autori antichi che più si sono allontanati dalla primitiva essenza dello spirito tragico, i letterati del Cinquecento prendono implicitamente atto dell’impossibilità di recuperare la tragedia classica entro la civiltà teatrale moderna e pongono così le basi di una sperimentazione drammaturgica che, dalla costola della tragedia, giungerà a creare nuovi generi di spettacolo.
Interpretazioni della Poetica di Aristotele
Un capitolo a se stante nella grandiosa opera rinascimentale di restituzione filologica della tragedia classica è rappresentato dalla riflessione critica sulla Poetica di Aristotele. Quasi del tutto ignorata durante il Medioevo, nel corso del Cinquecento la Poetica aristotelica viene invece affiancata all’Ars poetica di Orazio quale schema di riferimento per orientare il dibattito teorico sulla codificazione del linguaggio letterario in generale e drammaturgico in particolare.
Nel 1498 Giorgio Valla cura la prima traduzione umanistica latina della Poetica cui fa seguito nel 1524 quella di Alessandro Pazzi de’Medici, pubblicata a Basilea nel 1537. A partire da queste versioni umanistiche si moltiplicano le edizioni e le traduzioni nelle diverse lingue nazionali del trattato aristotelico. Nel 1508 Aldo Manuzio pubblica a Venezia il testo originale greco della Poetica a cura di Lascaris, nel 1549 Bernardo Segni traduce la Poetica in italiano, mentre nel 1555 Guillaume Morel ne cura un’edizione a Parigi. In Spagna, dove la versione latina della Poetica di Alessandro Pazzi de’Medici circola a cominciare dal 1537, Alonso Ordóñez das Seijaz y Trovar pubblica la propria traduzione del trattato nel 1626. In Inghilterra la teoria della mimesi aristotelica viene indirettamente divulgata da Thomas Browne attraverso la traduzione della Nobilitas liberata dell’umanista di Strasburgo Johan Sturm (1570).
La diffusione del testo di Aristotele, nella sua versione originale o nelle sue traduzioni umanistiche e volgari, si intreccia a una capillare opera di commento; l’Italia, culla del movimento umanistico-rinascimentale, ben si presta a esemplificare questo sforzo interpretativo. Il primo importante commento alla Poetica di Aristotele è pubblicato da Francesco Robortello a Firenze nel 1548 (In librum Aristotelis de arte poetica explanationes); seguono nel 1550 il commento di Vincenzo Maggi e Bartolomeo Lombardi (In Aristotelis librum “De poëtica” explanationes) e nel 1560 i Commentarii di Pietro Vettori.
Nel 1570 è pubblicata a Vienna la Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta di Lodovico Castelvetro. Dal 1570 alla fine del secolo ben cinque filologi pubblicano commenti aristotelici: Bernardino Tomitano (1570), Alessandro Piccolomini (1572), Bernardino Baldini (1578), Antonio Riccoboni (1585) e Leonardo Salviati (1586).
Il testo di Aristotele è poi il punto di partenza per l’elaborazione di trattati di poetica autonomi che, a seconda del temperamento dei loro autori, mostrano una maggiore o minore autonomia dal pensiero del filosofo greco. Sempre per restare ai critici italiani occorre per lo meno ricordare la Poetica di Gian Giorgio Trissino (prime quattro parti 1529, quinta e sesta parte 1563), i due trattati di Antonio Minturno De Poeta (1559) e Arte poetica (1563), e i Poetices libri septem di Giulio Cesare Scaligero (Lione, 1561).
Dallo studio della Poetica di Aristotele i critici europei traggono conseguenze che investono l’intero sistema dei generi letterari; in ambito drammaturgico l’interpretazione del modello teatrale aristotelico incide particolarmente sulla definizione della forma tragica e dei suoi rapporti con i generi limitrofi.
Da metro di misura per classificare e valutare la produzione teatrale esistente, lo schema speculativo fornito da Aristotele finisce col diventare in pieno Cinquecento matrice generativa della nuova drammaturgia.
Nel tentativo di giustificare la rappresentazione degli eccessi passionali tipica della tragedia e di spiegare il “diletto” che deriva dall’assistere alle luttuose vicende tragiche, i critici cinquecenteschi leggono la teoria della catarsi aristotelica alla luce del precetto oraziano del delectare pariterque monendo (“dilettare e allo stesso tempo ammonire”) e concludono che il genere tragico ha una propria legittimità etica in quanto purifica gli animi e istruisce gli uomini esortandoli all’esercizio della virtù. Entro questo sistema teorico i singoli interpreti intervengono con lievi ma significative correzioni. Il Minturno ritiene che fine della poesia sia “istruire, dilettare e commuovere”, mentre Castelvetro dichiara che “la poesia fu trovata solamente per dilettare e per ricreare”. Riccoboni coglie nell’intreccio l’interesse principale della tragedia. Jean de la Taille nella sua Art de la tragédie (1572), ponendo le premesse per l’elaborazione del concetto proprio del neoclassicismo francese di “ammirazione”, anticipa l’idea del sublime settecentesco.
L’interesse dei teorici si appunta con particolare insistenza sul problema dell’articolazione sintattica della fabula tragica. Il principio dell’unità d’azione postulato da Aristotele per la tragedia si sviluppa nel corso del secolo nella complementare istituzionalizzazione delle unità di tempo e di luogo. Robortello ritiene che “il giro di sole” entro il quale per Aristotele andrebbe compresa l’azione rappresentata nella tragedia, non deve essere inteso come un intervallo di 24 ore, ma come il lasso di tempo che spazia dall’alba al tramonto. Nei suoi Discorsi intorno al comporre de i Romanzi, delle Comedie e delle Tragedie (scritti nel 1543, ma editi a Venezia nel 1554), Giambattista Giraldi Cinzio propone che la durata dello spettacolo comico non debba eccedere le tre ore e che quella dello spettacolo tragico non debba eccedere le quattro; secondo Giraldi i cinque atti della tragedia possono però arrivare a coprire gli eventi di un’intera giornata. Traendo le debite conseguenze dall’analisi del concetto di verosimiglianza, Scaligero sostiene la necessità di dare al dramma non solo unità di tempo e di azione, ma anche di luogo.
Scaligero non enuncia rigidamente il precetto delle tre unità, ma le sue osservazioni saranno sviluppate in tal senso dalle successive poetiche neoclassiche tanto che, nel lessico critico francese, le unità di tempo e di luogo verranno comunemente chiamate unités scaligériennes. La più rigorosa formulazione cinquecentesca della teoria delle unità di tempo e di luogo è quella fornita da Castelvetro; il critico modenese teorizza infatti un presente drammatico assoluto nel quale il sistema spazio-temporale della rappresentazione coincide con quello del racconto. Castelvetro si mostra invece più flessibile per quanto concerne l’interpretazione dell’unità di azione: il riconoscimento della superiorità artistica dell’azione unica in sé sufficientemente varia coesiste infatti con la convinzione che la favola contenente più azioni rechi maggior diletto di quella contenente un’unica azione.
Alessandro Piccolomini si discosta da Castelvetro sul problema dell’interpretazione dell’unità di tempo. Egli ritiene che il pubblico sia perfettamente in grado di accettare la durata convenzionale del racconto scenico: la temporalità dell’azione teatrale può dunque non coincidere con quella della rappresentazione.
Il dibattito sulle unità coinvolge i teorici di tutt’Europa: Pinciano (Philosophía antigua poética, 1596) ritiene che la durata dell’azione tragica possa arrivare ad abbracciare tre giorni e che quella dell’azione comica possa spingersi sino a cinque. In questo modo egli tenta di regolarizzare la prassi consolidatasi in Spagna di far coincidere ogni atto con una giornata, intercalando fra gli atti – e quindi tra le giornate – lassi di tempo variabili di durata liberamente scelta dai diversi autori. In Francia si schierano a favore della teoria delle unità Ronsard e De la Taille, mentre un atteggiamento critico è tenuto da Jean de Beaubreuil (prefazione “Au lecteur” premessa alla tragedia Regulus, 1582) e Pierre de Laudun d’Aygaliers (L’Art poétique françois, 1598). In Inghilterra le unità aristoteliche sono accettate con una certa elasticità da Grimald (prefazione al Christus Redivivus, 1541) e da Ben Jonson, e sono difese con convinzione da Sidney (Defense of Poesie, 1595).
Un ulteriore problema sul quale si accende il dibattito tra gli interpreti di Aristotele è quello della natura etica dell’eroe tragico. Sulla base di argomenti aristotelici, Giraldi Cinzio critica Sperone Speroni per avere dato vita nella Canace (1541) a personaggi totalmente malvagi e quindi non adatti ad ammaestrare il pubblico con le loro sciagure (Giudizio di una tragedia di Canace e Macareo, composto tra il 1543 e il 1548 e pubblicato nel 1550 ed Epistola latina, 1558). Nel suo attacco ai personaggi allegorici delle moralità medioevali anche Jean de la Taille afferma aristotelicamente che l’eroe tragico non può essere né interamente buono, né interamente cattivo.
Irriducibile al sistema tassonomico aristotelico, l’inquieto sperimentalismo dei drammaturghi moderni solleva agli studiosi cinquecenteschi la questione del rapporto tra la tragedia e gli altri generi costringendoli a correggere o a articolare gli enunciati della Poetica. Giraldi nei propri Discorsi ammette per la tragedia il doppio intreccio e il lieto fine; come autore di testi teatrali egli continua a chiamare tragedie i suoi drammi privi di finale luttuoso, mentre di fatto tali opere sarebbero però più correttamente definibili tragicommedie. La riflessione sulla tragedia a lieto fine si intreccia alle nuove prospettive teoriche e drammaturgiche che il Giraldi apre con il suo Discorso sulle Satire atte alla scena (1554): strutturando il modello del dramma pastorale sulla fusione di elementi tragicie comici, la teoria giraldiana della “satira” getta le fondamenta per il Compendio della poesia tragicomica di Gian Battista Guarini (1599). Oltre che da Giraldi il lieto fine tragico è accettato anche da Minturno e da Scaligero. La possibilità di contaminare tra loro generi diversi è oggetto di numerosi interventi critici in Inghilterra. Condannata da Sir Thomas More (Utopia, 1516), la commistione di elementi tragici e comici è invece difesa da Grimald e accettata con riserva da Sidney. Nella Defense of Poesie Sidney giudica infatti ammissibile la fusione di materie tragiche e spunti comici, ma critica aspramente gli eccessi a cui si abbandonano in questo senso i drammaturghi elisabettiani.
L’attenzione per il pubblico e le sue reazioni, vivissima in Giraldi, Cinzio, Castelvetro, Piccolomini e in teorici o drammaturghi-critici d’oltralpe come Lope, Sébillet e Laudun si traduce in una rivalutazione della componente spettacolare della tragedia. Dopo gli accenni di Robortello al problema della rappresentazione dei testi teatrali - e in contrasto con il sostanziale disinteresse di Scaligero per la trasposizione scenica dei drammi - è Castelvetro a rivendicare per primo in Italia la necessità di giudicare la tragedia in prospettiva non soltanto letteraria, ma anche “teatrale”. I risvolti spettacolari della drammaturgia destano particolare attenzione in Spagna. La riflessione poetica di Bartolomé Torres Naharro, di Alonso López Pinciano e di Jusepe Antonio Gonzáles de Salas si abbina sempre a una trattazione più o meno analitica dei problemi della messa in scena. Con l’originale commento aristotelico di Salas si esce però dal laboratorio drammaturgico cinquecentesco per entrare nel mirabolante palcoscenico barocco.
Mito classico e storia nazionale: per un sistema “moderno” dei generi tragici
Il modello della tragedia classica deve misurarsi con le diverse realtà artistiche, sociali e produttive in cui si articola la civiltà teatrale del XVI secolo: i teatri delle corti, aperti tanto a elitarie esperienze di nobili “dilettanti” quanto alle rappresentazioni dei comici professionisti, i teatri dei collegi universitari e religiosi, sedi privilegiate della formazione dell’intellighenzia umanistica e della classe dirigente, i teatri pubblici, sostenuti economicamente dagli spettatori attraverso l’acquisto dei biglietti, il teatro religioso, depositario dell’ormai secolare tradizione rappresentativa gestita dalle confraternite e infine gli spettacoli delle feste popolari, insieme eterogeneo in cui le performances di professionisti, espressione delle tradizioni locali, si mescolano agli sfarzosi riti di celebrazione delle autorità civili o spirituali.
La necessità di adeguarsi ai diversi orizzonti d’attesa presupposti dai vari generi spettacolari spinge gli autori animati da aspirazioni tragiche a moltiplicare le fonti di ispirazione per la stesura dei loro drammi. Alle tragedie di ambientazione classica, storica o mitologica, si affiancano le tragedie religiose, tratte dalla Bibbia o dalla tradizione agiografica, le tragedie “avventurose”, derivate dalla tradizione novellistica, le tragedie “popolari”, legate al patrimonio folklorico locale, le tragedie “storiche”, nelle quali viene drammatizzato il passato delle diverse comunità nazionali.
Le scelte tematiche sono foriere di importanti trasformazioni formali. Soprattutto i soggetti storici determinano l’assunzione in ambito drammaturgico di stilemi epici che finiranno nei secoli successivi col dissolvere le strutture drammaturgiche convenzionali: il passaggio dal mito alla storia implica un insensibile, ma inesorabile slittamento della tragedia verso la forma romanzesca.
Nel corso del Cinquecento dal modello utopico della tragedia “regolare” trae dunque origine un articolato sistema di generi “tragici” per la loro connotazione stilistica e per il loro significato ideologico, dotato di caratteristiche ed equilibri strutturali mutevoli da nazione a nazione.
Da Sofonisba a Euridice: la drammaturgia italiana alla scoperta della tragedia moderna
Tra echi medievaleggianti e aspirazioni classicistiche, in Italia i primi tentativi cinquecenteschi di strutturazione della forma tragica nascono in margine alla tradizione novellistica o alla rivisitazione delle fabulae antiche. Nel 1499 Antonio Cammelli detto il Pistoia dedica a Ercole I d’Este la propria tragedia in terzine Pamphila.
Ispirata alla novella di Boccaccio Guiscardo e Ghismonda, l’opera, rappresentata a Ferrara e forse a Mantova, viene edita nel 1508 a Venezia con il titolo Demetrio re di Tebe.
Nonostante sia inserita nel repertorio del celebre attore Cherea, la tragedia del Pistoia viene ben presto dimenticata. Sorte analoga tocca alla Sofonisba di Galeotto del Carretto (1502); rileggendo il racconto di Livio della seconda guerra punica attraverso l’Africa di Petrarca, il marchese astigiano mette in scena gli infelici amori di Sofonisba e Massinissa entro un’articolazione drammatica ancora debitrice della sacra rappresentazione.
Sin dai primi decenni del secolo i letterati appartenenti alla cerchia degli Orti Oricellari fiorentini, sede dell’accademia platonica, mettono a punto un progetto dettagliato di restaurazione classica del genere tragico.
Dalle discussioni degli umanisti di fede repubblicana che si riuniscono nei giardini di palazzo Rucellai il vicentino Gian Giorgio Trissino trae gli spunti, durante il proprio soggiorno a Firenze, per la composizione della Sofonisba (1514- 1515, ma edita nel 1524), prima tragedia “regolare” italiana. Allievo dell’umanista greco Demetrio Calcondila, editore di Euripide, Trissino propone un’interpretazione della tragedia classica ispirata a una solenne misura razionale: imitazione di una “virtuosa e notabile azione”, la tragedia trissiniana, specchio dei potenti, è tesa a purgare gli spettatori “per misericordia e per tema” dalle “perturbazioni” dell’animo. Rendendo il trimetro giambico catalettico greco con una libera alternanza di endecasillabi e settenari sciolti, Trissino struttura il proprio testo, privo di prologo separato e di scansione in atti, secondo un ritmo spazio-temporale modulato sulla serie prologo-episodio-epilogo con stasimi corali, cioè con interventi del coro intercalati con musiche e danze. L’influenza dei modelli classici è altrettanto evidente nelle tragedie in endecasillabi sciolti dell’amico di Trissino Giovanni Rucellai: la Rosmunda (1516, ma edita nel 1525) sceneggia una fosca vicenda medioevale tratta dall’Historia longobardorum dello storico longobardo Paolo Diacono (720 ca. - 799 ca.) secondo lo schema offerto dall’Antigone di Sofocle, l’Oreste (1515-1520) invece si ispira liberamente all’Ifigenia in Tauride di Euripide. Sempre a Firenze si impegnano nella ricerca intorno al linguaggio tragico anche Luigi Alamanni, la cui libera versione dell’Antigone sofoclea iniziata prima della congiura antimedicea del 1512 è terminata in Francia nel 1533, Ludovico Martelli (Tullia, pubblicata postuma nel 1533) e Alessandro Pazzi de’Medici. Traduttore di Euripide, Sofocle e Aristotele e autore di un’originale Dido in Cartagine (1524), Pazzi de’Medici sperimenta la resa del trimetro giambico greco attraverso versi di 12 o 13 sillabe.
Questi primi tentativi di codificazione della tragedia “regolare” si muovono in un ambito puramente letterario. Significativo è il caso della Sofonisba trissiniana: il dramma debutta in Francia, nella traduzione curata da Mellin de Saint-Gelais, solo trent’anni dopo la sua pubblicazione. Per arrivare a un allestimento italiano occorrerà poi attendere fino al 1562, anno in cui Palladio cura la messa in scena della tragedia presso il Palazzo della Ragione di Vicenza. A fronte di questa modesta fortuna teatrale sta lo straordinario successo editoriale dell’opera: dopo le prime due edizioni romane del 1524, la Sofonisba è ristampata altre 15 volte prima della fine del secolo. Una volta trasferiti a Roma, Trissino e Rucellai creano presso Castel Sant’Angelo un’Achademia tragica. Anche in questo caso ci troviamo però in presenza di un’iniziativa puramente “letteraria”: durante le sedute dell’accademia gli autori si limitano infatti a leggere ad alta voce brani delle proprie opere.
Il delinearsi tra Firenze e Roma del modello della tragedia “regolare” non impedisce però la sopravvivenza, specie nell’Italia del Nord, di forme tragiche spurie intimamente collegate tanto alla tradizione del dramma religioso medievale quanto a quella degli spettacoli popolari.
Intorno al 1521-1522 riscuote un grande successo sulle piazze lombarde il poema drammatico Lautrec di un non meglio identificato Francesco mantovano (forse Francesco Virgilio). Il testo, steso in ottave e diviso in quattro libri, rappresenta alcuni momenti della guerra di Leone X e Carlo V contro i Francesi e alterna personaggi storici a personificazioni allegoriche e a figure dell’immaginario cristiano e pagano. Con maggior compostezza formale la via della tragedia “storica” è battuta anche da Daniele Barbaro, autore di una Tragedia sulla presa di Buda (1541). Nel 1546 il benedettino Francesco Buonamonte, divenuto nel ’25 seguace di Zwingli, compone la tragedia corale Il libero arbitrio, cupa satira della degenerazione della Chiesa romana. Al filone popolareggiante appartiene pure Il soldato di Angelo Leonico, tragedia “urbana” ispirata a un fatto di cronaca, pubblicata a Venezia nel 1550. Estrema metamorfosi del teatro religioso medievale sono i drammi e le tragedie bibliche rappresentate nei teatri dei collegi gesuitici. Regolarmente integrato nelle attività educative, catechistiche e propagandistiche dei collegi gesuitici di tutto il mondo, il teatro degli Ordini si sviluppa come genere dalla metà del 1500 alla fine del 1700 circa, assumendo caratteri specifici a seconda delle varie culture locali. I testi, di norma non pubblicati, sono scritti e diretti dal docente di retorica e rappresentati in ricorrenze fisse (carnevale, fine dell’anno scolastico, ecc.) da un enorme numero di allievi (fino a 300). Le composizioni latine di padre Stefano Tuccio (Nabucodonosor, 1562; Goliath, 1563; Juditha, 1564; Saul, 1566; Christus Nascens, 1567; Christus Patiens, 1568; Christus Judex, 1569) offrono un quadro articolato di una drammaturgia che fonde nel crogiuolo di una classicità affidata al medium linguistico memorie delle sacre rappresentazioni e folgoranti premonizioni della spettacolarità barocca. Il teatro dei Gesuiti non è privo di influenze sulla scena secolare: profondamente debitrice della tragedia biblica gesuitica è per esempio la Marianna di Ludovico Dolce (1565). Sul finire del secolo il Crispus di padre Bernardino Stefonio (1597), tragedia in trimetri con cori modellata sulla Fedra di Seneca, rappresenterà il primo energico tentativo di riportare la drammaturgia abnorme dei collegi entro gli steccati di un più rigoroso classicismo.
Sul fronte del teatro laico il prototipo della tragedia classicheggiante “regolare” si realizza circa a metà del secolo nell’Orazia di Pietro Aretino (1546), perfetto correlato letterario della monumentale “scena tragica” dell’architetto Sebastiano Serlio. Dedicata al pontefice Paolo III, l’Orazia è fin dal prologo un esplicito manifesto a sostegno dell’universalismo papale e imperiale in tempi non certo rosei per la Chiesa cattolica. Portando in scena lo scontro tra Orazi e Curiazi, Aretino celebra un raffinato rito cortigiano a metà tra il gioco di società e il travestimento allegorico: in prospettiva sociologica l’esaltazione aretiniana della gravitas romana non è altro che un gratificante risarcimento estetico alle frustrazioni politiche del principe rinascimentale.
La solenne classicità dell’architettura tragica dell’Orazia non è priva di pericolose incrinature.
Se si presta orecchio con attenzione alla maestosa orchestrazione retorica della tragedia non possono infatti sfuggire le sofisticate dissonanze lessicali disseminate nella partitura del testo: accumulandosi in funzione puramente esornativa, latinismi e arcaismi distruggono l’armonia degli accordi verbali tradizionali aprendo la strada a ben più radicali esperimenti formali.
Alcuni anni prima che le torsioni linguistiche dell’Orazia mettessero implicitamente in crisi il modello tragico trissiniano, tra Ferrara e Padova si era però già venuta tracciando la nuova via maestra della tragedia moderna: nel 1541 Giambattista Giraldi Cinzio aveva allestito nella propria dimora ferrarese la sua tragedia Orbecche e l’anno successivo Sperone Speroni aveva letto agli accademici Infiammati di Padova la sua Canace.
Giovan Battista Giraldi Cinzio
Prologo
Orbecche
Essere non vi dee di maraviglia,
spettatori, che qui venut’i’ sia
prima d’ognun, col prologo diviso
da le parti, che son ne la tragedia,
a ragionar con voi, fuor del costume
de le tragedie e de’ poeti antichi;
perché non altro, che pietà di voi
mi ha fatto, fuor del consueto stile,
qui comparir, di maraviglia pieno,
né senza gran cagion mi maraviglio,
che tanti alti signor, tant’alte donne
nobil in sommo, e tanti spirti illustri,
fuor d’ogni oppenion nostra, sì ratti
oggi qui sian venuti, ove non s’hanno
a recitar di Davo, o ver di Siro
l’astute insidie verso i vecchi avari,
o pronti motti, che vi movan riso,
o amorosi piaceri, o abbracciamenti
di cari amanti, o di leggiadre donne,
onde possiate aver gioia e diletto;
ma lagrime, sospiri, angosce, affanni
e crude morti. Onde voi, che qui sète
venuti per solazzo e per piacere,
avrete acerba e intolerabil doglia.
Onde, perché di lui non vi dogliate
(senza riguardo avere a l’uso antico)
il poeta m’ha fatto or comparire,
a dar di ciò, c’ha ad avenire, indizio.
Però, se di voi stessi oggi vi cale,
partitevi, di grazia, e qui lasciate
noi altri col poeta in queste angosce,
convenienti a la nostra aspra sorte
e al misero stato, in che noi semo.
Deh, piaciavi non esser spettatori
di tante aversità, di tante morti,
quant’hanno ad avenir in questo giorno.
Oimè! come potran le menti vostre
di pietà piene e d’amorosi affetti
e sovra tutti di voi donne avezze
ne’ giochi, ne’ diletti e ne’ solazzi,
e di natura dolci e dilicate,
non sentir aspra angoscia a udir sì strani
infortunii sì gravi e sì crudeli,
quai sono quei, che deono avenire oggi?
Come potranno i vostri occhi lucenti
più che raggi del sol, veder tai casi
e così miserabili e sì tristi
l’un sovra l’altro, e rattenere il pianto?
Deh, gitevi, di grazia, che non turbi
le vostre gioie e l’allegrezza vostra
e ’l dolce, che tenete in voi, l’amaro
empio dolore. Appresso, ognun di voi
pensi quanto si deve allontanare
da le sue case. Forse penserete
in Ferrara trovarvi, città piena
d’ogni virtù, città felice, quanto
ogn’altra che ’l sol scaldi, o che ’l mar bagni,
mercè de la giustizia e del valore,
del consiglio matur, de la prudenza
del suo signor, al par d’ogn’altro saggio.
E, fuor del creder vostro, tutti insieme
(per opra occulta del poeta nostro)
vi troverete in uno instante in Susa,
città nobil di Persia, antica stanza
già di felici re, com’or d’affanno
e di calamitadi è crudo albergo.
Forse vi par, perché non v’accorgete
velocissimamente caminare,
che siate al vostro loco, e sète in via
e già vicini a la città, ch’io dico.
Ecco quest’è l’ampia città reale,
questo è ’l real palazzo, anzi ’l ricetto
di morti e di nefandi e sozzi effetti,
e d’ogni sceleraggine, ove l’ombre
e l’orribili furie acerbo strazio
porranno in brieve e lagrimevol morte.
M’a che restate, oimè, perché nessuno
di voi si parte? forse vi pensate
che menzogna si sia ciò ch’io vi dico?
Egli è pur vero, e già ne sète in Susa,
e nel tornar v’accorgerete bene
quanti mar, quanti monti e quanti fiumi
averete a varcar prima che giunti
ne siate tutti a la cittade vostra:
che non vi farà agevole la via
il poeta al tornar, com’ora ha fatto.
E che qui non si trovi altro che pianto,
tosto ne vederete espressi segni,
ch’io veggio già quella possente dea,
che Nemesi chiamata è dagli antichi,
orrida in vista e tutta accesa d’ira,
chiamare or qui da le tartaree rive
l’acerbe furie co le faci ardenti,
il cui crudele e dispietato aspetto
temo così veder che più non oso
qui far dimora, a ragionar con voi.
in Il teatro italiano II: Teatro del Cinquecento: La tragedia, a cura di M. Ariani, Torino, Einaudi, 1977
Con l’Orbecche del Giraldi Cinzio, divisa in atti e preceduta da un prologo, si assiste al primo significativo incontro nel Cinquecento italiano tra il testo tragico e il palcoscenico.
Sullo sfondo di un’esotica città di Susa – “crudo albergo”, a detta dell’autore, “d’affanno/e di calamitadi” – Giraldi sceglie Seneca come guida di un percorso poetico che conduce la tragedia lontano dall’ortodossia aristotelica verso il tormentato universo poetico manieristico. La violenza delle tragedie senechiane è imitata nell’Orbecche per attingere un patetismo esasperato che scardina la sintassi tragica: pur restando subordinata al principio dell’unità d’azione, la poetica dell’“orrore” giraldiana spinge infatti il linguaggio tragico verso la ricerca di una “meraviglia” sempre più fine a se stessa che, dal sistema delle “digressioni”, non tarderà a trapassare a una frantumazione della logica narrativa del testo tragico. Pur non rinnegando la finalità educativa della tragedia, Giraldi finisce col subordinare anche l’effetto catartico a una precisa strategia spettacolare. Per quanto attiene le novità introdotte nella costruzione dei personaggi occorre sottolineare come il Cinzio ricorra ai monologhi, assenti nella Sofonisba, per trascrivere drammaturgicamente la dialettica menzogna/confessione sottesa all’agire dei suoi eroi.
Ispirandosi ancora una volta a Seneca, egli trasforma inoltre “verosimilmente” il coro in voce recitante di una collettività simbolica tutta concentrata a commentare le implicazioni etiche e politiche delle vicende rappresentate. Dopo quelle variazioni sul tema tragico dell’Orbecche che sono la Didone (1542) e la Cleopatra (1543), la volontà di raccontare storie “più grate in iscena” induce il Cinzio a tentare la via del lieto fine; nascono così i numerosi drammi a impianto tragicomico: l’Altile (1543 ca.), gli Antivalomeni (1548), l’Arrenopia (1562), la Selene, l’Euphimia e l’Epitia (tutte e tre di incerta datazione).
La deformazione della misura classica è evidente anche nella Canace di Speroni, trasposizione tragica in chiave senechiana degli amori incestuosi di Canace e Macareo raccontati nell’undicesimo libro delle Heroides di Ovidio. Come l’Orbecche anche la Canace è divisa in atti ed è preceduta da un prologo. Al di là delle analogie formali le opere del Cinzio e dello Speroni differiscono però sul piano ideologico. L’impegno sociale dell’Orbecche, cifrato nel rapporto di riflessione speculare che si viene a stabilire tra Susa e Ferrara, scompare nell’ambientazione assolutamente fantastica della Canace. L’azione di Speroni, tanto astratta quanto cruenta, precipita inesorabilmente verso la carneficina finale in un crescendo di orrore che non ammette redenzione: la malvagità dell’eroe tragico della Canace arriva a mettere in discussione lo stesso effetto catartico.
Grazie anche alle coordinate teoriche fissate da Castelvetro, il panorama tragico manieristico si disegna con maggior precisione negli anni Settanta. Ponendo il proprio percorso drammaturgico sotto l’egida di Seneca sin dalla composizione della tragedia Dalida nel 1572, Luigi Groto arriva alla più completa dissoluzione del codice tragico aristotelico con l’Hadriana (1578). Ambientando in Adria una trama novellistica tratta da Luigi Da Porto e da Matteo Bandello, fonte indiretta anche per il Romeo and Juliet di Shakespeare, Groto racconta nell’Hadriana la storia dell’impossibile amore tra Adriana e Latino. Il linguaggio fortemente metaforico della tragedia si riflette sul piano strutturale in un gioco metateatrale che annulla le distinzioni tra i diversi livelli di realtà: la categoria aristotelica del verosimile va alla deriva in un mondo in cui il rapporto tra finzione scenica e verità esistenziale è assolutamente inesplicabile.
Esperto creatore di suggestive scenografie verbali e abile manipolatore della sintassi tragica, posta persino a fondamento della logica narrativa della Liberata, Tasso ordisce la propria personale versione della tragedia manieristica nel Re Torrismondo (1587), elaborazione definitiva di quel Galealto re di Norvegia cui il poeta aveva posto mano sin dal 1573-1574.
Rapportandosi a un canone tragico che sempre più chiaramente tende a risolvere l’insondabile profondità del mito greco nel romanzo tra il luttuoso e il lacrimevole dell’aristocratico cinquecentesco, Tasso approda con il Torrismondo a un significativo esito della sua ossessiva ricerca di un sublime autenticamente moderno.
L’esplosione dell’amore incestuoso che lega Torrismondo ad Alvida è il sintomo di un più generale squilibrio esistenziale: prefigurando la Danimarca di Hamlet (1600-1601), il regno dei Goti tassiano, straziato dai lutti presenti e tormentato da dubbi angosciosi sul futuro, riflette la crisi della civiltà europea tardocinquecentesca.
Torquato Tasso
Nutrice e confidente
Il re Torrismondo, Atto I, scena I
NUTRICE, ALVIDA.
NUTRICE:
Deh qual cagione ascosa, alta regina,
sì per tempo vi sveglia? Ed or che l’alba
nel lucido orïente a pena è desta,
dove ite frettolosa? E quai vestigi
di timore in un tempo e di desio
veggio nel vostro volto e ne la fronte?
Perch’a pena la turba interno affetto,
o pur novella passïon l’adombra,
ch’io me n’aveggio. A me, che per etate,
e per officio, e per fedele amore,
vi sono in vece di pietosa madre,
e serva per volere e per fortuna,
il pensier sì modesto omai si scopra,
che nulla sì celato o sì riposto
dee rinchiuder giamai ch’a me l’asconda.
ALVIDA:
Cara nudrice e madre, egli è ben dritto
ch’a voi si mostri quello ond’osa a pena
ragionar fra se stesso il mio pensiero;
perch’a la vostra fede, al vostro senno
più canuto del pelo, al buon consiglio,
meglio è commesso ogni secreto affetto,
ogni occulto desio del cor profondo,
ch’a me stessa non è. Bramo e pavento:
no ’l nego: ma so ben quel ch’i’ desio;
quel che tema, io non so. Temo ombre e sogni,
ed antichi prodigi, e novi mostri,
promesse antiche e nove, anzi minacce
di fortuna, del ciel, del fato averso,
di stelle congiurate: e temo, ahi lassa,
un non so che d’infausto o pur d’orrendo
ch’a me confonde un mio pensier dolente,
lo qual mi sveglia e mi perturba e m’ange,
la notte e ’l giorno. Oimè, giamai non chiudo
queste luci già stanche in breve sonno,
ch’a me forme d’orrore e di spavento
il sogno non presenti; ed or mi sembra
che dal fianco mi sia rapito a forza
il caro sposo, e senza lui solinga
gir per via lunga e tenebrosa errando;
or le mura stillar, sudare i marmi
miro, o credo mirar, di negro sangue;
or da le tombe antiche, ove sepolte
l’alte regine fur di questo regno,
uscir gran simolacro e gran ribombo,
quasi d’un gran gigante, il qual rivolga
incontra al cielo Olimpo, e Pelia, ed Ossa,
e mi scacci dal letto, e mi dimostri,
perch’io vi fugga da sanguigna sferza,
una orrida spelunca, e dietro il varco
poscia mi chiuda; onde, s’io temo il sonno
e la quïete, anzi l’orribil guerra
de’ notturni fantasmi a l’aria fosca,
sorgendo spesso ad incontrar l’aurora,
meraviglia non è, cara nutrice.
Lassa me, simil sono a quella inferma
che d’algente rigor la notte è scossa,
poi su ’l mattin d’ardente febre avampa;
perché non prima cessa il freddo gelo
del notturno timor, ch’in me s’accende
l’amoroso desio che m’arde e strugge.
Ben sai tu, mia fedel, che ’l primo giorno
che Torrismondo agli occhi miei s’offerse,
detto a me fu che dal famoso regno
de’ fieri Goti era venuto al nostro
de la Norvegia, ed al mio padre istesso,
per richiedermi in moglie; onde mi piacque
tanto quel suo magnanimo sembiante
e quella sua virtù per fama illustre,
ch’oblïai quasi le promesse e l’onta.
Perch’io promesso aveva al vecchio padre
di non voler, di non gradir pregata
nobile amante, o cavaliero, o sposo,
che di far non giurasse aspra vendetta
del suo morto figliuolo e mio fratello;
e ’l confermai nel dì solenne e sacro
in cui già nacque e poi con destro fato
ei prese la corona e ’l manto adorno,
e ne rinova ogni anno e festa e pompa,
che quasi diventò pompa funèbre.
Quante promesse e giuramenti a l’aura
tu spargi, Amor, qual fumo oscuro od ombra!
Io del piacer di quella prima vista
così presa restai, ch’avria precorso
il mio pronto voler tardo consiglio,
se non mi ritenea con duro freno
rimembranza, vergogna, ira e disdegno.
Ma poiché meco egli tentò parlando
d’amore il guado, e pur vendetta io chiesi
(chiesi vendetta, ed ebbi fede in pegno
di vendetta e d’amor), mi diedi in preda
al suo volere, al mio desir tiranno,
e prima quasi fui che sposa, amante;
e me n’avidi a pena. E come poscia
l’alto mio genitor con ricca dote
suo genero il facesse; e come in segno
di casto amor e di costante fede
la sua destra ei porgesse a la mia destra;
come pensasse di voler le nozze
celebrar in Arane, e côrre i frutti
del matrimonio nel paterno regno,
e di sua gente e di sua madre i prieghi
mi fosser porti e loro usanza esposta,
tutto è già noto a voi. Noto è pur anco
che pria ch’al porto di Talarma insieme
raccogliesse le navi, in riva al mare,
in erma riva e ’n solitaria arena,
come sposo non già, ma come amante,
ei fece le furtive occulte nozze,
che sotto l’ombre ricoprì la notte,
e ne l’alto silenzio; e fuor non corse
la fama e ’l suono del notturno amore,
ch’in lui tosto s’estinse; e nullo il seppe,
se non forse sol tu, che nel mio volto
de la vergogna conoscesti i segni.
Or poi che giunti siam ne l’alta reggia
de’ magnanimi Goti, ov’è l’antica
suocera, che da me nipoti attende,
che s’aspetti non so, né che s’agogni;
ma si ritarda il desïato giorno.
Già venti volte è il sol tuffato in grembo,
da che giungemmo, a l’ocean profondo,
e pur anco s’indugia: ed io fratanto
(deggio ’l dire o tacer?) lassa mi struggo
come tenera neve in colle aprico.
NUTRICE:
Regina, come or vano il timor vostro
e ’l notturno spavento in voi mi sembra,
così giusta cagion mi par che v’arda
d’amoroso desio; né dee turbarvi
il vostro amor; ché giovanetta donna
che per giovane sposo in cor non senta
qualche fiamma d’amore, è più gelata
che dura neve in orrida alpe il verno.
Ma la santa onestà temprar dovrebbe,
e l’onesta vergogna, ardor soverchio,
perch’ei s’asconda a’ desiosi amanti.
Ma non sarà più lungo omai l’indugio,
che già s’aspetta qui, se ’l vero intendo,
de la Süezia il re di giorno in giorno.
ALVIDA:
Sollo, e più la tardanza ancor molesta
me per la sua cagion. Così vendetta
veggio del sangue mio? Così del padre
consolar posso l’ostinato affanno
e placar del fratel l’ombra dolente?
Posso e voglio così? Non lece adunque
premere il letto marital se prima
a noi d’Olma non viene il re Germondo,
di tutta la mia stirpe aspro nemico?
NUTRICE:
Amico è del tuo re; né dee la moglie
amare e disamar co ’l proprio affetto,
ma con le voglie sol del suo marito.
ALVIDA:
Siasi come a voi pare; a voi concedo
questo assai volentier, ch’io voglio e deggio
d’ogni piacer di lui far mio diletto.
Così potessi pur qualche favilla
estinguer del mio foco e de la fiamma,
o piacer tanto a lui, ch’ad altro intende,
ch’egli pur ne sentisse eguale ardore.
Lassa, ch’in van ciò bramo, e ’n van l’attendo,
né mi bisogna ancor pungente ferro
che nel letto divida i nostri amori
e i soverchi diletti. Ei già mi sembra
schivo di me per disdegnoso gusto:
perché da quella notte a me dimostro
non ha segno di sposo o pur d’amante.
Madre, io pur ve ’l dirò, benché vergogna
affreni la mia lingua e risospinga
le mie parole indietro. A lui sovente
prendo la destra e m’avicino al fianco:
ei trema, e tinge di pallore il volto,
che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)
pallidezza di morte e non d’amore;
e ’n altra parte il volge, e ’l china a terra,
turbato e fosco; e se talor mi parla,
parla in voci tremanti, e co’ sospiri
le parole interrompe.
NUTRICE:
O figlia, i segni
narrate voi d’ardente intenso amore.
Tremare, impallidir, timidi sguardi,
timide voci, e sospirar parlando,
scopron talora un desïoso amante.
E se non mostra ancor l’istesse voglie
che mostrò già ne le deserte arene,
sai che la solitudine e la notte
sono sproni d’amore ond’ei trascorra;
ma lo splendor del sole, il suon, la turba
del palagio real, sovente apporta
lieta vergogna, in aspettando un giorno
che per gioia maggior tanto ritarda.
E s’egli era in quel lido amante ardito,
accusar non si dee perch’or si mostri
modesto sposo ne l’antica reggia.
REGINA:
Piaccia a Dio che sia vero. Io pur fra tanto,
poi ch’altro non mi lece, almen conforto
dal rimirarlo prendo. Or vengo in parte
ov’egli star sovente ha per costume,
in queste adorne logge o ’n questo campo
ov’altri i suoi destrier sospinge e frena,
altri gli muove a salti o volge in cerchio.
NUTRICE:
Altra stanza, regina, a voi conviensi,
vergine ancor, non che fanciulla e donna.
Ben ha camere ornate il vostro albergo,
ove potrete, accompagnata o sola,
spesso mirarlo dal balcon soprano.
Il teatro italiano II. Teatro del Cinquecento: La tragedia, a cura di M. Ariani, Torino, Einaudi, 1977
La fortuna editoriale della tragedia (tre edizioni nel 1587 e 10 ristampe nella prima metà del Seicento) non accelera il suo approdo alla scena: il Torrismondo debutterà al Teatro Olimpico di Vicenza solo nel 1618, prima tragedia a essere allestita presso il celebre teatro palladiano dopo la rappresentazione inaugurale dell’Edipo Tiranno del 1585.
L’allucinata rappresentazione manieristica del reale, sviluppata nel segno della disarticolazione dell’azione, caratterizza anche le tragedie di Muzio Manfredi (Semiramis, 1593) e Vincenzo Giusti (Irene, 1579; Almeone, 1588; Hermete, 1590; Arianna, 1610) sulle quali il secolo si avvia a conclusione. Il pubblico di fine Cinquecento è però sempre meno disposto ad accettare queste opere orrifiche e ambigue nel loro poliprospettivismo.
In margine al suo pluriennale studio della Poetica aristotelica, Pomponio Torelli, allievo a Padova del Robortello, compone nel 1589 Merope. In alternativa alle deformazioni della tragedia manierista, Torelli riscopre le lucidissime geometrie scenico-ideologiche della Sofonisba trissiniana. Il rifiuto della scansione in atti e scene e il ritorno all’articolazione giocata su prologo, episodio, esodo e stasimo è l’indice formale di una scoperta volontà di riallacciarsi al canone della tragedia “regolare” - e razionalmente ordinata - del primo Cinquecento. La produzione tragica di Torelli prosegue con Tancredi (1597), tratto dalla prima novella della quarta giornata del Decameron, Vittoria (1605), dramma sulla morte di Pier della Vigna, e Polidoro (1605). A cavallo tra i due secoli nei testi di Torelli si delinea il paradigma di una tragedia politica ispirata al conflitto tra “ragion di stato” e ragioni individuali.
Come era già risultato evidente sin dai tempi dell’allestimento al Teatro Olimpico dell’Edipo Tiranno (1585), il coro della tragedia greca pone a studiosi e teatranti cinquecenteschi il problema della funzione svolta dalla musica nello spettacolo tragico.
Muovendo da riflessioni filologiche sulla civiltà teatrale antica, la cerchia di artisti fiorentini che si raccoglie intorno a Giovanni Bardi arriva sul finire del Cinquecento a “inventare” il melodramma. Durante i festeggiamenti per le nozze di Maria de’ Medici e il re di Francia Enrico IV, a Firenze viene allestita nel 1600, presso palazzo Pitti, l’Euridice, testo di Ottavio Rinuccini, musiche di Jacopo Peri.
Dopo il precedente “pastorale” della Favola di Dafne del 1597 (testo di Rinuccini, musiche di Peri e Corsi), l’Euridice è il primo esempio “tragico” di una drammaturgia integralmente fondata su di un concetto di rappresentazione musicale.
Il traumatico irrompere della morte sulla scena senechiana viene esorcizzato dal sensuale splendore di una musica che acquista rapidamente autonomia dal testo poetico: la violenza nefasta della parola tragica si stempera nel languido patetismo della melopea.