La specificità dei motivi in appello
Il giudizio di appello – da sempre al centro di accesi dibattiti – è stato recentemente rimodulato dal legislatore, proprio al fine di semplificare il sistema delle impugnazioni. In quest’ottica, particolarmente importante appare la modifica dell’art. 581 c.p.p., in tema di forma dell’atto d’impugnazione, attraverso la quale si è recepito l’orientamento giurisprudenziale più rigoroso sull’individuazione del requisito di specificità caratterizzante i motivi di appello; negli ultimi tempi, del resto, già avvalorato dalle Sezioni Unite. Il contributo che segue, illustrati i principali contenuti dell’intervento normativo in questione, intende verificare se la conseguente disciplina sia riuscita davvero a definire la tipologia delle situazioni nelle quali il difetto di specificità dei motivi di appello comporta l’inammissibilità dell’impugnazione.
Il requisito di specificità dei motivi trova la sua giustificazione nella necessità di consentire al giudice dell’impugnazione d’individuare i capi e i punti del provvedimento oggetto di doglianza: il concetto stesso di “motivo” d’impugnazione sottintende la puntuale determinazione di quei punti ai quali la critica si riferisce1. Si tratta di un requisito, riconducibile ad un’esigenza di carattere generale, che implica, a carico della parte, non soltanto l’onere di dedurre le censure che muove ad una o più questioni decise dal provvedimento, ma anche quello, ulteriore, di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle stesse censure, così da permettere al giudice dell’impugnazione d’individuare i rilievi critici presentati e di esercitare il proprio sindacato.
Con la modifica apportata, in materia di «Forma dell’impugnazione», all’art. 581 c.p.p. (art. 26 l. 23.6.2017, n. 103; cd. “riforma Orlando”), si è voluto proprio «rafforzare l’onere della parte di enunciare specificamente i motivi dell’impugnazione», così da «assicurare meglio la razionalizzazione e la semplificazione della procedura impugnativa»2. Più precisamente – secondo quanto già stabilito dalla Commissione Canzio3 – si è scelto di ampliare il catalogo degli elementi che, necessariamente, vanno specificati nell’atto di impugnazione: tale catalogo, precedentemente limitato alle «ragioni di diritto e agli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta», dopo la novellazione comprende: i «capi o i punti della decisione ai quali si riferisce» l’atto (lett. a); le «prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa valutazione» (lett. b) e le «richieste, anche istruttorie» (lett. c).
Per di più, il “nuovo” art. 581 c.p.p. contiene un’«espressa previsione di inammissibilità»4, posto che, in precedenza, l’inosservanza della disciplina ivi contenuta risultava già genericamente “sanzionata” dall’art. 5915.
La riforma de qua va collegata con quella dell’art. 546, co. 1, lett. e), c.p.p., in materia di motivazione della sentenza: questa – secondo la nuova disciplina – dovrà essere articolata per punti6 – gli stessi che, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., dovranno poi essere indicati dalle parti nell’eventuale impugnazione –, rispettivamente concernenti: l’accertamento dei fatti che si riferiscono all’imputazione e la loro qualificazione giuridica; la punibilità e la determinazione della pena (ex art. 533, co. 2, c.p.p.) e delle misure di sicurezza; la responsabilità civile derivante dal reato; nonché – infine – l’accertamento di ogni altro fatto da cui dipende l’applicazione di norme processuali (v. art. 187 c.p.p.).
In relazione a ciascuno di tali temi decisi, il giudice è tenuto, poi, ad esporre concisamente «i motivi di fatto e di diritto», posti a base delle determinazioni assunte, con specifico riferimento ai «risultati acquisiti», ai «criteri» di valutazione della prova «adottati» (v. art. 192, co. 1, c.p.p.) e alle «ragioni» per cui non sono state ritenute «attendibili le prove contrarie». In sostanza, con la modifica della disciplina relativa alla motivazione della sentenza, si è elaborato «un modello legale della motivazione in fatto della decisione»7, idoneo non solo a esplicitare il «ragionamento probatorio» del giudice ma anche a fissare il «paradigma devolutivo»8; cioè, il modello secondo il quale le parti dovranno articolare l’esercizio della facoltà di impugnazione, così definendo l’ambito di cognizione del giudice di appello.
Più in generale, la novellazione degli artt. 546 e 581 c.p.p. risulta particolarmente significativa proprio perché ha rafforzato il preesistente legame tra motivi di appello e motivazione della sentenza impugnata, fissando, per entrambi, un più rigoroso standard logico-argomentativo.
Invero, con la riforma de qua, il legislatore ha inteso “consolidare” nel dato normativo9 l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo circa i requisiti dei motivi d’appello ai fini dell’ammissibilità di questo stesso gravame; orientamento di recente recepito dalle medesime Sezioni Unite, con la decisione 22.2.2017, n. 8825, in CED rv. n. 268822.
A quest’ultimo proposito, va preliminarmente ricordato che, prima di questa pronuncia, nella giurisprudenza di legittimità vi era un contrasto in merito al requisito di specificità dei motivi, stabilito ai fini del giudizio di secondo grado: secondo un indirizzo, tale specificità si sarebbe potuta valutare con minor rigore rispetto a quella necessaria ai fini di un valido ricorso per cassazione, data la peculiarità di quest’ultimo giudizio10 nonché in virtù del favor impugnationis11; tuttavia, si era sviluppato anche un orientamento opposto, propenso a ritenere la sostanziale omogeneità della valutazione relativa alla specificità dei motivi, fossero stati questi di appello oppure di ricorso per cassazione12. Per giunta, la questione si evidenziava come particolarmente problematica quanto al caso in cui in appello fossero state riproposte deduzioni già prospettate in primo grado e disattese dal giudice di prime cure13.
In esito a simile contrasto, le Sezioni Unite hanno considerato la diversità strutturale tra i due giudizi ininfluente sull’applicazione (generale) delle regole di ammissibilità dell’impugnazione: le peculiarità dell’appello e del ricorso per cassazione – è stato dedotto – si evidenzieranno solo dopo che l’impugnazione abbia superato il vaglio di ammissibilità; «il quale non muta, se a venire in rilievo è la necessità che i motivi d’impugnazione siano specifici»14. Di conseguenza, l’appello (come il ricorso per cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati «i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione impugnata».
In sostanza – ha precisato il Collegio allargato –, deve pur sempre sussistere «una correlazione tra le argomentazioni svolte nel motivo di impugnazione e quelle poste a base della decisione impugnata»; inoltre, il giudice d’appello, così come quello di cassazione, nel vaglio di ammissibilità, è chiamato a valutare non già «la fondatezza della tesi esposta», bensì «l’esistenza di una critica pertinente e argomentata»15. Di conseguenza, per superare tale vaglio, l’appellante, nei motivi d’impugnazione, non potrà limitarsi a prospettare al giudice di secondo grado una soluzione alternativa, ma dovrà puntualmente confutare in fatto e in diritto le ragioni espresse nella sentenza appellata.
Né – secondo la Cassazione – a questa conclusione si può opporre il principio del favor impugnationis, perché «la necessità di valutare con minore rigore la specificità dei motivi di appello, rispetto a quelli di ricorso per cassazione, non può comportare la sostanziale elisione di tale requisito».
Né la diversità strutturale tra i due giudizi deve indurre a ritenere che «la riproposizione di questioni già esaminate e disattese in primo grado sia di per sé causa di inammissibilità dell’appello». L’appello rientra, infatti, nei “gravami”, che sono gli strumenti attraverso i quali si realizza il doppio grado di giurisdizione. Simili mezzi sono diretti non solo a denunciare un vizio della sentenza, ma anche a provocare un nuovo giudizio sugli elementi fattuali già considerati. Del resto, al giudizio di appello è connaturata proprio una nuova verifica delle questioni, affrontate in primo grado, della cui soluzione la parte – che dette questioni abbia proposto e sostenuto – non sia rimasta soddisfatta16.
Se – da un lato – appare ragionevole presumere che sulla riformulazione dell’art. 581 abbia inciso anche l’anzidetta decisione n. 8825/2017, dall’altro, occorre riconoscere che tale novellazione segna l’almeno provvisorio abbandono d’un progetto più ampio e ambizioso per la riforma del giudizio di secondo grado17. Del resto, nel testo originario del d.d.l. n. 2798, non era stata prevista la sostituzione di tale articolo, essendovi il radicale disegno di trasformare l’appello in mezzo a critica vincolata, sulla falsariga del ricorso per cassazione18.
D’altronde, una simile rimodulazione, pur essendo opportuna, sarebbe potuta risultare contrastante con la tradizione nazionale: occorre ricordare, infatti, che, nei Paesi di common law, in cui l’appello è consentito con estrema parsimonia19, il verdetto della giuria non è motivato; mentre, nel nostro sistema processuale, la motivazione – come attesta anche la recentissima novellazione dell’art. 546, co. 1, lett. e), c.p.p. – assume un ruolo centrale. In sostanza, emerge la tendenza a elevare lo standard quantitativo della decisione, al fine di assicurare un esercizio più responsabile della funzione giurisdizionale.
Tuttavia, la riforma non pare risolvere, in modo convincente, il problema relativo alla specificità dei motivi di appello: resta, infatti, la difficoltà di comprendere l’effettivo significato della locuzione “indicazione specifica”, riferita alle ragioni di diritto e agli elementi di fatto da porre a fondamento delle richieste formulate nell’impugnazione. Come è stato osservato20 (con particolare riguardo alla richiesta di riforma del provvedimento di primo grado) il «termine specifico non assume altro significato che quello di pertinenza della causa petendi al petitum»: l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto dovrà essere direttamente collegata con la soluzione prospettata e tale da consentire al giudice di secondo grado d’individuare il punto o i punti della decisione criticata.
In altri termini, la “specificità” che deve caratterizzare i motivi di appello impone comunque all’impugnante l’onere di contrapporre, alle ragioni poste a fondamento della decisione di cui si duole, argomentazioni che ai peculiari passaggi della motivazione di questa stessa attengano; oppure concreti elementi fattuali pertinenti ai temi considerati dal giudice di prima istanza; quindi, egli non potrà limitarsi semplicemente a confutare il “decisum” del giudice di primo grado con considerazioni generiche e astratte.
Non si può negare, però, che i parametri così individuati risultino “elastici”; onde appare lasciato alla giurisprudenza – con una delega pressoché “in bianco” – il compito di stabilire il grado di specificità concretamente necessario per superare il vaglio di ammissibilità. Peraltro, alcuni ulteriori criteri per fissare il mentovato requisito di specificità sembrano ricavabili dai “nuovi” artt. 581 e 546 c.p.p.
Particolarmente significativo appare il riferimento fatto dal “nuovo” art. 546 c.p.p. all’art. 187 dello stesso codice: l’enunciazione delle ragioni della decisione dovrà riguardare (tra l’altro) i fatti da cui dipende l’applicazione delle norme processuali; di conseguenza, non potrà ritenersi ammissibile il gravame sorretto soltanto dalla deduzione dell’invalidità, essendo necessaria la dimostrazione delle ragioni di questa e la specificazione dei suoi effetti21.
Non è chiaro, invece, se la parte appellante, una volta dedotta nei motivi d’impugnazione l’incompetenza per territorio (e specificatene le ragioni), debba anche indicare il giudice territorialmente competente. Pare preferibile, però, la soluzione negativa, giacché, una volta eccepita l’incompetenza per territorio, l’errata indicazione del giudice territorialmente competente non dovrebbe precludere alla Corte di appello di trasmettere gli atti al pubblico ministero presso un diverso giudice22.
Inoltre, resta controverso se – come sostenuto dalla prevalente giurisprudenza23 – la necessaria specificità dei motivi escluda che l’impugnazione della sentenza di primo grado in punto di responsabilità possa ritenersi implicitamente comprensiva anche della doglianza riguardante il trattamento sanzionatorio24. Invero, la tesi negativa suscita notevoli perplessità. Se (qualora non operi il divieto di reformatio in peius) non può negarsi alla Corte d’appello il potere di applicare una pena più grave, non si vede perché lo stesso giudice non possa disporre d’ufficio una pena più lieve. L’oggetto del giudizio di appello non è il motivo, bensì il punto della decisione al quale il motivo si riferisce (v. art. 597, co. 1, c.p.p.); in particolare, nel caso d’impugnazione in punto di responsabilità, l’intero capo della sentenza25.
Inoltre, più in generale, il giudice d’appello, anche in mancanza di uno specifico motivo di gravame, deve pur sempre, in forza del principio costituzionale di legalità della sanzione, modificare la sentenza che abbia inflitto una pena la quale, nella sua entità, appaia illegale per eccesso.
1 Cass. pen., 6.4.2004, n. 25308, in CED rv. n. 228926.
2 Bargis, M., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del d.d.l. n. 2798 approvato dalla Camera dei deputati, in www.penalecontemporaneo.it, 19.10.2015.
3 Canzio, G., Verso una miniriforma del processo penale: le proposte della Commissione Canzio, in www.penalecontemporaneo.it, 27.10.2014.
4 Gialuz, M., Le impugnazioni, in Gialuz, M.-Cabiale, A.-Della Torre, J., Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 3.
5 Spangher, G., La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2016, fasc. 1, 88. Sul punto, v anche Marandola, A., A proposito della specificità dei motivi d’appello, in Parola alla difesa, 2016, 1, 18; Suraci, L., Le disposizioni generali sulle impugnazioni, in Spangher G., a cura di, La riforma Orlando. Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, Pisa, 2017, 232.
6 Spangher, G., La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Spangher G., a cura di, La riforma Orlando, cit., 20.
7 Bargis, M., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni, cit.
8 Cabiale, A., La motivazione della sentenza, in Gialuz, M.-Cabiale, A.-Della Torre, J., Riforma Orlando, cit., 19.
9 Così, Ceresa-Gastaldo, M., La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflative, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 3.
10 Tra le altre, v. Cass. pen., 13.4.2016, n. 30388, inedita; Cass. pen., 9.2.2016, n. 23317, in CED rv. n. 2666736; Cass. pen., 20.1.2016, n. 8645, inedita; Cass. pen., 24.11.2015, n. 3721, in CED rv. n. 2655827; Cass. pen., 24.11.2014, n. 5619, in CED rv. n. 262814; Cass. pen., 21.1.2014, n. 18746, in CED rv. n. 261094; Cass. pen., 7.1.2014, n. 5907, inedita; Cass. pen., 3.12.2013, n. 6609, in CED rv. n. 262814; Cass. pen., 14.10.2013, n. 1445, in CED rv. n. 258357; Cass. pen., 27.6.2012, n. 36406, in CED rv. n. 253983.
11 Cass. pen., 3.2.2016, n. 16350, inedita; Cass. pen., 24.11.2015, n. 2782, inedita; Cass. pen., 19.9.2014, n. 41082, in CED rv. n. 260766.
12 Cass. pen., 29.5.2015, n. 39210, in CED rv. n. 264686; Cass. pen., 3.7.2015, n. 17461, inedita; Cass. pen., 18.12.2015, n. 2345, inedita.
13 Sul punto, tra le altre, v. Cass. pen., 21.2.2013, n. 8700, in CED rv. n. 254584.
14 Così, Belluta, H., Inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi: le Sezioni unite tra l’ovvio e il rivoluzionario, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 2.
15 Belluta, H., Inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi, cit., 135.
16 Cass. pen., 3.3.2015, n. 11678, inedita; Cass. pen., 6.12.2013, n. 50613, in CED rv. n. 258508; Cass. pen., 20.11.2012, n. 1470, in CED rv. n. 254259.
17 Così, Belluta, H., op. cit., 141.
18 Sul punto, v. Bargis, M., op. cit., cit., 3.
19 Sull’argomento, v. Patanè, V., Processo penale inglese, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2008, 775.
20 Così, Ceresa-Gastaldo, M., La riforma dell’appello, cit., 9.
21 Spangher, G., La riforma Orlando della giustizia penale, cit., 21.
22 Marandola, A., A proposito della specificità dei motivi d’appello, cit., 22.
23 Da ultimo, v. Cass. pen., S.U., 19.1.2017, n. 12872, in CED rv. 269125.
24 La questione presenta le maggiori ricadute applicative con riferimento all’appello dell’imputato, essendo – per certi versi – più lineare con riferimento all’appello del pubblico ministero proposto contro la sentenza di proscioglimento: sulle varie implicazioni, v., ampiamente, Marandola, A., I motivi di impugnazione. Disposizioni generali e giudizio d’appello, Padova, 2008, 223.
25 Sul punto, v., Marandola, A., A proposito della specificità dei motivi d’appello, cit., 23, la quale precisa: «Se la richiesta di proscioglimento o di una decisione più favorevole (di condanna) a fronte di una sentenza di condanna di primo grado preclude al giudice – che ne avrebbe il potere – di peggiorare, comunque, la condizione del condannato – sia in caso di aggravamento del giudizio di responsabilità, sia in caso di conferma della stessa – non è chiaro perché la Corte d’appello non potrebbe – non prosciogliendo, e non derubricando il fatto – rideterminare la pena».