La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Medicina tropicale
Medicina tropicale
La storia della medicina tropicale è strettamente legata ai viaggi di esplorazione, ai processi di espansione e all'imperialismo, nonché ai traffici commerciali e ai conflitti bellici. Oltre alla Gran Bretagna, che costruì l'impero più vasto al di là dell'oceano, anche la Francia, la Germania, i Paesi Bassi, il Belgio, l'Italia, il Portogallo e la Spagna sono stati in diversa misura potenze coloniali.
Gli Stati Uniti, avendo acquisito importanti possedimenti nelle regioni tropicali, dovettero affrontare i problemi sanitari tipici di quelle zone dell'America. I medici al servizio dei governi coloniali, delle compagnie commerciali e delle istituzioni militari, lontani dalla madrepatria, inizialmente prestavano le loro cure agli altri occidentali. Alcuni si stabilirono nelle colonie nelle quali vi era un numero sufficiente di pazienti paganti, dedicandosi esclusivamente all'attività professionale nei loro ambulatori privati. A contatto con la gente del luogo, negli affollati centri urbani, nei magazzini doganali in continua attività e nelle stazioni di posta isolate, essi si trovarono di fronte a malattie sconcertanti, alle quali cercarono di applicare le loro conoscenze relative alle patologie dei climi temperati; alcuni si interessarono ai rimedi indigeni, spesso denigrandoli in quanto basati sulla superstizione. Prima dell'avvento della teoria dei germi, l'enfasi veniva sempre posta sulle nozioni ippocratiche collegate agli elementi, all'aria, all'acqua e ai luoghi.
Nel corso del XIX sec., di pari passo con l'espansione dei paesi europei, crebbe anche l'importanza della medicina tropicale. L'obiettivo di occupare i Tropici con successo richiedeva condizioni di vita più sane e maggiori capacità nel controllo delle patologie; per proteggere la salute dei bianchi, la popolazione indigena veniva quindi confinata in zone ben circoscritte. Studiosi progressisti in campo medico accolsero la nuova specificità derivante dalla teoria dei germi, in quanto forniva un modello esplicativo per le malattie infettive. Nella medicina tropicale, infatti, il modello del vettore del parassita divenne dominante per quanto concerneva le idee sulle cause e sulla trasmissione delle malattie. La conoscenza dei complessi cicli vitali degli organismi patogeni ‒ comprendenti più di una specie ospite e un vettore vivente (spesso un insetto) per la trasmissione da un individuo all'altro ‒ determinò dunque una nuova concezione, che costituì il fondamento di questa branca medica.
Nei casi in cui i medici tropicali tornavano in patria ‒ il tasso di mortalità era spesso sorprendentemente alto ‒ portavano nuove conoscenze nei centri di studio istituzionali; inoltre, i progressi nella microscopia, istologia, parassitologia, elmintologia, batteriologia e protozoologia fornivano ulteriori stimoli allo studio delle infezioni diffuse nei paesi esotici. Un flusso di persone, di idee e di informazioni circolava dalle colonie alle città dell'Europa e dell'America Settentrionale, un asse di diffusione importante per assegnare alla medicina tropicale lo status di specializzazione medica accademica. Con lo sviluppo delle comunicazioni, le conoscenze cominciarono a essere scambiate direttamente tra le colonie.
La vita ai Tropici sottoponeva l'organismo a una varietà di esperienze la cui intensità raramente poteva competere con quelle europee. Sebbene alcune delle patologie che finirono per essere incluse nel canone della medicina tropicale ‒ come per esempio la peste e la malaria ‒ nel passato erano state frequenti anche nei paesi a clima temperato, nelle zone tropicali erano molto più virulente.
Agli inizi del XIX sec. si riteneva che l'ambiente dei Tropici, caratterizzato da un eccesso di umidità e di caldo e dall'irraggiamento solare molto forte, alterasse la composizione dell'organismo (Johnson 1813); le diagnosi di febbre e di dissenteria erano molto numerose. Si tendeva a minimizzare il giudizio negativo sugli effetti dell'ambiente e si consigliava di evitare gli eccessi di cibo, di bevande e di esercizio fisico, suggerendo misure di prevenzione come, per esempio, un abbigliamento appropriato. I trattamenti erano analoghi a quelli che venivano prescritti in patria (salassi, purganti), benché alcuni medici esortassero i pazienti ad assumere il chinino tanto per prevenire quanto per trattare la 'febbre intermittente' o malaria. In seguito all'ampliamento e alla diffusione delle conoscenze nel campo della fisiologia, i medici riscrissero tali categorie patologiche generali nel nuovo linguaggio, parlando di disordini o piuttosto di problemi fisiologici della circolazione e del metabolismo interno, specie della digestione; tuttavia le terapie prescritte rimasero sostanzialmente le stesse.
Al di là di queste misure per il controllo delle patologie a livello individuale, i tentativi di migliorare le condizioni sanitarie ai Tropici traevano ispirazione dai dibattiti sulle patologie, che attribuivano ai miasmi la responsabilità delle cattive condizioni di salute nelle città d'Europa e d'America. Le soluzioni proposte erano le stesse: fornitura di acqua pulita, rimozione delle acque di scolo e di altre sostanze nocive, scarichi e ventilazione migliori e una quantità adeguata di alimenti genuini o quanto meno non adulterati. Colonialisti illuminati speravano di estendere gli standard sanitari europei alle popolazioni locali ma, nel frattempo, si incoraggiavano i bianchi a vivere in spazi separati, limitando al minimo i contatti con gli abitanti del luogo. Tali consigli rafforzavano, ed erano a loro volta rafforzati, da idee di gerarchia razziale; nella trattazione della teoria dei germi gli 'indigeni sporchi' erano definiti 'serbatoi di infezione'.
Qualche preoccupazione sussisteva in merito all'effettiva possibilità che la razza bianca, a dispetto dei miglioramenti delle condizioni sanitarie e dell'adozione di adeguati regimi di vita personali, potesse comunque sopravvivere ai Tropici. Osservazioni non sistematiche condotte sulla popolazione locale avevano portato alla conclusione che essa fosse in grado di sopportare maggiormente il clima tropicale; per esempio, sembrava risentire assai meno delle febbri. Robert Knox (1793-1862) riteneva che le razze appartenessero ciascuna a una specifica regione della Terra e che, se spostate dalla loro sede originaria, inesorabilmente sarebbero andate incontro a un processo di degenerazione; di conseguenza la colonizzazione dei Tropici da parte dell'uomo bianco veniva sostanzialmente condannata. Altri sostenevano invece che l'adattamento fosse possibile; nell'ambito di questa visione l'innata superiorità della razza bianca le avrebbe consentito di colonizzare i Tropici con successo. Nel 1859 la pubblicazione del libro di Charles Darwin On the origin of species conferì al processo di conquista dei Tropici da parte dei bianchi un nuovo senso di naturalità. Il concetto di superiorità arrivò progressivamente a comprendere le capacità mentali e le conoscenze scientifiche che essa generava: l'egemonia dell'uomo bianco sembrava il naturale destino del mondo.
Mentre i medici svolgevano la loro professione nei paesi tropicali e i filosofi morali ne giustificavano la presenza in quelle regioni, nei laboratori europei si andavano differenziando e sviluppando le scienze di base ‒ parassitologia, elmintologia, batteriologia, protozoologia ‒ che costituivano elementi importanti a sostegno della medicina tropicale in quanto disciplina autonoma. L'entomologia, e in particolare l'importante sottodisciplina dell'entomologia medica, rientrava nelle discipline appartenenti alla storia naturale. Con il tempo i Tropici sarebbero divenuti la fonte principale della 'materia prima' oggetto di queste discipline. All'inizio, però, il loro studio scientifico era soltanto una componente del processo di espansione dell'attività dei laboratori e delle indagini sempre più sistematiche svolte nell'ambito delle scienze della vita.
A partire dalla metà del XIX sec. gli scienziati cominciarono a indagare il ciclo vitale dei parassiti, alcuni dei quali erano vagamente associati alla malattia. La dissezione rivelava la presenza di organismi sconosciuti negli animali oggetto di indagine e queste osservazioni casuali suscitavano interrogativi importanti riguardo alla natura di tali creature, a come esse agissero sul corpo e vi penetrassero. Nel 1842 il danese Johannes Steenstrup (1813-1897) pubblicò un breve testo sull'alternanza delle generazioni, Über den Generationswechsel (Sull'alternanza delle generazioni). Egli raccolse il materiale esistente sulle descrizioni di animali che si sviluppavano da organismi di una specie diversa dalla loro, unendolo alle sue osservazioni sulle cercarie che rinveniva nell'ambiente acquatico dei molluschi delle specie Planorbis cornea e Limnaea stagnalis. Identificò queste larve come forme cistiche di Distomum hepaticum e ne spiegò il ciclo vitale per analogia con le uova e gli embrioni di Monostromum, un altro trematode. Tre anni dopo Félix Dujardin (1801-1860), basando le proprie argomentazioni su prove sperimentali di vermi cistici che subivano la metamorfosi in vermi adulti, ipotizzò che le tenie intestinali dell'uomo (Taenia solium) e le forme cistiche (Cysticercosis cellulosae) rinvenute nei tessuti dei suini fossero stadi diversi del ciclo vitale del medesimo organismo. I successivi esperimenti di alimentazione condotti da Gottlob Küchenmeister (1821-1890) e le autopsie susseguenti confermarono la supposizione di Dujardin.
La scoperta di cicli vitali complessi fornì gli elementi per contestare seriamente il concetto di generazione spontanea. I vermi parassiti non comparivano ex novo e rappresentavano semplicemente uno degli stadi di un ciclo vitale che coinvolgeva più di una specie ospite. Tale idea promosse il successivo lavoro di ricerca sui parassiti responsabili di malattie tropicali, come la malaria e la filariosi. La dimostrazione che alcuni organismi potevano vivere in forme differenti in diversi ospiti costituì una premessa essenziale del modello della medicina tropicale secondo cui il parassita viene veicolato da un vettore.
Thomas Cobbold (1828-1886), uno dei pochi medici inglesi interessati al lavoro dei parassitologi europei, conosceva bene i complessi cicli vitali dei parassiti e l'importanza d'identificare l'ospite intermedio o il vettore responsabile della loro trasmissione. Dopo la pubblicazione nel 1864 di un suo manuale, Entozoa: an introduction to the study of helminthology, with reference, more particularly, to the internal parasites of man, Cobbold cominciò a essere considerato un'autorità nel campo dei parassiti e delle patologie parassitarie; iniziò così a ricevere per i suoi studi materiale riservato, nonché richieste di assistenza da oltreoceano, e visite personali da parte di medici che rientravano in patria in licenza. Poiché la Gran Bretagna era arrivata a dominare il mondo con il suo vasto impero coloniale, i medici britannici divennero i principali protagonisti della fondazione della medicina tropicale.
Patrick Manson (1844-1922), in servizio presso i China's Imperial Maritime Customs, confermò che il verme Wuchereria bancrofti, identificato e così chiamato da Cobbold, provocava l'elefantiasi o filariosi linfatica. Osservò che alcuni suoi pazienti indigeni presentavano vistosi ingrossamenti dei tessuti, dovuti a stasi linfatica, e sperimentò nuove tecniche chirurgiche per migliorare il loro stato di salute e la loro qualità di vita; rimaneva però da chiarire come il parassita si trasmettesse da un individuo all'altro. Ispirandosi alle idee di Cobbold, e grazie a una combinazione di fortuna e capacità di valutazione, Manson riuscì a identificare come vettore di trasmissione di tale malattia la specie Culex fatigans. Egli sosteneva, fornendo prove sperimentali, che questa zanzara nel pungere di notte un individuo infetto per alimentarsi ingeriva la microfilaria (generata da W. bancrofti) che è presente nel sangue periferico proprio nelle ore notturne. Secondo Manson, però, la zanzara, nel deporre sull'acqua le uova contenenti la microfilaria, la contaminava causando la trasmissione del parassita da un nuovo individuo all'altro. Benché il ragionamento di Manson fosse imperfetto, il fatto che egli avesse correttamente identificato il ruolo della zanzara nella trasmissione della microfilaria avrebbe rappresentato una tappa importantissima nella storia della medicina tropicale, stimolando inoltre la ricerca sugli insetti vettori.
Nel frattempo sul continente europeo un nuovo interesse nei confronti dei microorganismi ampliò gli obiettivi della parassitologia. Negli anni Sessanta del XIX sec. Louis Pasteur (1822-1895) aveva dimostrato che i microorganismi erano responsabili della fermentazione e dei processi apparentemente simili, come per esempio la putrefazione. I lavori di Pasteur, del suo rivale tedesco, Robert Koch (1843-1910) e di altri studiosi evidenziarono che particolari patologie sono causate da microorganismi specifici o germi; essi determinarono così la nascita di una nuova disciplina, la batteriologia, che inizialmente fornì molte idee e tecniche alla protozoologia (lo studio degli organismi unicellulari).
Un importante passo in avanti nelle procedure d'indagine, derivato dalla teoria dei germi, fu l'introduzione dell'esame microscopico del sangue, effettuato abitualmente su individui sani e malati. Proprio grazie a questo tipo di analisi si arrivò a scoprire il parassita della malaria e infine a spiegare il suo ciclo vitale e la sua trasmissione mediante la zanzara. Tale vicenda fu di grande importanza perché i risultati ottenuti furono determinanti per conferire alla medicina tropicale lo status di disciplina scientifica e perché, per quanto concerne l'aspetto sociale, essa illustra molte circostanze che condussero al suo sviluppo.
Nel novembre del 1880 il medico militare francese Charles-Louis-Alphonse Laveran (1845-1922), a Costantina, in Algeria, esaminando al microscopio i vetrini allestiti con campioni di sangue fresco prelevati da uno dei suoi pazienti, un soldato ammalato di malaria, osservò i movimenti di sottili filamenti legati al margine di un corpo circolare pigmentato che aveva già trovato in precedenti strisci ematici. Egli affermò che tale movimento implicava la presenza di un organismo vivente, un microparassita o un protozoo. Nello stesso anno pubblicò le sue scoperte senza destare particolare interesse nella comunità scientifica; le sue idee non riuscirono a soppiantare quelle di Theodor Albrecht Edwin Klebs (1834-1913) e di Corrado Tommaso Crudeli (1834-1900), secondo i quali la malaria era causata da batteri palustri.
Laveran si recò in Italia nel 1882 per descrivere i parassiti che aveva scoperto a Ettore Marchiafava (1847-1935) e Angelo Celli (1857-1914), annoverati fra gli scienziati più importanti del paese, i quali tuttavia non ne furono impressionati; cionondimeno nel 1884 essi iniziarono a imitare il metodo di Laveran utilizzando strisci ematici non colorati e seguirono gradualmente lo sviluppo del parassita. Misero in evidenza che si verificava un accumulo di pigmento quando questi minuscoli organismi metabolizzavano l'emoglobina degli eritrociti. Mentre Marchiafava e Celli continuavano le loro osservazioni microscopiche, Camillo Golgi (1844-1926), studiando una serie di casi di malaria quartana, mise accuratamente in correlazione la periodicità della febbre con il ciclo vitale del parassita nel sangue: lo stadio ematico durava 72 ore, e a ogni divisione i parassiti crescevano tutti nella stessa percentuale; il momento di massimo innalzamento della temperatura coincideva con la fase in cui si dividevano contemporaneamente (Golgi 1886). A conclusione Golgi mostrò che il parassita, il plasmodium di Laveran, era effettivamente la causa della malaria e, dopo ulteriori ricerche, affermò che diverse specie di parassiti, Plasmodium vivax e Plasmodium malariae, provocavano la malaria terzana e quartana per la loro caratteristica periodicità (Golgi 1889). Marchiafava e Amico Bignami (1862-1929) identificarono, nel 1894, Plasmodium falciparum come terza specie distinta.
Molti progressi erano stati dunque compiuti nella comprensione di questa malattia. Laveran si era trasferito dall'Africa all'Italia, dove le regioni meridionali fortemente malariche fornivano materiale clinico per ulteriori studi; l'Italia, come l'America, praticava in effetti la medicina tropicale 'in casa propria'. Il mezzo di trasmissione e dunque il ruolo dei flagellati, che aveva indotto Laveran a ritenere che si trattasse di parassiti, continuò a rimanere un mistero; per risolvere questi problemi era necessario ritornare nelle zone tropicali.
Nel 1890 Manson aprì uno studio medico a Londra. Se Cobbold era stato un tempo la massima autorità nel campo delle malattie parassitarie, Manson ne divenne, grazie alla maggiore esperienza acquisita ai Tropici, il nuovo specialista. Nel 1894 un ufficiale dell'Indian Medical Service, Ronald Ross (1857-1932), che si trovava in Gran Bretagna in licenza dall'India, attirato dal prestigio del quale godeva Manson, si mise in contatto con lui. Manson mostrò a Ross come prelevare strisci di sangue e trovare i parassiti della malaria, incoraggiandolo a tornare in India e a risolvere la great induction, la trasmissione della malaria attraverso le zanzare.
Ross si concentrò infine sul ciclo del parassita della malaria all'interno della zanzara appartenente al genere Anopheles. Nel corso di una normale serie di esperimenti basati sull'allevamento delle zanzare ‒ che sezionava in successione a intervalli regolari dopo che si erano alimentate su un paziente malarico ‒ il 20 agosto 1897 egli scoprì nella parete dello stomaco di una di esse le caratteristiche cellule pigmentate di nero dei parassiti della malaria. Il giorno successivo, sezionando l'ultimo insetto della serie, rinvenne cellule ancora più pigmentate: erano vive, crescevano e rappresentavano uno degli stadi del ciclo vitale del parassita.
Ross aveva compiuto un notevole passo in avanti ma aveva bisogno di effettuare ulteriori esperimenti e, avendo pochi pazienti malarici, si dedicò allo studio dei parassiti della malaria aviaria. Molteplici dissezioni rivelarono che i parassiti non passavano nelle uova della zanzara bensì si spostavano verso l'alto, in direzione delle ghiandole salivari e dell'acuminata proboscide che l'insetto usa per pungere la pelle e per succhiare il sangue di cui si nutre. Agli inizi di luglio del 1898, con grande soddisfazione, Ross aveva portato a termine un ciclo di esperimenti che prevedeva il seguente protocollo: alle zanzare era dato modo di nutrirsi con il sangue di uccelli malarici; si lasciavano sviluppare i parassiti all'interno dell'insetto, che si alimentava poi su volatili sani, fino a osservarne la presenza negli uccelli che erano stati infettati. Si trattava dei postulati di Koch in versione protozoologica. Ross trasmise per cablogramma i risultati ottenuti a Manson, il quale presentò le sue scoperte a un incontro della British Medical Association svoltosi a Edimburgo (Ross 1898). Furono Giovanni Battista Grassi (1854-1925) e Bignami che, nella seconda metà del 1898, con le loro ricerche sulla malaria umana ne determinarono l'agente trasmettitore. Nel 1902 fu assegnato a Ross il premio Nobel per la medicina o la fisiologia.
Alla fine del XIX sec. si era sviluppata una disciplina ben definita, basata sul modello del parassita trasmesso da un vettore e organizzata secondo le strutture consuete: scuole di ricerca e di formazione, qualifiche riconosciute, riviste e società specializzate. Oltre ad aiutare Ross nelle sue indagini sulle zanzare, Manson aveva lavorato a Londra per migliorare la propria formazione nel campo della medicina tropicale; benché avesse desiderato che fosse posta maggiore enfasi sull'argomento in ambito universitario, l'insegnamento fu contemplato soltanto nei corsi di specializzazione.
Egli riuscì a creare due scuole di medicina tropicale in Gran Bretagna, a Liverpool (1898) e a Londra (1899). Nel periodo precedente la Prima guerra mondiale furono fondati altri otto istituti analoghi o dipartimenti importanti negli Stati Uniti (tre), in Germania (due) e Francia, a Bruxelles e nei Paesi Bassi.
Le funzioni primarie che tali strutture si proponevano di svolgere erano quelle di offrire ai medici una formazione e un tirocinio migliori per la loro futura attività ai Tropici e di consentire la continuità delle ricerche finalizzate alla prevenzione, al controllo e al trattamento di patologie legate alla trasmissione del parassita mediante un vettore. Per incrementare le possibilità di ricerca le scuole inviarono spedizioni al di là dell'oceano, oppure realizzarono laboratori nei paesi tropicali; i francesi, per esempio, fondarono una serie di istituti Pasteur che alla ricerca sulle malattie tropicali affiancavano l'attività di produzione di vaccini.
Alcune colonie, per esempio la Malesia, fornirono anche proprie risorse indipendenti. Questo ambiente scientifico e culturale rappresentò il contesto nel quale si giunse a effettuare molte delle scoperte e delle conseguenti strategie adottate per il controllo delle patologie parassitarie nei primi anni del XX secolo. Gli studiosi europei tendevano a dominare il campo ma vi erano importanti eccezioni. Carlos Chagas (1879-1934) in Brasile descrisse il parassita e il vettore della forma americana della tripanosomiasi nel 1909. Numerosi scienziati giapponesi condussero ricerche sulla schistosomiasi in Giappone, giungendo all'identificazione di Schistosoma japonicum e dei suoi ospiti intermedi, alcuni gasteropodi come Oncomelania nosophora.
Stabilito il modello di trasmissione mediante vettori dei parassiti, la competizione si incentrò soprattutto sulla scoperta di nuovi parassiti, sulla correlazione con descrizioni cliniche già esistenti e sulla determinazione delle modalità di trasmissione. Nei primi tre decenni del XX sec. furono identificati i vettori delle maggiori infezioni parassitarie dell'uomo ‒ malaria, amebiasi, tripanosomiasi, leishmaniosi, toxoplasmosi, ascariasi, anchilostomiasi, schistosomiasi, filariosi, oncocercosi e teniasi (solamente per i vettori della leishmaniosi si dovette aspettare fino a dopo il 1930). La scoperta che alcune specie di flebotomi sono portatrici della leishmania, che provoca la leishmaniosi cutanea e quella viscerale (o kala-azar), risale agli anni 1941 e 1942.
Le conoscenze relative alla trasmissione mediante vettori condussero anche a tentativi di controllo della diffusione della patologia, che prevedevano la lotta agli insetti vettori, in particolare le zanzare portatrici della malaria e della febbre gialla. Il successo fu particolarmente evidente nelle aree caratterizzate da un più alto livello di sviluppo socioeconomico, spesso situate nella fascia subtropicale: il completamento del canale di Panama al secondo tentativo si dovette alla severe misure prese contro le zanzare. Allo stesso modo, nelle zone malariche dell'Italia si ottennero risultati positivi grazie ai programmi di bonifica sistematica finanziati dal governo.
In virtù del riconoscimento ufficiale della sua validità, la medicina tropicale fu anche impiegata per la coercizione e il controllo degli indigeni o, almeno, di quelle fasce della popolazione a cui erano maggiormente interessate le potenze colonizzatrici. Le persone che rappresentavano forza lavoro che poteva emigrare, prevalentemente di sesso maschile, erano in proporzione oggetto di maggiore attenzione rispetto alle donne e ai bambini.
Parallelamente all'interesse per le malattie tropicali parassitarie, cominciarono a essere presi in maggiore considerazione anche i problemi di salute causati dalla povertà, dalla malnutrizione e dalle misere condizioni di vita (benché vi fosse ancora una tendenza ad assegnarne la responsabilità alle vittime stesse), nonché alla tubercolosi e alla sifilide, la presenza delle quali passava spesso inosservata o veniva ignorata. Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, la medicina tropicale divenne una componente importante dell'attività di organizzazioni sanitarie internazionali, come la League of Nations e l'International Health Division della Rockefeller Foundation, quando fu messo in discussione il legame che intercorre tra salute e sviluppo. L'interessamento da parte della Rockefeller Foundation si basava sulle esperienze da essa condotte nell'America Meridionale, dove l'Health Board aveva lanciato nel 1909 una campagna per sradicare l'anchilostoma (Necator americanus, Ancylostoma duodenale). Il programma prevedeva l'impiego di medicinali antielmintici, ma i principali provvedimenti adottati per conseguire l'obiettivo erano la costruzione di servizi (latrine) e l'educazione sanitaria. In alcuni casi i tentativi condotti per favorire lo sviluppo economico e per incrementare la produzione di alimenti determinarono un aumento delle patologie causate da parassiti: l'irrigazione del Punjab in India nel XIX sec. e di alcune zone del Sudan, intorno a Gezira, nel periodo fra le guerre ebbero come conseguenza un incremento della percentuale di diffusione rispettivamente della malaria e della schistosomiasi.
Dopo il 1945 l'epoca delle colonizzazioni volse al termine e le Nazioni Unite inserirono la salute tra i diritti fondamentali dell'uomo. Paesi dell'Africa e dell'Asia tropicale divenuti indipendenti definirono le loro peculiari priorità e svilupparono infrastrutture per la salute e per la formazione medica. Le patologie che per i colonizzatori europei erano 'esotiche' costituivano di fatto le malattie infettive prevalenti nella prassi medica locale e rappresentavano soltanto uno dei tanti problemi esistenti. Le patologie 'cosmopolite' derivanti dalla povertà, dalla scarsità di igiene e dalla sovrappopolazione, ampiamente sconfitte nel mondo sviluppato, rimanevano endemiche in altre aree del pianeta.
Nell'immediato dopoguerra i centri di eccellenza dedicati alla medicina tropicale continuarono a essere ubicati nei paesi sviluppati, ma iniziative di promozione della formazione professionale contribuirono a incrementare conoscenze mediche e capacità di intervento anche nelle aree in via di sviluppo. Queste ultime parteciparono, inoltre, a programmi sanitari 'verticali', promossi dai paesi avanzati, miranti a sradicare determinate patologie. La campagna condotta a livello globale contro il vaiolo, che era rimasto endemico nel terzo mondo, fu un successo e un'iniziativa analoga venne intrapresa contro il problema, assai più complesso, della malaria. Esperimenti condotti con il DDT residuo della Seconda guerra mondiale e lo zelo quasi evangelico di alcuni malariologi prebellici furono determinanti per l'avvio di una campagna globale finalizzata a sradicare la malaria, paese per paese, che ebbe inizio nel 1955.
Il progetto prevedeva l'impiego dell'insetticida mediante vaporizzazione per impedire la trasmissione della malaria ma, sfortunatamente, le prove epidemiologiche utilizzate erano inadeguate e non sufficientemente applicabili, soprattutto in Africa, dove la patologia aveva una percentuale di trasmissione molto alta. La resistenza delle zanzare al DDT e altri problemi tecnici e finanziari indussero a ripiegare su obiettivi meno ambiziosi, limitati al controllo della malattia.
In alcuni casi, come quello della malaria, la fiducia nella possibilità di controllare il vettore veniva meno nel momento in cui appariva evidente che il ruolo del parassita era stato oggetto di attenzione in misura insufficiente. Si rivelava così necessario condurre studi sui dettagli del comportamento e dunque sull'identità del parassita per sviluppare strategie alternative, pur continuando a utilizzare sistemi antiparassitari diretti come supporto per le nuove formule di intervento. Nella fase in cui l'attenzione era stata fortemente concentrata sulla necessità di tenere sotto controllo il vettore, tra gli aspetti scarsamente considerati figurava, per esempio, la questione del ruolo dell'immunità dell'ospite.
I tentativi di realizzare medicinali efficaci contro le patologie parassitarie avevano avuto un certo successo, sia pure limitato. La chinina, estratta dalla corteccia dell'albero chiamato 'china', era stata usata nel trattamento della malaria sin dal XVII sec. e preparati all'arsenico furono introdotti nel 1910 per la cura della malattia del sonno. Entrambi avevano spiacevoli effetti collaterali, che nel caso dell'arsenico potevano portare a cecità e persino causare il decesso del paziente.
I medicinali antiparassitari ebbero grande rilievo nella farmacologia del periodo tra le due guerre, con le case farmaceutiche tedesche come principali protagoniste; la clorochina, sviluppata dagli americani durante la Seconda guerra mondiale, era in origine un composto tedesco. Negli anni Cinquanta e Sessanta del XIX sec. si diffuse però nei confronti di questo farmaco, efficace e relativamente poco tossico, una forte resistenza. Tale fenomeno aggravò le difficoltà sia di coloro che vivevano nei paesi dove la malaria era molto diffusa sia di quelli che cercavano di tenere sotto controllo la malattia, diventando quindi un monito per altri programmi sanitari che prevedono una chemioterapia di massa. Esso pose inoltre in risalto la necessità di controllare i venditori itineranti di farmaci.
Le principali iniziative sanitarie degli anni Settanta modificarono l'approccio alla questione dell'erogazione del servizio. Le malattie tropicali vennero progressivamente riclassificate non tanto come patologie legate al luogo quanto piuttosto come conseguenza di determinate condizioni sociali, quali la povertà e la deprivazione. I programmi di intervento 'verticale' come quello dello sradicamento della malaria stavano per esaurirsi per essere sostituiti dal cosiddetto 'approccio orizzontale', vale a dire da reti di personale sanitario interrazziale selezionato tra la popolazione locale stessa e in grado di offrire un aiuto di base contro una serie di patologie. Il passaggio alle iniziative di tutela sanitaria di base servì a ricordare che la disciplina della medicina tropicale era stata 'utile ma non accurata'; come eredità di interessi concepiti nel contesto ottocentesco dell'impero, essa aveva isolato certi problemi sanitari a discapito di altri. Eppure, alcuni medici ritenevano che determinate patologie richiedessero uno sforzo individuale, che i programmi di intervento 'orizzontale' non costituissero sempre, necessariamente la soluzione giusta né avrebbero dovuto essere l'unica strada da intraprendere nel futuro.
Nelle zone tropicali e nei centri originari di medicina tropicale delle aree temperate gli studiosi hanno proseguito l'attività di ricerca per chiarire i complessi problemi infettivi e immunitari associati ai vari tipi di infezione e alla loro trasmissione, cercando di trovare soluzioni di facile applicazione e a costi contenuti.
Tavola I - TRADIZIONI MALARIOLOGICHE ED ERADICAZIONE DELLA MALARIA IN ITALIA
Alla fine del XIX sec. la malaria era una delle più importanti cause di morte in Italia: secondo le statistiche sanitarie, uccideva tra le 10 e le 20 mila persone ogni anno. Verosimilmente il numero di morti era anche superiore poiché i rilevamenti statistici riguardavano soltanto i centri con più di 15.000 abitanti. Se si tiene conto che era già conosciuto e disponibile un rimedio specifico quale la chinina, per cui il rischio di morte era comunque basso, e che la popolazione italiana in quegli anni oscillava intorno ai 30 milioni di abitanti, si può avere un’idea riguardo alla gravità della situazione. Dal tasso di mortalità si stimava che ogni anno oltre 2 milioni di persone si ammalavano di malaria: la forma grave (da Plasmodium falciparum) infieriva soprattutto al centro-sud e nelle isole, mentre al nord prevaleva la forma lieve (da Plasmodium vivax). I costi erano estremamente ingenti. Nel 1900 si calcolavano 2 milioni di ettari di terreno incolti e una parte ancora maggiore mal coltivata a causa della malattia, che colpiva pesantemente i lavoratori agricoli, soprattutto al sud, e incideva considerevolmente sulla mortalità infantile.
Tra il 1880 e il 1898 furono caratterizzate le specie parassitarie responsabili delle diverse forme cliniche e ne venne dimostrato il meccanismo di trasmissione. Tra i protagonisti delle scoperte e degli studi sperimentali e clinici che segnarono la fondazione scientifica della malariologia spiccano i nomi degli italiani Camillo Golgi, Angelo Celli, Ettore Marchiafava, Amico Bignami, Giuseppe Bastianelli e Giovanni Battista Grassi. In particolare, gli studi di Golgi sul ciclo di sviluppo dei plasmodi che causano le febbri terzana benigna (dovuta a P. vivax) e quartana (P. malariae), condotti nel biennio 1885-1886, evidenziarono la relazione tra la comparsa intermittente della febbre e il momento nel quale avviene la rottura dei globuli rossi si verifica la fuoriuscita del parassita nel torrente sanguigno; si riuscì in tal modo a comprendere quali specie diverse di plasmodi sono responsabili delle differenti manifestazioni cliniche della malattia.
Nella seconda metà del 1898 Grassi, Bignami e Bastianelli dimostrarono che il parassita della malaria umana viene trasmesso dalle zanzare del genere Anopheles: la scoperta segnò la nascita della scienza malariologica, creando altresì le condizioni per rendere più efficace la lotta contro la malaria.
La scoperta del meccanismo di trasmissione dell’infezione indirizzò i malariologi a sperimentare misure preventive in grado di impedire il contatto fra la zanzara e l’uomo (sia allo scopo di evitare che le zanzare infettanti diffondessero il parassita, sia per evitare che le zanzare potessero infettarsi pungendo un soggetto malarico).
Al contempo si cominciava a concepire la possibilità di distruggere questi insetti nei diversi ambienti nei quali si svolge il loro ciclo di sviluppo, o nei quali si sono adattate a svernare o a ricercare il loro pasto di sangue umano. Inoltre, sulla base di considerazioni ecologiche ed economiche, veniva rilanciata la lotta farmacologica in quanto curando con la chinina i soggetti malarici o prevenendo l’infezione, si riusciva a eliminare i serbatoi di parassiti da cui le zanzare potevano attingere e, di conseguenza, la malaria. Naturalmente si ingenerò anche la speranza di trovare qualche sistema di profilassi immunitaria e, già alla fine dell’Ottocento,ma in modo sistematico soprattutto nel corso degli anni Trenta e durante la Seconda guerra mondiale, furono effettuati senza successo numerosi tentativi per ottenere un siero o un vaccino contro la malaria.
Nei primi due decenni del XX sec. prevalse in Italia la strategia della ‘chininizzazione’, favorita dall’emanazione di una serie di dispositivi legislativi (le leggi per il ‘chinino di Stato’) che tra il 1900 e il 1907 istituivano la vendita dei sali di chinino preparati dallo Stato, a prezzo fisso e conveniente, anche negli spacci di sali e tabacchi, nonché la distribuzione a prezzi di favore a enti pubblici e privati, o la fornitura gratuita, soprattutto attraverso associazioni filantropiche, ai coloni, agli operai e a tutti i poveri. La legislazione antimalarica italiana, internazionalmente riconosciuta come la più avanzata, promuoveva inoltre interventi di bonifica idraulica e agricola nelle zone malariche. Al di là delle polemiche sulla reale efficacia della chininizzazione, in pochi anni il consumo annuale di chinino raggiunse i 24.000 Kg e i morti per malaria in Italia si ridussero già nel 1914 a 2045 (mentre la morbilità era passata dai 323.312 casi ancora nel 1905 a 129.482 nel 1914).
La Prima guerra mondiale determinò l’interruzione degli interventi di lotta antimalarica e creò le condizioni per una gravissima ripresa dell’infezione malarica in Italia, a seguito dei movimenti di popolazioni con circolazione di persone infette e distruzione o mancata manutenzione delle opere di bonifica.
Gli anni dell’immediato dopoguerra videro una lenta ripresa degli studi malariologici, prevalentemente indirizzati allo sviluppo e alla verifica dei metodi di lotta diretti contro il vettore e allo studio dei protocolli terapeutici con il chinino e i primi derivati di sintesi. Le osservazioni realizzate da Domenico Falleroni nel 1924 e da malariologi olandesi nella seconda metà degli anni Venti consentirono nel frattempo di stabilire l’esistenza di diverse specie di zanzare Anopheles praticamente indistinguibili allo stadio adulto, ma caratterizzate da predisposizioni zoofile o antropofile più o meno accentuate. Questa scoperta permise di spiegare numerosi paradossi epidemiologici riguardanti l’andamento stagionale, nonché la diffusione e la regressione della malaria in Europa.
La malariologia italiana ebbe nuovo slancio negli anni Venti, anche grazie alla scelta del regime fascista di investire politicamente ed economicamente nella lotta contro la malaria. Nel 1925, nell’ambito di una collaborazione fra il Governo italiano e la Rockefeller Foundation fu creata la Stazione sperimentale per la lotta antimalarica, la cui direzione fu affidata ad Alberto Missiroli. Come primo progetto, fu intrapreso lo studio dell’efficacia delle misure antilarvali in alcune zone a endemia malarica in Sardegna. Sempre nel 1925 fu organizzato a Roma, sotto la direzione di Marchiafava, il I Congresso internazionale sulla malaria, nell’ambito del quale si approvò la proposta di creare in Italia un Istituto di malariologia per promuovere la ricerca e la formazione. Sotto gli auspici della Commissione malaria della Società delle Nazioni fu istituita, nel 1927, la Scuola superiore di malariologia, che organizzava corsi per la formazione sia teorica sia pratica dei malariologi. Sulla base dell’esperienza della Scuola, nasceva nel 1933-1934 l'Istituto superiore di malariologia ‘E. Marchiafava’, che operò a livello internazionale sino al 1967, quando fu soppresso in questo ente inutile.
Tra il 1928 e il 1933 la legislazione antimalarica italiana andò incontro a importanti sviluppi, con la promulgazione della legge per la bonifica integrale (legge Mussolini), che stanziava 7 miliardi in quattordici anni per ‘redimere’ le terre malariche, e successivamente con la legge 22 giugno 1933, che coordinava e integrava le norme dirette a diminuire le cause della malaria e istituiva i Comitati provinciali antimalarici. Alle soglie della Seconda guerra mondiale la diffusione della malaria in Italia era stata notevolmente ridotta, grazie alle grandi bonifiche che interessarono soprattutto l’Agro Pontino, e ai miglioramenti delle condizioni igienico-abitative dei lavoratori agricoli. Nel 1939 si contarono ‘solo’ 627 morti e 55.453 malati. Ancora un volta la guerra aggravò la situazione. Diverse epidemie scoppiarono nel 1944 e nel 1945, soprattutto in zone dove i tedeschi in ritirata avevano intenzionalmente sabotato gli impianti di bonifica per rallentare l’avanzata degli Alleati.
Con le truppe americane era però arrivato in Italia anche il DDT (dicloro-difenil-tricloroetano), sintetizzato chimicamente nel 1874, la cui azione insetticida per contatto era stata dimostrata nel 1939 dal chimico svizzero Paul Hermann Müller. Gli americani lo introdussero per controllare un’epidemia di tifo esantematico, trasmesso dai pidocchi, scoppiata prima dell’ingresso degli Alleati a Napoli nel settembre del 1943. Allo scopo di controllare la recrudescenza della malaria in corso nelle zone a nord di Napoli, nel maggio del 1944 la Commissione sanitaria americana avviò un esperimento in una vasta area nei dintorni di Castel Volturno, evidenziando l’efficacia del DDT nel ridurre la densità anofelica. Le successive esperienze nel delta del Tevere e, nella seconda metà di giugno del 1945, nella Piana di Fondi, confermarono l’efficacia dell’insetticida per il controllo della malaria.
All’inizio del 1946 il malariologo Missiroli annunciò un piano quinquennale da attuarsi in tutte le zone malariche italiane, basato su spruzzamenti intradomestiche di DDT alla dose di 2 gr per m2, che fu coordinato dall’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità. Tale intervento, dimostratosi risolutivo per interrompere la trasmissione dell’infezione, divenne un modello per la lotta antimalarica in altre parti del mondo. Particolare rilievo internazionale assunsero la campagna antimalarica in provincia di Latina, il successo ottenuto nel contrastare una grave epidemia di malaria a Cassino nel 1946, e l’imponente piano di lotta antianofelica coordinato in Sardegna dalla Rockefeller Foundation dal 1946 al 1950.
Nel 1948 si interrompeva la mortalità per malaria in Italia. La malaria grave (terzana maligna) scompariva definitivamente dal nostro paese nel 1952, e dieci anni dopo veniva sradicata anche la malaria lieve (terzana benigna). (G. Corbellini)