La strana battaglia del Centocinquantenario
Nel 1861 la carta geopolitica della penisola veniva completamente sconvolta con la formazione del Regno d’Italia. Centocinquanta anni dopo la Repubblica italiana ha ricordato l’evento. E così la giornata del 17 marzo 2011 è diventata una festa nazionale. Se si considerano le implicazioni simboliche di questa scelta, si capisce quante difficoltà e quante incertezze abbiano accompagnato questo 150°. Già, perché il 17 marzo 1861 fu il giorno nel quale Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia; e appare un po’ strano che una Repubblica, per celebrare la propria unità, festeggi il momento in cui venne fondata una monarchia. Forse si sarebbero potute scegliere altre date. Il 18 febbraio 2011, per esempio, avrebbe corrisposto al centocinquantesimo dell’inaugurazione dell’VIII Legislatura del Parlamento del Regno d’Italia: ma allora i responsabili dei festeggiamenti sarebbero stati costretti a spiegare perché la prima legislatura del Regno d’Italia si chiamava ottava (peraltro sarebbe stato necessario anche spiegare perché il primo re d’Italia si chiamava Vittorio Emanuele II e non Vittorio Emanuele I). Oppure si sarebbe potuto scegliere il 9 febbraio 2011, per commemorare la fondazione della Repubblica romana; o il 3 luglio 2011, per ricordarne la Costituzione: qui la controindicazione è che non si sarebbe commemorato il 150° ma il 162° anniversario, il che sarebbe stato un po’ goffo; ma d’altro canto si sarebbe ricordata un’esperienza politico-costituzionale più affine a quelle della nostra Repubblica di quanto non fosse l’architettura costituzionale del Regno d’Italia.
Osservazioni di questo genere segnalano che: il Risorgimento non è stato un movimento politico coeso; è stato spaccato al suo interno da diversi progetti politici, in conflitto tra loro: repubblicani e monarchici, democratici e liberal-moderati, federalisti e centralisti. Come si è affrontato questo importante aspetto del Risorgimento nel corso delle celebrazioni? In genere lo si è fatto costruendo una specie di santino, nel quale Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini e Cavour andavano sottobraccio l’uno con l’altro, marciando verso le magnifiche e progressive sorti dell’Italia unita. Peccato che non sia stato così. Un’altra cosa che ha molto emozionato i cantori dell’Unità è stata la connotazione giovanile del movimento risorgimentale. In un tempo in cui lo slogan del «largo ai giovani» impazza, poter dire che il Risorgimento fu un movimento di giovani è sembrato un atout straordinario. L’idea è piaciuta talmente tanto che il ministro della Gioventù – Giorgia Meloni – ha promosso l’operazione ‘Gioventù ribelle’, articolata in una mostra, un tour teatrale e un videogioco (di quest’ultimo parla Marco Viscardi su Alfabeta2). I militanti risorgimentali furono effettivamente in gran parte dei giovani; ma ciò accadde perché il movimento risorgimentale fu di tipo politico-militare, e a combattere non si va con la sciatica, l’artrite e i capelli bianchi, ma quando si è ancora tonici e scattanti. Quello che è vero per il Risorgimento lo è anche per molti altri movimenti politico-militari, come il comunismo bolscevico, il fascismo, il nazismo o la Resistenza: ed è molto chiaro che ciò che qualifica ciascuno di questi movimenti non è tanto il loro essere stati animati da giovani, ma i diversissimi sistemi di idee che li animarono. Infine, intorno al 150° si è giocata una strana battaglia politica. Il governo (con l’eccezione dei membri provenienti da Alleanza nazionale) ha sostenuto con una qualche riluttanza le celebrazioni, perché la Lega Nord e i suoi massimi esponenti hanno voluto svilire la memoria dell’unità nazionale. Dall’altro lato, e per reazione, il centro-sinistra (Partito democratico e Italia dei valori) ha abbracciato il nazional-patriottismo che sprigionava dalla commemorazione del Risorgimento, trovandosi così a pronunciare con entusiasmo parole d’ordine risorgimentali in funzione antileghista. Difficile dire se una simile nuova geografia simbolica possa diventare un connotato stabile della vita politica italiana: ma nel cuore del 150° le cose hanno preso questa piega.
La sinistra e il Risorgimento
L’adozione di parole d’ordine ‘risorgimentali’ da parte del centro-sinistra è tutt’altro che una novità assoluta della storia politica, italiana e non solo. Occorre innanzitutto ricordare come non pochi movimenti nazionali, europei e ancora di più extraeuropei, abbiano avuto una matrice politica di sinistra, magari per motivi di schieramento interno e/o internazionale. Basti qui pensare ai movimenti di liberazione nazionale nelle ex colonie europee, molti dei quali hanno fatto ricorso al sostegno sovietico e/o cinese per conseguire i loro obiettivi durante la Guerra fredda, e hanno quindi adottato un’ideologia e una retorica congruenti con tale necessità. L’associazione tra destra politica e nazional-patriottismo, sebbene frequente, non andrebbe dunque data per scontata, e anzi i casi di convergenza tra socialismo e nazionalismo sono stati tutt’altro che infrequenti, soprattutto, ma non solo, nella storia del 19° secolo. Ritornando all’Italia, l’appello ai valori risorgimentali è stato impiegato in varie occasioni, in maniera più o meno strumentale, dai partiti di sinistra: basti ricordare il ricorso a Garibaldi da parte del ‘Fronte popolare’ social-comunista nel 1948 e più di recente del Partito socialista guidato da Bettino Craxi.
Le implicazioni internazionali dell’Unità d’Italia
L’unificazione italiana non ha mutato solo la carta politica dello Stivale, ma anche quella di tutto il continente europeo. Pure, nella discussione relativa al 150° anniversario dell’unificazione italiana poco o nulla si è detto delle implicazioni internazionali che il Risorgimento ha avuto: tale argomento è rimasto ai margini del dibattito, sia pubblico che specialistico. Eppure, le ricadute internazionali dell’unifica;zione italiana sono state di grande rilievo. Almeno due meritano di essere citate per il ruolo che hanno ricoperto nel corso della storia d’Europa del Novecento. In primis, l’unificazione italiana ha contribuito – insieme a quella tedesca, più o meno contemporanea – a ‘respingere’ l’impero asburgico. Quest’ultimo fu indotto a espandersi in direzione della penisola balcanica – per esempio con l’annessione della Bosnia nel 1878 – e, in tal modo, entrò in rotta di collisione con la Serbia. Il cozzo tra quest’ultima e l’impero asburgico fu, nel 1914, la causa immediata dello scoppio della Prima guerra mondiale. In secondo luogo, il successo riportato dal movimento nazionale italiano, che in poco più di un decennio era riuscito a prendere il controllo di un’intera penisola, costituì un esempio per altri nazionalismi europei, tanto che negli ultimi decenni dell’Ottocento si parlò della Serbia come ‘Piemonte iugoslavo’ e della Galizia come ‘Piemonte polacco’ (o ucraino, a seconda dei casi), ossia come nuclei statali destinati, date le circostanze, a guidare processi di unificazione nazionale di là da venire.
Un fenomeno giovanile?
Il carattere ‘giovanile’ che ha connotato non solo il Risorgimento, ma anche tanti altri movimenti politici contemporanei va in buona parte attribuito alla stessa struttura demografica delle società del tempo che li hanno espressi. In esse, le classi di età più giovani costituivano la stragrande maggioranza della popolazione, se non altro perché l’aspettativa di vita era largamente inferiore a quella attuale. Un fenomeno analogo si riscontra oggi nei paesi arabi dove, tra i manifestanti scesi in piazza in segno di protesta contro i regimi al potere nei loro paesi, si è notata un’assoluta prevalenza di giovani: questo fenomeno riflette, come si può ben notare, una situazione simile a quella appena accennata.
Le donne del Risorgimento
di Elena Doni
«Grande più che non si crederebbe fu il numero delle donne uccise», scrisse dopo le Cinque Giornate di Milano Carlo Cattaneo, una delle voci più alte del Risorgimento, ricordando i caduti di quella sommossa antiaustriaca e registrando i loro mestieri. Tra le donne c’erano levatrici, ricamatrici, modiste e «tra quelle che si dicono alla rinfusa cucitrici, alcune giovinette».
Ecco dunque sfatati in poche righe due luoghi comuni della storia del Risorgimento: che le donne che presero parte ai movimenti per l’indipendenza e l’Unità d’Italia fossero un’esigua minoranza e che appartenessero alle classi privilegiate.
Certo, le donne che imbracciarono le armi furono meno numerose degli uomini: ma senz’altro significativo fu il numero di quelle che rischiarono la vita, o la prigione, partecipando all’organizzazione dei complotti, portando messaggi (a memoria, o celati tra le vesti o nei capelli), nascondendo fuggiaschi e feriti, offrendo denaro, quando ne avevano. Le biografie riportano anche storie di straordinario coraggio e audacia: nel 1828, quando nel Cilento scoppia una rivolta promossa dalla Carboneria, Serafina Apicella, moglie di un congiurato fuggito in Francia, è arrestata, torturata con pece bollente, calata in un pozzo perché confessi: resisterà; condannata a venticinque anni, riuscirà a fuggire dopo qualche tempo e a raggiungere il marito. Nel 1848 a Messina, Rosa Donato, tosatrice di cani, riesce a impadronirsi di un vecchio cannone e a spingerlo per le vie della città, per impiegarlo contro l’esercito borbonico. Morirà nell’incendio delle polveri alle quali aveva dato fuoco per non consegnare l’arma al momento della resa. La principessa Cristina di Belgiojoso rischiava la vita ogni giorno per curare i feriti della Repubblica romana sotto il cannoneggiamento dei francesi.
Donne del Nord, del Centro, del Sud, cittadine e contadine, cameriere e principesse presero parte attiva alla nascita dell’Italia. Ci vollero quasi cento anni perché alle italiane venisse concesso di votare.