India, la sfida di Modi
La schiacciante vittoria elettorale di Narendra Modi ha sbaragliato non solo la dinastia Nehru-Gandhi ma anche i partiti delle caste. Un leader che si presenta come moderato, ma che deve far dimenticare il suo passato estremista e liberarsi dai settarismi per rilanciare il paese come potenza economica.
La vittoria di Narendra Modi alle elezioni politiche della primavera 2014 non è giunta inattesa: quello che ha stupito sono state le proporzioni.
Il suo partito, il Bharatiya janata party (BJP), ha ottenuto da solo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera bassa, la Lok Sabha – cosa che non accadeva da decenni –, e la coalizione da lui guidata (la NDA, National democratic alliance) potrà governare con tutta tranquillità.
Il Partito del Congresso ha subito una disfatta senza appello, che ha posto fine (per il momento, almeno) al dominio della dinastia Nehru-Gandhi. I partiti regionali e basati sulla casta hanno fallito, con isolate eccezioni in Bengala e nel Tamil Nadu.
Resta da capire se si sia trattato di una svolta epocale, come alcuni con forse troppa enfasi hanno commentato in Occidente, o se non si sia trattato di un passaggio importante, ma non conclusivo, del riassetto in corso negli equilibri politici del paese. Narendra Modi ha neutralizzato con una tattica aggressiva la gerontocrazia che teneva in pugno il BJP. L’impegno conclamato di rivoluzionare il partito in profondità ha indotto molti fra i dirigenti in perenne attesa a superare le remore iniziali per unirsi al carro del vincitore.
Con una campagna elettorale ipertecnologica e particolarmente attenta alla comunicazione, è riuscito a intercettare la volontà di rinnovamento che, sia pure confusamente, permeava un elettorato stanco dell’immobilismo del Congresso dinanzi alle molte emergenze del paese. Giocando abilmente le carte della sua origine di casta ‘bassa’ e del successo del ‘modello Gujarat’ (lo Stato da lui governato per un decennio) nell’attrarre investimenti e nel promuovere la crescita, è riuscito a sottrarre quote significative di voti a Sonia e Rahul Gandhi e ai partiti regionali e di casta, dando alla sua immagine nazional-popolare tradizionale un carattere tale da attrarre le élites urbane più diffidenti nei suoi confronti.
Diffidenze non prive di fondamento. Modi ha messo la sordina sul suo passato di attivista del gruppo estremista RSS (la formazione, modellata lungo le linee della gioventù fascista fondata da Veer Savarkar, il quale era un ammiratore di Mussolini, che costituisce il ‘braccio armato’ del BJP), ma i legami continuano.
Nonostante i tentativi di apertura alla minoranza musulmana, rimane l’ombra di taluni suoi atteggiamenti del passato e in particolare lo spettro dei fatti di Godhra quando, nel 2002 in Gujarat, stette passivamente a guardare (o forse incoraggiò indirettamente) l’eccidio di oltre un migliaio di musulmani per vendicare un incidente in cui erano periti in modo fortuito – ma questo lo si è saputo anni dopo – molti pellegrini hindu. Il suo nazionalismo potrebbe prendere la forma di una affermazione forte degli interessi del paese nel quadro di una più marcata apertura al mondo, o potrebbe cadere preda di una deriva in cui la sirena dell’estremismo hindu potrebbe indurlo a intolleranze pericolose.
Delle due, solo la prima potrebbe consentirgli di consolidare quel ‘decennio di potere per cambiare l’India’ cui aspira.
L’India ha un nemico storico nel Pakistan e una tradizione di rapporti difficili con tutti i suoi vicini. Invitando alla sua cerimonia di inaugurazione i leaders di tali paesi – e soprattutto il premier pakistano Nawaz Sharif – Modi ha dato prova di una notevole abilità tattica, rispondendo a quanti temevano un ulteriore irrigidimento tous azimuts della politica estera indiana. Molti dei vicini hanno in comune con l’India tradizioni e cultura: puntare sulla comune matrice per una nuova politica di buon vicinato potrebbe essere coerente con la sua visione e consentirebbe all’India di creare su basi cooperative quell’area di influenza regionale che tuttora le manca nel suo disegno di diventare una grande potenza globale.
Manmohan Singh e Narendra Modi, lo sconfitto e il vincitore, hanno in comune una caratteristica di estrema rarità in India: l’incorruttibilità. Il nuovo premier vi ha molto giocato nel suo messaggio elettorale, cosa che ha concentrato l’attenzione internazionale e raccolto consensi all’interno, tanto entusiastici nella forma quanto spesso strumentali nella sostanza: la corruzione rappresenta un modello generalizzato di vita e di comportamento assai difficile da sradicare in India. Due tentativi condotti negli ultimi anni avevano dato l’impressione che il vento potesse cambiare: il primo, il movimento di Anna Hazare, dopo una fiammata iniziale ha presto ceduto il passo all’indifferenza. Il secondo, il partito AAP di Arvind Kejriwal, dopo un primo successo alle elezioni per il governo di Delhi è praticamente uscito di scena. Il Modi incorruttibile è servito comunque a rafforzarne l’immagine in Occidente: quanto all’India, andare oltre le buone intenzioni richiederà tempo.
Modi si è presentato come un leader moderato, liberista e business friendly, alieno dai settarismi e impegnato a imprimere al paese la modernizzazione di cui ha molto bisogno. Il programma di riforme economiche della coalizione NDA è ambizioso e ha riscosso il favore del mondo dell’economia e della finanza indiane (e delle grandi multinazionali interessate al paese): dalle liberalizzazioni e dall’apertura del mercato, dalla lotta alle inefficienze e dall’eliminazione dei mille lacciuoli burocratici che strangolano l’economia dovrebbe discendere un processo di crescita che faccia tenere il passo nei confronti della Cina e produca effetti redistributivi tali da accelerare la fuoriuscita dalla povertà dei seicento e passa milioni di diseredati del paese.
I primi mesi di governo hanno confermato la difficoltà di tradurre in fatti molte delle riforme annunciate. Il messaggio di rapidità lanciato dal governo ha dovuto fare i conti con i molti interessi che nel paese remano contro l’innovazione e costituiscono una base importante di consenso per il BJP. Un’India ansimante sul piano economico e incerta sul suo ruolo potrebbe cadere preda del settarismo: solo vincendo la scommessa sull’economia Modi potrà presentarsi come il leader di una potenza mondiale, aliena da tentazioni di intolleranza. Avrebbe molto più da perdere che da guadagnare ascoltando i demoni del suo passato e appare un politico troppo intelligente e cinicamente abile per cadere in simili trappole.
O quantomeno vi sono ragionevoli elementi per sperarlo.
Le elezioni in India
- Le date: le elezioni politiche si sono svolte nel corso di 5 settimane nei diversi Stati dell’India: aperte il 7 aprile, si sono concluse il 12 maggio.
- Affluenza: si sono recati alle urne il 66,38% degli elettori, pari a circa 551 milioni di indiani.
- I protagonisti: le maggiori forze politiche che si sono sfidate sono state quelle del Partito del Congresso guidato dalla famiglia Gandhi, e il Bharatiya janata party guidato da Narendra Modi.
- Il Partito del Congresso: fondato nel 1885, è stato fondamentale protagonista per l’indipendenza dell’India, ottenuta nel 1947. Da allora il partito ha dominato la politica sotto la guida della dinastia Nehru-Gandhi.
- Il BJP: fondato nel 1980, è il partito della destra conservatrice e nazionalista hindu.