La crescita della popolazione mondiale e l’aumentata capacità d’intervento dell’uomo sull’ambiente attraverso la tecnologia hanno trasformato le problematiche ambientali da fatti locali, che possono essere gestiti dai singoli governi, a minacce globali, che sono oggetto di trattati internazionali.
Il primo caso di un problema globale che ha richiesto l’implementazione di un trattato internazionale è quello della riduzione della produzione dei cfc (clorofluorocarburi), che sono responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico, ed è stata regolamentata dal Protocollo di Montreal del 1987. In questo caso esistevano osservazioni certe che un cambiamento dannoso era in corso, la causa del cambiamento era scientificamente accertata, e sono state trovate soluzioni tecniche alternative all’uso dei cfc. Questi fatti hanno consentito di siglare rapidamente un accordo internazionale e di affrontare costruttivamente il problema. L’ozono stratosferico continua a essere depauperato a causa dalle emissioni di cfc avvenute in passato, ma l’aumento della distruzione è stato interrotto e si osservano segnali di recupero verso le condizioni naturali iniziali.
Il secondo problema globale che sta caratterizzando i rapporti internazionali è quello del riscaldamento del pianeta, spesso ricordato come global warming, e il conseguente cambiamento climatico (cc) causato dall’emissione della CO2 (biossido di carbonio), prodotta dalla combustione dei carburanti fossili. La politica internazionale ha affrontato questo problema con il Protocollo di Kyoto, stipulato nel 1997, ma i problemi etici e politici ad esso collegati fanno si che la lotta al cc si configuri come una vera e propria sfida. In questo caso non si prospetta infatti un percorso rapido ed efficace come per l’ozono. L’esistenza del problema e la determinazione delle sue cause sono scientificamente più difficili da accertare e questo elemento d’incertezza (ancorché caratterizzato da elevate probabilità) apre un acceso dibattito e genera incomprensioni fra il mondo scientifico e quello politico. Gli interventi che sarebbero necessari sono molto costosi e la politica deve scegliere fra le esigenze contrastanti di favorire il presente o il futuro. Infine, le responsabilità e le conseguenze colpiscono in modo disomogeneo i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, rendendo difficile identificare strategie che siano capaci di ottenere un vasto consenso internazionale.
Nonostante gli scenari dei possibili sconvolgimenti sociali e politici, innescati dal cc, siano particolarmente allarmanti, la mancanza di consenso ha finora impedito la delibera di interventi risolutivi. Obiettivo di questo capitolo è da una parte identificare l’importanza che il clima e i suoi cambiamenti possono avere per la determinazione di nuovi scenari geopolitici e dall’altra analizzare i meccanismi che caratterizzano il dibattito internazionale e determinano l’attuale impasse nelle scelte.
Per la comprensione dei termini di questo dibattito e della differenze che esistono fra le incertezze dell’informazione scientifica e la disinformazione interessata delle parti in causa è necessario analizzare gli aspetti scientifici e conoscitivi del clima e dei suoi cambiamenti. A questo scopo, il primo paragrafo discute l’importanza del clima, identificando quali sono gli elementi che rendono il clima un elemento caratterizzante e importante per l’economia e la società civile di molti paesi. Sulla base di queste considerazioni, nei paragrafi ‘Il clima del passato’ e ‘Il cambiamento climatico in corso’ si ricordano le informazioni che abbiamo sull’evoluzione storica del clima e si quantifica il cc in corso all’interno di questa prospettiva storica. Quelle che sono le possibili cause del cc sono ricordate nei paragrafi ‘Le forzanti e i feedbacks naturali’ e ‘Le forzanti antropiche’, dove si distingue fra le possibili cause naturali e quelle antropiche e si sottolinea la complessità del sistema climatico, che spesso evolve con processi non lineari (i feedbacks), dove si può perdere la corrispondenza diretta fra la causa e l’effetto.
Nel successivo paragrafo ‘L’attribuzione’ si discute sull’evidenza che il cc osservato è da attribuire prevalentemente a cause antropiche piuttosto che naturali. Nei paragrafi ‘Le previsioni’ e ‘Mitigazione e adattamento’ si delineano le prospettive e le possibili strategie d’intervento.
Infine nelle ‘Considerazioni conclusive’ si esamina come in questo quadro scientifico si sviluppi, sia all’interno dei singoli paesi, sia a livello internazionale, un’accesa contrapposizione su opposte posizioni sulle scelte e gli interventi con cui affrontare il cc.
I paesi del G20 emettono complessivamente 23 miliardi di tonnellate di gas serra, ovvero i tre quarti delle emissioni antropiche globali.
Stati e Uniti e Cina, da soli, emettono oltre il 40% della CO2 globale.
Per tornare ai livelli di CO2 del 1990 sarebbe necessaria una riduzione delle emissioni superiore al 30%. Le previsioni indicano tuttavia una loro crescita almeno fino alla metà del 21° secolo.
L’attuale trend di riscaldamento globale potrebbe comportare un innalzamento di 10-20 cm del livello delle acque e l’aumento dei fenomeni meteorologici estremi.
Il clima è spesso confuso con i singoli eventi meteorologici; non a caso nei giornali si parla di ‘clima’ principalmente quando accadono eventi meteorologici estremi (uragani, alluvioni, mareggiate, ecc.). Invece gli eventi meteorologici e quelli climatici si manifestano su scale temporali e spaziali molto diverse e hanno di conseguenza anche implicazioni ed effetti diversi.
Le moderne tecnologie riescono a creare delle condizioni artificiali che efficacemente ci proteggono dagli eventi meteorologici avversi. È possibile viaggiare attraversando zone climatiche e stagioni diverse cambiando poco le nostre abitudini e i nostri comportamenti. Questo ci fa pensare che la qualità della nostra vita, così come è solo occasionalmente condizionata dalla meteorologia, possa essere solo marginalmente influenzata dal clima.
È vero che la tecnologia protegge l’uomo dagli effetti diretti della meteorologia e del clima, ma poco può fare sugli effetti indiretti che ci raggiungono attraverso la flora e la fauna. Queste, che sono direttamente esposte alle condizioni meteorologiche e climatiche, ne possono risentire profondamente. A loro volta la flora e la fauna caratterizzano il territorio e ne determinano la produttività e la fruibilità per l’uomo.
L’importanza del clima deriva pertanto dalla capacità che questo ha di determinare l’ambiente, dal quale poi dipende l’organizzazione del territorio e lo sviluppo delle tradizioni delle popolazioni che in quell’ambiente vivono. Il clima può avere caratteristiche positive e caratteristiche avverse. L’organizzazione della società civile con un lento processo d’adattamento si modella intorno a queste caratteristiche per fruire di quelle positive e mitigare quelle avverse.
Il cambiamento del clima rimette in discussione quest’adattamento e, se il cambiamento è più rapido dell’adattamento, gli effetti possono essere dirompenti. La complessità del sistema climatico fa sì che il cambiamento non sia destinato a manifestarsi in modo omogeneo su tutto il pianeta. Alcune zone geografiche possono sperimentare un cambiamento climatico sufficientemente piccolo da non essere importante e nelle zone in cui si manifesta un grande cambiamento alcune attività umane, basate più sulla tecnologia che sul territorio, possono esserne poco influenzate, ma, nonostante queste disomogeneità, la frazione di popolazioni e di attività che può essere danneggiata è sufficientemente grande da generare una crisi capace di avere ripercussioni a livello globale. Inoltre, i danni del cc sono aggravati dal fatto che la persistenza del clima rende le conseguenze praticamente irreversibili.
Particolarmente traumatici sono poi gli effetti che il cc dovuto a un riscaldamento può avere attraverso l’innalzamento del livello del mare. Si calcola che un innalzamento del mare pari a un metro porterebbe alla scomparsa di oltre due milioni di kilometri quadrati di territorio, costringendo alla migrazione circa 145 milioni di persone.
L’irreversibilità e la diffusione a livello globale caratterizzano pertanto il cc, differenziandolo dagli occasionali eventi meteorologici estremi e determinando la sua importanza per i futuri scenari geopolitici.
I lunghi tempi che caratterizzano il clima fanno sì che sia difficile nel breve intervallo degli eventi degli ultimi anni percepire se vi sia un cc in corso e capire se questo sia dovuto a cause naturali o antropiche. È necessario analizzare il clima nel passato per capire quali cambiamenti e quali scale temporali caratterizzano le variazioni climatiche naturali.
La paleoclimatologia è la scienza che studia il clima del passato, raccogliendo informazioni da osservazioni di vario tipo. Solo negli ultimi trent’anni le osservazioni dei parametri climatici sono diventate molto precise, grazie alle osservazioni satellitari. Inoltre, anche se le prime misure di temperatura sono iniziate circa quattro secoli fa, misure fatte da un numero significativo di stazioni e con strumenti sufficientemente precisi esistono solo negli ultimi 150 anni. A causa del breve intervallo temporale in cui esistono osservazioni dirette, la paleoclimatologia deve ricostruire le condizioni climatiche del passato attraverso i dati ‘proxy’, dati in grado di rappresentare ‘per procura’ le grandezze climatiche. Questi sono per esempio la dimensione degli anelli degli alberi, il contenuto dei pollini nei sedimenti lacustri, l’analisi dei coralli, dei sedimenti marini e dei ghiacciai millenari.
Nei sedimenti marini, in particolare nella calcite (CaCO3) presente nel guscio dei foraminiferi (protozoi che abbondano nei fondali marini e che contribuiscono in larga parte ai sedimenti), rimangono ‘intrappolati’ gli isotopi di ossigeno in quantità proporzionale a quella presente nell’acqua degli oceani nel momento della formazione. Un aumento dell’isotopo 18 negli oceani indica la formazione di ghiaccio sulla terra solida, poiché il processo di congelamento seleziona e sottrae al mare acqua relativamente povera di questo isotopo. Dalla concentrazione dell’ossigeno-18 in funzione della profondità del sedimento è possibile ricavare indicazioni sulla quantità di ghiaccio presente sulla terra solida in funzione del tempo e, conseguentemente, ottenere indicazioni sulla temperatura media del pianeta: a concentrazioni maggiori dell’isotopo, infatti, corrispondono più basse temperature. La sequenza temporale ottenuta da questa analisi mostra che dopo un lungo periodo caldo, che si è verificato fra 5,5 e 3 milioni di anni fa, hanno cominciato a manifestarsi glaciazioni periodiche con un periodo di circa 41.000 anni che poi, più recentemente nell’ultimo milione di anni, hanno cominciato ad avere una periodicità di circa 100.000 anni.
Le variazioni dell’ultimo milione d’anni sono confermate con maggior dettaglio e con una più precisa e più diretta scala temporale dalle misure di proxy della temperatura fornite dai carotaggi dei ghiacci antartici. Come la concentrazione dell’isotopo ossigeno-18, anche quella del deuterio è determinata dalla temperatura. È stata dimostrata l’esistenza di proporzionalità fra la temperatura media della superficie in Antartide e il contenuto di deuterio nella neve e questo parametro, graficato in funzione della profondità, fornisce un proxy della temperatura in funzione del tempo.
I dati mostrano una variazione periodica della temperatura che percorre un’escursione termica relativamente modesta di circa 10 °C, ma corrisponde a quelli che sono stati sul nostro pianeta cambiamenti climatici macroscopici con un’alternanza di condizioni temperate, nei massimi, con temperature miti e di periodi di glaciazione, nei minimi, con ghiacciai estesi su gran parte del pianeta. La periodicità dei massimi è di circa 100.000 anni, sebbene siano presenti anche altre periodicità più brevi. La durata dei periodi temperati è in genere piuttosto breve rispetto a quella delle glaciazioni; il periodo temperato in cui ci troviamo adesso è uno dei più lunghi ed è durato circa 10.000 anni.
Le periodicità osservate nei sedimenti oceanici e nei carotaggi dei ghiacci corrispondono a quelle dei moti astronomici della Terra e sono dette cicli di Milankovitch, dal nome del matematico serbo che per primo ha teorizzato questa causa della variabilità climatica.
Per quanto riguarda i tempi più recenti, la figura a lato mostra una ricostruzione della temperatura media globale degli ultimi 1000 anni, ottenuta tramite misurazioni dirette (ultimi 100 anni, in rosso) ed indirette (in blu). Si nota chiaramente una piccola variabilità naturale, rispetto alla quale l’aumento di quasi un grado centigrado che si osserva negli ultimi 100 anni si distingue per escursione e per rapidità.
L’aumento di temperatura di quasi un grado osservato negli ultimi cento anni è un forte indizio che ha richiamato l’attenzione scientifica e politica sulla possibile esistenza di un cc. L’Intergovernamental Panel on Climate Change (Ipcc) è un organismo internazionale che ha analizzato criticamente i risultati scientifici e ha fatto periodicamente il punto sul livello di conoscenza raggiunto dalle osservazioni sull’entità e sulle cause del cc. Dai quattro rapporti dell’Ipcc, che si sono susseguiti nel tempo, emerge la crescente sicurezza che un cc è in corso. I primi rapporti indicavano la possibilità di un cambiamento; nell’ultimo, apparso nel 2007, si afferma che il cambiamento è «inequivocabile».
Questa certezza emerge principalmente dall’aumento della temperatura, che ha raggiunto valori tali da non poter più essere considerato una fluttuazione statistica, dovuto o alla variabilità meteorologica o alle incertezze sperimentali. Sono però importanti anche le variazioni osservate in altri parametri.
Il titolo di questo box potrebbe suonare generico o giornalistico, ma in realtà è il contrario dell’una e dell’altra cosa. Anzitutto, parlo di cambiamento climatico (cc) al singolare per indicare che i vari fenomeni climatici cui ci stiamo riferendo debbono essere concettualmente raccolti sotto un unico titolo, indicante il fenomeno complessivo scoperto definitivamente negli anni Settanta del ventesimo secolo e riconducibile con alta probabilità ai sub-effetti della trasformazione umana della natura in età industriale (cambiamento antropogenico).
A ‘sfida globale’ attribuisco poi il significato preciso di una minaccia che riguarda l’intero genere umano in modo letale per la sopravvivenza della civiltà umana (civiltà materiale, quella che ci permette di sopravvivere come specie priva di artigli o becchi); una minaccia quindi che può essere seriamente affrontata, senza peraltro garanzia di essere vinta, solo dall’agire cooperativo della quasi totalità degli individui e delle loro entità politiche.
In questa definizione rientrano oggi soltanto due fenomeni sufficientemente conosciuti: la minaccia di una guerra nucleare di scala medio-larga e il cambiamento climatico che dovesse, nei secoli futuri, produrre effetti ancor più devastanti (sommersione di terre, aumento della siccità e del numero come della forza degli uragani, giganteschi movimenti di popolazione e conseguenti conflitti, anche se non tradizionalmente bellici) di quelli che già vediamo e vedremo sino alla fine del secolo, data oltre la quale diminuisce il grado di probabilità attribuibile alle previsioni odierne, ma aumenta la possibilità di sconvolgimenti disastrosi.
Oltre che rivelarne il rilievo filosofico, intendere il cc come sfida globale aiuta a capire perché è così impervio affrontarlo, visti i modesti risultati del Protocollo di Kyoto (1997) e l’incapacità (fino ai vertici di Copenaghen 2009 e di Cancún 2010) di rinegoziarlo includendo questa volta tutti i paesi. Si ricordi che, a dispetto di Kyoto, fino al 2009 le emissioni di CO2 sono solo aumentate, salvo diminuire modestamente nel 2009 a seguito della crisi economica mondiale. Tutto ciò non avviene per caso: la politica mondiale e nazionale, così come la conosciamo, è strutturalmente inadatta a risolvere le due sfide globali. Vediamone i motivi nel caso del cc.
Premettiamo che vi sono due vie ben diverse, ma non in conflitto, per affrontarlo: le misure d’adattamento al cc, che dovrebbero rendere meno pesanti i suoi effetti sugli umani (banalmente, dotare tutti di condizionatori d’aria, oppure ricostruire su terreni più alti gl’insediamenti umani a rischio di sommersione); e quelle volte a mitigare invece le cause del riscaldamento, riducendo drasticamente le emissioni, soprattutto quelle provenienti dall’uso di combustibili fossili, o anche ‘sequestrandole’ in depositi sotterranei o subacquei. L’adattamento è in qualche misura gestibile, rientrando nell’interesse delle generazioni oggi presenti sulla terra; la ‘mitigazione’ invece è costosa (ma invero anche lasciare crescere il riscaldamento lo è) e soprattutto richiede una ristrutturazione del nostro sistema produttivo e di trasporto e delle nostre abitudini di vita. Potremmo decidere di scegliere questa seconda via (ciò che peraltro non esclude la necessità urgente di misure d’adattamento) solo se volessimo prenderci cura delle condizioni di vita di generazioni molto lontane da noi. Qui affiorano gli ostacoli.
Primo, la politica, essendo oggi più che mai (soprattutto nei paesi democratici) tutta rivolta all’interesse particolaristico dell’elettorato che voterà nelle prossime elezioni, è affetta da un egoismo temporale che rende improponibile chiedere rinunce e mutamenti incisivi in nome delle generazioni future. Questo non vale solo per i cittadini dei paesi affluenti, ma altresì per i due miliardi di esseri umani che hanno un interesse a uscire dalla povertà grazie a una crescita economica che finora non ha saputo essere altro che ad alto consumo di carbonio (si pensi all’infernale inquinamento delle città cinesi ove chi può si compra un auto). Mentre lo slogan della decrescita non può che rimanere vacuo, non sembra che la crisi iniziata nel 2008 venga usata per un rilancio ‘verde’ dell’economia, che pur sarebbe possibile con maggior audacia politica e imprenditoriale. Si osservi che in questo caso non funziona il meccanismo democratico di correzione delle politiche sbagliate, perché coloro che ne sono affetti - i posteri - per definizione non votano e non possono mandare a casa i governanti miopi.
Secondo, fra il problema e chi lo dovrebbe risolvere c’è uno squilibrio dimensionale: la stabilità dell’ambiente e soprattutto della sua temperatura è un bene pubblico globale (uno dei global commons), a gestirlo sono però gli stati sovrani il cui grado di cooperazione è insufficiente, come si vede dagli esiti, e instabile (si pensi al caso degli Usa, che prima firmano e poi denunciano il Protocollo di Kyoto). Non che una global policy come quella sul clima richieda un irrealistico e indesiderabile governo mondiale. Ma il grado di governance finora espresso dalla ‘diplomazia del clima’ è assolutamente inadeguato al problema e quest’ultima sembra arenarsi nella diatriba fra ‘noi tagliamo le emissioni solo se le tagliano tutti’ e ‘chi ha più riscaldato l’atmosfera tagli di più e paghi più compensazioni per i tagli dei paesi in via di sviluppo’.
Infine, la fiducia che la capacità di governare la situazione che manca oggi possa esistere domani, come spesso è avvenuto nella cooperazione internazionale dopo la Seconda guerra mondiale, è minata da una circostanza propria delle sfide globali, che sono figlie dell’incontrollata trasformazione umana della natura: i tempi della fisica (del clima) non sono i tempi della politica, e mentre i governi rinviano a sempre nuove conferenze internazionali un nuovo ed efficace accordo, che nemmeno si sa se poi verrà, il clima continua a riscaldarsi e si avvicina il momento (entro questo decennio e non oltre, secondo le conclusioni del Climate Change Congress interdisciplinare tenutosi all’Università di Copenaghen nel marzo 2009) intervenire dopo il quale non riuscirebbe più a contenere l’aumento termico medio entro due gradi centigradi alla fine del secolo, o richiederebbe tagli alle emissioni così grandiosi che la loro effettuazione appare ancor più improbabile.
Non v’è dunque una vera possibilità di risposta effettiva alla minaccia creata dal cc? Non occorre cadere nel catastrofismo scettico di molto pensiero contemporaneo, ma è giusto riconoscere che siamo a una svolta della civiltà e che un esito catastrofico non è fatale, ma resta iscritto nelle possibilità; per cercare di sventarlo occorre riconoscere che, ripensando il nostro rapporto con la natura e la ricchezza di oggi in rapporto a quelle future, possiamo ridare senso a una civiltà – quella moderna, scientifica e del libero mercato – che nel Novecento, accanto alle meraviglie, ha prodotto mostri non solo nei rapporti politici, ma anche nell’evoluzione di scienza e tecnica. Oltre alla politica per il presente, che ha dominato la modernità e resterà un momento essenziale della vita associata, sembra necessaria una politica per il futuro, di non facile riconciliazione con la prima, e di cui finora non s’era sentito il bisogno, perché gli uomini non avevano tanta capacità di predeterminare il futuro come ora con il cc e l’eventuale guerra nucleare (e lasciando da parte i possibili usi politici della biotecnologia, tema prematuro ma incombente).
Al fine di rendere la nostra civiltà meno povera di senso e meno gravida di contraddizioni fra le sue proclamazioni e i suoi esiti, servirebbe dare valore non solo alla sopravvivenza in condizioni decenti del genere umano, ma alla giustizia che verrebbe una volta di più lesa se, dopo i guai causati ad africani e asiatici dal colonialismo e dallo sviluppo ineguale, aggravassimo ancora i danni loro già arrecati dagli sconvolgimenti climatici. In altri termini, alle questioni di giustizia fra le generazioni si accompagnano quelle di giustizia fra i popoli.
Che un cambiamento in questi orientamenti culturali di fondo che guidano la politica (soprattutto quella democratica, la quale a dispetto della sua odierna miopia resta la miglior arena per affrontare il cc) non sia impensabile è però una possibilità affidata, più che a più idealistici convincimenti, al carattere in qualche misura cogente delle sfide globali. La loro gravità, scientificamente documentata, può rafforzare quella paura ragionevole di cui gli uomini hanno sempre avuto bisogno per proteggersi dalla natura e da se stessi.
La temperatura media della superficie del mare è aumentata negli ultimi cinquant’anni di circa 0,7 °C. Questo effetto è ancora più evidente nel caso di un mare chiuso come il Mediterraneo, che mediamente si è riscaldato solo negli ultimi vent’anni di circa 0,6 °C. La grande variabilità geografica del fenomeno, dovuta alla diversa inerzia che le varie zone hanno a causa di più o meno efficienti meccanismi di rimescolamento, rende il riscaldamento osservabile solo attraverso misure ad alta risoluzione spaziale e temporale, che sono state fatte con osservazioni da satellite.
Su tutto il pianeta il confine dei ghiacciai sta arretrando. Questo fenomeno dura da oltre un secolo e ha fluttuazioni geografiche e nel tempo, ma in tutti i casi il segno è quello di uno scioglimento dei ghiacciai. Sono in particolare importanti i ghiacciai della Groenlandia poiché il loro scioglimento sta aumentando di velocità e coinvolge una delle più grandi masse di ghiaccio del pianeta.
A causa dello scioglimento dei ghiacciai, che aumenta l’apporto di acqua al mare, e dell’aumento della temperatura del mare, che causa l’espansione termica dell’acqua, il livello del mare è aumentato di circa 1,7 mm all’anno nel 20° secolo e di 3 mm all’anno nella decade a partire dal 1993, quando misure da satellite sono diventate disponibili. Si ritiene che questo aumento sia dovuto in maggior parte all’espansione termica, ma il meccanismo dello scioglimento è diventato almeno equivalente negli ultimi anni e potrebbe diventare predominante in futuro se l’apporto dei ghiacciai della Groenlandia dovesse continuare ad aumentare. Il completo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia comporterebbe un innalzamento di 7 metri del livello del mare.
Importanti sono le variazioni che sempre più spesso si osservano in natura nel comportamento della flora e della fauna. Molte piante manifestano processi di adattamento, cambiando i propri tempi biologici con l’anticipo della fioritura. Gli animali non sono altrettanto rapidi nell’adattamento e spesso ci sono casi in cui i loro ritmi non sono più ottimizzati con le condizioni climatiche e con il ciclo delle piante.
Piante e animali stanno in alcuni casi cambiando il proprio habitat e si osserva il cosiddetto ‘spostamento a nord’, secondo il quale la flora e la fauna endogena tendono a spostare verso valori più alti la latitudine e la quota che sono adatti al loro sviluppo.
Il climatologo, l’ecologo, l’ambientalista, posto di fronte alle minacciose e potenzialmente catastrofiche conseguenze dei cambiamenti climatici, avrebbe una ricetta semplice e chiara: eliminare il fenomeno al più presto, costi quel che costi. L’economista ha un approccio affatto diverso. Egli è abituato a considerare anzitutto le alternative esistenti, di ciascuna di esse – sia che prevedano interventi o l’inazione – considera e valuta tutti i benefici e tutti i costi con un’unica metrica – quella monetaria – e quindi suggerisce al politico la scelta e la dose dell’eventuale intervento, o mix di interventi, cui è associato il maggiore beneficio netto per la società.
Il compito di identificare costi e benefici associati ai cambiamenti climatici e alle politiche di mitigazione e adattamento pone formidabili difficoltà, anzitutto per le caratteristiche peculiari che tale fenomeno possiede. Esso è globale perché riguarda l’intero pianeta, ma allo stesso tempo impulsi e risposte ambientali e socio-economici sono altamente differenziati tra le varie regioni. È un problema di lungo termine, nel senso che i suoi impatti si dispiegano nel lungo e lunghissimo periodo, influenzando perciò anche e soprattutto le generazioni future. È un fenomeno pervaso da elevata incertezza, sia rispetto alle sue caratteristiche fisiche ed i suoi effetti ambientali e socio-economici, quanto a entità e dinamica.
Atteso che le conseguenze dei cambiamenti climatici consistono in una serie di rilevanti danni ambientali e socio-economici, cercare di identificarli e quantificarli al meglio delle nostre conoscenze fornisce uno dei due ingredienti del lavoro dell’economista. Questa informazione è infatti alla base della definizione dei benefici di eventuali azioni di contrasto del fenomeno. Una crescente e intensa attività di ricerca scientifica, con l’ausilio delle simulazioni di sofisticati modelli matematici economico-climatici, è in corso al fine di valutare il valore monetario dei danni dei cambiamenti climatici. Non è possibile qui fare un inventario esauriente di tali risultati, ma basti dire che il famoso Rapporto Stern del 2006 nello scenario peggiore quantificava i danni per il mondo intero dopo il 2100 in una perdita del 14% di pil mondiale.
Dall’altro lato vi sono i costi dell’eventuale intervento. Anche qui, il lavoro di ricerca ha riguardato più la mitigazione, in quanto soluzione per eliminare il problema, anche se i costi delle politiche di adattamento, più rilevanti a breve andare, sono oggetto di crescente analisi.
Valutare i costi della mitigazione vuol dire quantificare i costi delle politiche di riduzione delle emissioni: a titolo di esempio, il Quarto rapporto dell’Ipcc pubblicato nel 2007 indica che il contenimento dell’aumento della temperatura globale a +2 °C relativamente all’era preindustriale costerebbe nel 2050 circa lo 0,12% annuo di pil mondiale o il 5% cumulativamente da oggi fino ad allora. I costi dell’adattamento, invece, sono molto differenziati tra regioni del mondo, a causa del diverso grado di vulnerabilità che esse hanno agli effetti dei cambiamenti climatici.
Un recente studio della Banca mondiale indica che per l’Africa sub-sahariana, la regione più debole, il costo delle politiche di adattamento raggiungerebbe lo 0,7% del pil annuo della regione nel 2020, per scendere allo 0,5% nel 2050. Nel momento dell’annuncio del noto pacchetto europeo energia-clima denominato ‘20-20-20’ il 23 gennaio 2008 scorso, il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso dichiarava che, mentre le misure proposte costerebbero 3 euro in media a settimana, «il costo dell’inazione è fino a 10 volte più elevato di ciò che qui proponiamo». Questo accostamento ben evidenzia il problema economico della scelta che scaturisce dal confronto tra costi e benefici (attesi e percepiti).
Nel momento in cui si debba procedere all’adozione di politiche di contrasto dei cambiamenti climatici sorge un’enorme difficoltà, associata proprio alla natura globale, ma con cause ed effetti differenziati, del fenomeno. Per un’azione efficace è infatti necessario adottare un accordo internazionale secondo cui tutti i paesi del pianeta, in quanto tutti corresponsabili, concorrano alla soluzione con politiche domestiche potenzialmente costose per le proprie economie. Allo stesso tempo, tali paesi dovranno concorrere in misura differenziata, in quanto non sono tutti egualmente responsabili del problema e non tutti subiscono le conseguenze avverse in egual misura.
Qui sta tutta la difficoltà, storicamente sperimentata fino ad oggi – da Kyoto a Copenhagen fino alla recente conferenza di Cancún – di raggiungere un accordo internazionale che sia efficace, efficiente ed equo.
Efficace in quanto operi una riduzione delle emissioni di gas serra sufficientemente ampia per controllare l’evoluzione del clima secondo la misura suggerita dagli scienziati.
Efficiente, così da comportare una distribuzione degli oneri che minimizzi il costo complessivo degli interventi.
Equo in maniera tale da distribuire tra le regioni l’onere dell’intervento in proporzione alle loro responsabilità – storiche, correnti e prospettiche – nonché alle capacità delle loro economie.
In un accordo internazionale queste tre caratteristiche sono spesso in conflitto tra loro e come tali difficili da contemperare soprattutto quando il problema da risolvere sia epocale, come è il caso dei cambiamenti climatici. È per questo che un compromesso, se le posizioni sono tra loro inizialmente molto distanti, resta assai difficile da raggiungere.
Il cambiamento dell’habitat può manifestarsi anche con l’apparizione di specie non endogene, le cosiddette specie ‘aliene’. Il fenomeno si verifica quando le specie superano le barriere geografiche e riescono a trovare condizioni favorevoli al proprio sviluppo in zone dove non erano prima presenti. Negli ultimi anni sono apparse numerose nuove specie aliene, tuttavia la causa della loro diffusione non va cercata solo nel cc, ma anche nelle più frequenti opportunità che sono fornite dai commerci e dalla mobilità dell’uomo. Analoghe considerazioni valgono nel caso delle malattie, per le quali sempre più spesso sono superati i confini geografici delle zone di diffusione.
Il superamento delle barriere geografiche è tutt’altro che un contributo al mantenimento della biodiversità, poiché le specie endogene subiscono la competizione (e nel caso delle malattie l’attacco) delle specie aliene e corrono per questo maggiori rischi d’estinzione.
I numerosi processi che sono alimentati dal cc non devono però indurre a ritenere che tutti i cambiamenti in corso siano dovuti al clima.
Il clima è l’insieme dei valori medi dei fenomeni meteorologici che caratterizzano una determinata regione geografica, determinandone la flora e la fauna e, di conseguenza, influenzando le attività economiche e culturali delle popolazioni che vi abitano.
Numerosi fenomeni meteorologici, come la temperatura, l’umidità, la pressione, la direzione e l’intensità del vento, le precipitazioni, l’irraggiamento del sole e la copertura nuvolosa, caratterizzano il clima. Tuttavia la discriminante principale delle condizioni climatiche è la temperatura, poiché questa misura l’energia presente nel sistema che più di tutto caratterizza i fenomeni metereologici.
La media che consente di trasformare un’osservazione meteorologica in un parametro climatico deve essere fatta su tempi sufficientemente lunghi, almeno trent’anni e tipicamente centinaia e migliaia di anni. La media tende a cancellare tutte le variazioni di breve temine come la variabilità diurna, la variabilità stagionale e anche le oscillazioni che durano pochi anni. D’altra parte, la sola media aritmetica non è in grado di caratterizzare completamente il clima poiché anche gli eventi estremi (alluvioni, periodi di siccità, gelate notturne) sono importanti per la selezione della flora e della fauna.
La radiazione solare rappresenta la principale sorgente d’energia per il clima. La superficie del nostro pianeta si scalda quasi esclusivamente a causa dell’energia ricevuta dal Sole sotto forma di radiazioni luminose e si raffredda attraverso la perdita d’energia verso lo spazio. Se non vi fossero l’atmosfera e l’oceano, la temperatura superficiale della Terra sarebbe regolata esclusivamente dalla distanza dal Sole, dall’altezza del Sole sull’orizzonte e dalle proprietà ottiche della superficie. Di conseguenza vi sarebbero grandi escursioni termiche fra il giorno e la notte e in funzione della latitudine, e la temperatura avrebbe un valore medio molto più basso di quello osservato.
L’interazione fra le diverse componenti del sistema climatico (litosfera, idrosfera, atmosfera, criosfera, biosfera) modifica profondamente queste condizioni di riferimento, favorisce la ridistribuzione dell’energia, innalza la temperatura della superficie e genera un sistema dinamico straordinariamente attivo e complesso, dove molti processi si influenzano a vicenda su molteplici scale di spazio e di tempo.
La disciplina scientifica che studia queste dinamiche e come diverse condizioni climatiche si manifestano nelle diverse zone geografiche è la climatologia.
Lo stato del sistema climatico è determinato principalmente dalla temperatura media e questa è il risultato dell’equilibrio fra l’energia in ingresso fornita dal Sole e l’energia in uscita emessa dalla Terra verso lo spazio. Altre sorgenti d’energia come quella geotermica, dovuta al decadimento radioattivo di nuclidi nel mantello terrestre, e quella associata con le forze mareali, dovuta alle interazioni gravitazionali della Terra con i corpi celesti vicini, possono essere importanti in alcuni processi locali, ma sono trascurabili per il bilancio energetico del clima.
I fattori che intervengono a perturbare l’equilibrio con la radiazione solare, e di conseguenza possono cambiare il clima, sono detti forzanti. Le principali forzanti naturali sono i cambiamenti del flusso dell’energia solare che incide sulla Terra. Questa può variare a causa dei cambiamenti nella quantità di energia emessa dal Sole e della variazione dei moti astronomici della Terra rispetto al Sole (cfr. i cicli di Milankovitc). Altra forzante naturale è rappresentata dalle attività vulcaniche. Queste possono immettere nell’atmosfera grandi quantità di polveri che modificano l’albedo e riducono la temperatura. Più in generale, anche i raggi cosmici sono considerati una possibile forzante poiché in grado di modificare l’albedo terrestre attraverso la creazione di nuclei di condensazione che aumentano le formazioni nuvolose.
Altre forzanti naturali sono i lenti cambiamenti del territorio e della composizione atmosferica dovuti allo sviluppo della biosfera.
Tuttavia, le forzanti spesso non sono in grado da sole di spiegare l’entità dei fenomeni osservati nel clima del passato. Si è visto che l’alternanza fra periodi glaciali e temperati avvenuta nel passato è associata alle variazioni dei parametri dell’orbita terrestre, ma la forzante da questi ultimi introdotta è molto piccola e può essere la causa dei grandi cambiamenti che sono avvenuti solo se è stata amplificata da meccanismi di retroazione (‘feedbacks’).
I feedbacks possono essere sia positivi che negativi. I primi amplificano la forzante e generano instabilità, i secondi contrastano la forzante e mantengono le condizioni stabili nonostante la perturbazione. Nel sistema climatico coesistono molti meccanismi di feedback. Per esempio, una diminuzione dell’estensione dei ghiacciai può causare la diminuzione dell’albedo terrestre (il suolo riflette meno radiazione solare rispetto a una superficie ghiacciata) e quindi un aumento dell’energia solare assorbita dal pianeta, con la crescita della temperatura sulla superficie terrestre e ulteriore diminuzione dei ghiacciai. Analogamente, la diminuzione della vegetazione arbustiva nelle zone aride, dove la disponibilità d’acqua è il principale fattore limitante, può comportare un aumento dell’albedo e una riduzione dell’evapotraspirazione, che possono indurre una diminuzione dei moti convettivi atmosferici e della precipitazione e quindi un’ulteriore riduzione della vegetazione.
Altri importanti feedbacks sono dovuti al vapore acqueo. Il contenuto di vapore acqueo in atmosfera aumenta coll’aumentare della temperatura. Sia il vapore acqueo che l’acqua liquida delle goccioline di una nube sono molto efficaci nell’assorbire radiazione infrarossa e quindi nel generare effetto serra, causando un ulteriore innalzamento della temperatura. Nel caso delle nubi, i meccanismi di retroazione sono però complessi. Infatti, un aumento della copertura nuvolosa, oltre a causare un feedback positivo con l’effetto serra, causa anche un feedback negativo poiché le nuvole aumentano l’albedo terrestre e quindi fanno diminuire la quantità di energia solare che raggiunge la superficie.
I movimenti di rivoluzione della Terra intorno al Sole e di rotazione intorno a se stessa sono perturbati dagli altri corpi celesti, in particolare la Luna, Giove e Saturno.
I parametri coinvolti sono l’eccentricità dell’orbita, che comporta una variazione della distanza della Terra dal Sole durante l’anno, l’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre rispetto all’eclittica (il piano dell’orbita), che determina le stagioni, e la direzione dell’asse maggiore dell’orbita, che è detto linea degli apsidi.
I principali movimenti sono:
a) la variazione dell’eccentricità dell’orbita, che misura la differenza relativa fra asse maggiore e asse minore dell’ellisse e che varia da un massimo di 0,054 a un minimo di 0,003;
b) la variazione della posizione delle stagioni rispetto alla posizione di maggior distanza della Terra dal Sole, dovuto all’effetto combinato della precessione degli equinozi (le stagioni rispetto alle stelle fisse) e dello spostamento della linea degli apsidi (l’eccentricità rispetto alle stelle fisse);
c) la nutazione, cioè la variazione dell’inclinazione dell’asse di rotazione della Terra rispetto all’eclittica, che cambia l’ampiezza della modulazione introdotta dalle stagioni.
La precessione degli equinozi ha un periodo di 26.000 anni, la rotazione della linea degli apsidi ha un periodo di 112.000 anni, la precessione delle stagioni rispetto alla linea degli apsidi ha un periodo di 21.000 anni, l’eccentricità ha un periodo di 92.000 anni e la nutazione ha un periodo di 41.000 anni.
Questi movimenti millenari non cambiano sostanzialmente la quantità media totale della radiazione solare intercettata dalla Terra, ma producono variazioni nella quantità di radiazione solare intercettata alle varie latitudini e in ciascuna stagione dell’anno.
Circa un secolo fa Milankovitch ha ipotizzato che questi moti, caratterizzati da variazioni periodiche sostanzialmente scorrelate tra loro, possano occasionalmente combinarsi per dare luogo a cambiamenti importanti del clima terrestre fino ad essere la causa dei fenomeni di glaciazione. La previsione di Milankovitch ha trovato conferma solo negli anni Settanta del secolo scorso con le prime osservazioni dei sedimenti marini.
Se un cc è in corso ed è destinato a colpire le attività umane è ragionevole pensare che l’uomo possa accorgersi di questo cambiamento. Questa aspettativa ci porta a considerare come manifestazioni del cc molti eventi che in realtà non sono dovuti al clima.
Le estati sono sempre più calde e spesso negli ultimi anni ci sono stati fenomeni di ‘bolla di calore’ che hanno reso la temperatura nelle città eccezionalmente elevata. Questi eventi non sono però il risultato del cc. In realtà l’aumento medio della temperatura del pianeta è ancora molto piccolo per essere avvertito dall’uomo e le bolle di calore sono piuttosto effetti locali dovuti all’aumentata dimensione delle città e alla crescente estensione delle aree asfaltate e cementificate.
Lungo la costa osserviamo sempre più spesso spiagge che si ritirano e il mare che avanza. Solo in piccola parte questa riduzione delle spiagge è dovuta al cc e all’aumento del livello del mare. Basti pensare che l’aumento del livello del mare avvenuto nell’ultimo secolo è ancora piccolo rispetto agli effetti di marea. Nel caso delle spiagge la causa principale della perdita di arenile è il ridotto apporto in mare di materiale da parte dei fiumi. La portata dei fiumi è infatti ridotta dall’aumentato prelievo d’acqua per l’irrigazione e inoltre i fiumi incontrano nel loro percorso sempre più numerose strutture, che limitano l’erosione e il trasporto di materiale.
Considerazioni analoghe valgono per l’aumento dell’effetto dell’acqua alta a Venezia, che è dovuto al lento sprofondamento della laguna piuttosto che all’aumento del livello del mare. È giusto prendere in considerazione Venezia come esempio di quello che potrebbe avvenire su tutte le coste nel caso di un globale aumento del livello del mare, ma non si tratta di una dimostrazione del fenomeno in corso.
Anche gli eventi estremi, quali alluvioni e uragani, sembrano avere effetti sempre più devastanti. Esistono motivi per pensare che l’aumento della temperatura possa introdurre maggiore energia negli scambi che caratterizzano gli eventi meteorologici e favorire un aggravarsi degli eventi estremi. Tuttavia, dal punto di vista statistico non si ottengono dati certi per affermare che gli eventi estremi stiano aumentando o peggiorando. La nostra percezione dell’aumentata gravità è dovuta piuttosto ai maggiori danni materiali che questi eventi causano in presenza di una maggiore utilizzazione del territorio, e in particolare delle coste e delle vallate, con infrastrutture costruite dall’uomo. La globalizzazione dell’informazione e la migliore documentazione offerta dalle immagini, spesso disponibili in tempo reale, aumentano ulteriormente la percezione di questi eventi. Anche in questo caso, pertanto, l’effetto osservato non è riconducibile in modo certo al cc.
Il fatto che solo gli strumenti si accorgano del cc e che quando l’uomo pensa di notare anche lui qualche effetto è in realtà fuorviato da altri processi, genera una profonda incomprensione fra la scienza e l’opinione pubblica e quest’ultima ha giustamente difficoltà ad accettare che il cc, di cui non ha al momento nessuna percezione diretta, sia una minaccia per il futuro dell’umanità.
Il nostro pianeta è immerso in uno spazio freddo ed è prossimo a una stella molto calda. Con questi due oggetti, lo spazio e il Sole, intercorrono scambi di calore sotto forma di assorbimento ed emissione di radiazione elettromagnetica. La temperatura della Terra è pertanto il risultato di un equilibrio fra il riscaldamento - assorbimento di calore - che il Sole fornisce su un piccolo angolo solido di mezzo grado di apertura e il raffreddamento - cessione di calore - che avviene in modo continuo in tutte le direzioni verso lo spazio freddo.
Poiché la radiazione solare assorbita cade in una regione spettrale (il visibile e l’ultravioletto) che è diversa da quella della radiazione emessa dal pianeta (l’infrarosso termico), diverse proprietà ottiche in queste due regioni spettrali possono spostare la temperatura che il pianeta raggiunge all’equilibrio. Un pianeta perfettamente riflettente (cioè con scambi nulli) nel visibile e perfettamente opaco (cioè con scambi massimi) nell’infrarosso si raffredda fino a raggiungere la temperatura estremamente bassa dello spazio. D’altra parte, un pianeta riflettente nell’infrarosso e opaco nel visibile si riscalda fino a raggiungere la temperatura del Sole.
La superficie del nostro pianeta è molto opaca nell’infrarosso, opacità maggiore del 90%, (il che vuol dire che si raffredda bene), ed è parzialmente riflettente nel visibile (non si riscalda altrettanto bene). La riflettività nel visibile è misurata dalla cosiddetta albedo, che per la Terra è circa il 30-40%. La predominanza dei meccanismi di raffreddamento implica che, se l’equilibrio dipendesse dalla superficie, la Terra sarebbe condannata ad avere una temperatura piuttosto bassa.
Tuttavia, la presenza dell’atmosfera fa sì che la temperatura della superficie del pianeta possa essere più alta dalla temperatura con cui il pianeta si raffredda verso lo spazio, caratterizzata dalla temperatura dell’atmosfera. Infatti, poiché l’atmosfera è opaca nell’infrarosso, l’atmosfera che scambia radiazione con lo spazio è l’alta atmosfera, che è molto più fredda della superficie. In questo modo il pianeta può apparire freddo negli scambi con l’esterno, pur avendo una temperatura più mite alla superficie. Il riscaldamento della superficie terrestre, causato dall’opacità dell’atmosfera nell’infrarosso, è detto effetto serra.
L’equilibrio termico che la Terra raggiunge con i corpi celesti circostanti può essere modificato alterando la sua albedo, o modificando l’effetto serra della sua atmosfera.
La Terra si raffredda emettendo nell’infrarosso radiazione elettromagnetica verso lo spazio. La distribuzione della radiazione in funzione della lunghezza d’onda (o del suo inverso detto numero d’onda) è detta lo spettro della radiazione.
Lo spettro della radiazione emessa dalla Terra in funzione del numero d’onda è mostrato dalla curva azzurra della figura seguente. Le variazioni d’intensità che si osservano sono dovute all’assorbimento di alcuni gas presenti nell’atmosfera e identificati in figura con la loro formula chimica.
L’intensità della radiazione emessa è proporzionale alla temperatura del corpo che la emette. I gas assorbono la radiazione intensa emessa dalla superficie calda ed emettono una radiazione meno intensa, che corrisponde alla bassa temperatura dell’alta atmosfera dove si trovano. L’assorbimento dei gas riduce così l’energia che esce dal pianeta rispetto a quella che è stata emessa dalla superficie terrestre, quest’ultima mostrata in figura dalla curva verde. Questa attenuazione della radiazione emessa è detta effetto serra. Conformemente, i gas responsabili sono detti gas serra. L’effetto serra, come una coperta, riduce gli scambi di calore e causa il riscaldamento dell’oggetto che è schermato.
Il nome effetto serra deriva dalla similitudine con il processo di riscaldamento che avviene nelle serre per la coltivazione delle piante (anche se in quest’ultime il riscaldamento è causato più dalla mancata convezione che dallo schermo radiativo fornito dal vetro).
La differenza fra l’emissione della superficie (curva verde) e quello che effettivamente esce dal pianeta (curva azzurra) è la misura dell’effetto serra ed è mostrata nella seconda figura.
I principali gas serra sono: il vapore acqueo (H2O); il biossido di carbonio (CO2) (più comunemente noto come anidride carbonica); l’ossido di diazoto (N2O) (più comunemente noto come protossido d’azoto); l’ozono (O3) e il metano (CH4). Le figure mostrano l’effetto serra nel caso di cielo sereno. In generale un ulteriore contributo è fornito anche dalle nubi.
L’effetto serra è un effetto benefico che rende possibile lo stabilirsi di una temperatura mite sulla superficie terrestre. Le variazioni dei gas serra causate dall’uomo sono invece motivo di preoccupazione, poiché un aumento dell’effetto è destinato a provocare un ulteriore riscaldamento e la modifica delle condizioni climatiche.
Il cc in corso non è spiegabile come effetto delle forzanti naturali e anche forzanti antropiche, dovute all’aumentata capacità dell’attività umana di modificare le condizioni ambientali, devono essere prese in considerazione.
Le forzanti climatiche che agiscono oggi a seguito dei cambiamenti avvenuti nel pianeta rispetto alle condizioni di riferimento pre-industriali del 1750 sono riassunte nella tabella, che è ripresa dall’ultimo rapporto Ipcc del 2007.
La principale forzante è dovuta al cambiamento della concentrazione dei gas serra presenti in atmosfera, primo fra tutti il biossido di carbonio (CO2), con contributi dovuti al metano (CH4), all’ossido di diazoto (N2O) e agli alocarburi – anche detti idrocarburi alogenati, categoria a cui appartengono anche i cfc. L’andamento temporale durante gli ultimi 10.000 anni della concentrazione dei maggiori gas serra naturalmente presenti in atmosfera è mostrato in forma semplificata nei grafici seguenti.
La concentrazione di biossido di carbonio, misurata in modo diretto e sistematico alle Hawaii, è aumentata da 315 ppmv (parti per milione in volume) nel 1958 a 390 ppmv alla fine del 2010. Questo aumento è attribuibile principalmente alle emissioni di origine antropica, poiché la concentrazione di biossido di carbonio è rimasta relativamente costante intorno a valori di 270 ppmv durante l’Olocene (ultimo periodo post-glaciale), mentre è aumentata drasticamente a partire dall’epoca della rivoluzione industriale con la distruzione degli ecosistemi naturali (deforestazione ed espansione delle terre agricole) e il massiccio e crescente uso di combustibili fossili (principalmente carbone e petrolio). Anche gli aumenti del metano e dell’ossido di diazoto sono dovuti alle attività antropiche, attraverso la produzione industriale e la modifica dell’emissione delle biomasse.
Nel corso del 20° secolo sono stati immessi in atmosfera anche alcuni prodotti chimici di sintesi, gli idrocarburi alogenati e l’esafluoruro di zolfo, che non sono presenti naturalmente in atmosfera; questi, sebbene liberati in quantità relativamente piccole, hanno tempi di vita in atmosfera molto lunghi e danno luogo a un accumulo che contribuisce all’aumento dell’effetto serra.
Un altro gas serra rilevante per il riscaldamento planetario è l’ozono (O3), per il quale non abbiamo misure, dirette o indirette, che ci permettano di ricostruirne le variazioni secolari. Tuttavia, con l’ausilio di modelli, si stima che esistano due effetti opposti: una piccola diminuzione dell’effetto serra, dovuta alla distruzione dell’ozono stratosferico, e un aumento dell’effetto serra, dovuto all’aumento dell’ozono troposferico avvenuto durante l’età industriale a causa delle emissioni antropiche dei precursori dell’ozono troposferico (inquinamento industriale e urbano), solo parzialmente compensate dalla diminuzione di precursori naturali dovuta alla perdita di alcuni ecosistemi.
L’ultimo gas serra preso in considerazione è il vapore acqueo, formatosi a causa dell’aumento del metano. Il vapore acqueo è il principale gas serra, ma la sua concentrazione in atmosfera è determinata principalmente dai meccanismi di evaporazione e condensazione che ne determinano la concentrazione di equilibrio indipendentemente dalle nuove sorgenti. Per questo il vapore acqueo non è considerato essere una forzante (nonostante sia il principale gas serra), ma è un importante meccanismo di feedback. Unica eccezione è quella parte di vapore acqueo che si forma ad alta quota (ed è quindi esclusa dal rapido ciclo del vapore acqueo in troposfera) a seguito dell’ossidazione del metano.
Il riscaldamento causato dai gas serra è in parte compensato dal raffreddamento provocato dall’aumento della riflessione della radiazione solare, dovuto sia all’albedo della superficie modificato dalla deforestazione, sia agli aerosol di origine antropica. Gli aerosol antropici hanno impedito che il potenziale di riscaldamento planetario dei gas serra potesse pienamente manifestarsi. L’effetto degli aerosol sul clima è tuttavia molteplice. A titolo di esempio il black carbon, una componente degli aerosol emessi dalla combustione, assorbe la radiazione luminosa e, in base alle stime più recenti, è responsabile di una forzante radiativa di 0,9 W/m2 (Watt per metro quadro). Questo valore è più alto rispetto alla stima riportata nell’ultimo rapporto dell’Ipcc e inferiore solo all’effetto della CO2.
L’ultima forzante antropica indicata in tabella è dovuta alla generazione di cirri artificiali da parte degli scarichi degli aerei. Di questo contributo si è discusso molto, ma i calcoli indicano che l’effetto è molto piccolo ed è praticamente trascurabile. È vero che le scie lasciate dagli aerei sono diffuse su tutto il globo e sono molto frequenti, ma non sono persistenti. Infatti, solo quei processi che hanno effetti che si accumulano nel tempo finiscono per essere importanti ai fini del clima.
Come illustrato nella tabella, la risultante di tutte le forzanti radiative antropiche, qui sopra discusse, è stimata essere di 1,6 ± 0,8 W/m2, valore che deve essere confrontato con il flusso totale di 235 W/m2 che caratterizza l’equilibrio radiativo. Rispetto a questo valore della forzante antropica gli effetti naturali sono un piccolo contributo. La variabilità solare diretta, dovuta all’irraggiamento solare, è responsabile per non più del 20-40% del riscaldamento negli ultimi secoli. La misura diretta dell’emissione solare dal 1978 mostra che sono presenti fluttuazioni d’intensità associate con il ciclo undecennale delle macchie solari, ma non vi è nessuna indicazione di una crescita o decrescita sistematica dell’intensità. Analogamente, recenti analisi hanno mostrato che la supposta correlazione fra attività magnetica del Sole, intensità dei raggi cosmici galattici e copertura nuvolosa, discussa nel 1997 e suggerita essere una rilevante causa di variabilità climatica, era generata da un incorretto trattamento dei dati e non resiste ad analisi più accurate e alla prova dei dati raccolti dal 1997 a oggi.
I fattori naturali (variazioni nell’attività solare, eruzioni vulcaniche) hanno plausibilmente contribuito a variazioni della temperatura globale nell’ultimo millennio, compreso il trend osservato nella prima metà del 20° secolo, ma è estremamente improbabile che l’innalzamento osservato della temperatura negli ultimi anni sia dovuto esclusivamente a fattori naturali.
Esiste correlazione fra i cambiamenti del paleoclima e i cicli di Milankovitch e fra i cambiamenti in atto e le forzanti antropiche. Tuttavia l’esistenza di una correlazione non implica necessariamente che esista un rapporto di causa ed effetto fra i due eventi. La correlazione è solo un utile suggerimento su quali termini del problema conviene studiare per una verifica quantitativa. Sono innumerevoli i casi di correlazioni caratterizzate da sorprendenti coincidenze che sono poi risultate essere solo dovute alla casualità. Anche se il perdurare della correlazione su tempi lunghi e per variazioni complesse aumenta certamente l’importanza del dato qualitativo, l’attribuzione di un effetto a una causa richiede una prova suffragata ottenuta con un modello affidabile da una verifica quantitativa.
Partendo dai modelli di circolazione atmosferica utilizzati per le previsioni meteorologiche, sono stati sviluppati diversi modelli di simulazione del clima che ora comprendono la dinamica dell’atmosfera e dell’oceano, del suolo e della vegetazione, della criosfera, e includono i cicli biogeochimici di diversi elementi, primo fra tutti il ciclo del carbonio. La validità di questi modelli è stata verificata utilizzandoli per riprodurre gli eventi del passato. Sebbene molti processi siano ancora rappresentati in modo semplificato e alcuni meccanismi siano ancora incerti, l’ultima generazione di modelli del clima è in grado di riprodurre con buona approssimazione l’andamento di molte quantità medie. Come mostrato in figura, le simulazioni di questi modelli hanno mostrato che è possibile simulare l’andamento della temperatura osservata nell’ultimo secolo solo se s’includono, come condizioni al contorno, sia le variazioni delle forzanti naturali (prima fra tutte la variabilità solare) che l’aumento di concentrazione di gas serra di origine antropica. Ovvero, se non si tiene conto delle forzanti antropiche non è possibile riprodurre l’aumento delle temperature osservate nell’ultimo secolo. I modelli indicano anche che nell’ultimo secolo probabilmente le forzanti antropiche che inducono un riscaldamento sono state in parte controbilanciate dal raffreddamento causato dagli aerosol e per questo non hanno prodotto tutti gli effetti che erano nella loro potenzialità.
Questo risultato consente all’Ipcc di concludere che la forzante dei gas serra è la principale causa del riscaldamento globale osservato nelle ultime decadi e pertanto è estremamente verosimile (il che vuol dire che questa affermazione ha il 95% di probabilità di essere vera) che le forzanti antropiche siano la causa predominante del riscaldamento globale, e di tutti gli effetti ambientali associati.
Il primo rapporto Ipcc del 1990 prevedeva un aumento di temperatura compreso fra 0,15 e 0,30 °C per decade nel periodo 1990-2005: questa previsione è stata confermata dall’osservazione di un aumento di 0,20 °C per decade. La qualità dei modelli è nel frattempo molto migliorata e consente di riprodurre con buona precisione il cambiamento osservato negli ultimi anni. Sulla base di queste verifiche i modelli possono essere usati anche per fare previsioni sul cambiamento del futuro e sulle sue ripercussioni geopolitiche.
Tuttavia, la previsione è sempre resa incerta dall’aumentare degli errori con la distanza della proiezione temporale e dalla moltitudine delle possibili scelte politiche ed economiche che potrebbero caratterizzare l’attività umana del futuro.
Al minimo, nel caso in cui le forzanti rimangano costanti al livello dell’anno 2000 (con le emissioni limitate a quelle che bilanciano il lento recupero naturale), si prevede che la temperatura terrestre continui a crescere e aumenti di altri 0,6 °C alla fine del 21° secolo. Maggiori aumenti sono previsti se continuerà la crescita delle forzanti e a questo proposito diversi scenari possono essere presi in considerazione.
Nel caso del cosiddetto scenario B1, che è virtuoso per quel che riguarda le scelte economiche (un’economia in cui aumentano i servizi e l’informazione e si sviluppano tecnologie che utilizzano in modo efficiente le risorse) e realistico a proposito della crescita della popolazione (la popolazione mondiale raggiunge un massimo verso la metà del secolo e quindi inizia a diminuire), l’aumento della temperatura a fine secolo è di 1,8 °C .
Nel caso del cosiddetto scenario A1B, che prevede il perdurare di un’economia basata sul consumismo, una crescita realistica della popolazione e l’adozione di un approvvigionamento energetico bilanciato sulle diverse fonti, l’aumento della temperatura a fine secolo è di 2,8 °C.
Infine, nel caso del cosiddetto scenario A2, che prevede un effetto ridotto della globalizzazione, con sviluppi regionali indipendenti che portano a miglioramenti tecnologici più lenti, e una crescita continua della popolazione mondiale, l’aumento della temperatura a fine secolo è di 3,4 °C.
Secondo i diversi scenari, il livello del mare potrebbe salire fra i 20 e i 50 cm per la fine del secolo, ma questa stima non prende in considerazione meccanismi di feedback, difficili da quantificare, che potrebbero accelerare il processo di scioglimento dei ghiacciai.
Anche altri meccanismi di feedback, quali la liberazione di biossido di carbonio di origine naturale a seguito dell’innalzamento della temperatura, sono soggetti a troppo grandi incertezze e non sono attualmente presi in considerazione dai modelli.
Questi cambiamenti, espressi in termini di variazione media, non sono però destinati a manifestarsi uniformemente sulla superficie terrestre. In generale un aumento più marcato è previsto sulle terre emerse e alle alte latitudini; picchi di riscaldamento sono previsti nell’emisfero nord, che è più densamente ricoperto da terre emerse, dove alle alte latitudini si può raggiungere un innalzamento della temperatura maggiore del doppio del valore medio.
Qualche informazione comincia a essere disponibile anche sul possibile cambiamento della distribuzione delle precipitazioni. In questo caso le conclusioni non sono le stesse per tutti i modelli: in generale, un aumento delle precipitazioni è previsto alle alte latitudini e una diminuzione è prevista nelle regioni subtropicali.
Gli strumenti per affrontare il problema del cambiamento climatico sono la mitigazione e l’adattamento.
La mitigazione comporta l’eliminazione o, almeno, la riduzione delle cause del cambiamento in modo da ritornare alle condizioni iniziali o non allontanarsi troppo da queste. Questo vuol dire ridurre l’emissione dei gas serra diminuendo i processi che li generano o utilizzando strumenti che recuperano i gas serra prodotti ed evitano la dispersione in atmosfera. Alternativa promettente è anche lo sviluppo di procedure per la gestione del territorio che producano un effetto netto di sottrazione della CO2 dall’atmosfera. La mitigazione per dare risultati validi deve agire sulle cause principali, per questo la CO2 è spesso al centro della discussione, e deve essere attuata a livello globale con la partecipazione prioritaria dei paesi che maggiormente emettono gas serra. Per questo è necessario raggiungere un consenso internazionale quanto più completo possibile. Le strategie di mitigazione garantiscono un risultato affidabile poiché mirano a tornare alle note condizioni iniziali, per le quali già esistono strutture per la fruizione del territorio e per la difesa dalle condizioni avverse. Tuttavia, questo risultato richiede un sacrificio economico di grandi dimensioni, intorno al quale è difficile raggiungere il necessario accordo internazionale.
L’adattamento comporta invece l’accettazione del cambiamento e la prevenzione degli effetti negativi con interventi miranti a modificare l’uso del territorio in funzione delle nuove condizioni ambientali, quali, per esempio, lo spostamento preventivo delle città e delle infrastrutture esposte all’innalzamento del livello del mare, l’identificazione di produzioni agricole più adatte alle nuove condizioni climatiche, la progettazione di nuove soluzioni abitative e in generale la programmazione dello sviluppo di nuove aree o attività e la gestione del declino di altre. L’adattamento dovrebbe prevedere anche una strategia demografica per la rilocazione d’intere popolazioni prima che queste siano spinte dalle condizione avverse ad abbandonare le proprie terre.
L’adattamento non ha bisogno di un vasto consenso internazionale, però non garantisce l’efficacia dell’intervento poiché i tempi e le modalità locali con cui il cc è destinato a manifestarsi sono molto più incerti delle condizioni climatiche a cui si potrebbe ritornare con la mitigazione. La previsione degli scenari futuri è un compito molto difficile e in questo caso sì che c’è molta strada da fare per ottenere risposte che siano qualcosa di più di generiche indicazioni di tendenza. Esiste pertanto il rischio di attivare adattamenti insufficienti o eccessivi.
Queste difficoltà non giustificano tuttavia un’immobilità che abbandona il mondo contemporaneo alla fatalità di cambiamenti che possono anche essere tali da sovvertire gli equilibri economici e politici che garantiscono una convivenza pacifica. Occorre ridurre e rinviare il cambiamento climatico con tutti gli interventi di mitigazione che sono compatibili con la stabilità del sistema economico e allo stesso tempo intervenire sulle incertezze scientifiche, che non possono essere eliminate, ma certamente possono essere ridotte, in modo da attuare strategie affidabili di mitigazione, tali da prevenire gli effetti più traumatici del cambiamento.
All’interno delle Nazioni Unite (Un) è stata stabilita nel 1995 una Convenzione quadro internazionale sui cambiamenti climatici (Unfccc) per studiare le possibili azioni da intraprendere per la riduzione del riscaldamento globale e identificare e promuovere politiche virtuose in questa direzione. L’obiettivo della Unfccc è la stabilizzazione della concentrazione dei gas serra in atmosfera a livelli tali da evitare un’interferenza antropogenica negativa con il sistema climatico. Gli stati partecipanti si riuniscono annualmente nella Conferenza dei paesi membri (Cop, Conference of the Parties), dove si valuta lo stato della conoscenza scientifica, si fa il bilancio delle emissioni, si verificano gli impegni e l’efficacia delle misure intraprese e si avviano iniziative per promuovere l’obiettivo dell’accordo quadro. Durante la Conferenza della Nazioni Unite sul cambiamento climatico che ha avuto luogo in Messico a Cancún alla fine del 2010 si è tenuta la sedicesima edizione della Cop.
Le attività dell’Unfccc sono importanti per accertare gli effetti globali del cambiamento e sviluppare un consenso internazionale sulle azioni da intraprendere, ma il suo intervento si limita a incoraggiare i paesi membri ad adottare politiche di contenimento senza poterli obbligare.
Un impegno più vincolante è stabilito invece con il Protocollo di Kyoto. Con questo protocollo, deliberato durante la terza edizione della COP dell’Unfccc tenutasi a Kyoto, in Giappone, nel 1997, i paesi industrializzati si impegnarono a ridurre entro il 2012 le emissioni di gas serra del 5,2% rispetto al 1990. Dal Protocollo di Kyoto erano esclusi i paesi in via di sviluppo, per evitare di introdurre ostacoli alla loro crescita economica. Questo è un punto molto dibattuto che trova ancora oggi il disaccordo degli Stati Uniti, soprattutto per l’esenzione dagli impegni anche dei grandi paesi emergenti dell’Asia quali India e Cina.
La sottoscrizione iniziale dei paesi è un atto puramente formale, poiché soltanto la successiva ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali formalizza l’impegno del paese a ridurre le emissioni dei gas serra, quali CO2, N2O, CH4, esafluoruro di zolfo (SF6) e alocarburi. Sulla base degli accordi del 1997 il Protocollo entra in vigore il 90° giorno dopo la ratifica del 55° paese tra i 194 sottoscrittori originari purché questi, complessivamente, coprano almeno il 55% delle emissioni globali di gas serra.
Nel 2002 avevano ratificato l’atto il 55% dei paesi, senza però coprire il 55% delle emissioni globali di gas serra. Solo dopo la ratifica della Russia nel settembre 2004 si è superato questo secondo requisito ed è stata data operatività al Protocollo a partire dal 16 febbraio 2005. Restano, in ogni caso, ancora fuori paesi come Australia e Stati Uniti, che non hanno ratificato l’accordo per paura di danneggiare il proprio sistema industriale e che richiedono una rinegoziazione in cui si allarghi la base dei paesi partecipanti al Protocollo ai paesi emergenti. Gli aggiornamenti e le ratifiche del Protocollo di Kyoto sono discussi nei meeting dei paesi che hanno sottoscritto il protocollo (Mop, Meeting of the Parties of Kyoto Protocol). I Mop hanno luogo durante alcuni dei Cop.
L’accordo di Kyoto prevede alcuni meccanismi per ottenere il contenimento delle emissioni senza penalizzare l’economia, quali:
i. Il commercio delle emissioni (emissions trading), che prevede per ogni nazione la possibilità di rispettare i limiti di emissione che gli sono stati imposti, acquistando quote di emissione non utilizzate di altre nazioni. In questo modo le strategie di contenimento diventano una risorsa. Il mercato che tratta questi scambi è detto carbon market.
ii. La realizzazione di progetti congiunti (joint implementation), che prevede uno sconto delle proprie emissioni attraverso la partecipazione a progetti di riduzione delle emissioni in altri paesi che hanno sottoscritto il Protocollo. La riduzione delle emissioni può essere ottenuta sia attraverso la riduzione della produzione dei gas serra, sia attraverso lo sviluppo dei processi per la sottrazione dei gas serra dall’atmosfera.
iii. Lo sviluppo di processi puliti (clean development mechanism), che prevede uno sconto delle proprie emissioni attraverso la realizzazione di progetti che riducono le emissioni nelle nazioni in via di sviluppo ed escluse dal carbon market.
Verso la fine del 2008 un importante impulso alle strategie di Kyoto è stato dato dall’Unione Europea (Eu), che ha approvato unilateralmente il cosiddetto pacchetto clima ed energia 20-20-20. L’accordo prevede entro il 2020 una strategia di sviluppo per i paesi membri vincolato dalla riduzione del 20% dell’emissioni di gas serra, dall’aumento dell’efficienza energetica del 20% e dal raggiungimento della quota del 20% di fonti di energia alternative. Il pacchetto ha incontrato la resistenza dei paesi dell’Est europeo, che chiedevano maggiori aiuti per condividere l’accordo dei paesi sviluppati, e della Germania e dell’Italia, impegnate nel settore manifatturiero più degli altri paesi.
Il pacchetto clima ha cercato di aprire la strada a nuovi accordi internazionali, con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro i 2 °C alla fine del secolo. Il gesto di buona volontà dell’Unione Europea non è stato però raccolto da Cina e Stati Uniti. Gli Stati Uniti infatti si rifiutano di ratificare il Protocollo di Kyoto se la Cina, ormai non più paese in via di sviluppo, non vi aderisce, mentre la stessa Cina non vuole accettare i vincoli di sviluppo imposti dal Protocollo prima di avere completato il proprio recupero rispetto ai paesi sviluppati.
Le carte, che mostrano la distribuzione delle emissioni per abitante e per unità di superficie, sottolineano le diverse esigenze dibattute a livello internazionale. Da una parte (sulla base della prima carta), si vorrebbe raggiungere un equilibrio, rispettando criteri di equità fra gli uomini, e dall’altra (sulla base della seconda carta) un equilibrio rispettando una parità nell’utilizzo del territorio.
Nel sesto Mop che si è tenuto durante la conferenza di Cancún del 2010, Cina e Stati Uniti non hanno accettato nessun nuovo impegno e si sono limitati a dichiarare la loro disponibilità a discuterne. Questa è la contrapposizione internazionale con cui ci si avvia verso il 2012, quando scadrà il primo periodo coperto dal Protocollo di Kyoto e dovrà essere negoziato un nuovo accordo quadro internazionale per affrontare le sempre più stringenti indicazioni che emergono dalle conclusioni dell’Ipcc.
Il dibattito sul problema del cambiamento climatico verte spesso sull’esistenza o meno di consenso scientifico nell’interpretazione dei dati. Chiaramente il consenso dà valore ai risultati e ci fa pensare che siamo vicini alla verità, mentre il dissenso indebolisce le affermazioni e ci rende scettici. Nonostante l’importanza della convergenza delle interpretazioni, l’aspettativa di un pieno consenso scientifico è una pretesa che non può essere soddisfatta.
Infatti, il metodo scientifico è basato sull’invalidazione delle teorie. Affinché una teoria scientifica sia tale deve essere possibile fare esperimenti che la possano invalidare e la teoria rimane valida fino a che non se ne dimostri la falsità o i suoi limiti. Il metodo scientifico sottopone a continua critica le sue teorie, utilizza sistematicamente il dissenso e non riesce mai a raggiungere la certezza assoluta sulle sue conclusioni.
Si può parlare di consenso o dissenso scientifico nel senso che un fatto può essere spiegato da una sola o da più teorie scientifiche. Anche questa però è una discriminante debole, perché in pratica non ci sono solo teorie valide o invalide: molto spesso i dati sperimentali possono essere tali da rendere più o meno probabile una certa teoria, ma non ancora sufficienti a dimostrarla o negarla. Questo è proprio il caso delle teorie sul clima, dove molto spesso ci sono conclusioni che sono dichiarate più o meno verosimili, ma mai certe.
La mancanza di consenso non è un problema per la ricerca scientifica, che ha appunto bisogno di dissenso per progredire; lo diventa però per la società e la politica quando questa ha bisogno di utilizzare la conoscenza scientifica per delle scelte operative ma non riceve risposte certe dalla scienza.
La richiesta d’informazioni certe è però solo un alibi di chi non vuole scegliere, perché solo in un mondo ideale si fanno delle scelte in base a certezze assolute. Ciascun individuo fa continuamente piccole e grandi scelte sulla base di speranze e paure che valuta per importanza e probabilità.
Nel caso di ambiti scientifici che coinvolgono sistemi complessi, come per esempio la medicina, è difficile ottenere il pieno consenso fra gli esperti. Per questo è frequente il ricorso ai consulti di medici, dove si cerca di raccogliere il suggerimento meglio informato sulla base del quale agire anche in presenza di eventuali dissensi.
Questo è quello che sta succedendo con l’Ipcc, che si propone di utilizzare la più aggiornata conoscenza scientifica necessaria per affrontare un problema urgente che non può aspettare la completa maturazione del lento processo scientifico. L’Ipcc non può, e forse non pretende di, generare consenso scientifico; cerca solo di estrarre, con il più ampio contributo possibile della comunità scientifica, quelle informazioni che sono necessarie per prendere delle decisioni e fornisce le sue conclusioni in termini probabilistici.
Nel mondo economico la scienza gestionale ha formalizzato l’utilizzo delle informazioni probabilistiche con il calcolo dei costi e benefici delle diverse opzioni, calcolo fatto come media dei possibili effetti valutati per la loro probabilità di realizzarsi.
L’approccio gestionale comincia a caratterizzare anche le scelte politiche, ma in questo caso il problema si complica per la necessità di confrontare valori e beni che spesso non sono commensurabili. Il manager industriale può facilmente valutare in termini economici tutte le conseguenze delle diverse opzioni e sa scegliere di conseguenza quella che massimizza la probabilità di profitto. Il politico gestisce valori, quali il benessere economico, la salute, l’ambiente, la sicurezza, la giustizia, che non possono essere confrontati quantitativamente. Una scelta che favorisce uno di questi valori a scapito di un altro può essere fatta solo sulla base di una priorità politica.
Esistono pertanto tre ambiti: quello valoriale, dove si identificano le priorità, quello gestionale, dove si fanno le scelte, e quello scientifico, dove si acquisiscono le conoscenze. Nel caso del cambiamento climatico i primi due ambiti sono proprietà esclusiva della politica, mentre l’ultimo è riservato alla scienza.
Si può pertanto concludere che la ricerca di consenso deve realizzarsi in ambito politico, dove il consenso è l’obiettivo, e non in ambito scientifico, dove il dissenso è il metodo di lavoro.
Il quadro che emerge dai precedenti paragrafi, dove sono stati discussi gli aspetti scientifici e razionali del cc, ci mostra un problema che, sebbene reso incerto dalla complessità del sistema che si vuole controllare, è caratterizzato da solide evidenze e consente di formulare per il futuro ragionevoli previsioni che forniscono tutti gli elementi di giudizio necessari per la decisione delle strategie d’intervento. Ciononostante, il cc è oggetto di un acceso dibattito sui mezzi d’informazione, è causa d’incomprensione fra scienza e politica, di crescente interesse nelle analisi degli economisti, è motivo di animate discussioni politiche e richiede faticose mediazioni per la stipula di esitanti accordi internazionali.
Queste difficoltà si spiegano solo in parte con le incertezze scientifiche. Queste possono aver caratterizzato le discussioni del passato e aver lasciato qualche strascico nelle discussioni attuali, ma non sono più una valida scusa alla luce delle conoscenze acquisite negli ultimi anni. È piuttosto la contrapposizione di valori forti e contrastanti, quali il mantenimento del progresso economico e la difesa del proprio standard di vita, da una parte, e i principi di uguaglianza fra i popoli e fra le generazioni, dall’altra. È inevitabile che, col perdurare del dibattito, questi grossi interessi abbiano portato all’estremizzazione delle posizioni: catastrofisti da una parte e scettici dall’altra.
I catastrofisti danno del cc un’immagine di distruzione imminente e globale che travisa la realtà. Il cc è un grosso problema, ma genera danni in modo selettivo e va affrontato nella sua giusta prospettiva temporale. In alcuni casi ci sono stati anche abusi nella contestualizzazione di talune informazioni. Per esempio, si è parlato della corrente del Golfo come esempio dell’instabilità climatica e per spiegare come il clima sia anche il risultato di complessi equilibri che generano condizioni ambientali a volte molto diverse da quelle determinate esclusivamente dalla latitudine. In un diverso equilibrio climatico, la corrente del Golfo potrebbe non esserci, con la sparizione delle condizioni temperate nell’Europa del Nord: ciononostante, non esistono indicazioni che il cc in corso possa modificare la corrente del Golfo. È giusto che gli scienziati si preoccupino anche di questa eventualità, ma questo non autorizza a considerare la scomparsa della corrente del Golfo come una minaccia in atto.
In altri casi c’è l’eccessiva fretta con cui dei risultati allarmanti sono comunicati ai mezzi d’informazione. Un esempio è quello dello scioglimento imminente dei ghiacciai himalayani, conclusione che poi non è stata confermata dalle successive verifiche e che ha finito per dare invece voce agli scettici.
Gli scettici, d’altra parte, continuano a negare l’evidenza dell’attribuzione e annunciano nuove teorie sulle cause naturali dei cambiamenti climatici. Queste teorie sono basate sull’osservazione di nuove correlazioni. In realtà, l’attribuzione alle cause antropiche si basa oramai su un modello e non più su una correlazione. Quest’attribuzione non può essere messa in discussione da nuove correlazioni, la sua negazione richiede piuttosto l’invalidazione del modello stesso. Le verifiche alle quali il modello è sottoposto stanno portando a continue correzioni e miglioramenti e sembra molto improbabile che si possa arrivare alla sua invalidazione.
Col venir meno delle argomentazioni scientifiche, gli scettici hanno dedicato crescente attenzione alla delegittimazione degli scienziati. C’è stata una caccia alle voci di dissenso all’interno dell’Ipcc, un’analisi critica del modo in cui alcuni argomenti controversi sono stati presentati nei documenti prodotti dall’Ipcc e la ricerca dei cambi di opinione fra le diverse versioni del rapporto. Questa critica all’Ipcc, può essere percepita dall’opinione pubblica come motivo di dubbio sulla validità delle tesi esposte; in realtà è un sano strumento di verifica che rafforza il modo di operare del sistema di consultazione attivato dall’Ipcc stesso, che oramai coinvolge più di 2500 scienziati in tutto il mondo e che sempre meglio persegue l’obiettivo dell’oggettività.
Una volta sgombrato il campo dalla confusione creata dagli opposti estremismi, il problema che rimane sul tavolo è quello dei grossi interessi che si confrontano nel caso di scelte e accordi internazionali per la mitigazione dei cambiamenti climatici. Accanto alla difesa del proprio standard di vita da parte dei paesi sviluppati esiste l’aspirazione di poter accedere a migliori condizioni di vita in quelli in via di sviluppo. Le statistiche mostrano che esiste una forte correlazione fra il consumo pro capite di energia e l’aspettativa media di vita in quel paese. Queste giuste aspirazioni delle popolazioni di oggi si scontrano con la nostra responsabilità per come lasceremo il pianeta alle popolazioni di domani. Gli organismi internazionali cercano di trovare un compromesso fra queste esigenze, ma quando si apprestano a fare delle scelte finiscono inevitabilmente per penalizzare qualche paese a vantaggio di qualche altro. Le due immagini del mondo che emergono dall’analisi dell’emissione di gas serra per abitante e per unità di superficie mostrano le grandi differenze che esistono e come diversi gruppi di nazioni possano essere favorite dall’adozione di un criterio piuttosto che di un altro.
È intrinsecamente molto difficile affrontare in modo equanime e condiviso problemi di tipo globale quando esistono grosse differenze sia nelle responsabilità delle cause, sia nell’esposizione agli effetti. Per superare questa impasse sarebbe necessario un giudizio terzo capace di creare, anche nel caso dei disastri globali, degli obblighi di responsabilità verso i danneggiati da parte di chi ha causato i danni.
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