Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il comportamento cooperativo, indispensabile alla costituzione delle società animali e umana, sembra contraddire in apparenza un punto fermo della teoria darwiniana: la competizione tra individui (diretta e indiretta) presente nella selezione naturale, causa dell’adattamento genetico. La sociobiologia è la teoria integrata che spiega in termini bioevoluzionistici i meccanismi garanti della socialità animale. La sua estensione all’uomo, insieme all’idea del suo fondatore Edward Otis Wilson di un progetto culturale egemonico e riduzionista a scapito della psicologia, dell’antropologia e della sociologia tradizionali, hanno sollevato nell’ultimo quarto di secolo accese polemiche.
Il problema dell’altruismo e la nascita della sociobiologia
La sociobiologia, in quanto teoria generale del comportamento sociale degli organismi, nasce dal lavoro di sintesi compiuto su dati di etologia, genetica ed ecologia di popolazione e di biologia evoluzionistica da Edward Otis Wilson, con lo scopo di comprendere e spiegare i meccanismi evolutivi soggiacenti il comportamento sociale. Poiché necessita di cooperazione, infatti, il comportamento sociale solleva un grosso problema; se l’evoluzione dipende dalla competizione, non si vede in che modo la cooperazione abbia potuto evolversi. Wilson, studioso di formiche, era particolarmente interessato agli imenotteri sociali (formiche, vespe, api) caratterizzati dal fenomeno delle caste sterili. E molte pagine del suo libro del 1975, Sociobiologia, la nuova sintesi, giudicato come il manifesto della teoria sociobiologica, trattano di questi insetti. La sua ricerca muove quindi da un problema ricorrente nella teoria dell’evoluzione, e cioè, come spiegare l’esistenza delle caste sterili negli imenotteri sociali e, più in generale, l’esistenza di fenomeni altruistici (si definisce altruistico l’atto che non aumenta la probabilità di sopravvivenza – o l’idoneità riproduttiva – di chi lo esegue, ma quella – o l’idoneità riproduttiva – del beneficiario). La questione era già stata sollevata da Charles Darwin nel capitolo dell’Origine delle specie (1859) dedicato agli istinti e agli insetti sociali. Essendo consapevole che la selezione naturale (in quanto meccanismo agente a livello di individuo) non può spiegare l’origine e l’evoluzione delle caste, Darwin avanza l’idea che possa esistere un meccanismo, che chiama selezione applicata alla famiglia, che avvantaggia il gruppo di parenti di un individuo sterile (un’ape operaia, ad esempio) a discapito dell’individuo.
In anni precedenti la Teoria sintetica dell’evoluzione il modellista americano Sewall Wright aveva impiegato l’espressione selezione tra gruppi, pensando a una selezione che fosse il risultato di una diversa probabilità di riproduzione non tra individui ma tra popolazioni di individui (selezione tra popolazioni, selezione interdemica). Poi, negli anni Quaranta, affrontando altri problemi, Wright elabora un modello di diffusione di geni svantaggiosi per l’individuo portatore. Il modello prevede che copie di questi geni svantaggiosi (e quelli per l’altruismo sono svantaggiosi per la fitness dell’altruista) si sarebbero potuti diffondere anche solo per deriva genica, ma a patto di essere presenti in gruppi molto piccoli di individui. Anni prima il genetista inglese John Burdon Sanderson Haldane, indagando sull’altruismo, si era chiesto quale potessero essere le condizioni demografiche ideali facilitanti la diffusione di caratteri altruistici, arrivando a concludere che semmai fossero esistiti geni per l’altruismo essi si sarebbero potuti diffondere solo all’interno di piccoli gruppi di individui. Haldane precisa che il piccolo gruppo avrebbe dovuto essere formato da individui imparentati la cui probabilità di fare figli aumenta grazie alla presenza di questi geni per l’altruismo in un individuo del gruppo, del quale abbassano la vitalità. Il fatto interessante è che Wright e Haldane giungono per vie completamente diverse alla stessa conclusione: geni svantaggiosi per un individuo si possono conservare e diffondere a patto che il gruppo di appartenenza dell’individuo sia molto piccolo. Negli anni Sessanta il genetista inglese John Maynard Smith trattando di selezione sopraindividuale conia l’espressione selezione di parentela (kin selection) per indicare l’affermarsi di caratteristiche che favoriscono la sopravvivenza dei parenti più stretti di un individuo (sia discendenti diretti come i propri figli che discendenti indiretti). La kin selection è tanto più importante quanto maggiore è il grado di parentela tra gli individui.
In un settore diverso, quello dell’ecologia, negli stessi anni, alcuni studi popolazionistici arrivano alla conclusione che la regolazione demografica delle popolazioni di certi roditori artici si compie attraverso una selezione interdemica, una selezione analoga alla selezione di parentela. Poi nel 1962 l’ecologo inglese Vero Copner Wynne-Edwards ipotizza che certe popolazioni animali esercitino un controllo demografico spontaneo, in funzione delle risorse alimentari disponibili, attraverso un meccanismo genetico che chiama selezione di gruppo. Nel suo libro, Animal Dispersion in Relation to Social Behaviour (1960), Wynne-Edwards scrive che fenomeni come il territorialismo e le gerarchie sociali possono essere visti come dispositivi etologici di controllo delle nascite evolutisi a vantaggio della specie, in quanto impediscono la sovrappopolazione. Quest’idea è però criticata da molti biologi, tra cui uno dei massimi teorici dell’evoluzione, l’americano George Williams, che ne mette in risalto le debolezze teoriche. Comunque il libro stimola molta ricerca teorica e sperimentale su numerosi aspetti della socialità. Tra le diverse ipotesi avanzate per spiegare l’esistenza dei differenti tipi di atti altruistici descritti in letteratura si impone quella dell’inglese William Hamilton basata sulla kin selection. L’idea sottostante la teoria di Hamilton è che quanti più geni in comune un beneficiario ha con un donatore-altruista, tanto più il donatore ottiene un beneficio dall’essere altruista: un altruista (ammesso che sia capace di riconoscere i propri consanguinei) tende ad aiutare i parenti stretti più di quanto non faccia con quelli lontani. Hamilton elabora un modello estremamente verosimile di come si sia potuta affermare nel corso dell’evoluzione la socialità delle api, fra le quali le operaie formano una casta di femmine sterili. Per risolvere il dilemma Hamilton introduce il concetto di fitness complessiva (inclusive fitness) di un individuo, da intendersi come la somma della fitness diretta (cioè la normale idoneità riproduttiva individuale, pari al numero di figli prodotti che raggiungono l’età adulta) e della fitness indiretta (cioè gli effetti benefici, prodotti dal comportamento dell’individuo, a favore di altri individui imparentati ma non diretti discendenti). Hamilton riesce a dimostrare, perciò, che anche se un individuo non si riproduce (fitness diretta pari a zero, come nel caso dell’ape operaia), la sua fitness complessiva può essere positiva se con il suo comportamento avvantaggia altri consanguinei non diretti discendenti; per esempio con il suo “sacrificio” l’ape operaia avvantaggia la sorella regina con la quale – per speciali meccanismi genetici di determinazione del sesso – condivide il 75 percento dei geni; mentre la quantità di geni in comune tra i fratelli è del 50 percento: la parentela tra sorelle è maggiore di quella tra fratelli.
In una popolazione, perciò, un comportamento altruistico può evolvere se esso aumenta la fitness complessiva dell’individuo che lo attua. La scoperta fatta da Hamilton, una tra le maggiori conquiste conoscitive della biologia del Novecento, ha un’enorme importanza teorica perché riconduce l’evoluzione dei comportamenti altruistici all’interno della spiegazione darwiniana classica basata sulla selezione individuale. La kin selection è infatti una semplice variante della selezione individuale.
Dall’altruismo del fenotipo all’egoismo del gene
I concetti di fitness complessiva e di kin selection permettono di concludere allo zoologo Richard Dawkins di Oxford che l’altruismo è un fenomeno “di superficie”, fenotipico, perché a livello genotipico permane un sostanziale “egoismo” dei geni. Un’azione è solo in apparenza altruistica se l’individuo che la esegue aumenta la probabilità che vengano riprodotte copie identiche dei propri geni nei consanguinei, se l’individuo incrementa cioè la propria fitness globale: a livello genotipico i comportamenti altruistici accrescono dunque la fitness di chi li esegue, sono quindi “egoistici” e non rappresentano un problema per la teoria della selezione naturale. In Il gene egoista, pubblicato nel 1976, Dawkins fa un passo in più rispetto al darwinismo (secondo cui l’evoluzione per selezione è sostanzialmente riducibile a una competizione tra organismi) sostenendo che a competere sono i geni, le uniche entità che perdurano attraverso le generazioni: gli individui non sarebbero altro che contenitori, veicoli al servizio dei geni. L’adesione di Dawkins alla sociobiologia porta con sé l’idea che tutti i prodotti fenotipici dell’evoluzione, compresi tutti gli adattamenti osservabili, non sono niente altro che dei dispositivi evolutisi per favorire il successo riproduttivo dei geni. La sua è una teoria genecentrica che verrà tenacemente e aspramente criticata dal paleontologo Stephen Jay Gould.
A proposito del genecentrismo, Richard Lewontin, genetista ad Harvard, ha giustamente osservato che non c’è nessun motivo teoricamente fondato per cui si debba privilegiare nell’analisi evoluzionistica i geni e non i fenotipi, suggerendo che forse questa preferenza possa essere condizionata dal fatto che i fenotipi sono caduchi (scompaiono con la morte dell’individuo), mentre il DNA è imperituro e che questo colpisce noi mortali. Ma se questo fosse il motivo, si tratterebbe allora di un’opzione metafisica, infondata scientificamente.
La sociobiologia umana
È accertato che la cooperazione è indispensabile alla formazione delle società animali. Per spiegarne l’origine e la diffusione oltre alla possibilità di un reciproco vantaggio tra individui non imparentati (altruismo reciproco di Robert L. Trivers), c’è l’idea di selezione di gruppo di Wynne-Edwards, respinta quasi subito dagli evoluzionisti, e quella della kin selection con cui Hamilton riesce finalmente a spiegare l’apparente paradosso dell’ altruismo.
Wilson fonda la sua teoria sociobiologica su questo modello applicandolo non solo agli insetti sociali ma anche a specie di uccelli e mammiferi, per poi estenderla all’uomo. La posizione complessiva di Wilson è che la socialità e la cultura umane dipendono dal genotipo degli individui e che i comportamenti umani, così come si esprimono per esempio nella scelta sessuale, nella formazione della coppia e della famiglia, nell’etica e nella religione, sono darwinianamente finalizzati all’incremento del successo riproduttivo individuale. Applicando la propria teoria alla suddivisione dei ruoli tra i sessi, Wilson spiega che i maschi sono selezionati per l’aggressività, la caccia, la mobilità, la promiscuità sessuale e le femmine per la raccolta del cibo, la nutrizione e la cura della prole. Naturalmente l’applicazione diretta dei principi evoluzionistici alla socialità umana allo scopo, esplicitamente dichiarato da Wilson, di pianificare le società future, suscita negli Stati Uniti e in Europa una vera e propria ribellione. Le proteste sono di varia provenienza: dalla biologia alla psicologia, all’area delle scienze sociali. Alcune sono argomentate in termini scientifici: per esempio mettevano in luce le scarsissime conoscenze circa la base genetica del comportamento non solo nella nostra specie ma più in generale nei mammiferi e nella maggior parte dei gruppi animali; altre, sottolineando la circostanza che i caratteri etologici sono fortemente epigenetici e che la loro ereditabilità è quindi molto modesta, attaccano poi l’idea che si possa parlare di “geni per l’altruismo”, segnalando la pericolosa ipersemplificazione collegata a questo tipo di assunto; altri critici negano che si possa validamente trasferire alla nostra specie un modello costruito guardando agli insetti.
Come di solito avviene in casi simili, vi sono molti malintesi. Alle critiche, alcune sicuramente di merito, di Richard Lewontin e Stephen J. Gould (entrambi colleghi di Wilson ad Harvard) che denunciano le posizioni di Wilson, Dawkins e altri come una forma estrema di riduzionismo e di adattamentismo, se ne aggiungono altre, mosse dalla preoccupazione degli effetti deresponsabilizzanti collegati al brutale riduzionismo e al determinismo genetico che, a loro giudizio, sono caratteristici dell’approccio di Wilson che pretende di spiegare con l’innatismo e la determinazione genetica la posizione subalterna della donna nella società, o il formarsi delle classi e lo status sociale individuale.
Nel corso degli anni, negli Stati Uniti in particolare, Wilson e la sua teoria sono attaccati da circoli intellettuali che intravedono il possibile impiego distorto e socialmente pericoloso che gruppi politici conservatori avrebbero potuto fare delle spiegazioni sociobiologiche. Si ritiene che la sociobiologia sia politicamente schierata per il mantenimento dello status quo e che i fenomeni della socialità umana vadano descritti e compresi in termini antropologici e sociologici e non riduzionisticamente interpretati in termini genetici. E tuttavia, nonostante alcune inopportune o erronee semplificazioni della sociobiologia, l’idea espressa da Wilson nel libro del 1978 On human nature che sia possibile adottare principi e argomentazioni evoluzionistiche per scrutinare l’accettabilità o meno delle teorie etiche generali, ci sembra un aiuto prezioso a pensare e ad agire nel migliore dei modi possibili.