Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Squilibri economici e grandi contraddizioni caratterizzano la storia della penisola iberica nel XIX secolo. La spinta verso il progresso e una precoce tradizione democratica – pensiamo alla Costituzione di Cadice del 1812 – appaiono frenate dall’estrema arretratezza delle condizioni sociali, dal crescente peso politico dei militari, dal ruolo peculiare della Chiesa cattolica e da una strisciante crisi costituzionale che attraversa più o meno tutto il secolo.
La vita politica della Spagna
La crisi che colpisce la Spagna nel XIX secolo è una crisi molto profonda che contribuisce a determinare la rovina dell’impero coloniale e la fine della supremazia spagnola in America. Una crisi che trascina con sé l’intero edificio della monarchia assoluta, facendo precipitare il Paese nel lungo conflitto tra costituzionalisti e tradizionalisti, liberali e conservatori.
La vicenda prende le mosse il 17 marzo 1808, quando una folla in tumulto costringe il re Carlo IV a licenziare il favorito Godoy, forse l’amante della regina, trovato nascosto in preda al panico in un tappeto arrotolato. Dopo quarantotto ore, una nuova ribellione costringe Carlo IV ad abdicare in favore del figlio Ferdinando. Questi, diventato re come Ferdinando VII, due mesi più tardi viene cacciato dai Francesi e sul trono di Spagna sale Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone.
Nel maggio del 1808, nel Paese si scatena la rivolta contro gli invasori francesi, contro l’ancien régime e il dispotismo monarchico spagnolo, in favore di grandi riforme sociali e politiche. Un forte spirito patriottico anima i ribelli. Durata oltre sei anni e appoggiata dagli Inglesi, la guerra d’indipendenza diventa ben presto una spina nel fianco per Napoleone, costretto a invadere personalmente la penisola con il suo esercito.
L’esperienza rivoluzionaria culmina nella convocazione delle Cortes a Cadice (1810) e nella redazione di una Costituzione destinata a rimanere per decenni la bandiera del liberalismo in Europa e in America Latina. Ispirata al principio della sovranità nazionale, la Costituzione abolisce i privilegi aristocratici ed ecclesiastici, ratifica la divisione dei poteri e la centralizzazione dello Stato e istituisce, seppure in forme piuttosto complicate, il suffragio universale maschile: la borghesia è il nuovo soggetto politico del programma liberale.
Ma, dopo appena due anni, il ritorno di Ferdinando VII (1814) sanziona la restaurazione dell’antico regime: la Costituzione viene revocata e la Spagna si prepara a nuove battaglie.
Nel 1820 le truppe spagnole in procinto d’imbarcarsi per le colonie americane insorgono seguendo il pronunciamiento contro l’assolutismo dei loro ufficiali. Una ribellione provinciale spalleggia l’insurrezione dell’esercito e la rivolta si propaga in tutta la penisola. Viene ripristinata la Costituzione del 1812, su cui Ferdinando VII è costretto a giurare, ma il movimento liberale si mostra presto fortemente disunito. Ai liberali più moderati, che governano il Paese fino al 1822, si contrappongono gli exaltados, di orientamento più radicale, che li sostituiranno al potere proprio nel momento in cui cresce nel Paese l’ondata realista. Il 7 aprile 1823, su invito delle potenze della Santa Alleanza, i Francesi invadono la penisola e ristabiliscono l’ordine regio.
Nel decennio successivo, fino alla morte di Ferdinando VII (1833), persecuzioni e condanne decimano il movimento liberale.
Nel panorama europeo ottocentesco la funzione predominante assolta dai militari nella rivolta spagnola del 1820 costituisce un’eccezione che si rivelerà un tratto distintivo nella storia della penisola, come dimostrano anche successivi episodi rivoluzionari (nel 1854 e nel 1868).
Nel 1833, a soli tre anni, sale al trono Isabella II, figlia di Ferdinando VII. La successione è contestata dai carlisti, i sostenitori di don Carlos, il fratello più giovane di Ferdinando, che scatenano la guerra nel Paese in nome della reazione e del tradizionalismo cattolico. Il movimento è forte soprattutto in Navarra e nelle province basche, dove si verificano rivolte contadine contro il centralismo statale. Periodicamente, per oltre quarant’anni, il carlismo costituisce una minaccia per il sistema liberale spagnolo e per la modernizzazione della penisola, mettendo a repentaglio la realizzazione di importanti riforme.
Tra queste riforme vi è senz’altro la vendita delle proprietà ecclesiastiche, perseguita dai diversi governi con l’obiettivo di incrementare le entrate statali e accelerare il processo di secolarizzazione della società spagnola, avviato già negli anni Venti. La soppressione degli ordini religiosi maschili e la nuova destinazione di molti edifici monastici (fabbriche, scuole) completano l’attacco agli immensi poteri della Chiesa. Il Concordato del 1851 sancisce infine un compromesso tra il governo spagnolo e il Vaticano: ribadito il diritto dello Stato alla confisca delle proprietà del clero secolare, si decide di corrispondere ai sacerdoti un piccolo salario annuo e viene inoltre autorizzata una limitata ma significativa riorganizzazione degli ordini regolari maschili.
Gli anni centrali del secolo (1843-1868) sono dominati da governi di orientamento moderato. Nel 1868 una rivolta, che ancora una volta vede protagonisti i militari, caccia dal trono Isabella II. Per oltre cinque anni, caratterizzati da continui rivolgimenti di fronte, i rivoluzionari di fede liberale cercano di difendere gli ideali della monarchia costituzionale contro le posizioni più radicali di democratici e repubblicani e contro la minaccia dell’anarchia. Ma dopo diversi esperimenti – il breve regno di Amedeo di Savoia (1870-1873), la proclamazione della repubblica nel 1873 e il colpo militare del dicembre del 1874 – con Alfonso XII (1875-1885) ritorna sul trono la dinastia dei Borbone.
Artefice della restaurazione è Cánovas del Castillo, un abile politico del partito liberal-conservatore che viene nominato primo ministro. È in larga parte opera sua la Costituzione del 1876, che torna a insistere sull’autorità indiscussa del sovrano e sul ruolo dominante dei grandi proprietari terrieri. Durante il regno di Alfonso si diffonde nel Paese il fenomeno del cacicchismo, un sistema politico clientelare gestito dai notabili locali, i cacicchi, che manipolano i risultati elettorali, condizionando il voto nei loro rispettivi distretti.
Economia, cultura e società della Spagna
La Spagna del XIX secolo si apre faticosamente all’Europa e, seppure marginalmente, partecipa delle grandi trasformazioni in atto. Dopo la Rivoluzione francese vacillano i valori guida della società spagnola, fondati su ideali di vita aristocratici, e nel Paese cresce l’ostilità verso l’ordine tradizionale e i gruppi improduttivi, ossia la nobiltà e il clero.
Da sempre la Chiesa cattolica e la nobiltà assolvono un ruolo di primo piano nella società spagnola, soprattutto il potere della Chiesa ha radici molto profonde. Basti pensare che ancora durante la seconda metà del secolo i due terzi degli istituti scolastici secondari sono nelle mani di ordini religiosi. L’istruzione confessionale, inoltre, incide fortemente sulla formazione dell’élite politico-culturale del Paese e questo può spiegare, almeno in parte, la forte reazione anticlericale di molti intellettuali ottocenteschi, del popolo e degli anarchici.
La povertà economica della penisola e la debolezza strutturale delle sue forze produttive – la borghesia spagnola oltre a essere un gruppo ristretto non ha grandi ricchezze – determina il fallimento di alcune importanti iniziative. La costruzione delle linee ferroviarie, per esempio, avviata con un certo ritardo, è garantita solo dalla presenza di capitali stranieri, e le compagnie di costruzione – naturalmente straniere – si servono di materiale importato, senza contribuire affatto alla sviluppo dell’industria pesante spagnola.
Ancora per tutto il XIX secolo lo sviluppo economico della penisola è condizionato interamente dalle capacità produttive dell’agricoltura. La coltivazione estensiva, la diffusione del latifondo e la chiusura del settore alle innovazioni tecnologiche impediscono una maggiore resa della terra, condizione indispensabile per sfamare la popolazione in aumento e garantire una certa circolazione di capitali dall’agricoltura all’industria.
In questo quadro generale possiamo distinguere tre grandi fasi che scandiscono la storia ottocentesca della penisola. Nei primi decenni del secolo un periodo di riorganizzazione generale, che si conclude nel 1830 circa, accompagna la gravissima perdita dell’impero coloniale in America. Nel 1824, la sconfitta degli Spagnoli nella battaglia diAyacucho (Perú) pone fine a quindici anni di guerra civile e sancisce l’indipendenza dei territori americani.
Le grandi difficoltà che la Spagna attraversa in patria impediscono un intervento più deciso nei territori d’oltremare. Priva delle ricchezze provenienti dalle miniere peruviane e messicane e dai prodotti agricoli delle colonie, la Spagna subisce i contraccolpi di una dura crisi.
Del suo immenso impero coloniale in America sopravvivono solo Cuba e Portorico (Antille) e non è poco, considerando che le Antille sono il centro dell’economia dello zucchero e del tabacco, e che il possesso delle Filippine nel Pacifico garantisce alla Spagna il controllo di un grande mercato di scambio commerciale.
Un secondo periodo, dal 1830 circa al 1890, segna una fase di espansione dell’economia spagnola, quasi in media con il resto d’Europa. Dopo un timido avvio, le esportazioni agricole si ritagliano un piccolo spazio sul mercato europeo e si sviluppano le aziende per la conservazione della frutta, ma anche le raffinerie dell’olio d’oliva. Le regioni più ricche della Spagna, che guidano lo sviluppo economico, sono la Catalogna (industrie tessili), l’Asturia e i Paesi Baschi (ferro, acciaio). Nel 1855 a Barcellona viene proclamato il primo sciopero generale.
Infine, negli ultimi dieci anni del secolo, nel Paese si verifica una brusca frenata e appare manifesto il fallimento della rivoluzione industriale. Il secolo si chiude con la sconfitta della Spagna nella guerra scatenata dagli Stati Uniti per il possesso di Cuba (1898), e con il ritiro degli Spagnoli dall’isola, ultimo possedimento in America.
Il Portogallo
Nel 1807, per rinforzare il blocco continentale contro gli Inglesi, Napoleone decide di invadere il Portogallo, loro tradizionale alleato. Mentre i Francesi avanzano, la corte portoghese fugge precipitosamente in Brasile; ma nella primavera del 1811 l’esercito francese è costretto alla ritirata dall’intervento degli Inglesi, giunti in Portogallo già nell’agosto del 1808. La pace tra il Portogallo e la Francia viene siglata nel 1814.
Le campagne napoleoniche, l’assenza della corte e del re e i pieni poteri attribuiti al generale inglese William Carr Beresford determinano malumori e incertezze. Nell’agosto del 1820 scoppia la rivolta: la Rivoluzione francese del 1789 è il modello a cui si ispirano gli insorti. Benché riluttante, nel 1822 Giovanni VI di Braganza – diventato re nel 1816 – fa ritorno in patria, dove è costretto a giurare sulla Costituzione redatta dai rivoltosi. In Brasile rimane suo figlio Pietro che il 7 settembre 1822 proclama l’indipendenza del Paese; tre mesi più tardi viene incoronato Pietro I imperatore del Brasile.
In Portogallo la morte di Giovanni VI (1826) scatena la lotta tra le forze assolutiste, guidate dal figlio Michele, e i fautori del regime costituzionale. Ma, proclamatosi re, Michele viene sconfitto dal fratello Pietro che, dopo aver abdicato al trono del Brasile, nel 1832 guida la spedizione in patria degli esuli liberali.
Nel 1834, morto Pietro I, diventa regina sua figlia Maria II. Il suo lungo regno (1834-1853) è caratterizzato dalle aspre lotte all’interno del movimento liberale che in quegli anni si divide tra coloro che appoggiano la Carta costituzionale concessa da Pietro nel 1826 (cartisti) e coloro che invece si battono per una Costituzione più democratica (settembristi, dal nome del mese nel quale si impadroniscono del potere). Rivolte, colpi di Stato e interventi militari delle potenze europee segnano in quegli anni la decadenza inarrestabile del Portogallo.
Nel 1851 un ennesimo intervento militare inaugura un lungo periodo di stabilità politica: la Regeneração. I partiti si succedono al potere pacificamente e il Paese sembra uscire dal lungo immobilismo economico.
L’impero commerciale portoghese, un tempo esteso fino alla Cina e al Giappone, all’inizio del XIX secolo praticamente non esiste più. Perse una dopo l’altra molte colonie, con la secessione del Brasile (1822) il Portogallo non ha più possedimenti in America. A parte la penisola di Macao (Cina) e alcuni piccoli territori in India e in Indonesia, è in Africa – soprattutto in Angola e in Mozambico – che i Portoghesi conservano la maggior parte del loro impero.
Negli anni Ottanta, nel tentativo di prendere parte alla grande spartizione europea dell’Africa, il Portogallo rivendica la striscia di territorio che unisce l’Angola e il Mozambico. Ma i forti interessi britannici nella zona determinano il fallimento del progetto portoghese e una certa recrudescenza della crisi politica in patria.