Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La società dei consumi si caratterizza per la diffusione a livello di massa dei consumi secondari, ovvero non legati all’alimentazione. Questa “democrazia del benessere” prende avvio negli Stati Uniti negli anni tra le due guerre e si sviluppa nei Paesi dell’Europa occidentale a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Tra i fattori che ne favoriscono lo sviluppo ci sono la standardizzazione della produzione, l’aumento della ricchezza nazionale e pro capite, l’urbanizzazione, l’avvento dello stato sociale e la forza espansiva del modello americano.
La massificazione dei consumi
La società dei consumi prevede i fenomeni di consumo come fattore centrale dell’esistenza sociale degli individui. In quanto tale, essa si fonda sulla democratizzazione del lusso, ovvero sull’allargamento dell’accesso ai consumi “secondari” anche per quell’ampia fascia di popolazione le cui risorse sono state fino a quel momento interamente, o quasi, assorbite dal soddisfacimento dei bisogni primari. Non a caso, uno degli indicatori più certi e visibili della nuova società è la progressiva riduzione della quota di bilancio familiare destinata al cibo, mentre crescono i consumi legati alla salute, agli svaghi, al miglioramento delle condizioni abitative. Questa “democrazia del benessere”, tendendo a rendere più omogenea la distribuzione sociale dei consumi, contribuisce potentemente a trasformare il tradizionale modello di società, caratterizzato da una struttura gerarchica di tipo piramidale, in una società a struttura romboidale, incentrata su un ceto medio in forte espansione.
Il primo, indispensabile presupposto della massificazione dei consumi è rappresentato dalla standardizzazione della produzione, che consente di produrre una grande quantità di beni a un costo unitario sempre più basso. Alle lontane origini di questo processo si trova dunque la rivoluzione industriale e soprattutto, in tempi più recenti, la produzione su larga scala garantita dall’applicazione dei metodi fordisti. Ma questa pur necessaria condizione non è certo sufficiente a creare l’habitat ideale per lo sviluppo di una società incentrata sui consumi. Gli altri requisiti sono una sostenuta crescita economica, una distribuzione almeno tendenzialmente “democratica” della ricchezza (caratterizzata in primo luogo da salari relativamente elevati) e una mentalità orientata al consumo, pronta a infrangere gli antichi tabù contadini del risparmio e della tesaurizzazione. Nell’Europa occidentale, tutto questo avviene nel secondo dopoguerra, più precisamente a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Tra il 1950 e il 1970, i Paesi dell’Europa occidentale fanno registrare un tasso di crescita annuo del prodotto interno lordo del 5,5 percento; la produzione industriale triplica il suo volume, e il tradizionale ciclo commerciale si trasforma in un ciclo ininterrotto di crescita, che nelle fasi di flessione diventa semplicemente meno rapida. A tutto questo si aggiunge un ambiente politico-istituzionale favorevole, perché il rafforzamento dello Stato sociale fa sì che, almeno in buona parte, l’andamento dei consumi sia indipendente dalle fluttuazioni del mercato. Fa così il suo ingresso sulla scena della storia una società di tipo nuovo, la quale – per la prima volta – si definisce nel segno dell’abbondanza: una “società opulenta” – affluent society la definisce l’economista John Kenneth Galbraith nell’omonimo volume del 1958, che apre una lunga stagione di dibattiti intorno alla natura e ai limiti della “società dei consumi”, – caratterizzata da una forte espansione dei consumi privati e da una rapida massificazione del mercato dei beni “voluttuari”: l’automobile, gli elettrodomestici, le vacanze.
Come si diceva, però, la società dei consumi si è sviluppata non solo grazie a un’impetuosa crescita economica e a un sistema di protezione sociale e di redistribuzione delle risorse più efficace che in passato, ma anche grazie all’emergere di una mentalità di tipo nuovo. Per una cultura contadina, ha scritto Alessandro Pizzorno, “il risparmiare è considerato un valore morale [...] all’opposto del risparmio sta lo spreco, che è invece sentito come comportamento riprovevole, in certi casi quasi peccaminoso. Spendere in cose che non siano strettamente necessarie è un modo di comportarsi che la comunità non potrà che riprovare”. Questo modello di consumo – retaggio di una lunga storia di pauperismo, riflesso di una cultura in cui la paura, l’esperienza o il ricordo della carestia sono ancora drammaticamente presenti – comincia a trasformarsi proprio a partire dalla metà degli anni Cinquanta. A far vacillare la tradizionale attitudine psicologica nei confronti dei consumi è, in primo luogo, l’intenso processo di urbanizzazione che, nel secondo dopoguerra, modifica la distribuzione della popolazione europea. L’esempio dell’Italia consente di farsi un’idea delle dimensioni che tale fenomeno può raggiungere: tra il 1951 e il 1961, la popolazione italiana cresce di più di tre milioni di unità; il 90,6 percento di questo aumento si concentra nei capoluoghi di provincia. Le quattro principali città italiane: Roma, Milano, Torino, Genova conoscono un’espansione impetuosa, mentre la percentuale di addetti al settore agricolo cala dal 43 percento al 28 percento. Altrove le cifre sono diverse, ma nel complesso la società europea viene attraversata da un massiccio fenomeno di migrazione interna, dalle campagne alle città, i cui effetti sono potenziati dal fatto che esso tende a svolgersi all’insegna del rifiuto della società tradizionale, rappresentata da quel mondo contadino che si è abbandonato. La diffusione del modello urbano, infatti, non è solo frutto dell’espansione delle città e dello spopolamento progressivo delle campagne: nel determinare la crisi della cultura contadina – in riferimento ai consumi, nel favorire il passaggio dall’“etica della formica” all’ “estetica della cicala” – svolge un ruolo fondamentale anche la televisione. Esponendo persino i paesi più sperduti alle lusinghe della città, fatte di elettrodomestici, automobili, radio portatili e vestiti in serie, la televisione contribuisce a fare dei consumi “moderni” efficaci meccanismi di socializzazione anticipatoria rispetto a valori, abitudini, modelli di convivenza propri di quella civiltà urbana alla quale si desidera appartenere: la logica dell’integrazione sociale finisce così per fare del nuovo modello di consumo una sorta di scelta obbligata.
L’“americanizzazione del quotidiano” e i limiti dello sviluppo
A promuovere una mentalità orientata verso il consumo contribuisce anche – e potentemente – la forza pervasiva del modello americano, che attraversa l’Atlantico insieme ai dollari del piano Marshall (e sulle ali di Hollywood). Frutto di una società democratica e individualista, fortemente stratificata, ma incardinata su un ceto medio diffuso, l’american way of life riflette, anche semanticamente, l’idea che tutti gli americani possano godere dello stesso stile di vita. Esportata oltreatlantico, una simile concezione allenta il legame, molto forte in una società postcetuale qual era quella europea, tra classe e livello dei consumi: tendendo a caricare i beni di consumo di una connotazione di cittadinanza piuttosto che di classe, la diffusione dell’american way of life contribuisce alla formazione di una comunità sostanzialmente omogenea di consumatori, che è presupposto indispensabile alla nascita della “società dei consumi”. L’“americanizzazione del quotidiano” in atto nel secondo dopoguerra promuove, insomma, una nuova declinazione del concetto di cittadinanza, nella quale un accesso allargato ai consumi tende a diventare, se non la sostanza della democrazia, almeno una sua parte integrante. Una cucina più funzionale, una casa più confortevole, una macchina più veloce diventano obiettivi irrinunciabili di promozione sociale, e a milioni di cittadini europei sembra che la progressiva diffusione di questi beni possa assicurare un certo grado di benessere, anche là dove (come in Italia) la diffusione e la qualità dei servizi pubblici non hanno conosciuto un incremento in alcun modo paragonabile alla crescita dei consumi privati.
Pronti a denunciare il carattere meramente illusorio di questo progresso sono invece gli intellettuali. I sociologi della Scuola di Francoforte – Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm – avviano una riflessione critica di ispirazione neomarxista che sfocia in una condanna totale e senza appello della diffusione a livello di massa dei beni di consumo: creando un’illusione superficiale di uguaglianza, tale diffusione non abolisce le distinzioni di classe, impedendone però la presa di coscienza. La “società dei consumi” depotenzia così la molla del riscatto sociale. Mosse dal desiderio di soddisfare i “falsi bisogni” creati ad arte dai “persuasori occulti” (i pubblicitari), le classi subalterne abdicano alla loro carica antagonista, accettando le regole del gioco imposte dai “padroni”. Le tematiche dell’alienazione, del sacrificio di sé sull’altare dei consumi, della mercificazione dell’uomo stesso e dei suoi valori più preziosi godono negli anni Sessanta e Settanta di un grande prestigio intellettuale. Mentre il sociologo francese Jean Baudrillard scrive la sua requisitoria contro una società che riduce tutto, persino il corpo umano, a oggetto di consumo – “segno esteriore del proprio valore di scambio” –, Pier Paolo Pasolini definisce la società dei consumi “il peggior totalitarismo che si sia mai visto” e il neonato movimento femminista accusa il consumismo di aver reso la donna sempre più prigioniera della sua gabbia privata, orientando verso l’acquisto di beni di consumo le sue spinte di realizzazione personale (la “sublimazione repressiva del desiderio” di cui parla Herbert Marcuse). Ma la contestazione della nuova civiltà dei consumi non si limita a circolare negli ambienti intellettuali: il 1968 è l’anno simbolo di una rivolta generazionale che si autodefinisce, tra l’altro, come anticonsumistica e anticapitalistica, perché combatte contro “l’uomo a una dimensione” creato dalle società industriali e in nome di un mondo meno appiattito sull’etica del benessere individuale, più sensibile all’etica della solidarietà. In realtà, l’impegno dei giovani sessantottini sortisce da questo punto di vista un effetto paradossale, perché il mercato converte rapidamente la contestazione anticonsumistica in moda, ovvero in stimolo per nuovi consumi: gli studi recenti hanno sottolineato lo stretto intreccio esistente tra protagonismo giovanile, elaborazione di una specifica identità generazionale e sperimentazione di nuovi consumi.
Tuttavia, qualcosa è cambiato: negli anni Settanta comincia a riaffiorare quella necessità di differenziazione individuale basata sulle scelte di consumo che l’omologazione di massa tipica del decennio precedente ha assai depotenziato. In questa trasformazione – a cui si lega anche un sensibile abbassamento di tono dell’euforia espansiva che ha caratterizzato la golden age europea – gioca un ruolo fondamentale la crisi petrolifera dei primi anni Settanta, la quale impone all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dei “limiti dello sviluppo”, ovvero i temi della compatibilità e della sostenibilità ambientale di un modello di sviluppo basato sulla progressiva espansione dei consumi. I primi a porre il problema del carattere non illimitato delle risorse energetiche sono un gruppo di studiosi del MIT (Massachusetts Institute of Tecnology), in uno studio del 1972 intitolato, appunto, I limiti dello sviluppo; dopo il 1973 (guerra del Kippur e conseguente quadruplicazione dei prezzi del petrolio) e ancor più dopo il 1975 (l’anno della più grave recessione dal dopoguerra) le previsioni catastrofiste si moltiplicano, allontanandosi in molti casi da quei parametri di rigore scientifico che hanno caratterizzato le prime analisi. Tuttavia, la questione della sostenibilità ambientale dello sviluppo economico riflette un problema reale: si è calcolato che, nell’eventualità che il resto del mondo sviluppi uno stile di vita simile a quello del mondo occidentale, per disporre dell’energia e dei materiali necessari sarebbe indispensabile sfruttare almeno altri due pianeti di caratteristiche equivalenti a quelle della Terra. In altre parole, allo stato attuale la “società dei consumi” può sopravvivere solo in una parte del mondo, e a condizione di poter sfruttare anche le risorse dell’altra parte. Una prospettiva niente affatto rassicurante, in verità, che mette in crisi l’ottimistica certezza che il domani sarà migliore dell’oggi e fa vacillare quell’idea di un diritto naturale all’abbondanza che si era fatta strada durante “l’età dell’oro”.