La teoria economica e il suo linguaggio
Premessa
La teoria economica oggi dominante – quella neoclassica – si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto dell’attività umana. Essa sembra essere riuscita in un’impresa nella quale la fisica sinora ha fallito: la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche.
Tuttavia non esiste una sola teoria economica: a fianco di quella dominante ne coesistono altre, che si possono definire eterodosse e che di quella neoclassica mettono in discussione la rilevanza o addirittura la stessa coerenza logica (un elenco di riviste eterodosse si trova nel sito Heterodox economics web: http://www.orgs.bucknell.edu/afee/HetJrnls.htm). Basti qui ricordare, per es., che negli anni Sessanta del secolo scorso, sulla base del contributo di Piero Sraffa, (v. oltre), si svolse una memorabile controversia sul concetto di capitale tra la Cambridge inglese (neoricardiana) e quella statunitense (neoclassica). Rispetto a tale controversia quest’ultima, per ammissione dei suoi maggiori esponenti, primo fra tutti Paul A. Samuelson, uscì sconfitta, non poté reagire che con la rimozione e la censura (Cohen, Harcourt 2003). D’altra parte è ancora vivace la tradizione marxista (v. il sito Actuel Marx: http://netx.uparis10.fr/actuelmarx/ indexb.htm), al punto che in molte importanti università statunitensi vengono impartiti corsi di teoria economica marxiana; e particolarmente fiorente è la scuola postkeynesiana (se di vera e propria scuola si può parlare), che trova le sue radici nelle opere di John M. Keynes e dello stesso Sraffa (Pasinetti 2007). Chi fosse insoddisfatto della teoria neoclassica, oppu-re semplicemente curioso, potrà guardare in queste direzioni.
L’economia è una disciplina che non progredisce, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, cioè con l’acquisizione di nuovi risultati sostanziali. Anche nelle scienze della natura coesistono teorie rivali, ma le scienze della natura dispongono, in generale, di criteri sufficientemente robusti per accertare lo statuto epistemologico delle diverse teorie. L’economia non si occupa di un oggetto naturale, bensì della società, e di una società storicamente determinata; nel lavoro teorico, e nella competizione tra le diverse teorie economiche per l’egemonia culturale, l’elemento politico ha perciò un peso importante, talora determinante. Bisogna allora chiedersi quali siano le caratteristiche della teoria neoclassica, quando e come questa sia nata, e in che modo sia diventata e sia tuttora dominante; ed è necessario ripercorrere poi le altre epoche della storia delle teorie economiche, per proiettare questa teoria su uno sfondo e così mettere in evidenza i temi che essa ha rimosso, temi cruciali in questo inizio di secolo. «Lo studio della storia del pensiero», scrive Keynes, «è premessa necessaria all’emancipazione della mente. Non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere niente altro che il presente, o niente altro che il passato» (The end of laissez-faire, 1926; trad. it. 1991, p. 26).
La teoria neoclassica
Negli anni Settanta del 19° sec., in curiosa coincidenza con l’inizio della ‘lunga depressione’ (1873-1896), la teoria economica è travolta da una vera e propria rivoluzione (nel senso usato da Thomas Kuhn in The structure of scientific revolutions, 1962), da un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto a quella dell’economia politica classica e della critica di questa da parte di Karl Marx. Ne sono protagonisti studiosi di diversi Paesi e di varia formazione (William S. Jevons, Philip H. Wicksteed, Francis Y. Edgeworth e Alfred Marshall in Gran Bretagna, Carl Menger ed Eugen R. von Böhm-Bawerk in Austria, il francese Léon Walras e l’italiano Vilfredo Pareto in Svizzera, Irving Fisher negli Stati Uniti, Kurt Wicksell in Svezia). Tutte le teorie economiche comprendono una teoria del valore, cioè una qualche spiegazione di che cosa determini il valore e i prezzi delle merci. Il cambiamento più importante e vistoso, per quanto riguarda i neoclassici, è l’abbandono della teoria del valore-lavoro, su cui si fondavano i classici e Marx, e l’adozione di una teoria del valore-utilità, che, come scrive Wicksell, pone «come unico principio di tutta la teoria del valore di scambio quella piccola cosa, così facilmente trascurata, che è la variabilità del valore d’uso o della stima soggettiva del valore» (Über Wert, Kapital und Rente, 1893; trad. it. 1976, p. 40).
L’introduzione della categoria dell’utilità nel discorso economico, come nuovo fondamento della teoria del valore, si accompagna a un importante cambiamento metodologico. La meccanica razionale, e con essa il calcolo infinitesimale, viene assunta come paradigma teoretico. Un modello epistemologico, quello della fisica dell’Ottocento, del tutto inappropriato per una scienza sociale, e tuttavia accademicamente seducente. La scientificità o meno di un ragionamento economico viene fatta dipendere dalla sua formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene ridotta a un mero problema di calcolo: si tratta di calcolare, sulla base di determinate condizioni, quei prezzi che sul mercato assicurano l’equilibrio tra la domanda e l’offerta dei beni. Nella teoria neoclassica, a differenza dell’economia politica classica, l’oggetto dell’analisi non sono più le classi sociali, definite sulla base delle loro relazioni con la produzione e la distribuzione del sovrappiù, ma è l’individuo con i suoi gusti, o preferenze, e i suoi bisogni. Quella neoclassica è una teoria essenzialmente microeconomica, che come suo compito principale assume quello di spiegare, sulla base dei loro gusti e dei loro bisogni, le scelte che gli individui compiono nel mercato. Homo oeconomicus è analogo a un punto materiale soggetto a vincoli nel mondo della meccanica razionale; egli si muoverà nello spazio del mercato, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dai comportamenti altrui, finché il sistema non avrà raggiunto un equilibrio statico. La teoria economica si riduce così a una scienza pseudonaturale, libera da coordinate storiche e ideologiche.
Questi due sviluppi, la matematizzazione del discorso economico e l’individualismo metodologico (ovvero il principio secondo cui è scientifica soltanto una spiegazione che parta dall’analisi del comportamento dei singoli individui), si sposano perfettamente con la nuova categoria dell’utilità. Il problema delle scelte individuali viene concepito e formulato come un semplice problema matematico di massimizzazione di una funzione obiettivo, il cui argomento è l’utilità. Ogni individuo è caratterizzato da una propria funzione di utilità, e dalla soluzione del problema individuale di massimizzazione dell’utilità si ricavano le funzioni individuali di domanda e di offerta, ovvero le quantità di beni che, dati i propri gusti e la propria dotazione iniziale (la propria ricchezza), ogni soggetto desidera domandare o offrire sul mercato in corrispondenza di ogni possibile valore dei prezzi dei beni stessi. Così determinate le quantità di beni domandate e offerte da ogni singolo soggetto, sulla base delle funzioni individuali di utilità, è possibile procedere alla loro aggregazione, in modo da calcolare le quantità domandate e offerte nel mercato dall’insieme dei soggetti, in corrispondenza dei diversi prezzi. Il prezzo di equilibrio di mercato di un bene risulta essere il prezzo in corrispondenza del quale la domanda di quel bene è uguale all’offerta. La ‘legge della domanda e dell’offerta’ non è altro che questo: la determinazione, attraverso variazioni delle quantità e dei prezzi, di quella configurazione prezzo-quantità che soddisfa la condizione di uguaglianza tra domanda e offerta del bene. Se nel mercato la domanda del bene eccedesse l’offerta, il prezzo di questo aumenterebbe fino a ristabilire l’equilibrio (se fosse invece il contrario, si avrebbe una diminuzione del prezzo). All’equilibrio dei mercati presiederebbe dunque una sorta di ordine naturale, che li rende capaci di autoregolarsi.
Secondo Walras (il massimo teorico della scuola neoclassica), il mercato funziona come un calcolatore: «Anche nella pratica, ci sono dei mercati in cui le vendite e gli acquisti si fanno à la criée per mezzo di agenti, quali agenti di cambio o agenti di commercio, e questi mercati sono proprio quelli meglio organizzati sotto l’aspetto della concorrenza. Ma, da un punto di vista teorico, la presenza degli agenti è forse più necessaria di quella degli scambisti stessi? Niente affatto. Questi agenti sono gli esecutori puri e semplici di ordini scritti su dei carnets; se invece di ‘gridare i prezzi’, essi dessero questi carnets a un calcolatore, il calcolatore determinerebbe il prezzo di equilibrio non certo altrettanto rapidamente, ma senz’altro più rigorosamente di quanto non avvenga mediante il meccanismo del rialzo e del ribasso. Noi siamo questo calcolatore: le nostre curve di domanda rappresentano gli ordini degli scambisti; ci si dia il tempo necessario e potremmo determinare matematicamente i nostri prezzi di equilibrio» (Théorie mathématique de la richesse sociale, 1883, in Auguste Walras, Léon Walras, Œuvres économiques complètes, 1987, 7° vol., p. 315).
Un’impostazione simile ha conseguenze di grande portata circa la visione del processo economico. La teoria neoclassica è essenzialmente microeconomica, come già detto, ma si pronuncia anche sul funzionamento del sistema economico nel complesso, funzionamento che viene concepito come risultato degli esiti aggregati dei comportamenti microeconomici. Se sul mercato del lavoro non vi sono attriti o rigidità artificiali, vi si determinerà un saggio di salario di equilibrio, nel senso che in corrispondenza a esso vi sarà piena occupazione (non ci sarà disoccupazione involontaria). Dato il livello dell’occupazione di pieno impiego, l’intera capacità produttiva verrà utilizzata; la produzione che ne risulterà, nella forma di beni di consumo e di beni di investimento, verrà interamente venduta. Infatti la teoria neoclassica fa propria la cosiddetta legge di Say (1803), secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. La moneta è presente soltanto come strumento utile per facilitare gli scambi, non anche come possibile riserva di valore; dunque non vi saranno problemi di realizzazione. Nella visione neoclassica la moneta è neutrale, nel senso che la quantità di moneta non ha nessuna influenza sulle grandezze reali, cioè sul livello dell’occupazione e della produzione.
Quanto al modo in cui il prodotto sociale verrà distribuito nella forma di redditi, anch’esso sarebbe governato da un ordine naturale, anziché da un conflitto tra le parti. Se si concepisce e si legittima ogni quota distributiva come il corrispettivo per i servizi produttivi dei fattori della produzione, di cui ciascun soggetto è proprietario, la distribuzione del prodotto sociale non è determinata anche da un conflitto tra le classi, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, condizioni che sono assunte come date.
Si costituisce in tal modo quella Grande teoria, o Grande sistema della scienza economica (George L.S. Shackle, The years of high theory. Invention and tradition in economic thought, 1926-1939, 1967), che si affermerà come teoria dominante, qual è ancora oggi, e che ipotizza l’esistenza di un equilibrio generale atemporale, perfettamente concorrenziale e di piena occupazione. Con il suo avvento, la teoria economica, da indagine sistemica circa le cause e le leggi della ricchezza, della sua distribuzione e della sua accumulazione, qual era l’economia politica per i classici e per Marx, si riduce all’‘economica’; economica che secondo la fortunata definizione di Lionel Robbins (in An essay on the nature and significance of economic science, 1932) è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi. Essa vorrebbe essere la scienza di un sistema economico in generale, di un sistema economico astratto; astratto non nel senso in cui lo è qualsiasi oggetto teorico, ma nel senso che non è soggetto a determinazioni storiche o istituzionali: nella teoria neoclassica, la storia non conta. È un sistema in cui vi sarebbero armonia, certezza ed equilibrio, se il mercato fosse liberato da qualsiasi impedimento artificiale e da improvvidi interventi dello Stato. Per realizzare il migliore dei mondi possibili, sarebbe dunque necessaria e sufficiente la politica del laissez-faire.
I più avveduti tra gli stessi economisti neoclassici hanno però dimostrato che le fondamenta analitiche di questa visione panglossiana del mondo non sono solide. Per es.: i processi walrasiani non necessariamente convergono verso un equilibrio generale unico e stabile, nel quale domanda e offerta coincidano; se non si impongono ipotesi restrittive, il calcolatore che Walras prefigura impiegherebbe un tempo indeterminato per calcolare i prezzi che assicurano tale eguaglianza; e di nuovo, se non si impongono ipotesi restrittive, anche se un equilibrio generale esiste, non è detto che la configurazione di equilibrio macroeconomico, ottenuta per aggregazione, rispetti le ipotesi circa il comportamento dei singoli agenti.
La progressiva assiomatizzazione della teoria neoclassica, d’altra parte, ha portato a una sua dubbia predilezione per la forma delle proposizioni teoriche, anziché per il loro contenuto. L’avvertimento è di uno dei maggiori economisti matematici del Novecento, Gérard Debreu: «Quando un modello formale di un’economia assume vita propria, esso diventa l’oggetto di un processo inesorabile, nel quale vengono perseguiti senza sosta il rigore, la generalità e la semplicità. [...] L’interpretazione economica dei teoremi così ottenuti è l’ultimo passo dell’analisi. Secondo questo schema, una teoria assiomatizzata ha una forma matematica completamente separata dal suo contenuto economico» (Mathematical economics, in The new Palgrave: a dictionary of economics, ed. J. Eatwell, M. Milgate, P. Newman, 1987, 3° vol., p. 403).
L’economia politica classica
La teoria economica si era costituita come disciplina autonoma, anziché come collezione di proposizioni su temi economici sparse in discipline diverse (etica, diritto, filosofia, storia), con l’affermazione, a seguito della Rivoluzione francese e di quella industriale, del modo di produzione capitalistico; ‘modo di produzione’ inteso come forma storicamente de-terminata di organizzazione dei rapporti materiali dell’esistenza. L’autonomia teoretica dell’economia politica corrisponde alla costituzione del processo economico come processo a sé stante, che è circolare e che ha per scopo non il soddisfacimento dei bisogni umani, ma la realizzazione di un profitto in denaro e l’accumulazione del capitale. Non più un’economia di scambio, ma un’economia monetaria di produzione. Si potrebbe dire, in breve, che l’economia politica nasce come scienza del capitalismo.
Tra gli autori principali dell’economia politica classica, che va dalla fine del Seicento al 1830 circa, si possono ricordare William Petty, François Quesnay, Adam Smith e David Ricardo. Essi si occupano di produzione, distribuzione, impiego e crescita del prodotto sociale, nella prospettiva macroeconomica di un sistema visto nel suo complesso e diviso in classi. Come dirà Marx, essi indagano il nesso interno dei rapporti di produzione capitalistici. La categoria analitica centrale è qui il sovrappiù. Il sovrappiù è quel che resta del prodotto sociale (tutto quanto viene prodotto in un’economia, in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i mezzi di consumo necessari per la riproduzione dei lavoratori, nonché i mezzi di produzione consumati o logorati.
All’origine del sovrappiù sta il lavoro: per Smith «il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma» (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776; trad. it. 1973, p. 3). In una società divisa in classi, il prodotto sociale non va tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. Nella sfera della distribuzione, tra rentiers, capitalisti e lavoratori non vi è armonia, come sosterrà la teoria neoclassica, ma vi è conflitto: tra i rentiers e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Secondo Ricardo, molto semplicemente ma con un’inconfutabile argomentazione analitica, i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari sono bassi o alti. La centralità del lavoro, nell’economia politica classica, emerge anche nella teoria del valore che le è propria, che è una teoria del valore-lavoro. Sempre secondo Ricardo: «Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale si scambierà, dipende dalla relativa quantità di lavoro necessaria alla sua produzione» (On the principles of political econ-omy and taxation, 1821; trad. it. 1976, p. 7).
La teoria classica del valore e della distribuzione ha strette connessioni con la magnificent dynamics degli autori classici. La loro analisi del processo di accumulazione del capitale e del processo di riproduzione e crescita del sistema economico è di grande attualità, poiché porta alla conclusione che una crescita illimitata è impedita da fattori economici, a cominciare dallo stesso conflitto distributivo, e da fattori demografici, sociali e ambientali, fattori tutti che necessariamente conducono alla caduta del saggio dei profitti, all’arresto del processo di accumulazione, e dunque allo stato stazionario.
La critica marxiana dell’economiapolitica classica
Il titolo vero dell’opera principale di Marx, Das Kapital (1867-94), è il sottotitolo, Kritik der politischen Ökonomie. Quest’opera è una critica, ora severa ora generosa, e insieme uno svolgimento, dell’economia politica classica. Anche in Marx le categorie centrali sono il lavoro e il sovrappiù. Il primo nella forma di merce – la merce forza lavoro – che esso assume nel capitalismo. Il secondo nella forma capitalistica di profitto, la cui origine è individuata da Marx non nella produttività del capitale, come sarà per l’economia neoclassica, ma nel pluslavoro (dunque nel plusvalore), che nella sua attività il lavoratore per contratto presta al di là di quanto ne occorra per la riproduzione della propria forza lavoro. Il salario, d’altra parte, ha due aspetti, e ciò determina una contraddizione tra il livello microeconomico e quello macroeconomico. Al singolo capitalista il salario appare come un costo di produzione, che, come qualsiasi altro costo di produzione, egli cercherà di minimizzare; ma per il sistema economico nel complesso i salari sono potere d’acquisto, anzi la parte più consistente del potere d’acquisto complessivo, mediante il quale le merci prodotte potranno, o non potranno, essere acquistate. Se i salari sono bassi, sarà possibile che non tutte le merci prodotte vengano vendute, e vi saranno difficoltà nella realizzazione dei profitti. Di qui una delle possibili forme di crisi, le crisi di realizzazione.
Per Marx, nel capitalismo le crisi non sono fatti eccezionali, determinati da fattori extraeconomici, ma sono fenomeni connaturati all’essenza stessa del capitalismo. Circa la possibilità, o impossibilità, di una realizzazione sistematica delle merci prodotte, prima di Marx si erano affermate due tendenze teoriche. La prima (che passa per Jean-Baptiste Say e per Ricardo) esclude la possibilità di crisi generali, poiché chi vende non avrebbe altro scopo che ritornare sul mercato nella veste di compratore, utilizzando tutto il potere d’acquisto ottenuto dalla vendita. Si suppone, in questo caso e come farà la teoria neoclassica, che la moneta sia soltanto uno strumento utile per effettuare gli scambi, e dunque che il valore complessivo della domanda sociale sia sempre uguale al valore complessivo dell’offerta. La seconda tendenza (che passa per Jean Ch.L.S. Sismondi e Thomas R. Malthus) vuole invece che vi sia necessariamente un’eccedenza della produzione rispetto al consumo, con conseguente impossibilità di realizzazione da parte del mercato e dunque impossibilità di un processo regolare di riproduzione allargata.
Gli schemi marxiani di riproduzione mostrano invece, contro Malthus e Sismondi, che l’equilibrio capitalistico in realtà è possibile. Contro Say e Ricardo, d’altra parte, questi schemi mostrano che il processo di riproduzione normalmente si manifesta attraverso crisi, nelle quali lo squilibrio tra produzione e consumo svolge un ruolo essenziale, poiché nel capitalismo lo scopo della produzione non è il consumo ma la valorizzazione del capitale. Le diverse forme di crisi sono connesse tra di loro, tuttavia si possono distinguere, a fianco di quelle di realizzazione, quelle da sproporzione (quando non vi è coordinamento tra i diversi settori dell’economia) e da tesaurizzazione (quando il denaro è trattenuto in forma liquida perché prevalgono condizioni di incertezza). All’origine delle crisi sta comunque il fatto che la forza motrice della produzione capitalistica è costituita dal saggio dei profitti: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto (l’economia capitalistica è concretamente irrazionale, secondo Max Weber, perché non soddisfa i bisogni in quanto tali, ma soltanto i bisogni dotati di capacità d’acquisto).
Per Marx la norma è la crisi, non l’equilibrio; e l’analisi della crisi va ricondotta alla contraddizione tra capitale e lavoro salariato, alla concorrenza tra i tanti capitali, all’uso capitalistico della scienza e della tecnica, al ruolo essenziale, non neutrale, che il denaro ha nel processo capitalistico. Anche per Marx è prevedibile una caduta del saggio dei profitti. Per Ricardo la caduta è certa, poiché dipende dalla progressiva scarsità delle risorse naturali. Per Marx la caduta è tendenziale, poiché dipende dalle alterne vicende del cambiamento tecnico e dei rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori; e perché tale tendenza può essere contrastata da quelle che Marx chiama cause antagonistiche. Le più generali di queste ultime, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario, la diminuzione di prezzo dei mezzi di produzione, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. Anche a questo proposito, in un’epoca di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, è superfluo sottolineare l’attualità di teorie che si vorrebbero morte e sepolte.
Le critiche di Keynes e di Sraffaalla teoria neoclassica
Nel corso del Novecento, alla teoria neoclassica sono state mosse due critiche radicali: da parte di Keynes, con The general theory of employment, interest, and money (1936), circa le determinanti del livello della produzione e dell’occupazione e circa il ruolo della moneta nel processo economico; da parte di Sraffa, con Produzione di merci a mezzo di merci (1960), circa la teoria del valore e della distribuzione. Le due strategie sono diverse, perché Keynes mette in discussione le premesse stesse della teoria neoclassica, e dunque le sue conclusioni, mentre la critica di Sraffa mette in discussione la logica della teoria neoclassica, e ne mette in luce la mancanza di generalità. Le due strategie sono diverse anche per quanto riguarda il linguaggio: Keynes sceglie il linguaggio ordinario, Sraffa il linguaggio matematico.
Keynes: l’incertezza
Per Keynes l’economia in cui viviamo non è un’economia cooperativa, come vorrebbe la teoria neoclassica, ma un’economia monetaria di produzione, in cui la moneta ha un ruolo essenziale. Keynes non era un bolscevico (come sostenne Luigi Einaudi), tuttavia, circa il ruolo della moneta, fa propria una tesi marxiana, secondo la quale la natura della produzione nel mondo reale non è – come gli economisti sembrano spesso supporre – un caso del tipo M-D-M′, cioè inteso a scambiare contro denaro una merce (o un lavoro) al fine di ottenere un’altra merce (o lavoro). Questa può essere la prospettiva del singolo consumatore, ma non è quella del mondo degli affari, che dal denaro si separa in cambio di una merce (o di un lavoro) al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo D-M-D′.
Per Keynes l’importanza della moneta dipende essenzialmente dal fatto che le nostre decisioni sono prese in condizioni di conoscenza limitata e non di conoscenza perfetta, in condizioni di incertezza e non di certezza. In condizioni di conoscenza incerta, «per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo nostro atteggiamento verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, instabili convenzioni si sono indebolite. Il possesso della moneta calma la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura dell’intensità della nostra inquietudine» (The general theory of employment, 1937; trad. it. in La fine del laissez-faire e altri scritti, 1991, p. 127).
Di qui la possibilità che la moneta venga impiegata non soltanto come strumento utile per effettuare gli scambi, ma che venga domandata anche a fini speculativi. Ciò avrà conseguenze sul livello del tasso di interesse; e il tasso di interesse è una delle determinanti delle decisioni d’investimento. L’altra sono le aspettative, da parte degli imprenditori, circa la redditività futura dei nuovi investimenti che essi hanno in animo di fare; e anche tali decisioni vengono prese in condizioni di incertezza. Sarà dunque possibile che la domanda per investimenti non sia quella che sarebbe necessaria, al fine di determinare il pieno impiego della capacità produttiva disponibile nell’economia e dunque la piena occupazione.
Questa insufficienza di domanda, per Keynes, non è una possibilità remota; al contrario, gli animal spir-its degli imprenditori possono far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività al di sotto del normale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo: «Una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale» (The general theory of employment, inter-est, and money, 1936; trad. it. 1978, p. 415). Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; ed ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali, la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Un intervento dello Stato che nel breve periodo potrà prendere la forma di misure monetarie e fiscali, a sostegno della domanda effettiva; nel lungo periodo la forma di una redistribuzione della ricchezza e del reddito, dell’eutanasia del rentier (quindi «del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», p. 546), e di una socializzazione di una certa ampiezza degli investimenti.
Il termine socializzazione non deve spaventare. Per Keynes, molto semplicemente, l’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati già svolgono, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende, per ragioni di convenienza economica di breve periodo, se non vengono prese dallo Stato.
Sraffa: il ritorno ai classici
Anche nel caso di Sraffa, è il sottotitolo che conta: Premesse a una critica della teoria economica. L’intento di Sraffa, e il suo risultato, è di emendare la teoria classica delle sue imperfezioni, così da farne fondamento inattaccabile di una critica della teoria moderna; una critica che perciò consenta di esibire la rinnovata teoria classica come la sola teoria analiticamente ineccepibile del valore e della distribuzione. Forse in nessun’altra disciplina può capitare che vecchie teorie, sommerse e dimenticate, possano essere riproposte come più potenti e solide di quelle moderne.
A questo fine Sraffa riprende il punto di vista degli economisti classici, la loro rappresentazione del sistema della produzione e del consumo come processo circolare, in netto contrasto con l’immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a senso unico che porta dai ‘fattori della produzione’ ai ‘beni di consumo’. Su questa base Sraffa dimostra in maniera logicamente ineccepibile l’impossibilità di concepire come una merce il capitale, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo. Il capitale è un insieme di mezzi di produzione eterogenei, e dunque esso non può essere misurato in termini di valore, indipendentemente dalla determinazione dei prezzi delle merci che lo costituiscono. Se questo non è possibile, allora non è nemmeno possibile misurare il contributo del capitale al prodotto sociale, e dunque viene meno la soluzione neoclassica del problema distributivo, che calcola il profitto proprio sulla base della produttività marginale del capitale.
L’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello ‘naturale’ del salario, e non esiste nessuna configurazione di equilibrio nella distribuzione del prodotto sociale. Le quote distributive non sono univocamente determinate, poiché non dipendono soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche dai rapporti di forza tra lavoratori e capitalisti e da circostanze esterne alla sfera della distribuzione, quali le variabili monetarie e finanziarie.
La neutralizzazione della critica
Keynes e Sraffa hanno mostrato e dimostrato che il sistema economico in cui viviamo normalmente non funziona al meglio, quanto a livello della produzione e dell’occupazione, e che nella distribuzione del prodotto sociale non vi è armonia ma conflitto. Le controversie teoriche non si dirimono con il buon senso, tuttavia questo basta per convenire che il mondo è in verità abitato dal conflitto, dall’incertezza, dalle crisi – così come insegnano Ricardo e Sraffa, Keynes e Marx. Com’è mai possibile che la teoria economica dominante possa sostenere che il mondo è invece governato dall’armonia, dalla certezza e dall’equilibrio? È questo un caso interessante, nella storia della scienza e delle rivoluzioni scientifiche.
La teoria neoclassica è riuscita, con reazioni di grande efficacia, a mantenere la sua posizione di teoria dominante nell’accademia e tra i responsabili delle politiche economiche nazionali e internazionali. La critica keynesiana è stata riassorbita mediante la cosiddetta sintesi neoclassica (nella quale di genuinamente keynesiano vi è ben poco), intesa a dimostrare che The general theory del 1936 non avrebbe affatto portata generale ma si riferirebbe a un caso particolare, all’economia della depressione. Quanto alla critica di Sraffa, per la quale un’operazione analoga sarebbe stata impossibile, si è fatto ricorso alla damnatio memoriae (un silenzio che però si accompagna a una ritirata strategica: la teoria neoclassica non si occupa più di teoria del valore e della distribuzione). Riuscendo a imporsi come scienza normale, l’economica è riuscita ad accreditarsi come la sola e vera scienza economica. La teoria neoclassica è stata estremamente abile anche nella costruzione delle sue cinture protettive, non teoretiche ma politiche e di linguaggio: l’uso pressoché esclusivo della matematica e dell’econometria come tecniche di argomentazione e di convalida del ragionamento economico; l’impiego dei manuali (tendenzialmente di un solo manuale), anziché dei testi, nella didattica dell’economia; l’imposizione di metodi bibliometrici come criterio di valutazione determinante per l’accesso alle posizioni accademiche, rendendolo così improbabile per gli eterodossi.
L’«American economic review» (AER), la rivista scientifica dell’American economic association (AEA), che nel mondo è la più potente società di economisti, nel 2006 e nel 2007 è stata la più consultata tra le 775 riviste scientifiche archiviate nel JSTOR (Journal Storage, un archivio elettronico delle riviste accademiche). In tutte le graduatorie dalle quali dipendono le carriere universitarie e la distribuzione dei finanziamenti, sulla base di un qualche dubbio criterio come l’impact factor, le prime dieci riviste di economia, con in testa la stessa AER, sono statunitensi. La graduatoria più nota, anche in economia, è quella dei Journal citation reports della Thomson Scientific, una società privata con fini di lucro, già Institute for scientific information. Il «Journal of economic literature», autorevole organo bibliografico dell’AEA, elenca una ventina di campi di ricerca principali (tolte le materie aziendalistiche): economia generale; scuole di pensiero economico e metodologia; metodi matematici e quantitativi; microeconomia; macroeconomia ed economia monetaria; economia internazionale; economia finanziaria; economia pubblica; salute, educazione e benessere; economia del lavoro e della popolazione; diritto ed economia; organizzazione industriale; storia economica; sviluppo economico; cambiamento tecnologico e crescita; sistemi economici; economia agraria e delle risorse naturali; economia ambientale ed ecologica; economia urbana, rurale e regionale. Questi campi di ricerca si suddividono a loro volta in più di ottocento specializzazioni.
Al progressivo allargamento dei confini tradizionali della teoria economica ha dato un impulso decisivo Gary S. Becker, premio Nobel nel 1992 «per avere esteso il dominio dell’analisi microeconomica a un’ampia area del comportamento e dell’interazione umana, compresi i comportamenti non di mercato» (http:// nobelprize.org/nobel_prizes/economics/laureates/ 1992/, 30 marzo 2009). Nella bibliografia di Becker, ma ormai su tutte le riviste di economia più accreditate, si trovano articoli relativi a temi suggestivi come il capitale umano, i rapporti tra concorrenza e democrazia, l’economia della discriminazione, l’economia dei delitti e delle pene, la teoria della tossicodipendenza razionale, l’analisi economica della fertilità, l’interazione tra la quantità e la qualità dei bambini, la teoria economica del matrimonio e dell’instabilità matrimoniale e così via.
Così come il mercato, anche la teoria economica dominante si è globalizzata, e sembra oggi capace di pronunciarsi su qualsiasi questione. Il mercato globalizzato non si comporta però secondo le sue parabole dell’armonia, della certezza e dell’equilibrio, ed è agitato dal conflitto, dall’incertezza e dalla crisi.
La matematica nell’economia
Nella misura in cui l’economia può essere assimilata a una scienza che elabora paradigmi interpretativi dell’evoluzione di alcuni aspetti della realtà intorno a noi, uno dei riferimenti ‘ideali’ è la fisica: non solo quella di James C. Maxwell, nella sua classicità, ma anche quella di oggi, che riesce a scandire le tappe del progresso, dei successi e degli insuccessi che avvicinano o allontanano nel tempo la Grand unified theory.
Fin dai tempi di Galileo Galilei – per il quale il libro della natura «è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola» (Opere di Galileo Galilei, 1929-1939, prima ristampa, 6° vol., p. 232) – una teoria fisica è lo studio della geometria di un sistema dinamico che si evolve all’interno di un universo parametrizzato da variabili di diversa natura, dipendenti o indipendenti fra loro.
Riflettendo sulla ‘irragionevole’ efficacia della matematica nelle scienze della natura, Eugene P. Wigner (The unreasonable effectiveness of mathematics in the natural sciences, in Symmetries and reflections, 1967, pp. 222-37) osserva che il successo nella formulazione di nuove teorie dipende dalla scelta oculata – e in genere piuttosto ristretta – dei dati sperimentali sui quali saggiarle. Ma chi può escludere, annota Wigner, che l’osservazione iniziale di dati fenomenologici diversi non avrebbe potuto condurre a teorie differenti, anch’esse in grado di offrire una spiegazione altrettanto comprensiva ed esauriente dell’intero quadro fenomenologico? Il dubbio resta, per Wigner, perché «non è evidente che una teoria alternativa non possa mai esistere». Anche se – come osserva Erwin Schrödinger – è addirittura un miracolo che nell’estrema, disarmante complessità del mondo intorno a noi, sia possibile registrare delle ‘regolarità’. Regolarità quale, per es., la ‘legge di natura’ per cui il tempo che un grave impiega cadendo da una data altezza dipende soltanto da quest’ultima: legge alla quale Galilei giunge per la prima volta restringendo l’attenzione a oggetti relativamente pesanti, come sottolinea Wigner a proposito della scelta ‘oculata’ dei fenomeni sui quali sperimentare.
Il fatto più significativo nel contesto delle leggi di natura – osserva ancora Wigner – è che esse contengono soltanto una parte molto piccola della nostra conoscenza del mondo inanimato. Sono enunciati ‘condizionali’, leggi probabilistiche che permettono di predire, o meglio di ‘scommettere’, con buone prospettive di successo, su eventi futuri sulla base di conoscenze attuali, alcune delle quali – di fatto la stragrande maggioranza di quelle che determinano lo stato attuale del mondo – sono irrilevanti ai fini delle nostre previsioni.
Secondo Wigner, il fisico che ricorre alla matematica nella formulazione delle leggi di natura si comporta talora come un ‘irresponsabile’ che, non appena intravede che un legame fra due quantità rassomiglia a un legame codificato nella matematica, non esita a identificare il primo con il secondo. Riallacciandosi implicitamente a questa osservazione, Jacob T. Schwartz, in un articolo dal titolo polemico, The pernicious influence of mathematics on science (in M. Kac, G.-C. Rota, J.T. Schwartz, Discrete thoughts. Essays on mathematics, science, and philosophy, 1986, pp. 19-25), sottolinea i rischi insiti in situazioni di questo tipo, osservando che, mentre la matematica non può che riferirsi – per la sua stessa struttura – a situazioni completamente definite, «un ragionamento che è convincente nella misura in cui è preciso, perde la sua efficacia se le ipotesi di partenza sono modificate pur di poco, mentre un argomento convincente anche se impreciso può restare stabile rispetto a piccole perturbazioni degli assiomi di partenza» (p. 21). All’altro estremo c’è il rischio di una «cattiva teoria con un passaporto matematico» (p. 22): rischio presente, in modo particolare, nelle scienze sociali, a proposito delle quali Schwartz – ricollegandosi a una osservazione critica di Keynes – sottolinea i rischi di credibilità che corre un sistema di analisi economica basato su una rigida formalizzazione matematica delle relazioni fra i vari fattori in gioco, quando alcune delle ipotesi di interdipendenza fra questi siano poste in dubbio.
In tal modo, le perplessità di Wigner sull’impiego talora ‘irresponsabile’ della matematica nella ricerca in fisica o, più in generale, nelle scienze della natura, sono riprese e ingigantite da Keynes nel caso delle scienze sociali in genere, e dell’economia in particolare. In queste scienze, infatti, è generalmente impossibile attuare ‘esperimenti’ e iterarli, anche perché si dispone di parametri relativamente arbitrari: è poco attuabile, insomma, compiere quella scelta oculata dei dati sperimentali cui allude Wigner e depurare tali dati dalla presenza dell’osservatore, il quale – a differenza di ciò che accade nelle scienze della natura – appartiene sovente al quadro fenomenologico di riferimento. D’altra parte, come osserva G. Debreu (The mathematization of economic theory, «American economic review», 1991, 81, pp. 1-7), nel caso dell’economia la frammentarietà del quadro, la varietà e la variabilità temporale delle situazioni contingenti rendono improponibile un modello universale, simile a quello offerto dalla fisica della fine dell’Ottocento. Ma – osserva ancora Debreu – è proprio l’assenza di una base talmente solida da escludere, per via sperimentale, la coesistenza di affermazioni incompatibili che impone di recuperare questa possibilità di esclusione all’interno di una struttura logica sufficientemente rigida. È questo, o può anche essere questo, il ruolo della matematica nell’ambito dell’economia; compito che nobilita quello, espresso icasticamente da Francis Y. Edgeworth (Mathematical method in political economy, in Palgrave’s dictionary of political economy, 1894-1899), il quale afferma che il metodo matematico si rivela utile allo scopo precipuo di liberarsi della «spazzatura» che ingombra le fondamenta della scienza economica, a costo – come osserva John Kenneth Galbraith – «di allontanare dalla realtà i temi in discussione» (Economics in perspective. A critical history, 1987, p. 259).
Un ruolo impegnativo, un cammino tutto in salita. Anzitutto, nell’indagine economica la scelta ‘oculata’ dei fatti sperimentali, cui allude Wigner, oltre a prestarsi a diverse interpretazioni alternative, è complicata dall’attendibilità temporale assai breve dei dati disponibili (e, talora, come si è già osservato, dalla presenza dell’osservatore all’interno del quadro fenomenologico che si sta esplorando, con il rischio conseguente di distorsioni di varia natura, anche politica). Inoltre, la breve validità, sul piano temporale, dei dati raccolti impone una particolare attenzione al ‘pregresso’, alla storia del modello che si sta disegnando, analizzandolo con strumenti raffinati, in un paradigma teorico sovente più articolato di quello ereditato dalla fisica matematica dei tempi di Maxwell. Un paradigma teorico che nasce con i modelli ecologici costruiti da Vito Volterra e da Alfred J. Lotka nelle loro indagini sulla ‘lotta per la vita’, è all’origine degli studi del primo sulla meccanica dei materiali con memoria, e – trasferito all’economia – ispirerà alcuni decenni più tardi le ricerche di Richard M. Goodwin su un problema di accrescimento economico ciclico (Medio 1992, pp. 33-34).
Una data convenzionale d’inizio per la nuova stagione dei rapporti fra economia e matematica può essere fissata intorno al 1930. Come ricorda Debreu (Theory of value. An axiomatic analysis of economic equilibrium, 1959, pp. IX-XI), qualche anno prima John von Neumann si era occupato del problema dell’equilibrio (al quale Abraham Wald avrebbe dedicato la prima analisi rigorosa pochi anni più tardi) in una ricerca che prenderà la forma di un teorema del punto fisso, e alla quale porterà un contributo fondamentale – più tardi e in un contesto più generale – John Nash nel 1950. Sarà il volume di von Neumann e Oskar Morgenstern sulla teoria dei giochi (Theory of games and economic behavior, 19472) che contribuirà a liberare l’economia matematica dai suoi legami troppo stretti con l’analisi matematica classica, sostituendo al ruolo ancillare dei metodi del calcolo differenziale classico gli strumenti della topologia e della teoria della convessità, intrinseci ai problemi economici in discussione. Gli spazi vettoriali i cui punti rappresentano gli insiemi delle merci e dei prezzi compongono lo scenario all’interno del quale si evolve l’economia attraverso l’azione di una moltitudine di agenti, rappresentata da operatori lineari e non lineari, ispezionati con i metodi della teoria spettrale, dell’analisi convessa, dei semigruppi, della teoria ergodica, dei teoremi del punto fisso e così via. Grazie ai metodi moderni del calcolo, agli esperimenti pionieristici di von Neumann e Stanisław M. Ulam sull’iterazione, ai risultati di Aleksandr N. Šarkovskij sui cicli periodici, ai risultati di Tien-Yien Li e James A. Yorke sulla caoticità discreta, e infine alle conclusioni di Stephen Smale sulla dinamica del ‘ferro di cavallo’, la teoria dei sistemi dinamici è attualmente uno dei settori più innovativi nello studio dei sistemi complessi (Medio 1992).
Molti fatti si sono avvicendati dal 1902, quando un articolo di Pareto (Anwendungen der Mathematik auf Nationalökonomie, in Encyklopädie der mathematischen Wissenschaften, 1° vol., pp. 1094-1120) disegnava il panorama delle applicazioni della matematica all’economia secondo un modello che era mutuato dalla meccanica di Laplace. Due anni prima (e addirittura un quinquennio prima del lavoro di Albert Einstein sul moto browniano), la tesi dottorale di Louis Bachelier (Théorie de la spéculation, «Annales scientifiques de l’École normale supérieure», 1900, 3, pp. 21-86) – discussa a Parigi alla presenza di Henri Poincaré – proponeva di applicare metodi probabilistici, sia pure ancora grossolani, a un problema economico concreto, quale era lo studio della dinamica dei prezzi dei titoli di Stato emessi dal governo francese.
Essa abbandonava l’egemonica visione deterministica della meccanica di Laplace, trapiantando nell’economia (pur con lacune e inesattezze, e nel diffuso disinteresse degli addetti ai lavori) i metodi probabilistici propri della ricerca sui sistemi complessi. Sia pure con una lentezza misurata in decenni, le teorie quantistiche e gli strumenti di indagine sui sistemi complessi disordinati, basati sul modello di Boltzmann, vengono rimeditati e rielaborati in vista di applicazioni all’economia, conquistando, all’interno di quest’ultima, un’area di sviluppo autonoma (con risvolti applicativi che superano i confini della pura riflessione teorica): quest’area ha trovato recentemente (Mantegna, Stanley 2000; McCauley 2004; Cocolicchio, Maddalena 2008) una propria denominazione, econofisica, che tende a sottolineare gli stretti legami esistenti fra la disciplina da cui ha tratto origine e il campo di applicazione cui è destinata.
Bibliografia
A. Medio, Chaotic dynamics. Theory and applications to economics, Cambridge 1992.
R.N. Mantegna, H.E. Stanley, An introduction to econophysics. Correlations and complexity in finance, Cambridge 2000.
A.J. Cohen, G.C. Harcourt, Whatever happened to the Cambridge capital theory controversies?, «Journal of economic perspective», 2003, 1, pp. 199-214.
J.L. McCauley, Dynamics of markets. Econophysics and finance, Cambridge 2004.
L.L. Pasinetti, Keynes and the Cambridge keynesians. A ‘revolution in economics’ to be accomplished, Cambridge 2007.
D. Cocolicchio, L. Maddalena, Econofisica: fondamenti di una nuova scienza, «Lettera matematica», 2008, 65, pp. 13-22.