Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In età cartesiana il momento decisivo del dibattito sul male è rappresentato da Bayle e dalla sua analisi critica del concetto cristiano di Dio, che avrà grande influenza, ma alla quale Leibniz replica con la tesi del migliore dei mondi possibili in quanto scelto da Dio. Al dibattito sulle tesi leibniziane seguono le considerazioni pessimistiche di Voltaire e la nuova strada indicata da Rousseau con l’analisi della civilizzazione. Hume e soprattutto d’Holbach traggono le conseguenze più radicali dalle tesi di Bayle, mentre Kant sancisce, dopo qualche incertezza, l’impossibilità di una teodicea dal punto di vista della ragione.
Le tensioni del cartesianesimo: Malebranche
L’antico problema del male e della “teodicea” – un termine che verrà coniato da Leibniz – viene discusso intensamente nell’età cartesiana, pur se Cartesio non dedica un’attenzione specifica al problema: da un lato, egli riprende posizioni tradizionali come la riconduzione agostiniana del male nel suo complesso al male cosiddetto “metafisico”, ovvero inteso come mera “privazione” del bene e dipendente dalla finitezza dell’uomo; dall’altro, offre spunti che verranno sviluppati nei decenni successivi.
Ad uno di questi spunti si collega Nicolas Malebranche (1638-1715), il quale presta al tema ben altra attenzione, soprattutto nel Trattato della natura e della grazia (1680). Malebranche non accetta la soluzione agostiniana del male metafisico come semplice privazione, e sviluppa una suggestione cartesiana che corrisponde alla nuova immagine del mondo della scienza moderna: la natura è retta da leggi semplici e universali. L’uniformità della natura è data infatti dalla saggezza divina – il predicato di Dio che Malebranche mette in primo piano rispetto alla giustizia o alla bontà – e le sue leggi sono, appunto, leggi universali. La presenza del male è la conseguenza di questa generalità delle leggi naturali e non sarebbe saggio, per Dio, intervenire su ogni singolo avvenimento contravvenendo ad esse. Se Malebranche riprende un’indicazione cartesiana, la sua posizione entra in conflitto con un’altra tesi importante dell’autore delle Meditazioni, ovvero l’onnipotenza di Dio vista come sua assoluta libertà. La semplicità e la generalità delle leggi della natura finiscono infatti per essere un ordine dotato di un valore proprio, punto di riferimento dello stesso agire divino. Cartesio, al contrario, aveva spinto la libertà divina fino a renderla liberamente creatrice di ogni verità o regola morale. Così facendo, Malebranche va incontro all’obiezione di limitare l’onnipotenza divina, come infatti gli viene fatto rilevare da Antoine Arnauld (1612-1694), il cartesiano giansenista di Port-Royal, con il quale intavola una significativa polemica.
Critica e difesa della teodicea: Bayle e Leibniz
Per il tentativo di giustificare la presenza del male nel mondo messa a confronto con l’ipotesi di un Dio buono, onnipotente e giusto si vanno però presentando ben altre difficoltà. La strategia di Pierre Bayle (1647-1707) nell’attaccare una presunta immagine razionale del Dio cristiano e quindi la compatibilità tra fede e ragione ha il suo nucleo proprio nell’esame della teodicea. Soprattutto nel Dizionario storico-critico (1697), Bayle mostra la natura intrinsecamente contraddittoria del Dio cristiano proprio in riferimento al problema del male. Questa contraddittorietà consiste nell’incompatibilità dei diversi predicati del Dio cristiano tra loro: bontà, giustizia, onnipotenza non possono razionalmente coesistere in un essere la cui creazione mostri così evidenti segni negativi, si tratti della malvagità degli uomini o del dolore fisico. Nelle voci del Dizionario che trattano il manicheismo (Manichei, Marcioniti, Pauliciani), a questo carattere contraddittorio del Dio cristiano viene data un’immagine definita proprio attraverso il manicheismo: quest’ultimo, che si fonda sull’idea di due distinti principi, uno del bene e uno del male, è molto più convincente nella spiegazione razionale del male, opponendo un principio del bene ad uno del male. L’idea, poi, che il male sia una semplice privazione, e non qualcosa di effettivo, contrasta con l’esperienza indubitabile del dolore e della malvagità. Né si capisce come il dolore possa essere la punizione per il peccato: un Dio buono e onnipotente avrebbe dovuto piuttosto creare Adamo senza la tendenza al male. La ragione umana non è in grado di offrire una spiegazione adeguata del male del mondo: nella scelta tra la ragione (o la filosofia) e la fede dobbiamo optare o per l’una o per l’altra, e se Bayle dichiara di schierarsi per la fede, lascia intravedere la possibilità che la scelta possa essere diversa, quando si voglia rimanere sul piano della razionalità. Nei decenni successivi, infatti, i suoi argomenti costituiranno un formidabile arsenale critico.
Già il titolo dell’opera di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, del 1710, implica la contrapposizione a Bayle: l’accento cade infatti proprio sul predicato divino sul quale la critica di Bayle aveva più insistito, la bontà. Inoltre, la trattazione vera e propria viene preceduta da un “discorso” sulla conformità della fede con la ragione che intende neutralizzare la radicalità della critica bayliana. Leibniz muove dalla ripresa di argomenti apologetici tradizionali, a partire da quella distinzione tra ciò che è contro la ragione e ciò che è al di sopra di essa che Bayle aveva ritenuto irrilevante: per Bayle, la distinzione non vale per la ragione divina, perché i misteri non sono né contro né sopra di essa, ma nemmeno per la ragione umana, che non può spiegare né ciò che è contro la ragone né ciò che è al di sopra di essa.
Il razionalismo leibniziano si contrappone a due posizioni che vengono ritenute ugualmente errate e pericolose. Da un lato, contro Bayle, si tratta di offrire una giustificazione razionale della bontà e della giustizia di Dio; dall’altro, si tratta invece di sottolineare il fatto che non c’è una differenza assoluta, o qualitativa, tra ragione umana e ragione divina, come invece sostenuto, a parere di Leibniz, da Cartesio e da alcuni cartesiani. Questi ritengono che Dio sia dotato di una libertà assoluta, e che le stesse verità eterne dipendano da una sua decisione. Leibniz – come Malebranche – rifiuta quindi una concezione volontaristica, o “arbitraristica”, di Dio, sostenendone invece un’immagine razionalistica: le regole della giustizia divina sono le nostre stesse regole. Le “perfezioni” divine non sono diverse dalle nostre, per quanto senza i limiti della ragione umana: il nostro “lume naturale”, la ragione, differisce dalla ragione divina solo dal punto di vista quantitativo, per quanto questa differenza quantitativa sia grandissima, come – scrive Leibniz – una goccia d’acqua rispetto all’oceano.
La difesa leibniziana della teodicea si fonda anche – lo si è accennato – su argomenti tradizionali. Innanzitutto, egli si preoccupa di minimizzare la presenza del male, sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista morale: è, ancora una volta, una replica al quadro pessimistico tracciato da Bayle. Anche Leibniz si serve, tra l’altro, di un argomento apologetico diffuso e che aveva le sue radici nei Dialoghi sulla pluralità dei mondi di Fontanelle (1686). Seppure dolore e malvagità fossero prevalenti sulla terra, essi non lo sarebbero in altri pianeti dello sconfinato universo creato da Dio. Altrettanto tradizionali sono argomenti ripresi da Leibniz come la necessità di un bene particolare per il bene dell’intero, l’idea del male come privazione o l’immagine di una “grande catena dell’essere”.
Al di là di quanto detto, e della dotta rassegna che in questo senso la Teodicea leibniziana rappresenta, il contributo originale di Leibniz al problema del male sta nella famigerata tesi del “migliore dei mondi possibili”. Leibniz propone cioè un effettivo nuovo argomento in difesa della teodicea, del tutto differente da quelli tradizionali.
L’intelletto divino contiene per Leibniz l’intero ambito della possibilità, tutti i mondi possibili, ovvero tutto ciò che non è contraddittorio: la creazione consiste nella scelta divina di una determinata combinazione di possibilità. Per divenire reale, ogni possibilità deve essere “compossibile”, ovvero compatibile, con gli altri elementi della combinazione, cioè di un mondo. Leibniz intende in questo modo rispondere alla domanda che attraversa poi la filosofia occidentale fino a Martin Heidegger (1889-1976): “perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?”. L’idea che il mondo presente sia il migliore dei mondi possibili non è frutto di una considerazione minimizzante del male che vi si può trovare, né del tentativo di mostrarne la funzionalità in vista del bene o di altre considerazioni a posteriori, ma di una tesi del tutto a priori sul funzionamento della deliberazione divina a partire dal fatto dell’esistenza del mondo. Qualunque altro mondo sarebbe peggiore di questo, anche se ciò non può essere mostrato, scrive Leibniz “nel dettaglio”, perché l’uomo non è minimamente in grado di rappresentarsi, come l’intelletto divino, tutte le combinazioni possibili. Si deve quindi partire piuttosto dal fatto che Dio ha scelto “questo mondo così come è”. Così come la volontà umana, per quanto con capacità infinitamente maggiori, anche la volontà divina funziona secondo il principio di ragion sufficiente: Dio non avrebbe creato il mondo se non ci fosse stato un unico migliore tra i mondi possibili: altrimenti, egli non avrebbe creato nulla.
Teodicea e “ottimismo”
La discussione sulla teodicea nel Settecento è segnata in buona parte dalla presenza di Leibniz e dalla discussione sulla contrastata tesi del “migliore dei mondi possibili”. Oltre ai sostenitori, come il filosofo tedesco Christian Wolff (1679-1754), non mancano i critici, se non altro per il pericolo che molti vedono nella tesi di Leibniz sulla libertà di Dio e sul peccato.
A queste due preoccupazioni si ispira anche la recensione che l’autorevole e influente rivista dei gesuiti – le “Mémoires de Trévoux” – dedica alla seconda edizione della Teodicea (1734), dove viene anche coniato il termine “ottimismo”, un neologismo che avrà gran successo non soltanto nel linguaggio filosofico e letterario, ma anche nell’uso quotidiano. Nel tentativo di ironizzare sulla tesi leibniziana, si dichiara che il sistema leibniziano è “il sistema dell’optimum, o l’ottimismo”, nel quale del resto si fanno rientrare, oltre a Leibniz, il poeta inglese Alexander Pope (1688-1744), Voltaire (1694-1778) e addirittura Malebranche. L’obiettivo polemico dei gesuiti è la valutazione incondizionatamente positiva di un mondo nel quale, per colpa dell’uomo, è presente il peccato, una tesi condivisa da cattolici e protestanti.
L’accostamento di Leibniz a Pope, autore nel 1733 del Saggio sull’uomo , diventa un luogo comune tanto da venire esplicitato, nel 1753, nel bando di concorso proposto per un premio dell’Accademia delle Scienze di Berlino: verrà premiato il saggio che meglio analizzerà la questione dell’ottimismo, appunto, di Leibniz e di Pope. Vale appena la pena di ricordare che l’attitudine antiwolffiana dell’Accademia di Berlino ha per esito l’assegnazione del premio a un critico dell’ottimismo; più interessante è che al dibattito partecipino in forma diversa intellettuali di prima grandezza.
In realtà, Leibniz e Pope condividono ben poco, se si eccettuano le comuni influenze neoplatoniche che si esprimono in argomentazioni apologetiche tradizionali presenti anche altrove, per esempio nel dialogo I moralisti (1704-1709) di Antony Ashley Cooper conte di Shaftesbury, fondato sull’idea di un’armonia universale, che costituisce la fonte principale di Pope.
La crisi dell’ottimismo e la questione dell’uomo
Con l’inoltrarsi nel secolo XVIII viene meno l’interesse per i grandi sistemi metafisici caratteristici del Seicento, mentre si sviluppa una crescente attenzione per la condizione umana. In questa prospettiva, la valutazione positiva della realtà del mondo viene scossa il 1° novembre del 1755 dal terremoto di Lisbona, che rappresenta, anche e soprattutto per il momento in cui ha luogo, la crisi del finalismo antropocentrico: l’uomo non viene trattato dalla natura in modo privilegiato.
Il documento letterario più significativo del terremoto di Lisbona è certamente il Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire, con la sua desolata constatazione della miseria della condizione umana. L’iniziale “ottimismo” di Voltaire è venuto meno: la riflessione sul male, sulla miseria della condizione umana e sull’insufficienza delle spiegazioni offerte dalla limitata mente umana diventa un suo tratto caratteristico, presente nelle voci del Dizionario filosofico (1764) e in forma letteraria nel romanzo Candido, o l’ottimismo (1759), racconto brillante delle sventure del giovane protagonista, esplicitamente pensato per ridicolizzare, banalizzandola, la tesi leibniziana del migliore dei mondi possibili, ossessivamente ripetuta da uno dei protagonisti, il professor Pangloss (probabile parodia del leibniziano Christian Wolff). Il libro intende dileggiare qualunque immagine “ottimistica” del mondo e della realtà: è con il Candido, tra l’altro, che il termine “ottimismo” ottiene davvero grande diffusione.
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) reagisce al poema di Voltaire su Lisbona ribadendo una propria nuova prospettiva di indagine: dall’analisi della condizione umana si passa con Rousseau a una considerazione dell’uomo, e dello stesso problema del male, inserendolo in una dimensione sociale e storica.
Già nel commentare, nel Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini (1755), l’affermazione di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) di una prevalenza del male sul bene nella vita umana, Rousseau non ne nega la validità, ma ne intende mostrare il carattere sociale e storico: la diagnosi di Maupertuis può essere corretta, ma riguarda l’uomo civilizzato, non l’uomo naturale. Un anno dopo, nella lettera a Voltaire del 18 agosto 1756 con la quale replica al suo Voltaire, Rousseau torna sì su argomenti tradizionali, ma soprattutto sviluppa la sua critica della società contemporanea e del processo di civilizzazione. L’esordio dell’Emilio (1762), per cui tutto è buono quando nasce dalle mani di Dio, ma tutto degenera nelle mani dell’uomo, non intende criticare la natura umana, ma il processo storico e sociale della comunità umana. In questo processo ha infatti per Rousseau la sua reale origine il problema del male, e soltanto atraverso un’analisi di esso è possibile indagarne l’origine: non solo quindi illustrare la presenza del male, ma mostrarne le cause: i vizi dell’uomo non dipendono tanto da lui, ma dall’uomo “mal governato”. L’analisi genetica della società si sovrappone, così, alla considerazione metafisica ed esistenziale, e tende a mutare le coordinate stesse del problema della teodicea, aprendo la strada a un orizzonte che si svilupperà nel corso del secolo successivo.
Tra scetticismo e ateismo
Del carattere contraddittorio del Dio cristiano di fronte al male, messo in luce da Bayle, sono David Hume (1711-1776) e Paul-Henry Dietrich barone d’Holbach (1723-1789) a trarre le conseguenze. I protagonisti dei Dialoghi sulla religione naturale di Hume – composti alla metà del secolo ma pubblicati solo dopo la sua morte – presentano le posizioni in gioco in una forma che ancora una volta non può non richiamare alla mente l’autore del Dizionario storico-critico. Nei Dialoghi si fronteggiano infatti lo scettico Filone, il razionalista Cleante e il fideista Demea.
L’impossibilità di una conciliazione tra fede e ragione costituisce lo sfondo dei dialoghi e produce l’insolita alleanza tra lo scettico Filone e il “mistico” Demea contro l’unico sostenitore della conciliazione tra fede e ragione, cioè Cleante. Il razionalista Cleante, insomma, rimane solo a difendere la compatibilità tra fede e ragione, e le sue difficoltà emergono in modo particolare proprio nell’affrontare il problema del male, nelle parti X e XI dei Dialoghi. Mentre Cleante si serve ancora una volta di argomenti tradizionali come la minimizzazione del male del mondo, tanto Filone quanto Demea ne sottolineano la realtà e l’intensità, sostenendone l’evidenza empirica sia per l’uomo comune sia per il dotto. Lo scetticismo di Filone non giunge però mai a concluderne l’inesistenza di Dio, ma si concentra sul carattere problematico, e contraddittorio, della natura di Dio e dei suoi attributi.
Il passo che Hume non compie verso l’ateismo viene compiuto dal barone d’Holbach, prima nel suo Sistema della natura (1770) e poi, più dettagliatamente, ne Il buon senso (1772). Il male è l’argomento principale con il quale d’Holbach attacca tutte le forme di teologia – ovvero di religione – come un continuo “insulto alla ragione umana”. Se tutte le definizioni di Dio sono per loro natura confuse e hanno un semplice significato negativo – infinità, eternità, immutabilità e immaterialità – il tentativo di darne una caratterizzazione morale attraverso la sua pretesa bontà e la sua giustizia si scontra con la realtà del dolore e della malvagità. L’assurdità di Dio non viene meno neanche se il pessimismo sulla condizione del mondo e dell’uomo venisse mitigato, poiché anche una minima esistenza del male costituisce un’obiezione evidente all’idea di una benevola e giusta provvidenza divina.
Lo stesso deismo razionalistico sostenuto da Voltaire diviene oggetto della critica di d’Holbach, poiché esso non è più sostenibile, per la ragione, di quello della religione ortodossa: il mistero del male non è meno irrazionale né meno incomprensibile di quello della Trinità.
Kant e il fallimento della teodicea
Immanuel Kant tenta di dare una propria soluzione al problema. Inizialmente vicino alle tesi leibniziane, a partire dalla Critica della ragion pura egli lo inquadra nella sua idea di una centralità della moralità e quindi del primato della ragion pratica. L’impostazione da parte di Kant è coerente con le sue premesse: la conoscenza umana non può certo avventurarsi nell’ambito del sovrasensibile, come mostra la critica delle prove dell’esistenza di Dio, ma sul piano morale è possibile postulare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima in nome di una necessaria retribuzione della moralità con una felicità proporzionale. Si tratta di un bisogno della ragione pratica, che si possa realizzare il sommo bene (l’unione di felicità e moralità), anche se questa non è una condizione della validità dell’imperativo categorico e quindi della moralità, né deve essere ciò che spinge il soggetto ad agire moralmente. Come si vede, l’intero impianto del problema ha carattere strettamente morale, e quindi di una fede razionale morale, e risponde a una esigenza di giustizia: che i buoni vengano ricompensati e, soprattutto i cattivi, puniti. Questa soluzione kantiana, presente già nella Critica della ragion pura, viene riformulata, con molte difficoltà e con varie differenze, anche rilevanti, sia nella Critica della ragion pratica (1788) sia nella Critica della facoltà del giudizio (1790). Le difficoltà sono però troppe, e lo stesso Kant sembra ritenere sempre più la propria soluzione un oggetto della speranza, più che l’oggetto di un’argomentazione, come emerge nella parte finale della Metafisica dei costumi (1797). Del resto, il titolo del testo kantiano dedicato esplicitamente al tema della teodicea nel 1791, Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici nella teodicea, è davvero univoco. E la pretesa razionalità di una teoria della giustizia divina, pur nelle forme caute della teoria del sommo bene, sembra cadere del tutto: la figura di Giobbe e il suo affidamento all’impenetrabile operato divino, cioè una forma di volontarismo o di arbitrarismo teologico, sono quanto di più lontano dal razionalismo kantiano si possa immaginare, e una sorta di rinuncia ad affrontare il tema in un’ottica razionalistica. Si chiude così, con il fallimento delle pretese di una teodicea razionale, la riflessione moderna sulla questione della teodicea.