La teologia romana dei secoli XIX e XX
Costantino tra la Chiesa trionfante e la Chiesa dei poveri
L’11 ottobre del 1962 il teologo domenicano Yves Congar, che aveva patito anni di ostracismo ecclesiastico, partecipando alla cerimonia di apertura del concilio Vaticano II – al quale avrebbe offerto un contributo decisivo come perito – affidava al personale diario le proprie sensazioni dinnanzi a una Chiesa che ancora scorgeva essere fortemente ispirata al modello costantiniano:
Avverto tutto il peso, mai denunciato, del tempo in cui la Chiesa, aveva stretti legami col feudalesimo, deteneva il potere temporale, e papi e vescovi erano signori che tenevano corte, proteggevano gli artisti, pretendevano uno sfarzo simile a quello dei Cesari. Tutto questo la Chiesa di Roma non l’ha ripudiato. Non c’è mai stata, nel suo programma l’uscita dall’era costantiniana. Lo sventurato Pio IX, che del procedere della storia non aveva compreso nulla, ha sprofondato il cattolicesimo francese in uno sterile atteggiamento di opposizione, di conservatorio, di spirito di restaurazione… Era stato chiamato da Dio a comprendere la lezione degli avvenimenti, di quei Maestri che Egli dona di sua mano agli uomini, e a far uscire la Chiesa dalla miseranda logica della ‘Donazione di Costantino’ convertendola a uno spirito evangelico che le avrebbe permesso di essere meno del mondo e più per il mondo. Ma Pio IX fece il contrario. Sventurato che non sapeva cosa fosse né l’Ecclesia né la Tradizione, e che ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo, che pure aveva bisogno di lei.
E Pio IX regna ancora. Anche Bonifacio VIII regna ancora, e lo si è sovrapposto a Simon Pietro, l’umile pescatore di uomini!1
Questa prima sensazione sarà confermata alcuni giorni dopo, nelle pagine dello stesso diario, dove ritorna il 14 ottobre l’idea forte delle conseguenze del costantinismo che aveva penetrato per secoli la Chiesa formando un apparato pesante e costoso, grandioso e infatuato di se stesso, prigioniero del proprio mito della grandezza temporale; tutto questo, che rappresenta la parte non cristiana della Chiesa romana e che condiziona, anzi impedisce, l’apertura a un compito pienamente evangelico e profetico, tutto questo viene dalla menzogna della Donazione di Costantino. In questi giorni lo posso vedere in nodo evidente. Nulla avverrà di decisivo finché la Chiesa romana non avrà completamente abbandonato le sue pretese feudali e temporali2.
La percezione della permanenza e dell’esaurimento di un modello costantiniano era stato elemento ricorrente negli anni immediatamente precedenti al concilio da parte, per esempio, del professor Friedrich Heer dell’università di Vienna. Egli aveva denunciato quanto l’azione di Costantino avesse influenzato per molti secoli l’Europa attraverso la politicizzazione della teologia e la sacralizzazione della politica3. Analoga denuncia era venuta da uomini di Chiesa come monsignor Lorenz Jaeger4, arcivescovo di Paderbon, per il quale lo ‘Stato cristiano’ era ormai al tramonto e la Chiesa doveva riorganizzarsi per un impegno pastorale svincolato e privo di appoggi e legami con il potere politico. Le loro osservazioni avevano stimolato un altro domenicano francese, Marie-Dominique Chenu, anch’egli destinato a divenire uno dei punti di riferimento del concilio, a dedicare particolare attenzione a questo tema, sul quale per il vero aveva già cominciato a riflettere da tempo, della rottura della ormai secolare alleanza tra potere politico e potere religioso. Su tale tema era intervenuto agli inizi degli anni Sessanta con un articolo che ebbe il merito di restituire il ‘costantinismo’ alla sua vera dimensione di ideologia al tramonto nella relazione con i fatti nuovi attesi dal concilio Vaticano II5. Non si trattava, infatti, soltanto dei problematici fatti storici relativi all’imperatore Costantino, al sogno e ai segni ricevuti per vincere una guerra6, alla sua presunta conversione e alla sua politica di tolleranza prima e di privilegio poi nei confronti della Chiesa. Il vero problema sollevato in quel tempo, e al quale Chenu offrì una prima riflessione sistematica7, erano innanzitutto le conseguenze e le permanenze che la politica costantiniana avrebbe avuto per secoli e quanto la teologia cattolica ne sarebbe rimasta irretita e condizionata fino al presente in un regime che era definito di cristianità.
Sotto l’influenza degli atti di Costantino, si è sviluppato e poi si è fissato per secoli, un complesso mentale e istituzionale nelle strutture, nei comportamenti e perfino nella spiritualità della Chiesa, e questo non solo di fatto, ma come ideale. Siamo così trascinati attraverso parecchi secoli, durante i quali questo mito continua, ben oltre il periodo costantiniano e oltre l’Impero romano8.
Si trattava di un mito, quello del costantinismo, che si era espresso non solo in modo esplicito, ma che si era affermato nella storia della cristianità come dimensione sottesa percorrendo sotto traccia la storia della Chiesa, il ruolo che essa si riconosceva nel mondo e la storia delle relazioni tra la Chiesa e il potere politico. Un modello che aveva esercitato influenza sulla Chiesa stessa facendola diventare un vero e proprio regno tra gli altri regni, in grado di consacrare i poteri politici, di riconoscerne l’autorità politica come proveniente da Dio, di giustificare il potere temporale dei papi, complice anche l’invenzione della ‘donazione di Costantino’ che accentuerà nei secoli successivi le caratteristiche mondane della corte pontificia.
Vi è potenza, credito, magnificenza in questo Vaticano del Rinascimento, in questo vicereame di Cristo che distribuisce da grande proprietario i continenti da poco scoperti […]. Di fronte a questa cristianità statizzata vi sono gli ‘Stati cristiani’. La fede fa parte della fedeltà nazionale e la chiesa è un organismo ufficiale al punto che i suoi membri costituiscono, nell’epoca che arriva fino alla Rivoluzione Francese, un ‘ordine’ nella città; le sue leggi hanno forza di diritto pubblico. In compenso il potere politico decide sulla distribuzione delle cariche e sul controllo delle persone; ha dei diritti di patronato. La degradazione moderna di una simile prassi non ha eliminato un’impronta abbastanza miserabile, che non è più quella della fede sul mondo politico, ma quella di un apparato clericale posto sul medesimo piano della burocrazia dello Stato9.
Mai forse come in questo caso un fatto storico come la cosiddetta ‘pace costantiniana’ aveva esercitato influenze tanto forti, decisive e capillarmente diffuse quanto complessivamente poco individuabili essendo divenute progressivamente un patrimonio costitutivo, e apparentemente insostituibile, di parte considerevole della stessa teologia cattolica. Tuttavia rimarrebbe deluso chi si aspettasse di trovare quantità di trattazioni sistematiche che riconoscano ufficialmente Costantino come modello ispiratore di una teologia politica filocostantinana, né una raccolta di queste dichiarazioni risulterebbe particolarmente utile. È, infatti, tutta la trama dell’autocomprensione di sé e delle proprie relazioni con un mondo formato come ‘cristianità’ e poggiante sui privilegi concessi dal potere politico che restituisce il grado di penetrazione e di permanenza del modello costantiniano nella teologia, soprattutto ottocentesca, ma anche di oltre la prima metà del XX secolo.
Sul piano della permanenza del modello costantiniano nelle relazioni con il potere politico le prove sono numerose e fra queste sono di tutta evidenza i criteri ispiratori di numerosi concordati del XIX-XX secolo. Un esempio di ciò si può ritrovare in uno dei concordati meno conosciuti e che invece disegna alla perfezione questa logica: il concordato di Terracina, sottoscritto – in piena Restaurazione – il 16 febbraio del 1818 dal cardinale Ercole Consalvi, a nome di Pio VII e da Luigi de’ Medici per conto di Ferdinando I di Borbone re del Regno delle Due Sicilie. Il I e il II articolo non lasciano dubbi:
Articolo I: La Religione Cattolica Apostolica Romana è la sola Religione del regno delle Due Sicilie e vi sarà sempre conservata con tutti i diritti e prerogative che le competono, secondo l’ordinazione di Dio e le sanzioni canoniche. Articolo II: In conformità dell’articolo precedente l’insegnamento nelle regie Università, Collegi e Scuole, sì pubbliche che private, dovrà in tutto essere conforme alle dottrine della medesima Religione Cattolica10.
Seguono poi un elenco di garanzie, privilegi e benefici – economici e giuridici – a favore della Chiesa e degli ecclesiastici fino a riconoscere ai vescovi un potere di censura su tutti i libri stampati o introdotti nel Regno poiché se essi «troveranno qualche cosa contraria alla dottrina della Chiesa, ed a’ buoni costumi, il Governo non ne permetterà la divulgazione»11. A fronte di questi riconoscimenti il papa però concede al re un privilegio decisivo:
Articolo XXVIII. In considerazione della utilità che dal presente Concordato ridonda nella religione e nella Chiesa e per dare un attestato di particolare affezione alla persona di Sua Maestà il re Ferdinando, Sua Santità accorda in perpetuo a Lui, ed a’ suoi discendenti cattolici Successori al trono, l’indulto di nominare degli ed idonei ecclesiastici forniti delle qualità richieste da’ sacri canoni a tutti que’ Vescovati ed Arcivescovati del regno delle due Sicilie, pe’ quali Sua Maestà finora non godeva del diritto della nomina: e a tale effetto, tostoché sieno seguite le ratifiche del presente Concordato, Sua Santità farà spedire la bolla d’indulto […]. Articolo XIX. Gli Arcivescovi ed i Vescovi faranno alla presenza di Sua Maestà il giuramento di fedeltà espresso colle seguenti parole: Io giuro e prometto sopra i santi Evangeli obbedienza e fedeltà alle Reale Maestà. Parimente prometto che io non avrò alcuna comunicazione, né interverrò ad alcuna adunanza, né conserverò dentro, o fuori del regno alcuna sospetta unione, che noccia alla pubblica tranquillità. E se, tanto nella mia diocesi, che altrove, saprò che alcuna cosa si tratti in danno della Stato, lo manifesterò a Sua Maestà12.
Le norme concordatarie ancora in vigore nel Novecento in numerose nazioni mostravano come a causa di varie concessioni da parte degli Stati la Chiesa avesse rinunciato a una parte della sua autonomia. Così, il concordato con la Polonia del 1925 prevedeva il giuramento di fedeltà alla Repubblica da parte dei vescovi:
Davanti a Dio e i Santi Vangeli giuro e prometto, come è consono al vescovo, la fedeltà alla Repubblica Polacca. Giuro e prometto che rispetterò lealmente il Governo stabilito dalla Costituzione e lo farò rispettare al mio clero. Inoltre giuro e prometto di non partecipare in nessun accordo e di non essere presente in nessun consiglio che potrebbe danneggiare lo Stato Polacco o l’ordine pubblico. Non permetterò al mio clero di partecipare in tali cose. Mi occuperò del bene dello Stato, cercherò di allontanarne qualsiasi pericolo di cui sarei a conoscenza13.
Il concordato spagnolo del 1953 sulla materia della nomina dei vescovi si riferiva alle norme dell’accordo stipulato tra la Santa Sede e il governo spagnolo il 7 giugno 1941, che prevedeva la scelta del prelato dalla parte del capo dello Stato fra i tre candidati presentati dalla Santa Sede14. La sottolineatura dell’origine divina del potere e degli obblighi delle autorità civili degli Stati cristiani rimane in sostanza nel magistero papale della prima metà del Novecento. Pio XI scrive l’enciclica Ad salutem nell’anno 1930, quando sono passati 1500 anni dalla morte di Agostino d’Ippona. Nella corposa esposizione delle opere di Agostino, il pontefice arrivando alla Città di Dio, cita le lodi a Costantino (che «non invocava i demoni ma adorava lo stesso vero Dio») e a Teodosio, e più avanti scrive:
Quindi i principi e i governanti, avendo ricevuto la potestà da Dio affinché con l’opera loro si sforzino, ciascuno nei limiti della propria autorità, ad attuare i disegni della divina Provvidenza, cooperando con essa, evidentemente non debbono mai, per provvedere al benessere temporale dei cittadini, perdere di vista quel fine altissimo che è proposto a tutti gli uomini; e non solo non debbono fare od ordinare cosa alcuna la quale possa riuscire in detrimento delle leggi della giustizia e carità cristiana, ma anzi debbono rendere ai sudditi più agevole la via a conoscere e a conseguire beni non caduchi15.
Ed è su questa linea che si collocano le parole di Pio XII nell’enciclica di programma del pontificato che coincide con il primo anno della Seconda guerra mondiale:
La sovranità civile è stata voluta dal Creatore, come sapientemente insegna il Nostro grande predecessore Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei, affinché regolasse la vita sociale secondo le prescrizioni di un ordine immutabile nei suoi principi universali, rendesse più agevole alla persona umana, nell’ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica, intellettuale e morale e l’aiutasse a raggiungere il fine soprannaturale. È quindi nobile prerogativa e missione dello stato il controllare, aiutare e ordinare le attività private e individuali della vita nazionale, per farle convergere armonicamente al bene comune, il quale non può essere determinato da concezioni arbitrarie, né ricevere la sua norma primariamente dalla prosperità materiale della società, ma piuttosto dallo sviluppo armonico e dalla perfezione naturale dell’uomo al quale la società è destinata, quale mezzo16.
È da notare, però, che queste parole in certo modo già preannunciano i documenti del concilio Vaticano II, poiché il loro contesto non è più il tentativo della creazione dello «stato cristiano», ma l’opposizione ai sistemi totalitari, «dove dominio illimitato venga attribuito allo stato, quale mandatario della nazione, del popolo, o anche di una classe sociale». Il richiamo di Pio XII alla provenienza divina del potere non serve questa volta a giustificare il potere, ma a difendere i diritti fondamentali delle persone e delle comunità contro la tirannia: «Se il sommo Legislatore ha dato la potestà ai reggitori, ne ha per altro segnato e determinato i limiti»17. Questo insegnamento di Pio XII si colloca bene nella tradizione della Chiesa latina, la quale legava quasi sempre il mandato divino per le autorità civili con il fatto che queste non sono autorità supreme e sono responsabili davanti la Chiesa. Se Costantino non trovò una vera opposizione contro di lui fra il clero (tranne i donatisti in Africa), i suoi successori l’incontrarono regolarmente: Costanzo in Atanasio e Ilario di Poitiers, Teodosio I in Ambrogio – fatti, questi, mai dimenticati nella Chiesa.
A partire dagli anni della Restaurazione si riaffermò da parte dei papi la stretta alleanza con i monarchi (non solo cattolici). Anche se non si faceva ricorso diretto all’esempio di Costantino, era chiaro che il ruolo assegnato alle monarchie era la difesa della società cristiana contro le seduzioni liberali, ma anche la difesa del fragile status quo dello Stato Pontificio, indebolito dopo il periodo napoleonico e agitato dai vari moti popolari. Nello scambio di appoggio, i papi chiamavano i cattolici all’obbedienza incondizionata ai re, invocando anche l’esempio dei primi cristiani sempre leali agli imperatori-persecutori. Un esempio indicativo è l’enciclica di Gregorio XVI Mirari vos, pubblicata dopo la rivolta dei polacchi (cattolici) contro lo zar russo (ortodosso). La rivolta polacca, appoggiata da vari liberali occidentali come per esempio Felicité de Lamennais, offre al papa l’occasione per condannare generalmente tutti i moti che tendono a sovvertire il sistema in vigore e per lodare l’alleanza fra il trono e l’altare:
Avendo poi rilevato, da parecchi scritti che circolano fra le mani di tutti, propagarsi certe dottrine tendenti a far crollare la fedeltà e sottomissione dovuta ai principi, e ad accendere ovunque le fiamme del tradimento, vi esortiamo ad essere sommamente guardinghi, affinché i popoli per tali seduzioni non si lascino miseramente sviare dal retto sentiero. Riflettano tutti che, secondo l’avviso dell’apostolo, «non vi ha potestà se non da Dio, e che le cose che sono, furono ordinate da Dio. Chi perciò resiste alla potestà resiste all’ordine di Dio e quelli che resistono si procurano da se stessi la condanna» (Rm 13,2). Ecco perché e il divino e l’umano diritto gridano contro coloro i quali con trame infami e macchinazioni di tradimento e sedizioni impiegano i loro sforzi nel mancare di fede ai principi e nel balzarli addirittura dal trono. [...]
Né più lieti successi potremmo presagire per la religione e il principato dai voti di coloro che vorrebbero vedere separata la chiesa dal regno e troncata la mutua concordia dell’impero col sacerdozio. Poiché è troppo chiaro che dagli amatori d’una impudentissima libertà assai si teme quella concordia, che fu sempre fausta e vantaggiosa al sacro e al civile governo18.
Questa linea conosce però una trasformazione nell’insegnamento di Pio IX nel quale emerge una tensione crescente fra la regola dell’appoggio al potere stabilito e la realtà delle persecuzioni subite dal clero cattolico non solo da parte dei governi liberali e repubblicani di dubbia legittimità agli occhi degli intransigenti – i casi di Italia e Nuova Granada (sebbene la creazione delle repubbliche latinoamericane fu ben presto approvata da Gregorio XVI) – ma anche da parte dalle monarchie che facevano da pilastri per l’ancien régime – la Russia zarista e Germania degli Hohenzollern. Un caso particolarmente complicato era ancora quello della Polonia, dove le aspirazioni nazionali della popolazione cattolica si scontravano con il potere degli zar (che da parte loro, come padroni di Mosca – la Terza Roma – si ritenevano successori in linea diretta di Costantino). Nel 1864, dopo l’insurrezione polacca, Pio IX cercò di conciliare la difesa della popolazione e della Chiesa con il richiamo al potere stabilito:
Ci lamentiamo energicamente di tutto ciò che si è compiuto e si compie nel regno di Polonia e nelle altre regioni dell’impero russo contro la chiesa cattolica e i suoi sacri presuli, i ministri, i diritti, il patrimonio e i diletti figli della stessa chiesa, e protestiamo anche contro la persecuzione che il governo russo attua senza interruzione sulla chiesa, non abbiamo nessuna intenzione di approvare gli inconsulti moti disgraziatamente scoppiati in Polonia. Tutti sanno, infatti, con quanto zelo la chiesa cattolica abbia sempre inculcato e insegnato che ogni anima è suddita delle potestà superiori, che tutti sono sottoposti all’autorità civile e che a questa si deve assolutamente obbedire in tutte quelle cose che non contrastano con le leggi di Dio e della sua chiesa19.
Infine il capitolo VI del famoso Sillabo degli errori moderni (1864)20 si intitola Errori circa la società civile, considerata sia in se stessa sia nelle sue relazioni ed enumera tra le opinioni sbagliate soprattutto quelle che infrangevano la libertà della Chiesa mettendo lo Stato nella posizione di potere assoluto: «Lo stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale, che non è circoscritto da nessun confine» (§ 39), «L’autorità civile può immischiarsi nelle cose che riguardano la religione, i costumi e il regime spirituale» (§ 44). Si aggiunge però anche la critica delle scuole pubbliche non controllate in nessun modo dalla Chiesa (§ 45, § 47-48), e, fra le affermazioni più gravi, Pio IX condanna l’opinione che «la Chiesa deve essere separata dallo stato, e lo stato dalla chiesa» (§ 55) e che «nel nostro tempo non è più conveniente avere la religione cattolica come unica religione di stato, a esclusione di tutti gli altri culti» (§ 77). Il Sillabo conteneva frasi prese dalle allocuzioni del pontefice, ma esse raccolte insieme mostrano uno dei paradossi dell’Ottocento: la Chiesa era la più libera nella sua attività e il papa non condizionato nella nomina dei vescovi, proprio lì dove i cattolici erano minoranza – o per altri motivi – non si faceva nessun tentativo di istituire (o difendere) «lo Stato cattolico», cioè in Belgio e nei paesi anglosassoni.
Pio IX, accusando dopo il 20 settembre 1870 «la sacrilega usurpazione dei territori pontifici», invoca il diritto papale al dominio temporale come «evidentemente voluto dalla divina provvidenza» (l’idea del dono imperiale era già stata abbandonata da tempo) e deplora la perdita della posizione di privilegio della Chiesa cattolica a Roma:
Di conseguenza giudicammo che a Noi fosse assai meno lecito cedere tanta antica e sacra eredità (cioè il dominio temporale di questa santa sede posseduto per tanta serie di secoli dai romani pontefici Nostri predecessori per evidente volere della divina provvidenza), o tacitamente acconsentire che qualcuno si impadronisse dalla capitale del mondo cattolico, dove, sovvertita e distrutta la santissima forma di governo che fu da Gesù Cristo lasciata alla sua santa chiesa e regolata dai sacri canoni fondati sullo Spirito di Dio, sostituirebbe a questa un codice contrario e ostile non solo ai sacri canoni, ma anche ai precetti evangelici e introdurrebbe, come al solito, quel nuovo ordine di cose che tende apertamente ad associare e confondere con la chiesa cattolica tutte le superstizioni e le sètte21.
Alcuni degli ultramontani più accaniti dell’Ottocento vedevano proprio nel dominio temporale del Papa non l’ostacolo, ma l’aiuto nella sua missione spirituale. Così per Joseph de Maistre la storia si mescola con la leggenda, quando il più grande merito di Costantino diventa il trasferire la sede dell’Impero verso Oriente, lasciando così Roma ai pontefici. La futura invenzione della donazione di Costantino servirà solo per confermare ciò che era la vera intenzione dell’imperatore:
Il recinto medesimo non poteva accogliere l’Imperadore e il Pontefice. Costantino cedette Roma al Papa. La coscienza del genere umano ch’è infallibile non l’intese altrimenti, ed ebbe da ciò origine la favola della donazione, ch’è verissima. [...] Non v’ha dunque cosa più vera della donazione di Costantino. Da questo momento si sente che gli imperadori non sono più a Roma nella loro reggia22.
Questo del tema del potere temporale in relazione con l’imperatore Costantino è un elemento che sopravvive per lungo tempo come dimostra la gran pompa con cui fu celebrato l’anniversario costantiniano del 1913, strettamente legato alla ‘questione romana’ come osserverà, poco prima di morire, Baldassarre Labanca, primo professore di storia del cristianesimo dell’Università di Roma23. In quella occasione Giuseppe Toniolo lodava l’imperatore Costantino come fondatore dello Stato cristiano, uno Stato compreso come un luogo dove ognuno può cercare il proprio perfezionamento:
Verità del valore sociale del Cristianesimo […] è una prima fonte della coscienza pubblica cristiana, che in quella Fede la quale coinvolge ed innalza il pensiero, il sentire, ogni attività dell’uomo fino al sovrannaturale, addita ancora la fonte del massimo bene della società; sicché, accolta e rispettata, genera l’ordine e la perfezione civile; respinta e violata, apporta il disordine e la ruina nella società, e di riflesso nello Stato. [...] Tale ordine umano-sociale, che trova positiva e compiuta attuazione nel Cristianesimo rappresentato dalla Chiesa cattolica, ha virtù di promuovere una civiltà indefinitamente perfettibile24.
Non è allora solo lo Stato che appoggia la Chiesa, ma anche la Chiesa che garantisce allo Stato una salute morale. «Il riconoscimento e il rispetto dei diritti di Dio sono garanzia di ogni diritto umano e di ogni progresso civile»25. È nello stesso clima celebrativo che La Civiltà Cattolica ritorna più volte sul tema di Costantino e sulle conseguenze dei suoi atti, infatti la sua conversione è definita «la metamorfosi sociale più profonda della storia» con la quale «fu iniziato l’impero sociale della religione e della civiltà cristiana, che dura fino ad oggi e durerà fino alla consumazione dei secoli»26. Costantino appare quindi il protagonista, guidato dalla provvidenza, di una rivoluzione di passaggio di civiltà27 che assume una permanenza universale fino al tempo presente:
Onore pertanto al grande Costantino, che glorificando la Croce al cospetto di tutto il mondo, si mostrò veramente l’augusto mecenate, il patriarca laico di quella moralità cristiana, ch’è ancora il retaggio più prezioso della nostra civiltà! […]. L’aver pertanto attuato, con la gagliardia del suo genio e con tutta la possanza della sua sovranità imperiale, tale immensa trasformazione sociale è un merito incomparabile di Costantino Magno, per cui tutto il mondo civile gli è debitore di ammirazione sincera e di perenne gratitudine. Vero è che, per effetto dell’apostasia dominante, tale merito non viene oggidì degnamente apprezzato né universalmente riconosciuto; ma ciò non fa che confermarne il valore e accrescerne l’importanza28.
In corrispondenza con la linea della rivista vi sono diversi interventi di autorevoli gesuiti dell’epoca che, all’interno di trattazioni celebrative di tipo storico manifestano con chiarezza i propri presupposti teologici:
Ad ogni modo, non è all’uomo privato che in questo XVI centenario si leva la gratitudine del mondo cristiano. È al grande benefattore, che tolse dai ceppi tanti innocenti, spense i roghi, rinfoderò le spade. A lui che levò al vero Dio, a Pietro, a Paolo, ai martiri basiliche fulgenti di oro e musaici, diede essere civile al corpo della Chiesa e potestà di vivere liberamente alla luce del sole; a lui, che non volle che l’augusto segno della croce, per cui avea avuto vittoria, fosse più patibolo d’infamia; a lui finalmente liberatore non solo di Roma ma di tutto il mondo cristiano. Liberatori Urbis, Liberatori Orbis Cristiani29.
Non oso affermare che Costantino fin dal principio [...] pensava di tutte le leggi procristiane. Ma fin dal principio senza dubbio egli ebbe la persuasione interna di essere stato scelto da Dio, con un atto diretto e straordinario della sua provvidenza, per ministro e strumento di quella radicale trasformazione legislativa, che in grandissima parte poté eseguire egli stesso. […] Per mezzo di codesta trasformazione si compì il fatto mirabile, uno dei più meravigliosi registrati nella storia, che lo Stato romano cessò di essere pagano, cioè brutale, ferreo, dispotico, assorbente e persecutore, e diventò non solamente cristiano, ma sostenitore del Cristianesimo, alleato della Chiesa nell’opera eminentemente umanitaria di educare la mente e l’anima delle popolazioni, e procurare il loro morale e materiale miglioramento. Di tale trasformazione grandiosa e benefica gli effetti furono più visibili e tangibili nel millennio, che seguì la caduta dell’impero romano d’Occidente, ma sussistono ancora in gran parte e formano la base della civiltà di cui ora godiamo, la quale è nata dall’innesto nello Stato, e per lo Stato negli individui, dei principii evangelici sulla origine di tutti gli uomini dal solo Padre celeste, e quindi della loro fraternità, della loro eguaglianza innanzi a Dio ed alla legge, e della santa libertà dei figliuoli di Dio30.
Rispetto a questa posizione celebrativa i manuali e le monografie cattoliche della storia della Chiesa saranno complessivamente prudenti nel loro giudizio su Costantino, pur con notevoli eccezioni31. Infatti, pur esaltandone le gesta e la benignità nei confronti della Chiesa, pur accordando credibilità a ogni sorta di leggenda relativa a sogni e visioni, faranno cenno alla sua canonizzazione da parte della sola Chiesa orientale, sottolineando le riserve della Chiesa occidentale dovute a varie ragioni: lo scarso rispetto dell’imperatore per i papi, i suoi molti omicidi di congiunti, ma soprattutto l’appoggio al partito ariano e generalmente gli interventi nella politica ecclesiastica. Così la liberazione della Chiesa sarà già messa in pericolo dalle ombre del cesaropapismo32.
La permanenza della figura di Costantino e il giudizio positivo sulla sua opera ritornano più volte anche nel magistero del passato prossimo e del presente con toni riconoscenti e nostalgici. Infatti, nell’autunno del 1965, mentre si apriva l’ultima fase del concilio Vaticano II e appena qualche settimana prima della votazione su uno degli schemi più controversi, il decreto sulla libertà religiosa, Paolo VI fece un discorso in occasione della festa della consacrazione della basilica di San Pietro. Lo cominciò ricordando la figura di Costantino e i suoi meriti per la costruzione di essa. Il papa fece però anche un cenno diretto contro coloro che facevano del primo imperatore cristiano la bête-noire colpevole degli sviluppi nefasti nelle relazioni fra la Chiesa e lo Stato, contro la verità storica: «Appena l’esistenza legale e con essa la libertà fu riconosciuta alla Chiesa da Costantino (questo Imperatore, oggi tanto avversato da quelli stessi che patrocinano la libertà religiosa, da lui inaugurata!), subito incominciò la costruzione di edifici pubblici per il culto sacro»33.
Qualche anno dopo, Paolo VI dichiarò pericolosa la tendenza di cambiare tutto nella Chiesa, con il distacco totale della sua storia, salvando i tempi più antichi, spesso mitologizzati. Il papa dichiarò la definizione dell’epoca ‘costantiniana’ come una di quelle «ormai convenzionali, ma estremamente superficiali ed inesatte»:
Uno non può inventare una nuova Chiesa secondo il proprio giudizio, o il proprio gusto personale. Oggi non è raro il caso delle persone, anche buone e religiose, giovani specialmente, che si credono in grado di denunciare tutto il passato storico della Chiesa, quello post-tridentino in modo particolare, come inautentico, superato e ormai invalido per il nostro tempo; e così, con qualche termine ormai convenzionale, ma estremamente superficiale ed inesatto, dichiarano senz’altro chiusa un’epoca (costantiniana, preconciliare, giuridica, autoritaria...), e iniziata un’altra (libera, adulta, profetica) da inaugurarsi subito, secondo criteri e schemi inventati da questi nuovi e spesso improvvisati maestri34.
Successivamente, all’inizio del XXI secolo, sviluppandosi anche fra i vari movimenti ecclesiali una certa visione ‘tripartita’ della storia della Chiesa – tempi ‘buoni’ prima di Costantino, 1650 anni di ‘buio’ e di nuovo ‘Chiesa buona’ dopo il Vaticano II – Benedetto XVI nel primo anno del suo pontificato pronunciò un discorso alla Curia romana, dove contrappose due tipi di ermeneutica dei testi conciliari: «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», accusata di «rischiare di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare» e «l’ermeneutica della riforma», che sottolinea la continuità della dottrina della Chiesa, «senza attenuazioni o travisamenti». Benedetto XVI dà qualche spazio ai rapporti fra la Chiesa e Stato come uno dei nodi dei problemi della teologia affrontata dal mondo moderno. Il pontefice spiega «l’aspre e radicali condanne» del liberalismo radicale da parte dei suoi predecessori, ma non abbraccia l’ideale dello ‘Stato cristiano’. Un modello americano di «Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese» è abbastanza apprezzato, e «uomini di Stato cattolici» del primo e secondo dopoguerra sono lodati per «aver dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte al cristianesimo»35.
Invece nel suo viaggio in Libano nel 2012 Benedetto XVI fece riferimenti a Costantino, non solo come un cristiano, ma come un paladino della libertà religiosa:
È provvidenziale che questo atto [la firma dell’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Medio Oriente] abbia luogo proprio nel giorno della festa dell’Esaltazione della Santa Croce, la cui celebrazione è nata in Oriente nel 335, all’indomani della dedicazione della Basilica della Resurrezione costruita sul Golgota e sul sepolcro di Nostro Signore dall’imperatore Costantino il Grande, che voi venerate come santo. Fra un mese si celebrerà il 1700.mo anniversario dell’apparizione che gli fece vedere, nella notte simbolica della sua incredulità, il monogramma di Cristo sfavillante, mentre una voce gli diceva: «In questo segno, vincerai!». Più tardi, Costantino firmò l’editto di Milano [...]. Atti simili a quelli dell’imperatore Costantino che ha saputo testimoniare e far uscire i cristiani dalla discriminazione per permettere loro di vivere apertamente e liberamente la loro fede nel Cristo crocifisso, morto e risorto per la salvezza di tutti. [...] «Non temere, piccolo gregge» (Lc 12,32) e ricordati della promessa fatta a Costantino: «In questo segno, tu vincerai!»36.
Tutto questo è il segno della permanenza di una teologia costantiniana e dei suoi modelli ecclesiologici che avevano prodotto un regime di cristianità, nonostante il concilio Vaticano II avesse potuto segnare un primo momento di possibile trasformazione. Come alcuni anni dopo rileverà Chenu restituendo la sostanza del serrato confronto avvenuto fin dalla preparazione del concilio:
La commissione dottrinale preconciliare aveva elaborato uno schema completamente costruito su una ecclesiologia comunemente insegnata da tre secoli, soprattutto nelle scuole romane: la Chiesa è una società perfetta, mediatrice della Parola di Dio, provvista a questo scopo di poteri in materia di insegnamento e di governo, per garantire la verità e l’efficacia di tale Parola, grazie ad un apparato gerarchico dipendente dalla sovranità suprema del papa, allo scopo d’assicurare l’unità dei fedeli e la cattolicità della loro fede. Con questa impostazione, l’evento di grazia operatosi in Cristo si identifica con l’istituzione, la quale s’estende in certi istituzioni temporali che controllano, direttamente o indirettamente, le articolazioni della città umana, al punto che tali istituzioni diventano il luogo di passaggio obbligato e privilegiato dell’azione pastorale. La chiesa, mistero di Cristo nella storia, diventa una ‘società cristiana’, una ‘cristianità’, i cui diritti e privilegi operano un’integrazione sociale e culturale dei suoi membri nella vita profana, la quale, a sua volta, vi trova una garanzia della propria forza e della propria stabilità. Attraverso questa solidarietà di poteri, la Chiesa appare la custode dell’ordine stabilito, che ne risulta sacralizzato. Una simile concordanza potrà comportare, come di fatto è accaduto dei contrasti sulla linea di demarcazione di questi poteri; ma si presenta pur sempre come un discorso di tranquilla convivenza politica, potremmo dire di complicità di potenza, sociale e culturale37.
Questa complicità di potenza uscirà a fine Vaticano II in buona parte ridimensionata. Ma non saranno però i soli documenti prodotti dal concilio a segnare questa possibile trasformazione, quanto la consapevolezza che di fronte alla cristianità costantiniana cresceva in quegli anni la moltitudine dei poveri e degli esclusi38. Quella consapevolezza spinse alla promozione di iniziative, anche solo ufficiose, ma di grande rilievo e riconoscimento come quella del gruppo che – sotto la presidenza del cardinale Pierre Gerlier (vescovo di Lione) – prese il nome di ‘Gesù, la chiesa e i poveri’ e lavorò con continuità per tutta la durata del concilio, con particolare impegno dalla seconda sessione in poi39, anche se complessivamente riuscì solo in parte nell’intento di orientare lo stesso concilio in modo specifico su questi temi non arrivando a ottenere un segretariato o una commissione speciale che si occupasse di queste quattro grandi questioni: 1) esercizio della giustizia personale e sociale, specie con riguardo ai popoli in via di sviluppo; 2) pace e unità della famiglia umana; 3) evangelizzazione dei poveri e dei ‘lontani’; 4) esigenza di rinnovamento evangelico nei pastori e nei fedeli, in particolar modo attraverso la povertà40.
Tuttavia, nonostante la non ufficializzazione del gruppo, esso fu una delle esperienze più significative di quegli anni, una attività nella quale convergevano vescovi e periti provenienti dalle parti più disparate del mondo41 e che condividevano la comune attenzione alla centralità dei poveri per il concilio e per la Chiesa42, una scelta che lasciava intravedere come indiretta conseguenza la trasformazione delle relazioni con i poteri e in grado di porre in crisi ogni genere di costantinismo. Una prova di questo clima e di questa attenzione è nelle parole del padre redentorista Bernhard Häring, che intervistato da un gruppo di preti – studenti delle università pontificie romane – riguardo al tema della Chiesa dei poveri, scrisse tra l’altro:
Fino a Costantino, la Chiesa era povera. Fu lui il ‘seduttore’. Prima di lui la Chiesa era, in un certo modo, la Chiesa dei poveri e non solamente la Chiesa dei perseguitati. Abbandonando i privilegi di questo mondo, noi speriamo di sottrarci finalmente all’era costantiniana.
Ci sono infatti dei privilegi tipicamente mondani che non sono necessari alla vita della Chiesa come, per esempio, gli onori ed il fasto. Che queste cose siano considerate dei semplici problemi di coscienza, ecco lo scandalo. Forse è utile meditare il senso delle rivoluzioni, per esempio quella del 1789 in Francia e della più recente rivoluzione marxista. Il 1789 fu anche una protesta contro il clero, che si era troppo legato alla nobiltà per conservare i suoi privilegi. La stessa cosa si potrebbe dire della polemica dei vari movimenti socialisti (Proudhon, Marx) contro i pensatori dell’‘ordine sociale’ (De Bonald, De Maistre) che volevano dopo il 1789 ritornare indietro. La Chiesa, tuttavia, trasse profitto dalla rivoluzione, con la perdita di tutti i privilegi mondani. Ma anche dopo la rivoluzione questa grande lezione non è stata sempre accettata e si è continuato a cercare di riconquistare i privilegi scaduti. La perdita della classe operaia, ne è stata una conseguenza.
Non si potrà ricominciare l’evangelizzazione dei poveri se non attraverso un ritorno alla povertà reale della Chiesa, specialmente del clero in tutti i gradini della gerarchia. Tra le altre conseguenze dell’infeudamento, almeno apparente della Chiesa alle classi privilegiate (nel XIX secolo alla borghesia), bisognerebbe ancora citare il fatto che la liturgia e la cultura cattoliche sono divenute in genere inaccessibili ai poveri. Questi sono fatti. Così, non si sentirebbe il bisogno di adattare la Chiesa e la liturgia per renderle accessibili a tutti se non si sentisse il bisogno in noi stessi di adattarci spiritualmente al Cristo povero43.
Era su questa linea di sensibilità che si era già mosso il cardinale di Bologna Giacomo Lercaro, che fu di tutto l’episcopato italiano il più sensibile ad accogliere la proposta di questo gruppo informale di lavoro44. Ma, impossibilitato a prendervi parte per il carico di impegni e di riunioni di commissione, chiamò a Roma Giuseppe Dossetti con lo scopo che egli seguisse per lui i lavori del gruppo45.
E fu proprio Dossetti a offrire un decisivo contributo alla stesura del fondamentale intervento Chiesa e povertà che Giacomo Lercaro tenne il 6 dicembre del 1962 a conclusione della prima sessione del concilio46. Si trattò di un discorso di largo respiro e di grande sostanza tra quelli certo più importanti di tutto il concilio e che segnava la maggiore distanza da un modello di Chiesa costantiniana. Lercaro sostenne, nell’aula conciliare, che la povertà non era uno dei tanti temi di cui doveva occuparsi il concilio, ma l’aspetto costitutivo della Chiesa stessa perché: «questa è l’ora dei poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero»47.
Ciò si traduceva in un riconoscimento dei gravi doveri che il concilio avrebbe dovuto assolvere.
Perciò mi sembra dovere nostro in questa conclusione della prima tappa del nostro concilio riconoscere e proclamare solennemente: noi non faremo il nostro dovere, non sapremo intendere con animo aperto la volontà di Dio e l’attesa degli uomini su questo concilio, se non metteremo al centro a un tempo del suo insegnamento dottrinale e della sua opera di rinnovamento, il mistero di Cristo nei poveri, l’annunzio dell’evangelo ai poveri.
Questo infatti è il dovere più chiaro, più concreto, più attuale, più imperativo di un’età in cui, più che in qualunque altra, i poveri sembrano non essere evangelizzati e in cui i loro cuori sembrano alienati ed estranei al mistero di Cristo e della sua chiesa […].
Il tema del concilio è la chiesa, in quanto particolarmente chiesa dei poveri, di tutti i milioni e milioni di singoli uomini poveri, e collettivamente dei popoli poveri di tutta la terra. Precisato in questi termini l’oggetto proprio e immediato di questo concilio, mi sia consentito ora di fare alcune proposte concrete per il lavoro da svolgere, sin da ora, in vista della futura sessione.
1) Che nel lavoro da svolgere dal concilio d’ora in poi trovi, non soltanto un posto, ma vorrei dire il primo posto, la formulazione della dottrina evangelica della divina povertà del Cristo nella chiesa: il mistero dell’elezione divina che ha scelto la povertà come un segno e un modo – sacramentum magnum, dico, in Cristo et in ecclesia (Ef 5,32) – come un segno e un modo preferenziale di presenza e di forza operativa e salvifica del Verbo incarnato tra gli uomini48.
Lercaro poi tracciava gli obiettivi che avrebbe dovuto raggiungere il concilio:
la definizione generale di un nuovo stile e di un decoro delle autorità ecclesiastiche che non contrasti la sensibilità degli uomini del nostro tempo e specialmente dei poveri e che non ci faccia sembrare ricchi, mentre nella grande maggioranza non lo siamo; la fedeltà non solo individuale ma anche comunitaria alla santa povertà delle famiglie religiose; la liquidazione degli avanzi storici di strutture patrimoniali che, mentre non sono ormai di vera utilità per la chiesa e le sue opere, ingombrano come residui di un feudalesimo ormai del tutto tramontato, ecc.49
Quasi una conseguenza del clima creato dall’intervento di Lercaro negli anni successivi fu il gesto simbolico compiuto appena due anni dopo da Paolo VI che – dopo diversi riferimenti, in interventi ufficiali, dedicati ai poveri50 – il 13 novembre 1964 depose la preziosa e gemmata tiara51, donata a lui dalla diocesi milanese, sull’altare del concilio affinché servisse a sovvenire ai bisogni dei poveri52. Un gesto che era al tempo stesso un dono e una dichiarazione di rinuncia a un segno del potere temporale compreso come ormai obsoleto e inadeguato ai tempi nuovi preannunciati dell’esperienza del concilio.
È ben evidente quanto la centralità della questione della povertà segni la distanza e la rottura con ogni forma di costantinismo e di alleanza con i poteri, al di là e di più delle stesse dichiarazioni dei documenti conciliari. La complessiva marginalità del gruppo ‘Gesù, la chiesa e i poveri’ e l’insuccesso di mettere il tema al centro del concilio, riconoscendogli autonomia, restituisce l’immagine di quanto l’idea di una Chiesa povera si scontrasse con il modello plurisecolare di una ecclesiologia intenta a riconoscere e a essere riconosciuta dai poteri. Una ecclesiologia fondata sulla criticità e le sue esigenze di ordine politico e diplomatico. Nonostante ciò il Vaticano II ha lasciato una chiesa cattolica ben diversa da quella in seno alla quale si era aperto. La condizione di ‘cristianità’, che era ancora dominante in Europa e, mediante essa, nel cattolicesimo mondiale appare l’8 dicembre 1965, superata. Ne sopravvivono frammenti, talora anche tenacemente restii a prendere atto della svolta storica, che appaiono tuttavia sussulti nostalgici. Nella lunga durata, l’uscita dal periodo controriformistico e della stagione costantiniana caratterizza la ‘svolta’ avviata dal concilio, una svolta necessariamente complessa e graduale, di cui esso ha posto le premesse e segnato l’avvio53.
Ma si tratterà, come appunto scriveva Giuseppe Alberigo, di una premessa e di un avvio poiché un neocostaninismo si presenterà sotto altre forme e mascheramenti – nemmeno tanto lontani da quelli che Congar sembrava scorgere ad avvio del concilio – attraverso una non troppo marginale nuova proposta costantiniana che – dopo la crisi della ‘potenza’ della Chiesa – ne rilancia la sua ‘influenza’54 e in grado di segnare ennesime alleanze e riconoscimenti con i poteri politici, di occupare in quanto cattolici lo spazio pubblico e soprattutto di perseguire l’affermazione di un regime di cristianità erroneamente confuso con la Chiesa: «cristianità non è Chiesa: è certo una distinzione che è difficile applicare nelle sue frontiere dottrinali e istituzionali, ma che è urgente fare, in un mondo le cui dimensioni umane oltrepassano da ogni parte i confini dell’Occidente e la cui storia ci conduce decisamente fuori dalla cristianizzazione di Costantino»55.
Invece tale regime resta legato a un modello eurocentrico o filoccidentale che – riaffermando l’immagine-necessità di una Chiesa trionfante e tesa alla riconquista cristiana della società tanto cara a certo movimentismo integralista56 – pretende di imporre sé stesso come rappresentativo e assoluto di tutta la ricchezza dell’esperienza umana. Una comprensione di sé che si traduce in una volontà di occupazione della società in quanto cristiani57, nel controllo e nella gestione diretta di servizi e assistenza58, e nell’affermazione del primato dell’efficienza e del prestigio. Osserverà al riguardo Raffaele Nogaro, uno dei vescovi più attenti a valutare la condizione della Chiesa nel tempo contemporaneo:
Anche la Chiesa si è lasciata prendere dal criterio dell’immediata efficienza mondana. Ben organizzata per l’autocertificazione non sembra sufficientemente ‘povera di spirito’, priva cioè di sé, di valori propri, e piena di Spirito Santo […]. Una forma insana di ecclesiocentrismo fa sì che l’istituzione ecclesiastica viva quasi ossessionata dal suo potere e dal suo prestigio. Allora ci sono i concordati, gli accordi politici per la equa distribuzione dei poteri. Allora c’è nel clero una serie di promozioni, di nomine, di ascese, che trasformano la vita ecclesiastica in una competitiva carriera, piuttosto che in una testimonianza. Il superiore poi viene gratificato non tanto dalla fedeltà e dalla sollecitudine pastorale del dipendente, ma dalla sua obbedienza e dal suo ossequio59.
Ciò che scriveva il vescovo di Caserta Nogaro era in perfetta continuità con l’idea che guidava Chenu, oltre le illusioni e gli equivoci della plurisecolare era costantiniana, alla vigilia del concilio Vaticano II: «Non si tratta per la Chiesa di costruire un mondo cristiano, a fianco del ‘mondo’, ma di rendere cristiano il mondo così come si costruisce, come sta costruendosi in questo straordinario XX secolo»60. Ritornerà su queste idea di fine dell’era costantiniana Dossetti – a poco meno di trent’anni dalla conclusione del concilio – nel denso discorso autobiografico pronunciato a Pordenone nel 1994. Quell’era appare, all’anziano monaco, storicamente chiusa, concretamente sconfitta e moralmente improponibile:
C’è un’età che ha un regime mutato, un regime globale (culturale, sociale, politico, giuridico, estetico) non ispirato al cristianesimo. Cioè un’età non più di cristianità. Questo sì, e di questo dobbiamo convincerci. La cristianità è finita. E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvarne qualche rottame. Il sogno dello storico Eusebio di Cesarea – che ha idealizzato Costantino e la sua opera, anzi il regime che direi formalmente teodosiano più che costantiniano, di Teodosio il Grande che ha dato le prime linee di una struttura cristiana dell’Impero – è finito, irrimediabilmente finito. È finito dappertutto61.
Gli farà quasi eco l’anno dopo il vescovo di Milano Carlo Maria Martini, nell’annuale messaggio per la festa di Sant’Ambrogio, segnando un punto di non ritorno rispetto alle ennesime illusioni di nuovi costantinismi che si affacceranno in quegli anni sia attraverso teocon e atei devoti decisi a utilizzare il cristianesimo come elemento di identità culturale – quando non di esclusione sociale – sia attraverso progetti di ricristianizzazione dell’Europa e impegni a rideclinare in Italia l’idea di una società cristiana62:
La serena accettazione di essere minoranza richiede prima di tutto che si traggano tutte le conseguenze di mentalità e operative di quella che un tempo fu chiamata la ‘scelta religiosa’, che va oggi riproposta in modo adatto alle nuove circostanze, come scelta evangelica e profetica, con l’affermazione del primato di Dio e dell’Evangelo e le sue conseguenze per il bene della comunità umana63.
Questo pensiero di Martini, così tanto lungimirante e avvertito, sembra togliere terreno di coltura a qualsiasi neocostantinismo desideroso di imporre con ogni mezzo un modello cristiano. E la stessa apologetica sembra perdere il senso del proprio compito. Essa che non è in grado di riconoscere le responsabilità della cristianità nella storia, anzi sistematicamente le rifiuta. Infatti, quando nel 1977 Jean Delumeau presentò un’analisi sulla cristianità contemporanea dedicò molto spazio al presentare il passato della cristianità come un paese sfortunato, molto lontano dall’ideale immaginato dai tradizionalisti. Egli si concentrò sopratutto sulle persecuzioni nel nome di Cristo, sulle guerre di religione, sulla coercizione in materia di fede. Notò che tutto ciò aveva avuto inizio con ‘l’epoca costantiniana’, una eredità antica che sancì un legame indissolubile fra la religione e lo Stato, tra i vertici della Chiesa e quelli del potere politico. Un legame che si affermò nella Chiesa con il primo imperatore cristiano64. Proprio per questo Delumeau si lamentava per l’abbandono dell’idea di cominciare il concilio Vaticano II con una cerimonia di espiazione per i peccati del passato, ‘una volta per sempre’, per l’Inquisizione, per lo Stato Pontificio, per la concezione totalitaria dell’evangelizzazione, per la violazione delle coscienze e per ogni appoggio richiesto al braccio secolare.
Quella idea, che non venne accolta nel 1962, fu riproposta da Giovanni Paolo II nel 1994 prima nella sezione Reconciliatio et paenitentia contenuta nel promemoria Riflessioni sul grande giubileo dell’anno 200065 e poi nel 1997 nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente in preparazione all’anno del grande giubileo, anche se suscitò la perplessità – e talvolta l’opposizione – di diversi vescovi, di teologi e di opinionisti cattolici66. La necessità del riconoscimento delle colpe compiute da tante generazioni di cristiani e la conseguente proposta di purificazione della memoria67 fu ribadita nella lettera apostolica Incarnationis mysterium con la quale si indiceva il giubileo del 2000: «il segno della purificazione della memoria: chiede a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani»68.
Quell’atto di coraggio il papa lo espresse con chiarezza – segnando di fatto la distanza dal ‘costantinismo’ e dalle sue implicazioni il 12 marzo 2000 – quando nella basilica di San Pietro il papa chiese perdono perché
in certe epoche della storia i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza e non hanno seguito il grande comandamento dell’amore – perché – molte volte, i cristiani hanno sconfessato il Vangelo e, cedendo alla logica della forza, hanno violato i diritti di etnie e di popoli, disprezzando le loro culture e le loro tradizioni religiose – perché tanti – hanno commesso ingiustizie confidando nella ricchezza e nel potere, e disprezzando i ‘piccoli’69.
Quelle parole, così tanto impegnative e sofferte, sembrano essere rimaste però in parte confinate nelle navate della Basilica di San Pietro e oggi, a distanza di oltre un decennio e nonostante alcuni significativi sforzi, non hanno ancora prodotto le straordinarie conseguenze attese.
1 Y. Congar, Diario del Concilio, I, Cinisello Balsamo 2005, p. 148.
2 Ivi, p. 153.
3 Cfr. F. Heer, Das Experiment Europa. Tausend Jahre Christenheit, Einsiedeln 1952; G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Bologna 2012, p. 54: «L’aspetto teologico-politico che avrebbe dato forma al millennio cristiano aveva le proprie radici a Bisanzio, con Costantino: il discorso di Heer era centrato in questo senso sul nodo dell’alleanza fra i due poteri, istituita esemplarmente da Eusebio di Cesarea, e che resterà in auge almeno fino alla Francia del Re Sole e alla Restaurazione. Era stato infatti Eusebio la figura guida, il campione di quei vescovi di corte che nei secoli successivi, fino alla glorificazione di Luigi XIV ad opera di Bossuet e anche oltre, avevano elaborato argomentazioni teologiche, portato la stessa grazia di Dio a supporto dei potentati politici vigenti».
4 Si trattava di un discorso che, pubblicato sul bollettino diocesano (Kirchliches Amtsblalt für die Erzdiözese Paderbon, 1 (1960), pp. 4 segg. avrebbe avuto – dopo essere stato riportato sulla rivista Orientierung, 24 (1960), p. 31 – vasta eco anche fuori dalla Germania ispirando una quantità di interventi e di analisi. Cfr. per un quadro di questo vivace dibattito D. Menozzi, Tra vecchio e nuovo Costantinismo. Il dibattito interno al mondo cattolico, in Una nuova pace costantiniana? Religione e politica negli anni ’80, a cura di G. Ruggieri, Casale Monferrato 1985, p. 29.
5 Su questo tema del pensiero di Chenu e sulle sue fonti si veda il recente e documentatissimo volume di G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, cit., p. 27. Si nota che l’espressione ‘fine dell’era costantiniana’ fu utilizzata innanzitutto negli ambienti evangelici tedeschi, come riflessione sulla risposta inadeguata dei cristiani nei confronti del Terzo Reich. Cfr. W. Kahle, Über den Begriff “Ende des konstantinischen Zeitalters”, in Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte, 17 (1965), pp. 206-234.
6 Cfr. S. Tanzarella, Sogni e segni per vincere una guerra, in Uso pubblico della storia del cristianesimo antico, a cura di S. Adamiak, S. Tanzarella, Trapani 2013.
7 Cfr. M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana (1961), in Un Concilio per il nostro tempo, Brescia 1962, pp. 46-68.
8 Ivi, pp. 47-48.
9 Ivi, p. 54.
10 Concordato fra Pio VII e Ferdinando I Re delle due Sicilie, in Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la Santa Sede e le Autorità Civili, a cura di A. Mercati, I, Città del Vaticano 1954 (nuova edizione), pp. 620-621.
11 Ivi, p. 633.
12 Ivi, pp. 634-635.
13 Art. XII del Concordato con la Polonia a. 1925, in Raccolta di concordati su materie, cit., II, p. 33.
14 Ivi: Art. VII del Concordato con la Spagna a. 1953, p. 253; art. III della Convenzione con la Spagna, p. 274.
15 Pio XI, Ad salutem, in Enchiridion delle encicliche, V, Bologna 1995, pp. 553-555.
16 Pio XII, Summi pontificatus, in Enchiridion delle encicliche, cit., VI, Bologna 1995, pp. 45-47.
17 Ibidem.
18 Gregorio XVI, Mirari vos, in Enchiridion delle encicliche, cit., II, Bologna 1996, pp. 45-49.
19 Pio IX, Ubi Urbaniano, in Enchiridion delle encicliche, II, cit., p. 495.
20 Pio IX, Quanta cura, in Enchiridion delle encicliche, cit., pp. 521-545.
21 Pio IX, Respicientes ea omnia, in Enchiridion delle encicliche, cit., pp. 567-569.
22 J. de Maistre, Du pape, VI/2, Lyon 18202, pp. 200-201 (trad. it. Del Papa, Imola 1822).
23 B. Labanca, Le feste Cattoliche per il XVI centenario di Costantino il Grande, Napoli 1912, p. 12: «Perché la Chiesa cattolica promovè tali feste dopo tanti secoli? Lo scopo è tutto politico, volendo in Vaticano contrapporre le feste costantiniane alle feste cinquantenarie compiute dall’Italia in quest’anno 1912. Certamente lo scopo non è lodevole, implicando il desiderio vano ed esoso di riavere un potere temporale che allontanò la Chiesa dalla vita cristiana in tutto il medio evo e in altri secoli dell’evo moderno. Se lo scopo del Vaticano fosse stato apertamente religioso, forse i protestanti in generale ne avrebbero fatto parto in considerazione della pace resa da Costantino al Cristianesimo, non alla sola Chiesa Cattolica. È doloroso estremamente che i cattolici mescolano in molti atti non una politica difensiva della religione, ma una politica offensiva all’Italia!».
24 G. Toniolo, Problemi ed ammaestramenti sociali dell’età costantiniana, in Letture costantiniane, Roma 1914, pp. 137-190, in partic. 189.
25 Ivi, p. 160.
26 Costantino Magno e l’unità cristiana, in La Civiltà Cattolica, 64 (1913), II, p. 257.
27 Ivi, p. 275: «L’unificazione cristiana della società romana, promossa da Costantino con tanta energia ed efficacia nel suo lungo governo, dall’editto di Milano al concilio di Nicea, e di cui egli certamente non comprese l’entità e l’importanza, lo rese strumento principale nelle mani della Provvidenza, per compiere la più grandiosa rivoluzione della storia: il passaggio della civiltà degenerata di Roma pagana alla civiltà incorruttibile di Roma cristiana».
28 Costantino Magno e la moralità cristiana, in La Civiltà Cattolica, 64 (1913), III, pp. 686, 691.
29 P.F. Grossi-Gondi, La grande vittoria di Costantino. Conferenza tenuta nella sala della Cancelleria, Roma 1914.
30 F. Savio, L’apparizione della croce e la conversione di Costantino Magno, Roma 19132, pp. 84-85.
31 Non è qui la sede per offrire una rassegna di questa imponente bibliografia e delle varie sfumature relative alla trattazione della figura di Costantino e delle conseguenze della sua politica. Tuttavia è innegabile quale influenza alcune di queste opere hanno avuto nel corso del tempo sulla formazione del clero e dunque sul costituirsi di una diffusa mentalità costantiniana. Si pensi per esempio al Corso di storia ecclesiastica dalla creazione del mondo fino ai giorni nostri comparata con la storia politica dei tempi (4 voll., Napoli 1855) scritta dal domenicano Tommaso Michele Salzano, decano a Napoli del Real Collegio dei Teologi, di fede borbonica e di grande potere ecclesiastico anche dopo l’Unità d’Italia: «Conchiuder dunque possiamo esser stato Costantino in tutto il corso di sua vita Cristiano di cuore, non avere per umane vedute abbracciata la novella religione, non aver ritenuto alcun avvanzo della idolatria, non avere inclinato al partito ariano, infine se alcuni pochi falli commise, questi attribuirsi debbono soltanto alla umana debolezza» (p. 360).
32 Cfr. P. Batiffol, La paix constantinienne et le catholicisme, Paris 19294, pp. 394-395; F. Mourret, J. Carreyre, Précis d’histoire de l’Église, I, Paris 1930, p. 129; R.F. Rohrbacher, Storia universale della Chiesa Cattolica, III, Torino 1864, pp. 659, 671.
33 Paolo VI, Il discorso del 17 novembre 1965, in Insegnamenti di Paolo VI, III, Città del Vaticano 1966, p. 1101.
34 Paolo VI, Il discorso del 24 settembre 1969, in Insegnamenti di Paolo VI, cit., VII, Città del Vaticano 1970, pp. 1070-1071.
35 Benedetto XVI, Il discorso del 22 dicembre 2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI (2005), I, Città del Vaticano 2006, pp. 1024-1027.
36 Benedetto XVI, Il discorso del 14 settembre 2012 alla basilica si St Paul a Harissa, consultabile online: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2012/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20120914_firma-es-ap_it.html (15 mar. 2013).
37 M.-D. Chenu, La chiesa dei poveri al Vaticano II, in Concilium, 13 (1977), p. 90.
38 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 68: «In questo periodo in cui due uomini su tre hanno fame e fanno della loro miseria economica la molla della loro speranza, la Chiesa non può non lasciarsi prendere dal fremito del Vangelo. Il mito di Costantino lascia il posto, come nel XIII secolo presso gli ordini mendicanti, al mito della comunità primitiva di Gerusalemme».
39 Cfr. J. Famerée, Vescovi e diocesi (5-15 novembre 1963), in Storia del Concilio Vaticano II, III, Il concilio adulto, settembre 1963-settembre 1964, a cura di G. Alberigo, Bologna 1998, p. 182.
40 H. Raugher, Fisionomia iniziale dell’assemblea, in Storia del Concilio Vaticano II, III, cit., p. 229.
41 Cfr. J. Famerée, Vescovi e diocesi (5-15 novembre 1963), cit., p. 182 note 152 e 153.
42 Per una sintesi di quella esperienza cfr. P. Gauthier, La Chiesa dei poveri e il Concilio, Firenze 1965, un libro ancora oggi di straordinaria ricchezza nel quale oltre a ricostruire le prime fasi del gruppo del Collegio belga sono raccolte le riflessioni, gli interventi pubblici e le reazioni di un nutrito gruppo di vescovi e di periti di fronte al tema dei poveri e della Chiesa povera.
43 Citato in ivi, pp. 182-183.
44 Ai lavori prese parte in un secondo tempo anche Luigi Bettazzi, ausiliare di Bologna, cfr. L. Bettazzi, La Chiesa dei poveri nel Concilio e oggi, Villa Verrucchio 2001.
45 Cfr. G. Lercaro, Lettera del 5 novembre 1962, in Id., Lettere dal Concilio, a cura di G. Battelli, Bologna 1980, p. 99; F. Mandreoli, Giuseppe Dossetti, Trento 2012, p. 72: «Il 5 novembre del 1962 è nel piccolo eremo di Sant’Antonio e suor Agnese (Franca Magistretti) gli fa avere un biglietto in cui gli si comunica che Lercaro desidera che egli vada il giorno dopo a Roma per partecipare a una riunione del gruppo che si raduna intorno a Padre Paul Gauthier sui temi della ‘Chiesa dei poveri’. Da quel giorno Dossetti si trasferisce praticamente a Roma fino all’8 dicembre del 1965, giorno di chiusura del concilio».
46 Su questo aspetto decisivo del contributo di Dossetti e sulle redazioni del testo cfr. C. Lorefice, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Vaticano II, Milano 2011, pp. 175-186.
47 G. Lercaro, Chiesa e povertà, in Id., Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del cardinale Giacomo Lercaro, Bologna 1984, p. 115.
48 Ivi, pp. 117-119.
49 Ivi, p. 122.
50 Cfr. La Civiltà Cattolica, 115 (1964), IV, pp. 507-508.
51 Cfr. N. Tanner, La Chiesa nelle società, in Storia del Concilio Vaticano II, cit., IV, La chiesa come comunione, settembre 1964-settembre 1965, Bologna 1999, pp. 401 segg.
52 Cfr. Osservatore romano, 14 novembre 1964.
53 G. Alberigo, Transizioni epocali, in Storia del Concilio Vaticano II, cit., V, Concilio di transizione, settembre-dicembre 1965, Bologna 2001, pp. 617-618.
54 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 55.
55 Ivi, p. 60.
56 Si pensi per esempio al movimento di Comunione e liberazione, alle accuse lanciate nel 1987 da quella associazione – attraverso la propria rivista Il Sabato – contro la memoria di Giuseppe Lazzati ex presiedente dell’Azione cattolica milanese ed ex rettore dell’Università del Sacro Cuore. L’eminente e riconosciuta figura di Lazzati era usata come pretesto per muovere un attacco più esteso a tutto il cattolicesimo italiano resosi responsabile, a dire della rivista, di un arretramento della presenza cristiana – diretta e organizzata – nella società attraverso anche la cosiddetta ‘scelta religiosa’ e un conseguente atteggiamento remissivo nei confronti del compito primario di cristianizzazione della società italiana. Scrive al riguardo Daniele Menozzi in D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993, pp. 240-241 (per tutta la vicenda pp. 238-255): «La dichiarata adesione alle generali tesi dell’intransigentismo ottocentesco – secondo cui il mondo moderno è il frutto di un progressivo allontanamento dalla direzione ecclesiastica della società iniziato con la Riforma protestante, continuato con la Rivoluzione francese e culminato con quella bolscevica – veniva applicata a un complessivo disegno interpretativo della recente storia italiana. La secolarizzazione del paese era infatti presentata come il risultato del complice e colpevole apporto che la dirigenza del laicato cattolico aveva offerto nel secondo dopoguerra al secolare complotto delle forze ostili al controllo della chiesa sulla vita associata».
57 Scriverà Guido Formigoni riguardo a Comunione e liberazione: «dopo il 1978 il movimento prese a valorizzare fortemente una parte del magistero del nuovo papa Giovanni Paolo II, e in particolare il richiamo sul ‘diritto-dovere’ della Chiesa a esprimere la propria identità e la propria missione e addirittura a ‘guidare la nazione’, per il collegamento della sua storia a quella delle diverse nazioni dove si era incarnata» (G. Formigoni, Alla prova dela democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ‘900, Trento 2008, p. 184).
58 Si vedano per esempio i risultati ottenuti dalla Compagnia delle Opere, in nome della presenza cristiana organizzata nella società, quanto a scandali e occupazione capillare del potere, cfr. S. Cannetta, E. Milanesi, Cosa loro. I serenissimi della Compagnia delle opere, Roma 2011.
59 R. Nogaro, I risparmi della Chiesa, Molfetta 1997, pp. 18, 29.
60 M.-D. Chenu, La fine dell’era costantiniana, cit., p. 65.
61 G. Dossetti, Un itinerario di vita e di fede, in Id., Il vangelo e la storia, Milano 2012, p. 34.
62 Cfr. E. Galavotti, Il ruinismo. Visione e prassi politica del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, 1991-2007, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2011, pp. 1219-1238.
63 C.M. Martini, Tempo per tacere, tempo per parlare, in Il Regno, 41 (1996), p. 32.
64 Cfr. J. Delumeau, Il cristianesimo sta per morire?, Torino 1978.
65 Giovanni Paolo II, Promemoria al V Concistorio straordinario, in Il Regno, 41 (1994), p. 453: «Bisogna che anche la Chiesa, alla luce di quanto il Concilio Vaticano II ha detto, riveda di propria iniziativa gli aspetti oscuri della sua storia valutandoli alla luce dei principi del Vangelo».
66 Cfr. per esempio G. Biffi, Christus hodie. Nota pastorale in preparazione al Congresso eucaristico nazionale del 1997 e al grande giubileo del 2000, Bologna 1995, pp. 23 segg.; S. Maggiolini, Perché la Chiesa chiede perdono, Casale Monferrato 2000, p. 42; L. Negri, Controstoria. Una rilettura di mille anni di vita della Chiesa, Cinisello Balsamo 2000, p. 59; V. Messori, Qualche domanda al Pontefice penitente, in Corriere della sera, 9 marzo 2000.
67 Cfr. S. Tanzarella, La purificazione della memoria. Il compito della storia tra oblio e revisionismi, Bologna 2001.
68 Acta Apostolicae Sedis, 91 (1999) p. 139, consultabile online: http://www.vatican.va/jubilee_2000/ docs/documents/hf_jp-ii_doc_30111998_bolla-jubilee_it.html (15 mar. 2013).
69 http://www.vatican.va/news_services/liturgy/ documents/ns_lit_doc_20000312_prayer-day-pardon_it.html (15 mar. 2013).