La storia come pensiero e come azione
L’opera di Croce La storia come pensiero e come azione esce presso l’editore Laterza nel giugno 1938 (superata una resistenza delle autorità di polizia a concedere il nulla osta). La prima tiratura risulta rapidamente esaurita e viene subito preparata la seconda edizione. Dell’anno successivo è la terza, accresciuta di nuovi capitoli. Su questa edizione è realizzata la traduzione in lingua inglese, pubblicata a New York nel 1941 con il titolo History as the story of liberty. L’edizione in lingua spagnola, apparsa in Messico nel 1942, reca invece il titolo La historia como hazaña de la libertad, dove hazaña è l’impresa, l’azione generosa, prode.
“La storia come storia della libertà” è il titolo del capitolo conclusivo del saggio che dà il nome al volume, saggio già anticipato nel 1937 in apertura del primo fascicolo della «Critica» (35, pp. 1-35). «Che la storia sia storia della libertà è un famoso detto dello Hegel» (La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, 2002, p. 54), un detto però qui inteso, avverte Croce, in modo diverso da quello che aveva nel suo autore e nei suoi vari ripetitori e divulgatori:
Non per assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e un giorno sarà, ma per affermare la libertà come l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale, essa è, per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l’altro, l’ideale morale dell’umanità (p. 54).
È il principio esplicativo, non nel senso – quale si presentava nella raffigurazione hegeliana della storia universale – di un cominciamento e di un graduale rivelarsi per grandi scansioni epocali (l’Oriente, il mondo classico, il mondo cristiano germanico) fino al raggiungimento della sua pienezza nel presente; ma nel senso dell’elemento essenziale operante in ogni momento della storia, cioè della perenne realtà. Ed è l’ideale morale, in quanto modalità costitutiva della stessa realtà, volta a favorire e preservare il processo vitale nella lotta di bene e male, di positivo e negativo, per cui esso continuamente si afferma:
La moralità è nient’altro che la lotta contro il male; ché se il male non fosse, la morale non troverebbe luogo alcuno. E il male è la continua insidia all’unità della vita, e con essa alla libertà spirituale; come il bene è il continuo ristabilimento e assicuramento dell’unità, e perciò della libertà (p. 51).
L’etica è condizione e dimensione della libertà, immanente nella storia, forma dello spirito, cioè per Croce della realtà tutta; non idea trascendente, ‘cosa in sé’ inattingibile al mondo fenomenico e consegnata a un assoluto cui tendere come soluzione e fine della storia, secondo quelle «apocalissi su motivi umanitarî» – le chiamerà così in uno scritto del 1943 (Contro la “storia universale” e i falsi universali. Encomio dell’individualità, «La Critica», 41, poi in Discorsi di varia filosofia, 1° vol., a cura di A. Penna, 1945, p. 149) – che ripropongono nella forma secolarizzata delle ideologie sociali il mito salvifico dei millenarismi religiosi.
Il rifiuto della filosofia della storia, cioè della concezione del corso storico come realizzazione di un disegno o programma del quale antivedere il compimento, era antico in Croce. Era stato uno dei punti fermi della sua critica del marxismo e su di esso si era fatta evidente anche la distanza che lo separava da Antonio Labriola e dalla visione cui Labriola aveva voluto affidarsi del marxismo come «ultima e definitiva filosofia della storia». Ripubblicando ora per la Laterza, proprio in contemporanea con La storia come pensiero e come azione, i saggi labrioliani sul materialismo storico (La concezione materialistica della storia, 1938; Discorrendo di socialismo e di filosofia, 1939), dei quali, tra il 1895 e il 1897, aveva sollecitato la scrittura e promosso la stampa, Croce rievocava la discussione di quegli anni nello scritto Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali, prima pubblicato sulla «Critica» (1938, 36, pp. 35-52 e 109-24) e poi posto in appendice a La concezione materialistica della storia (cit., pp. 265-312, ora in B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garambi, 2001, pp. 265-305).
Un capitolo del libro Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907, a cura di A. Savorelli, 2006, pp. 93-102) era stato riservato alla critica della filosofia della storia, ricollegata con la corrispondente filosofia della natura all’eredità teologica e metafisica mantenuta nel sistema hegeliano. Nella Logica come scienza del concetto puro (1909), al superiore apprezzamento per lo Hegel della dialettica e del concetto di universale concreto e al riconoscimento del profondo senso storico di quel pensatore, si accompagnava la presa di distanza su quel punto.
Il confronto appassionato con Georg Wilhelm Friedrich Hegel continuerà fino alle ultime riflessioni del 1951-52 (poi riunite, con il titolo Hegel e l’origine della dialettica, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1967, a cura di A. Savorelli, 1998, pp. 39-59), con la conclusione che la dialettica hegeliana non appartiene «alla Logica, dove il suo autore la collocò, e dove noi avendola trovata ne abbiamo discorso, ma alla Filosofia della pratica o all’alta Etica» (Il pensiero di Hegel e la storia della filosofia, «Il Mondo», 7 giugno 1952, poi in Indagini su Hegel, cit., p. 56).
Quanto alla ‘filosofia della storia’, nel capitolo apposito della Storia come pensiero e come azione il discorso va decisamente al di là della critica del sistema hegeliano e delle sue derivazioni, per toccare più in generale quella che viene definita una «falsa posizione teorica» appartenente alla «fenomenologia dell’errore» (p. 138):
Il miscuglio di concetto e di immaginazione è il principio stesso costruttore dei miti; e questo carattere mitologico delle filosofie della storia salta agli occhi. Tutte esse vogliono scoprire e rivelare il “Weltplan”, il disegno del mondo, dalla sua nascita alla sua morte, o dalla sua entrata nel tempo alla entrata nell’eternità; e si configurano a teofanie o cacodemonofanie (p. 140).
Era il quadro già tracciato nel volume del quale la Storia come pensiero e come azione si pone come prosecuzione e sviluppo, Teoria e storia della storiografia (che uscirà in tedesco nel 1915 – con il titolo Zur Theorie und Geschichte der Historiographie – e in italiano, in edizione accresciuta, nel 1917). In questione sono tutte le spiegazioni che cercano ragioni, cause, forze motrici della storia al di fuori della storia, dando luogo alle forme più diverse, ma comunque riconducibili a una visione dualistica e trascendente della realtà. Di qui, la sovrapposizione di schemi classificatori, tappe ideali, passaggi privilegiati, alla effettiva comprensione storica: formule mentali che si interpongono tra pensiero e realtà. Che si tratti di escogitazioni filosofiche o di figurazioni fantastiche, sempre si ha a che fare con un significato applicato ai fatti dall’esterno, a riempire un’insufficienza concettuale. In questo modo, «il vuoto del pensiero logico effettivo» (Teoria e storia, cit., a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri, 2007, p. 58) viene occupato da produzioni rispondenti a motivi pratici e bisogni sentimentali. Sono costruzioni che non si purificano però in immagini poetiche, ma operano quali fatti, idee che sono miti:
Miti il Progresso, la Libertà, l’Economia, la Tecnica, la Scienza, sempre che siano concepiti come motori esterni ai fatti: miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e Venere, Geova e Baal, o di altre più rozze figurazioni di divinità (p. 59).
Il carattere poetico depositatosi in mito pratico, scrive Croce,
è evidente in tutte le “filosofie della storia”: sia in quelle antiche, che rappresentavano gli accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della luce e della verità contro le potenze della tenebra e della menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi o d’individui verso l’egemonia, o dell’uomo verso il bene e la verità: sia in quelle moderne e modernissime, che s’ispirano ai varî nazionalismi ed etnicismi (l’italico, il germanico, lo slavo, ecc.), o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà, o come il passaggio dall’Eden del comunismo primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano (pp. 58-59).
Sono pagine scritte prima della grande guerra. L’armamentario capace di attivare miti all’altezza del presente è già pronto. Le dottrine del socialismo marxista si sono impiantate con i caratteri di una fede collettiva. Mentre alle «cacodemonofanie» – come le chiama Croce, filosofie della storia anch’esse, del declino invece che dell’ascesa – il contributo di maggior risonanza verrà dall’opera di Oswald Spengler Der Untergang des Abendlandes (2 voll., 1918-1922; trad. it. 1957), di cui Croce, nella sua recensione al primo volume («La Critica», 1920, 18, pp. 236-39), denuncerà la pericolosità, accostandone i potenziali effetti distruttivi sul piano mentale e morale ai miti del pangermanesimo e della razza predicati da Houston Stewart Chamberlain.
Quando Croce compone i saggi confluiti nel libro del 1938, tendenze venti anni prima ancora contenibili sul piano delle correnti di opinione sono divenute corpose realtà di potere, che segnano larga parte della stessa mappa statale in Europa. La grande guerra ha messo in movimento meccanismi totali mai prima sperimentati, mentre il suo esito ha visto, con il crollo di imperi e lo sconvolgimento di intere classi dirigenti, il venir meno delle paratie istituzionali e comunitarie che di quelle tendenze contenevano le spinte dirompenti nella società complessiva. I demoni delle agitazioni intellettuali si ripresentano ora armati in ideologie di massa. E soltanto una filosofia capace di comprenderne l’origine e penetrarne il senso può salvaguardare la vita della realtà (la libertà, appunto, nel significato di Croce) che le forme date di storiografia e filosofia si sono rivelate impotenti a presidiare. Questo il dramma culturale rappresentato nella Storia come pensiero e come azione. Senza coglierne la portata non si possono comprendere le scelte polemiche al centro dell’opera: da una parte, la critica della storiografia mancante di consapevolezza filosofica, la «storiografia senza problema storico» nella quale si trovano associate esperienze pur tra loro così diverse come quella di Leopold von Ranke e Jacob Burckhardt (pp. 81-108); dall’altra, la battaglia contro le ideologie,
le pseudofilosofie, che macchiano la purezza e fiaccano l’universalità dei principî e delle categorie del giudizio col piegarli a tendenze pratiche o a queste conferire mentito aspetto di principî e di categorie dello spirito (p. 198).
La considerazione della storia come pensiero e come azione altro non è che la filosofia, nel significato assoluto che ha in Croce. L’identità di concetto e giudizio individuale, e dunque di filosofia e storia, affermata nella Logica, è la premessa per definire la filosofia «momento metodologico della Storiografia» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 128). Una metodologia che «non è niente di empirico, anzi viene appunto a correggere e sostituire l’empirica metodologia degli storici di mestiere e di altrettali specialisti» (p. 129): non una tecnica per la cernita e l’assemblaggio dei dati, ma un riconoscimento categoriale che «si muove nelle distinzioni dell’Estetica e della Logica, dell’Economica e dell’Etica, e tutte le congiunge e risolve nella Filosofia dello spirito» (p. 128), cioè riporta a un’intera concezione della realtà.
In uno scritto del 1930 (Il “Filosofo”, «La Critica», 1930, 28, pp. 238-40, poi in Ultimi saggi, 1935, a cura di M. Pontesilli, 2012, pp. 359-63), rivendicando a sé il merito di avere distrutto «la figura del “Filosofo”, del puro, del sublime “Filosofo”, di colui che, incuriosito delle cose piccole, sta intento a risolvere il gran problema, il problema dell’Essere» (in Ultimi saggi, cit., p. 359; un’immagine che giustificava il discredito della filosofia e il rifiuto della sua stessa funzione), Croce indicherà «il più generale risultato» della sua vita di studioso nella «nuova orientazione data alla filosofia» (p. 361) con il ripristino del suo ufficio specifico, il quale
non stava disopra e distaccato dalla scienza e dalla vita, ma dentro di queste, strumento di scienza e di vita; il che espressi col dire che essa è “il momento astratto della storiografia” (della cosiddetta storia dell’uomo e della cosiddetta storia della natura), la “metodologia della conoscenza dei fatti”, la “metodologia della storiografia” (p. 361).
L’identificazione con la storiografia, cioè con il pensiero storico, non è una riduzione di campo, anzi rappresenta la massima estensione della filosofia, non più riserva professionale dei filosofi di scuola, ma funzione conoscitiva necessaria alla vita generale e dunque da ricongiungere con il pensiero che è in tutti. La storia come pensiero e come azione sviluppa questi assunti applicandoli alle esperienze del presente, in una grande manifestazione di filosofia in atto.
Solo astrattamente, per opportunità espositiva, si possono considerare separatamente metodologia e storiografia, filosofia e verità effettuale:
Ma la filosofia, identificata che sia con la storiografia ossia col pensiero storico, elimina e annulla il concetto di una filosofia fuori o sopra della storiografia. […] Persino quando si definisce la filosofia, come io ho fatto, “metodologia della storiografia”, non è da perder di vista che la metodologia sarebbe astratta se non coincidesse con l’interpretazione dei fatti, cioè se non si rinnovasse e non si svolgesse di continuo a una con la intelligenza di essi: per modo che una partizione di filosofia e storiografia ritiene uso soltanto pratico, ai fini della didascalica (p. 145).
Alla base c’è la consapevolezza, in Croce originaria e fattasi via via più forte, della fine di un’epoca e con essa di un modo di intendere la filosofia: di qui la chiusura definitiva con quella che egli chiama, nel titolo del capitolo dove si tirano i fili dell’intero discorso, “La filosofia come idea antiquata o l’idea antiquata della filosofia” È necessario liberarsi di tutta un’eredità teologico-metafisica, del pensare in astratto, per ripristinare il valore della filosofia. «Storicizzarla sul serio vale renderla rispettata e, se così piace, temuta» (p. 361). Solo ristabilendo il rapporto con la vita comune si può restituire alla filosofia la sua dignità e utilità sociale.
Il concetto di una filosofia sopra e fuori della storia si cela di frequente nella forma di una distinzione di problemi del pensiero “massimi”, “supremi”, “universali”, “eterni”, e di altri “minori”, “inferiori”, “particolari” e “contingenti”: comunque vengano poi descritti i primi problemi, che un tempo erano quelli di Dio e dell’immortalità e altrettali, e oggi, di solito, quelli della rispondenza tra pensiero ed essere, della gnoseologia o fenomenologia; e comunque si ponga il rapporto di essi, che sarebbero di prima classe, con gli altri di seconda classe, sia che questi vengano considerati empirici e non filosofici, sia che si stimino non risolubili se prima non si risolvono i primi, che darebbero la loro premessa necessaria. Ma l’effetto è sempre il medesimo, cioè l’inconcludente disputare in cui ci si avvolge. Che se qualche volta una luce di verità risplende tra quelle dispute, la si deve o all’intervento del buon senso che non si rassegna a sempre tacere intimidito o a un balenare di acume che, quasi senza avvedersene, ritrova nelle determinazioni della storia il significato vero del dibattuto problema e la via della risoluzione (p. 146).
La storicizzazione della filosofia è un’opera di liberazione delle menti. Significa infatti toglierle dalla soggezione ad aristocrazie fittizie, tese a perpetuarsi quasi corporazioni sacerdotali: sia che i suoi portatori si chiudano nel recinto della «scolastica e insipida filosofia sublime» cui spetterebbe la trattazione dei pensieri veri e più elevati, sia che pretendano di imporre a realtà quelle astrattezze arrogandosi il compito di «direttori e riformatori della società e dello stato» (p. 147). Dalla filosofia concepita come fuori e al di sopra della storia derivano allo stesso modo le lacerazioni e le false unificazioni, nelle società come nell’opera individuale, a conferma dell’analisi portata sul piano categoriale, cioè dell’effettiva realtà: ne viene infatti, con la rottura del nesso di conoscenza e azione, uno squilibramento dell’unità spirituale, e si apre lo spazio per il collasso del momento conoscitivo in una prassi immediata e onnidivorante. La concezione della filosofia-storia, rispettando l’integrità della realtà, contribuisce all’espansione della libertà:
La filosofia storica, o la storia filosofica, è modesta, perché in perpetuo riporta l’uomo di fronte alla realtà e, fattagli compiere la catarsi nella verità, lascia che liberamente cerchi e trovi il suo dovere e crei la sua azione (p. 147).
La funzionalità della filosofia per la vita sta nella stessa natura del conoscere, originato sempre dal bisogno di far chiarezza, di rimuovere incertezze, di sgombrare il campo visuale, per consentire all’attività pratica di avanzare nell’ulteriore creazione di realtà. Il pensiero non si autoalimenta, non è fine a sé stesso: «Un conoscere per il conoscere, […] realmente non accade mai in quanto intrinsecamente è impossibile, venendogli meno con lo stimolo della pratica la materia stessa e il fine del conoscere» (pp. 26-27). Il pensiero nasce dalla realtà e riporta alla realtà, momento necessario dell’intero, sua modalità costitutiva, forma dello spirito, nel linguaggio crociano: dove spirito significa storicità, vita, continua processualità, creatività universale.
Ogni conoscenza è conoscenza di realtà, dunque sempre conoscenza storica: «Non basta dire che la storia è il giudizio storico, ma bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico, o storia senz’altro» (p. 26). Questo l’incipit del capitolo nel cui titolo, “La conoscenza storica come tutta la conoscenza”, si dichiara l’essenziale della teoria circa la filosofia-storia. Prosegue il testo:
Se il giudizio è il rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà. È giudizio storico anche la più ovvia percezione giudicante (se non giudicasse, non sarebbe neppure percezione, ma cieca e muta sensazione): per esempio, che l’oggetto che mi vedo davanti al piede è un sasso, e che esso non volerà via da sé come un uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col piede o col bastone; perché il sasso è davvero un processo in corso, che resiste alle forze di disgregazione o cede solo a poco a poco, e il mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia (p. 26).
Fuori del giudizio storico non si dà altra conoscenza. Anche quella che si chiama scienza naturale si basa, nei contenuti e nelle effettive acquisizioni, su conoscenze storiche: ordinate, memorizzate, fissate per mezzo di classificazioni, di leggi che fissano rapporti tra classi, di formule di regolarità e calcolo; ma sempre da rinnovare tornando alla fonte conoscitiva che è il giudizio storico, alla diretta comunicazione con i casi individuali. Alla teoria della conoscenza come tutta e unicamente conoscenza storica non fa veramente contrasto la scienza naturale, anch’essa pienamente mondana, quanto piuttosto la filosofia, o almeno l’idea tradizionale di una filosofia che guardi a una sfera di essenze superiore e altra rispetto al mondo comune:
Questa divisione di cielo e terra, questa concezione dualistica di una realtà che trascende la realtà, di una metafisica sulla fisica, questa contemplazione del concetto senza o fuori del giudizio, le dà il carattere suo proprio, che è sempre il medesimo, comunque si denomini la realtà trascendente, Dio o Materia, Idea o Volontà, e sempre che si suppone che le resti sotto o di contro una realtà inferiore o una realtà meramente fenomenica (p. 28).
Non più l’idealismo (antico o nuovo che sia), bensì lo spiritualismo o storicismo assoluto, formula che Croce preferisce per designare la propria concezione. Dove spirito è l’intera realtà, l’eterno presente nel quale si attua il dramma creativo cui ognuno partecipa con il suo operare. Per Croce, non si dà la «spiritualizzazione progressiva del mondo» di cui parla Gentile nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916, 20037, p. 240), volta all’instaurazione del «regno dello spirito», ossia «quel regnum hominis, in cui consiste tutta l’umana civiltà, assoggettamento e dominazione della natura piegata ai fini dell’uomo, che sono i fini dello spirito». Per Croce, non c’è soggetto, Io, che si contrappone alle cose e lotta per adeguarle a sé, per penetrare di valore il mondo. Il mondo è già integralmente valore, totalità vivente nell’immanenza dei valori (le forme dello spirito, appunto). La stessa societas hominum, presa per sé, come molteplicità di esseri della medesima specie, va intesa quale partizione empirica all’interno dell’unica realtà con la quale l’individuo si rapporta ed è sempre in comunione, la societas entium (cfr. Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909, a cura di M. Tarantino, 1996, pp. 317-18). Ricorrendo all’immagine del sasso come esempio di un processo storico e come tale conoscibile, Croce è del tutto conseguente. E forse scrivendo quella pagina si sarà ricordato di come la stessa immagine si era invece presentata in Gentile: «La pietra è, perché essa è già quel che può essere: ha realizzato la sua essenza», aveva scritto Gentile (Teoria generale dello spirito, cit., p. 23) a proposito di natura e spirito. Questo, anche per le piante e per gli animali, la cui natura è conclusa:
Sono processi di realtà logicamente esauriti, quantunque non ancora del tutto attuati nel tempo. […] Lo spirito invece si sottrae, nella sua attualità, a ogni legge prestabilita, e non può essere definito come essere stretto a una natura determinata, in cui si esaurisca e conchiuda il processo della sua vita, senza perdere il suo proprio carattere di realtà spirituale, e confondersi con tutte le altre cose, alle quali egli deve invece contrapporsi; e in quanto spirito, infatti, si contrappone. Nel mondo della natura, tutto è per natura; nel mondo dello spirito, nessuno e nulla è per natura; ma è tutto quello che diviene per opera sua propria. Niente è già fatto, e perciò è, ma tutto è da fare sempre (pp. 23-24).
Il libro di Gentile era di oltre vent’anni prima. Ma pur nella collaborazione culturale, la differenza delle rispettive visioni sussisteva dall’inizio e sempre più si rivelerà strutturale. La rottura intervenuta nel 1924 (cfr. la lettera di Croce scritta da Napoli il 24 ottobre, in Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, pp. 670-71) è la presa d’atto della fine di un legame non solo politicamente, ma anche teoricamente immantenibile.
In cambio della finta ricchezza di vuote generalità e astrazioni, aveva scritto nel 1908 nell’Avvertenza alla Logica, alla filosofia viene restituita la sua vera ricchezza, la storia:
tutta la storia (la cosiddetta storia umana non meno che la cosiddetta storia della natura), nella quale a lei ormai è dato vivere davvero come in proprio dominio o, per dir meglio, in proprio corpo, coestensivo con lei, da lei indivisibile (Logica, cit., p. 8).
Il pensiero non trova di fronte a sé una realtà estranea, con cui non saprebbe come entrare in contatto, ma si muove nella realtà come nel suo elemento naturale, in quanto ne è organicamente parte. Il conoscere non è il funzionamento indifferenziato di un astratto soggetto osservatore, non è un occhio senza un corpo, ma è l’occhio di un corpo immerso nella realtà, la quale è il corpo universale. Nella visione di Croce la spiritualità del tutto è insieme, potremmo dire, la vera fisicità o naturalità: non la natura fissata nell’esternità e immobilità delle oggettivazioni pratiche, non la natura irreale dello pseudoconcetto, ma l’unica physis, la sostanza comune e comunicabile della vita del tutto. Nel 1949, in una lezione nell’appena fondato Istituto italiano per gli studi storici, vorrà ricordare che Henri Bergson «osservava, e diceva bene, che il corpo dell’individuo è il mondo intero» (Universalità e individualità nella storia, «Quaderni della “Critica”», 1949, 5, 15, poi in Terze pagine sparse, 1° vol., 1955, p. 53).
Non c’è modo di distinguere – salvo che arbitrariamente, per l’utilità di partizioni e classificazioni empiriche – tra una sfera della passività e una dell’attività, tra un mondo del meccanismo e un mondo dei processi vitali, tra il campo della storia e un campo inferiore escluso dalla storia e quindi esterno alla realtà vivente e ai principi che la reggono e rendono pensabile. Si riaprirebbe altrimenti la porta ai dualismi, teologici e metafisici, con l’ipoteca della ‛cosa in sé’, dimensione dell’essere presupposta ignota e inattingibile, e con il risultato di una ragione pregiudizialmente limitata e perciò indifesa di fronte alle conseguenze conoscitive e morali dello scetticismo. L’assunto dell’unità e intelligibilità della realtà va mantenuto fino in fondo, come condizione del nuovo modo di intendere la filosofia. Non è concepibile alcuna parte della realtà che non sia storicità, alcuna linea di confine tra umanità e animalità, tra storia e non storia o non ancora storia. Né dall’unica storia o spiritualità è separabile e distinguibile la natura.
Dopo la fondazione concettuale ricevuta nella Logica, la questione era stata specificamente trattata nel capitolo conclusivo della parte teorica di Teoria e storia della storiografia, “La ‘storia della natura’ e la storia”:
La sentenza, che la natura non abbia storia, è da intendere nel significato che la natura, come ente di ragione ed escogitazione astratta, non ha storia, perché non è, o, diciamo, non è nulla di reale; e l’opposta sentenza, che la natura anch’essa sia formazione e vita storica, va presa nell’altro significato che la realtà, l’unica realtà (comprendente in sé uomo e natura, solo empiricamente e astrattamente separati), è tutta svolgimento e vita (p. 112).
Già alla fine di quel capitolo compariva quella che potremmo chiamare la curvatura estrema dell’assunto: come sia concepibile l’appartenenza a un’unica storia della vastissima cerchia di realtà che si presenta, per distanziamento temporale e spaziale, per assenza di documenti, per nostra incapacità di immedesimarcisi, impenetrabile alla nostra attuale rimemorazione. Se si dia, allora, una storicità che risulterebbe esclusa dalla coscienza storica. Il problema, che in quel testo si decantava apparentemente nel paradosso di una sfida – «Volete intendere la storia vera di un filo d’erba? Cercate anzitutto di rifarvi filo d’erba; e, se non vi riesce, contentatevi di analizzarne le parti, e magari di disporle in una sorta di storia ideale o immaginosa» (p. 113) –, è al centro del capitolo “La natura come storia senza storia da noi scritta”, aggiunto nella citata terza edizione della Storia come pensiero e come azione. La negazione della storicità alla natura, intesa come il complesso degli esseri inferiori all’uomo, per quanto diffusa tanto nel pensiero comune che tra gli addottrinati,
logicamente, è ingiustificabile non potendosi concepire (posto che la realtà sia spirito che è divenire ed è storia) una parte della realtà che non sia storia, come, d’altro canto, non si può concepire, quando alla natura pur si attribuisce una storicità, che la sua storia si svolga meccanicamente e non spiritualmente (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 284).
Tra la storia dell’umanità e la storia della natura non ci sono criteri di distinzione reale, «appartenendo l’una e l’altra in modo omogeneo all’unica spiritualità e all’unica storia» (p. 284). Ma da questi principi vanno tratte tutte le conseguenze. Infatti,
se la cosiddetta natura è spiritualità anch’essa e storia, è necessario consentire (per paradossale che l’affermazione suoni) che essa non può non avere, nei modi suoi, coscienza del suo fare, cioè coscienza della sua storia. Come si sarebbe fatta, come di continuo si farebbe, senza sentire e pensare e desiderare e volere, senza travagli e soddisfazioni, gioie e dolori, senza aspirazioni, senza memorie? (p. 284).
Il testo richiama alla mente alcune pagine bellissime della Filosofia della pratica (cit., pp. 177-78), dove la scrittura si effondeva in una celebrazione della natura tutta desiderante e fremente in gioia e dolore nell’ascesa vitale. Ma ora vanno sviluppate le determinazioni conseguenti dell’intuizione originaria. Se non si vuol guardare al mondo naturale con un inintelligente orgoglio, non diversamente da chi negasse coscienza umana agli uomini primitivi, alle classi inferiori, e via via a tutti i gruppi posti come estranei, se non si vuol costruire una inesistente separazione qualitativa, bisogna ammettere che «questa coscienza storica che è nella loro vita stessa, questa non scritta storiografia, la conoscono di volta in volta gli esseri che si chiamano naturali», i quali fanno la loro storia, «ma non la conoscono gli uomini, che non l’hanno fatta e non la fanno» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 285). Per non mettersi però alla caccia di inafferrabili linee di confine oggettive, bisogna vedere i limiti non come fattuali (il livello di passaggio dal non umano all’umano, il taglio temporale per cui si passa dalla non storia alla storia), bensì come corrispondenti e nascenti dall’effettivo bisogno storico. Per questo, bisogna che
si sia abbandonata l’idea della storiografia come passiva notazione di una realtà da noi distaccata, e si sia accolta l’altra, che è la vera, della storiografia come problema teorico nascente da un bisogno di azione o correlativo a questo bisogno. L’uomo non ricostruisce, non pensa e non scrive la storia degli esseri naturali, perché i loro bisogni di azione non sono i suoi; e anche nella stessa storia umana si disinteressa di alcune parti troppo remote dai suoi interessi presenti e vivi, come altresì, seguendo nella sua determinatezza uno di siffatti interessi, si disinteressa provvisoriamente di altri, e perciò non è attualmente in grado di costruirne la correlativa storiografia (p. 285).
Nell’unica storia il campo di luce della coscienza è dato dall’interesse conoscitivo, il quale nasce dalla vita
ogni volta che sorge il bisogno d’intendere una situazione per un’azione. Le altre determinazioni di cominciamenti sono affatto arbitrarie perché cercate e riposte in cose estrinseche o rese estrinseche (p. 285).
È questo bisogno a dare la dimensione effettiva dello sguardo storico, decidendo che cosa, nel possesso infinito che è la stessa compenetrazione del tutto, debba di volta in volta essere portato a consapevolezza attuale: di che cosa, insomma, sia necessario fare la storia.
È un concetto fondamentale, questo dell’intrinsichezza della memoria storica con il bisogno vitale (un’altra determinazione del rapporto di pensiero e azione); e Croce dovrà tornarvi più volte. Tutto da leggere, in proposito, sarebbe un saggio del 1946, Lo storicismo e l’inconoscibile («Quaderni della “Critica”», 2, 5, pp. 14-20):
Nella seria indagine e ricostruzione storica tutte le parti della realtà diverse da quella che appartiene al problema che si ha dinanzi decadono a secondarie, diventano inattuali, sono conosciute solo sommariamente o parzialmente, e nella maggior parte addirittura dimenticate. Così si spiega che, entrando tutti i fatti a comporre l’unica storia, si oda parlare di fatti storici e di fatti non storici, i quali ultimi sono non altro che i fatti che non suscitano attuale interesse conoscitivo, fatti storici bensì ma per così dire in aspettativa e in un’aspettativa che si può prolungare all’infinito (in Filosofia e storiografia, 1949, a cura di S. Maschietti, 2005, p. 132).
Così è nata l’illusione che oltre ai fatti storici vi siano fatti naturali, i quali, se presi per tali sono nostre costruzioni pratiche, nella realtà sono anch’essi storici:
quei fatti storici che attualmente non sono oggetto di problemi e di indagini perché storicamente non interessano, e, lasciati perciò in coacervi a noi estranei, restano più o meno a lungo abbandonati alla trattazione naturalistica, qualificati con note estrinseche e comuni, classificati e solo a questo modo adoperati nelle pratiche deliberazioni. […] E in questo modo si circoscrive il mondo che storicamente conosciamo e nel quale viviamo, e fuori di esso rimane tutto il resto che fu conosciuto nell’atto del suo farsi e che potrà risalire di nuovo alla conoscenza, ma che, per intanto, non serve conoscere e sta a noi estraneo, natura muta (p. 133).
Se l’intera realtà è il dato in cui viviamo, ci muoviamo e siamo, si tratta di sentirsi in esso come in un territorio non straniero, ma consustanziale, e quindi in un mondo tutto razionalmente compenetrato e potenzialmente comunicabile. Lo storicismo è allora il modo per riconoscere concettualmente questo dato, senza sgomentarsi davanti all’«infinito della quantità e dell’immaginazione», come lo chiama Croce (p. 133), e senza annientarsi nell’indifferenziato abbraccio mistico. La totalità concreta, finitezza-infinitezza, è quella raggiunta ogni volta nell’effettiva conoscenza storica e realizzantesi nell’azione.
In proposito, una formulazione particolarmente efficace si può trovare in uno dei Paralipomeni del libro sulla “Storia” (i primi diciotto furono pubblicati nel 1940 sulla «Critica» e nel 1941 in Il carattere della filosofia moderna, quelli successivi solo in questo libro), e precisamente nel tredicesimo, Particolarità e totalità della storia. Ribadito che «la genesi del problema storiografico è sempre in un bisogno del fare» («La Critica», 1940, 38, poi in Il carattere della filosofia moderna, a cura di M. Mastrogregori, 1991, p. 198), e quindi in un bisogno specificato secondo le categorie o modi del fare (economico, etico, estetico, filosofico),
altrettanto energicamente bisogna insistere sull’altra e complementare proposizione: che ogni storiografia speciale è storia dell’unica realtà, del tutto che immane nel particolare, il che si dimostra col considerare che in ogni singola opera, in ogni singolo atto si contrae la storia tutta, e che il nuovo atto, la singola opera è sempre in funzione del tutto col quale e nel quale soltanto essa è intelligibile. La storia del tutto ci è sempre presente, non per sé, in una separazione di astrattezza, ma concreta e viva dentro ciascuna storia particolare (p. 199).
Solo entrando in quest’ordine di concetti si comprende l’affermazione di Croce – che parrebbe così ardua da accogliere oppure così facilmente equivocabile – secondo cui ogni vera storia è sempre storia contemporanea: affermazione da cui partiva la trattazione di Teoria e storia della storiografia e che viene riproposta e rimeditata nelle pagine della Storia come pensiero e come azione:
Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di «storia contemporanea», perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni (p. 13).
La coscienza di questo legame, e dunque della pienezza della conoscenza determinata nella quale è di volta in volta presente il tutto, permette di difendere la verità storica contro l’agnosticismo, lo scetticismo, e le connesse ricadute nel misticismo dell’irrazionale.
La forma più grave dello scetticismo storico, leggiamo nel primo dei Paralipomeni (Storie pragmatiche o storie d’intenzioni e disegni),
non è quella circa la certezza delle testimonianze, ma l’altra sulla razionalità, e perciò sull’intelligibilità, della realtà della quale siamo parte operando in lei e per lei col pensare e col fare («La Critica», 1940, 38, poi in Il carattere, cit., p. 124).
Nel vacuum della vecchia filosofia e in mancanza di una nuova consapevolezza teorica del proprio ruolo e del proprio valore morale e politico, la cultura storica degli specialisti si sta dimostrando indifesa di fronte agli attacchi portati all’interezza della realtà, e quindi alla verità, dalle forze messe in movimento dalla stessa portata del presente.
Sulla percezione della profondità di una crisi filosofica e religiosa in atto, Croce aveva intrapreso quel lavoro di sgombero delle macerie e di ricostruzione su basi nuove nel quale si era identificato fin dagli inizi. Di quella crisi, il prologo era stato interamente rappresentato nel cielo delle idee tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Ora, dopo la grande guerra europea e mentre una seconda se ne prepara, gli effetti pratici degli scompensi spirituali si sono riversati sul terreno fertile della crescita sociale complessiva, travolgendo, frantumando e insieme riplasmando apparati istituzionali e destini intellettuali. In questo quadro, il discorso sulla filosofia-storia non si riduce a una didascalica di settore, non si risolve in una disputa tra studiosi: o piuttosto, agli studiosi e scrittori di storia si rivolge, ma affinché si attrezzino a non essere timidi e a non dubitare del proprio compito.
L’esempio da seguire non può allora essere quello di Burckhardt – ma per lui, rispetto a Ranke, Croce mostra altro apprezzamento, mettendone in rilievo la diversa finezza e ricordandone l’«aborrimento contro la forza, contro quella “Macht” a cui il Ranke s’inebriava riverente» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 104) – l’esempio non può essere quello del dotto che per la sua stessa sensibilità si ritrae e rinuncia a impegnare battaglia abbracciando invece il pessimismo, con il fondo di «eudemonismo inappagato» che c’è in tutti i pessimismi. Per cui
volle cercare scampo dal mondo, dal brutto mondo già in atto e dal peggiore che s’annunziava; e scelse per luogo di rifugio proprio la storia, che gli avrebbe offerto il “punto archimedico” per contemplare serenamente lo spettacolo delle cose umane. Senonché la storia non è pensabile in un punto archimedico fuori del mondo, perché tutt’al contrario, solamente nel mondo, tra i contrasti del mondo, sorge di essa il bisogno e, col bisogno, l’indagine e l’intelligenza (p. 100).
Soprattutto indicativo è il confronto con Friedrich Meinecke, che occupa la seconda parte del volume, “Lo storicismo e la sua storia”. Meinecke è il contemporaneo che più rappresenta, nell’alta cultura universitaria, il conflitto tra idealità e forza, tra sentimento liberale e inarrestabilità del potere, tra universalismo civile e radicalità nazionale: un dramma che egli vive di persona come professore nella Germania del travagliato dopoguerra e poi della dominazione hitleriana, e che orienta le sue grandi ricostruzioni di storia delle idee. Lo scritto di Croce (già apparso nel 1937, prima in francese – La naissance de l’historisme, «Revue de métaphysique et de morale», 44, 3, pp. 603-21 – e poi in italiano – La nascita dello storicismo, «La Critica», 35, pp. 328-43) discuteva i due volumi dell’opera Die Entstehung des Historismus, pubblicati da Meinecke nel 1936 (trad. it. 1954). Pur non lesinando riconoscimenti alla dottrina dell’autore, Croce contestava l’intera ricostruzione e la stessa definizione di storicismo quale Meinecke traeva dai precorrimenti settecenteschi e dalle fonti tedesche. L’impedimento a uscire dall’antinomia tra generalità della ragione illuministica e individualità romantica stava nella filosofia, o insufficienza filosofica, di partenza: che portava Meinecke a non comprendere a pieno quanto il nuovo concetto di individualità, e quindi lo storicismo, dovesse a una filosofia come quella hegeliana; e a non riconoscere che, da un punto di vista rigoroso,
lo storicismo non presenta, nel secolo decimottavo, se non un solo vero e proprio precursore, Giambattista Vico, del quale il Meinecke […] tratta in un accurato e diligente paragrafo, pur non assegnandogli il posto unico, la figura di solitario, che gli spetta (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 66).
Nella nuova concezione, l’individuale «è un individuale razionalizzato e, solo mercé dell’universale, storicamente individuato», quindi sottratto all’ombra dell’irrazionale e dell’ineffabile:
A questo individuale, al quale non poteva pervenire il vecchio razionalismo illuministico per aver separato individuale e universale e fattone due astrazioni e due empirismi sterili, perviene il razionalismo concreto o storicismo, che certamente si distingue dall’altro per la sua forza individuante, ma appunto perché questa forza individuante è forza logica di universale. Rimossa l’indebita separazione, l’universale palpita nella realtà non altrimenti che col palpito dell’individuale; e quanto più si ficca l’occhio al fondo di questo, più si vede a fondo l’universale (p. 61).
Il razionalismo concreto è quello di una ragione non rinunciataria, disposta a un integrale riconoscimento di realtà. Il che spiega il posto di anticipatore riservato a Vico, nel quale appunto
si vede la redenzione di tutte quelle cose che il razionalismo intellettualistico aborriva, tenendole irrazionali, il loro innalzamento a peculiari forme di razionalità, distinte, opposte e legate alle altre che sole si solevano riconoscere come tali (fantasia verso filosofia, forza verso diritto); e, insieme con questo, la giustificazione delle forme primitive e barbariche della società, come gradi necessarî e positivi della storia e pertanto della civiltà, se da esse vien fuori la civiltà specificamente detta (p. 67).
Proprio la possibilità di questa «redenzione», proprio l’acquisizione concettuale della ragione concreta, manca nella visione della storia di Meinecke:
Il Meinecke, invece, fa consistere lo storicismo nell’ammissione di quel che d’irrazionale è nella vita umana, nell’attenersi all’individuale senza peraltro trascurare il tipico e il generale che vi si lega, e nel proiettare questa visione dell’individuale sullo sfondo della fede religiosa o del religioso mistero (p. 60).
Motivo costante, in questa come nelle precedenti opere di Meinecke, era ciò che egli chiamava la polarità di natura e spirito in tutte le costruzioni umane, una polarità che apriva poi un antagonismo irriducibile, con la civiltà continuamente in pericolo di cadere nella peccaminosa natura. Attraverso il caso di Meinecke, Croce viene a investire una più generale condizione di disorientamento e di lacerazione tra gli intellettuali, sia che fissino sbigottiti il conflitto di ethos e kratos, sia che annullino la dissociazione nella dedizione totale all’ideologia. Mantenere razionalmente riconoscibile il nesso di morale e politica, di forze morali e forze vitali, quanto più il presente ne sperimenta tensioni distruttive, significa continuare a tessere la tela della comunicabilità culturale fin nelle situazioni estreme. Ma per questo è necessaria una ragione intera, capace di ritrovare sé stessa nelle più diverse forme, senza rinunciare a comprendere e senza abbandonare al cosiddetto irrazionale alcuna parte della realtà:
Come se l’irrazionale fosse un elemento della storia e della realtà e non già l’ombra che il razionale stesso proietta, la faccia negativa della sua realtà, intelligibile e rappresentabile solo in quanto si rappresenta e s’intende questa (p. 159).
Questo significa che anche ciò che pare irrazionale, e come tale da rigettare o deplorare, è, considerato di per sé, materia di conoscenza storica e quindi riconoscibile nella sua specifica razionalità. Ne derivano storie dell’attività nelle sue più diverse forme, applicazioni, tecniche: storie speciali, distinguibili dalla storia per eccellenza, civile o morale o etico-politica; a patto di continuare pur sempre a guardarle «in relazione con la storia civile, come storie degli ostacoli che essa incontra, dei bisogni che deve soddisfare col risolverli in sé, dei mezzi che le si offrono e dei quali si giova» (p. 161). Il concetto che le accomuna, e quindi il piano su cui vanno valutate, cioè riconosciute razionalmente, è quello delle attività utilitarie e anche elementarmente vitali:
Sono tutte storie della vitalità, delle varie manifestazioni della vitalità, così della realtà detta inferiore o naturale come del genere umano: manifestazioni della vitalità che sorge e si diffonde impetuosa, sopprimendo altre vite e occupandone il posto, o che s’insinua con l’astuzia e si procura mezzi di godimento mercé dell’industria e degli scambî, e simili. La vitalità non è la civiltà e la moralità, ma, senza di essa, alla civiltà e alla moralità mancherebbe la premessa necessaria, la materia vitale da plasmare e indirizzare moralmente e civilmente; sicché alla storia etico-politica verrebbe meno il suo proprio oggetto (p. 161).
Senza il riconoscimento di questo nesso categoriale si resta fissati al contrasto tra etica e politica, tra storia della civiltà e storia dello Stato: lo Stato finisce così per caricarsi di indebite attribuzioni etiche o per assumere le sembianze di una divinità barbarica avida di sacrifici e la civiltà si contrae in un’autocelebrazione superficiale e impotente. Di qui, per gli intellettuali, gli esiti contrapposti del rifuggire da una realtà che impaura e dell’abbandonarcisi in una prassi totalizzante. Il superamento del contrasto si ha solo quando si giunge a intendere
il concetto dello Stato come momento anteriore e inferiore rispetto alla coscienza morale, e questa, nella sua concretezza, come il continuo piegare a sé e far suo strumento proprio la forza politica: il che si può classicamente esprimere con la formola della “Platonis civitas”, che non se ne stia più nella superiorità dell’astrattezza, ma discenda e laboriosamente s’inserisca nella “Romuli faecem”. Così si deduce e così si giustifica il concetto di una storia che sia etica e politica insieme in quanto indaga ed espone l’attuazione e concretezza dell’etica nella politica, intendendo questa in tutta la distesa del fare pratico e utile (p. 169).
Attraverso la citazione ciceroniana, ritornano in un riferimento implicito ancora luoghi di Vico, sulla «filosofia [che] considera l’uomo quale dev’essere, e sì non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella Repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo» e la «legislazione [che] considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società», traendo dai vizi e dalle passioni gli ordinamenti civili e dalle private utilità il bene comune (Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744, poi in Opere, a cura di A. Battistini, 1990, pp. 496-97). È una linea classica di filosofia civile che in Croce giunge all’elaborazione più compiuta in una concezione integrale della realtà. Quella che per Vico era la prova, nella storia umana, dell’esistenza di una «provvedenza divina» operante quale «divina mente legislatrice», per Croce sta nel ritmo stesso della vita universale, dell’unica realtà.
Si può allora parlare di «una nuova “storia religiosa”, non più trascendente ma immanente» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 168): religiosità di una ragione concreta, capace di comprendere e proteggere il processo per cui si crea continuamente la realtà, attraverso il pensiero e l’azione, il conoscere e il fare pratico. L’opera della civiltà è l’affermarsi di questa religiosità nella continua lotta contro le tensioni dissolutrici che vengono dalla stessa forza vitale nella sua immediatezza. Al riconoscimento di questo rapporto nel continuo «equilibrio dello squilibrio» che è la vita stessa della realtà si rivolge la storia, che quindi in senso eminente è sempre storia dell’attività morale o etico-politica:
Per tal via è dato intendere come l’attività morale, che per un verso non fa alcuna opera particolare, per un altro verso le faccia essa tutte, e regga e corregga l’opera dell’artista e del filosofo non meno che quella dell’agricoltore, dell’industriale, del padre di famiglia, del politico, del soldato, rispettandole nella loro autonomia e di tutte convalidando l’autonomia col mantenere ciascuna nei suoi confini (pp. 51-52).
Il concetto viene ulteriormente messo a punto nel ventiquattresimo dei Paralipomeni (Forze vitali e forze morali. Economia, politica ed etica, in Il carattere, cit., pp. 220-26). Non l’istanza totalitaria e pareggiatrice dell’eticizzazione integrale, ma una funzione regolatrice da riconfermare continuamente nella lotta per cui passa «la vita effettiva e concreta degli ideali morali» (p. 222); giacché «la morale resterebbe un’astrattezza se non s’appoggiasse e alleasse a qualche forza vitale o interesse economico, piegato a suo mezzo» (pp. 220-21). Affermare in questo modo
la necessaria lega delle forze morali con le forze vitali vale affermare, in quella unione, non già la sottomissione ma l’egemonia delle prime, e con ciò impedire l’identificazione o la contaminazione dei due ordini diversi, ed escludere che le seconde possano mai determinare le prime, come accade, per esempio, quando si pone in rapporto di dipendenza la libertà, che è vita morale, con certi sistemi economici, il liberalismo col liberismo (p. 223).
La libertà ha necessità di trovare sostegno in condizioni di fatto e forze determinate, riserbandosi però sempre
la libera scelta delle forze a cui, secondo le varie contingenze del corso storico, le convenga legarsi o da cui le convenga slegarsi: scelta sol di sé stessa pensosa, guidata dall’unico criterio che quelle alleanze sono buone, che salvano o accrescono la libertà morale (pp. 223-24).
Il principio egemonico non si identifica quindi in forze storiche (Stati, potenze, gruppi dominanti) determinate, ma impronta e guida tali forze. L’educazione alla realtà, cioè alla consapevolezza dell’effettualità dell’etica nell’interezza del circolo vitale, è l’effettiva educazione morale, e dunque educazione delle classi dirigenti storicamente operanti attraverso la formazione dell’ideale classe dirigente che, come il ‘volgare illustre’ nel De vulgari eloquentia di Dante Alighieri, in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla (in ogni città dà il suo profumo e non è riposto in alcuna).
Una classe dirigente c’è sempre, in qualsiasi situazione. Si tratta allora di lavorare a formare una classe dirigente il più possibile compenetrata della concezione liberale: dove il liberalismo non è un determinato regime economico e giuridico, e nemmeno un partito (anche quello liberale è un partito tra i partiti, che compare in determinate condizioni storiche e la cui azione è utile fin quando corrisponde effettivamente a tali condizioni). Il confronto decisivo non è tra la concezione liberale e i partiti e sistemi di governo (istituti tutti empirici e subordinati), ma tra essa e altre concezioni-religioni che pretendono il comando e si accampano come chiese totali e oppressive. Con queste fedi avverse può cimentarsi senza cedere né disperare solo una filosofia che fondi la propria etica, e quindi il proprio carattere di religione, sui modi costitutivi dell’essere: storia come pensiero e come azione, e quindi consapevolezza e partecipazione responsabile al continuo processo egemonico per cui si difende e si afferma la realtà.
In una nota datata Sorrento, aprile 1943, Croce parlerà, contro il «male metafisico» che è assoluta disperazione per la vita e il mondo, dell’opera risanatrice del pensiero e della gratitudine verso di esso, in un impeto di ringraziamento che
risorge talora dal profondo petto, simile a quello che dai cuori pii si rivolge al Signore. Simile? O non piuttosto identico? Il pensiero è in noi, nella parte egemonica di noi, e Dio non è altrove che in noi ed è la suprema nostra forza. […] Il ringraziamento a Dio è espressione metaforica e poetica, simbolico riconoscimento di una forza superiore, la quale adoriamo in noi solo con l’esercitarla (La gratitudine verso il pensiero, in Discorsi di varia filosofia, 2° vol., cit., pp. 570-71).
Il compito etico-politico, della civiltà, si rivela così corrispondere alla struttura stessa della realtà: dove governo del mondo e governo dell’anima, universale e individuale, fanno uno.
R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, Napoli 1966, 19953.
M. Ciliberto, Approssimazione alla “Storia come pensiero e come azione”, in Id., Filosofia e politica nel Novecento italiano: da Labriola a “Società”, Bari 1982, pp. 250-62.
D.D. Roberts, Benedetto Croce and the uses of historicism, Berkeley-Los Angeles-London 1987.
M. Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Firenze 1989, pp. 103-42, Napoli 19982, pp. 119-64, 209-53.
G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990, pp. 386-413, Roma-Bari 20022, pp. 390-417.
M. Maggi, Croce o della riconquista della realtà, in Per conoscere Croce, a cura di P. Bonetti, Napoli 1998, pp. 117-35, poi, con il titolo Filosofia come riconquista della realtà, in Id., La formazione della classe dirigente. Studi sulla filosofia italiana del Novecento, Roma 2003, pp. 65-86.