La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. L'industria farmaceutica
L'industria farmaceutica
L'industria farmaceutica moderna ha una doppia ascendenza. Da un lato, ha origine da quei farmacisti che intorno alla metà dell'Ottocento cominciarono a produrre su vasta scala farmaci come la morfina, il chinino, la stricnina e simili. Dall'altro, discende dalle industrie chimiche e dei coloranti che si dotarono di propri laboratori di ricerca scoprendo, a partire dal 1880, le possibili applicazioni dei loro prodotti in campo medico. La Merck, fondata nel 1668 a Darmstadt come semplice farmacia, avviò la produzione di farmaci su vasta scala solo nel 1840, utilizzando le nuove tecniche di estrazione degli alcaloidi dalle materie prime vegetali. Anche Schering in Germania, Hoffman LaRoche in Svizzera, Burroughs Wellcome in Inghilterra, Étienne Poulenc in Francia e Smith Kline, Parke-Davis, Eli Lilly, Upjohn e Abbott negli Stati Uniti, nacquero come farmacie o fornitori di medicinali tra il 1830 e la fine del secolo. Altre case farmaceutiche iniziarono invece la loro attività come produttori di composti chimici organici (soprattutto coloranti): alcune di esse sono oggi universalmente note, come l'Agfa, la Bayer e la Hoechst in Germania, Ciba, Geigy e Sandoz in Svizzera, l'Imperial Chemical Industries in Gran Bretagna, la Pfizer e la Squibb negli Stati Uniti.
La fusione di questi due tipi di imprese, che diede vita all'industria farmaceutica moderna, coincise con l'emergere della farmacologia come disciplina scientifica a sé, verso la fine del XIX secolo. Orientata all'identificazione e alla preparazione di farmaci sintetici, da un lato, e allo studio dei cambiamenti dell'organismo (e dei loro possibili effetti sull'insorgere delle patologie), dall'altro, tale disciplina ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dell'industria dei farmaci. Le case farmaceutiche, prima quelle tedesche e poi quelle americane e inglesi, stabilirono rapporti di reciproca collaborazione con i laboratori universitari. Lo scambio di metodi di indagine e di conoscenze che ne seguì indirizzò le ricerche verso quei gruppi di sostanze chimicamente reattive ‒ i recettori ‒ in grado di legarsi con i coloranti, gli anticorpi del sistema immunitario e altri agenti fisiologicamente attivi. Il concetto che alcune sostanze chimiche sintetiche potessero essere utilizzate per uccidere selettivamente o rendere innocui parassiti, batteri e altri microbi, ipotizzato per la prima volta da Paul Ehrlich (1854-1915), avrebbe fatto da guida a un immenso programma di ricerca industriale, che prosegue ancora oggi.
Nella sostanziale assenza di una regolamentazione, l'industria farmaceutica incontrò qualche difficoltà nel differenziare i propri prodotti da quelli dei fabbricanti di medicinali 'brevettati', le cui ricette segrete non erano in effetti coperte da brevetto. Gli organismi professionali, comprese le associazioni nazionali dei medici, le corporazioni dei farmacisti e i prontuari nazionali (il cui primo esempio fu una farmacopea pubblicata nel 1498 a Firenze) fissavano gli standard qualitativi a cui attenersi e denunciavano i casi di false dichiarazioni sulla composizione dei farmaci. La scoperta del siero antidifterico, negli anni Novanta dell'Ottocento, e i successivi casi di diffusione di dosi inattive o contaminate indussero i ministeri della Sanità di Francia e Germania a esercitare un'azione di supervisione sulle sostanze biologiche, mentre negli Stati Uniti il Biologics Control Act stabilì nel 1902 che la produzione di farmaci biologici fosse sottoposta al rilascio di una licenza da parte dell'Hygienic Laboratory. In Europa e negli Stati Uniti, tuttavia, i funzionari governativi disponevano di un'autorità limitata, che non sempre consentiva di rimuovere un prodotto dal mercato o di controllare la veridicità dei messaggi pubblicitari. Le imprese più grandi sollecitarono ulteriori interventi da parte del legislatore, come la Pure Food and Drug Law, approvata nel 1906 negli Stati Uniti, e analoghe misure adottate nei paesi europei e volte a proibire l'adulterazione e a obbligare i fabbricanti a indicare gli ingredienti sulle etichette dei prodotti messi in vendita.
Ciononostante, all'inizio degli anni Trenta la maggior parte delle medicine era venduta ancora senza alcuna prescrizione e quasi la metà veniva preparata dai farmacisti locali. A differenza della professione medica, solidamente stabilita in Europa e in America, l'industria farmaceutica iniziava solo allora a sviluppare le prime medicine per combattere il dolore, le malattie infettive, le malattie cardiache e altre infermità. Se da un lato l'applicazione diretta della ricerca chimica alla medicina appariva un'idea estremamente promettente, dall'altro i successi ottenuti fino a quel momento si limitavano a poche sostanze ‒ le vitamine sintetiche, l'epinefrina (adrenalina) e l'insulina. La sua posizione al crocevia tra scienza, medicina, salute pubblica e mercato costituiva in ogni caso una solida premessa per un'imponente crescita nei decenni successivi.
Tra il 1930 e il 1960 si assiste a un fiorire di scoperte nel campo farmaceutico, che permise la produzione e la commercializzazione di una grande varietà di sostanze medicinali, tra cui le vitamine sintetiche, i sulfamidici, gli antibiotici e i corticosteroidi. La vita media in Europa e negli Stati Uniti si allungò di dieci anni, passando da 59,7 a 69,7 anni, grazie al miglioramento delle condizioni igieniche e alle nuove terapie farmaceutiche. La mortalità infantile fu dimezzata, mentre i decessi causati da infezioni connesse al parto diminuirono di oltre il 90%. Per la prima volta nella storia divenne possibile curare e debellare malattie come la tubercolosi, la difterite e la polmonite. Nacquero categorie del tutto nuove di medicinali, quali i tranquillanti e i corticosteroidi.
La rapida espansione dell'industria farmaceutica fu il risultato di forti investimenti nella ricerca e nel marketing. Nel 1960, i quattro quinti delle vendite di farmaci riguardavano medicinali vendibili soltanto con la prescrizione di un medico. In questo periodo di rapido sviluppo della ricerca farmaceutica, le singole case puntarono a espandere i propri laboratori interni, pur mantenendo i rapporti di collaborazione e consulenza con i ricercatori accademici. Nel medesimo periodo si verificò un radicale cambiamento dei metodi di ricerca di nuovi farmaci. Nelle prime fasi della cosiddetta 'era degli antibiotici', dopo la scoperta delle proprietà antibiotiche della penicillina e l'avvio della sua produzione su vasta scala durante la Seconda guerra mondiale, le case farmaceutiche cominciarono ad analizzare numerosi campioni di diversi tipi di terreno alla ricerca di nuovi agenti antibiotici. Il successo ottenuto durante la guerra con la produzione della penicillina, attuata da un consorzio di undici imprese sotto la supervisione del War Production Board, assicurò nel dopoguerra all'industria farmaceutica statunitense una posizione di supremazia internazionale. La scoperta di nuovi agenti antibiotici, come la streptomicina (Merck), la clorotetraciclina (Lederle), il cloramfenicolo (Parke-Davis), l'eritromicina (Abbott e Lilly) e la tetraciclina (Pfizer), permise alle case farmaceutiche di esaltare di fronte ai medici e ai consumatori i miracolosi risultati raggiunti dalla ricerca, che ben presto, si spostò dai farmaci naturali a quelli di sintesi, con le nuove scoperte nel campo dei corticosteroidi. Le case farmaceutiche americane dominavano il mercato mondiale, con oltre la metà della produzione complessiva di farmaci e il controllo di un terzo del commercio mondiale di medicinali.
A questo periodo risale anche l'adozione di nuove regole di sicurezza negli Stati Uniti, in seguito al tragico incidente nel 1937 del sulfanilamide, causato dalla imperizia di un chimico della S.E. Massengill che aveva utilizzato il dietilenglicol, una sostanza usata come antigelo, per preparare il farmaco sotto forma di sciroppo. I chimici della casa farmaceutica si limitarono ad analizzare l'aspetto, il sapore e la fragranza del loro 'Elixir sulfanilamide', senza collaudarlo sugli animali e senza neppure consultare la letteratura disponibile sui solventi. Oltre cento persone ‒ in maggioranza bambini ‒ morirono dopo aver ingerito il preparato, sollevando uno scandalo gigantesco che spinse il Congresso ad adottare rapidamente, nel 1938, il Food Drug and Cosmetic Act, una legge che ampliava notevolmente i poteri di controllo della Food and Drug Administration (FDA) sui nuovi farmaci immessi sul mercato. I suoi funzionari avevano l'obbligo di controllare i risultati della sperimentazione preclinica e clinica dei nuovi farmaci e potevano richiedere l'esecuzione di nuovi test oppure negare del tutto l'autorizzazione alla commercializzazione.
Regolamenti analoghi, anche se meno restrittivi, furono adottati anche da altre nazioni prima e durante la Seconda guerra mondiale. In Germania, per esempio, il divieto di introduzione di nuove medicine promulgato durante la guerra (Stopverordnung) fu mantenuto in vigore per tutti gli anni Cinquanta come strumento di regolazione dell'industria farmaceutica da parte del ministero della Salute. In Gran Bretagna, il Therapeutic Substances Act fu rivisto e rafforzato nel 1956, aumentando il numero delle sostanze soggette al controllo delle autorità e stabilendo una serie di parametri formali per il collaudo e la produzione di nuovi farmaci. Gli Stati Uniti, i paesi europei e gran parte delle altre nazioni si dotarono di leggi molto simili tra loro che stabilivano una netta distinzione tra i farmaci da banco e quelli vendibili soltanto con la prescrizione di un medico. Questa divisione incoraggiò a sua volta l'industria farmaceutica a investire nei farmaci del secondo tipo, che assicuravano maggiori profitti.
Durante e dopo la Seconda guerra mondiale, i ministeri della Salute di tutte le nazioni cominciarono a sostenere la ricerca medica di base e a contribuire alla sperimentazione clinica dei nuovi farmaci. L'intervento in questo campo del Medical Research Council in Gran Bretagna e dei National Institutes of Health negli Stati Uniti ebbe un'importanza cruciale nell'adozione di un nuovo standard per la sperimentazione di farmaci sui pazienti, i test clinici 'in doppio cieco'; tuttavia la responsabilità della sperimentazione rimase affidata alle case produttrici. Nonostante l'ampliamento dei poteri delle autorità di controllo, queste ultime dovevano delegare all'industria il finanziamento e la supervisione della grande maggioranza dei test clinici.
Fino all'inizio degli anni Sessanta, l'industria operò perlopiù al riparo dall'ingerenza dello Stato, poiché la sua attività di promozione era rivolta principalmente ai medici. In molti paesi, il commercio dei farmaci aveva ben poco a che vedere con il libero mercato: le case farmaceutiche pubblicizzavano i loro prodotti presso i medici, questi ultimi li prescrivevano ai loro pazienti, che se li procuravano nelle farmacie. Lo sviluppo dello Stato sociale in Europa e la diffusione delle assicurazioni sanitarie private negli Stati Uniti fecero sì che né i medici né i pazienti prestassero molta attenzione ai prezzi delle medicine; un'inchiesta condotta negli Stati Uniti nel 1955 rivelava che l'80% degli intervistati giudicava l'industria farmaceutica in modo 'molto favorevole' o 'abbastanza favorevole', mentre la colpa del costo eccessivo di alcune medicine era addossata, in genere, ai farmacisti.
Tra il 1960 e il 1980, lo sviluppo dell'industria farmaceutica incontrò forti resistenze di ordine medico, politico ed economico. I progressi della medicina e, in particolare, la possibilità di identificare sostanze in grado di bloccare specifici processi fisiologici modificarono profondamente l'approccio alla ricerca di nuovi farmaci e alle tecniche di sperimentazione. Le innovazioni più importanti riguardarono i farmaci per le malattie cardiovascolari (a partire dalla fine degli anni Sessanta con i farmaci contro l'ipertensione e i betabloccanti e proseguendo negli anni Settanta e Ottanta con i calcioantagonisti e gli ACE-inibitori), i tranquillanti, gli antidepressivi, i farmaci antinfiammatori non steroidei e i contraccettivi orali. Se negli Stati Uniti la severa opera di controllo della FDA produsse una maggiore uniformità dei test clinici, molti paesi europei e del resto del mondo mantennero un sistema più flessibile, che consentiva un'immissione più rapida dei nuovi farmaci sul mercato, bilanciata da un maggiore controllo da parte dei medici. L'esistenza di questo drug lag (ritardo farmaceutico), vigorosamente contestato dalle case farmaceutiche americane, spinse molte di esse a diversificare la produzione nei settori dei profumi, dei cosmetici e di altri prodotti di consumo. L'industria farmaceutica americana mantenne la sua supremazia, ma subì un sensibile ridimensionamento.
Negli Stati Uniti, le case farmaceutiche dovettero affrontare una lunga indagine riguardante le loro politiche dei prezzi e le loro pratiche commerciali, promossa dal senatore democratico del Tennessee, Estes Kefauver, che rivelò all'opinione pubblica le enormi distanze tra i prezzi delle materie prime e quelli finali dei farmaci; le udienze dinanzi alla commissione parlamentare da lui stesso guidata misero in luce anche un'imbarazzante quantità di comportamenti commerciali assai discutibili.
Mentre Kefauver svolgeva le sue indagini in America, la tragedia del talidomide ‒ un sedativo molto diffuso in Europa, in America Meridionale e in alcuni paesi asiatici che, assunto dalle madri durante la gravidanza, causò la nascita di circa 10.000 bambini con gravi malformazioni in tutto il mondo ‒ costrinse i governi ad affrontare la questione dell'inadeguatezza della sperimentazione clinica e della necessità di maggiori controlli prima della messa in vendita di nuovi farmaci. In Germania, il paese in cui aveva sede la casa produttrice del talidomide (la Chemie Grünenthal) e quello più duramente colpito dalla tragedia, un decreto del 1961 che imponeva l'iscrizione a un registro federale dei nuovi farmaci fu rafforzato nel 1964 con una norma che proibiva la vendita al banco per tutti i farmaci con effetti collaterali sconosciuti. La prima legge completa sui farmaci, con norme che stabilivano gli standard formali di sicurezza ed efficacia richiesti prima della loro messa in vendita al pubblico, fu approvata tuttavia soltanto nel 1976.
In Gran Bretagna, nel 1963, il ministro della Salute reagì alla crisi con l'istituzione del Committee on Safety of Drugs (CSD). Pur lavorando a stretto contatto con il governo, il CSD non era un organismo di controllo e non aveva l'incarico di vigilare sull'operato dei medici o delle case farmaceutiche prima o durante i test clinici. L'autorità nazionale addetta al rilascio delle licenze per i nuovi farmaci fu istituita nel 1968 con il Medicines Act, che attribuiva al Committee on Safety of Medicines il potere di regolare la commercializzazione dei nuovi farmaci.
Benché il talidomide non fosse distribuito negli Stati Uniti, le notizie sulle malformazioni causate in Europa dal suo uso convinsero il Congresso americano ad accogliere un disegno di legge presentato da Kefauver, ma solo negli aspetti relativi agli standard di sicurezza e di efficacia dei farmaci, ignorando le proposte di riforma riguardanti il rilascio dei brevetti, le politiche dei prezzi e quelle di marketing. In seguito all'approvazione degli emendamenti Kefauver-Harris al Food and Drug Act nel 1962, la FDA promulgò una direttiva che illustrava nei dettagli i metodi da seguire nello svolgimento dei test clinici e cominciò ad applicare standard rigidamente quantitativi nella valutazione della ammissibilità dei nuovi farmaci, servendosi dei suoi nuovi poteri per ritardarne o proibirne la vendita al pubblico.
Le case farmaceutiche reagirono alla tragedia del talidomide e ai nuovi regolamenti cui aveva dato origine investendo maggiori risorse nelle prove di laboratorio e nella sperimentazione clinica. Si cominciarono a utilizzare campioni composti da migliaia di pazienti, invece che da decine o centinaia.
Tuttavia, a un decennio di distanza dall'approvazione della Kefauver-Harris negli Stati Uniti, anche le grandi case farmaceutiche, dotate di giganteschi programmi di ricerca e sperimentazione, cominciarono a lamentare la diminuzione del numero di nuovi farmaci che ottenevano la licenza di commercializzazione. Come risposta, oltre a diversificare la produzione, le industrie americane aumentarono le proprie esportazioni e investirono nella ricerca all'estero, aprendo nuovi laboratori in Europa, in America Meridionale e in Asia.
Nel corso degli ultimi venti anni, l'industria farmaceutica ha immesso sul mercato una nuova generazione di farmaci capaci di agire sul sistema nervoso centrale, di combattere le infezioni virali e retrovirali (compresa quella da HIV) e di guarire o rallentare il decorso del cancro. Le nuove medicine biotecnologiche, come le interleuchine e l'interferone, hanno lo scopo di sostituire o rafforzare alcune funzioni fondamentali del sistema immunitario. Inoltre, alcune sostanze un tempo estratte dagli animali, come l'insulina, hanno cominciato a essere prodotte con un maggiore grado di purezza utilizzando organismi geneticamente modificati. L'avvento della chimica combinatoria e lo screening ad alta capacità (high-throughput screening) hanno permesso di automatizzare le fasi iniziali del lavoro di ricerca, modificando i metodi impiegati nella scoperta di nuovi farmaci. Di conseguenza, le case farmaceutiche hanno iniziato a darsi battaglia per l'acquisizione di grandi 'biblioteche' di molecole. Smentendo quanti sostenevano che gli alti costi di ricerca e i rigidi controlli governativi avrebbero impedito l'ingresso di nuovi soggetti nel mercato farmaceutico, all'inizio degli anni Ottanta un'ondata di piccole imprese biotech si è riversata sul mercato: i loro successi nel campo della biologia molecolare, della genetica e della genomica hanno attirato ben presto l'attenzione e il sostegno delle grandi compagnie.
Nel 2004, circa il 50 % dei progetti di ricerca delle maggiori case farmaceutiche era basato sulle biotecnologie. Gli Stati Uniti si affermarono come sede privilegiata dell'innovazione nel campo biotecnologico, costringendo le imprese europee a stringere accordi con le case americane e, in alcuni casi, a trasferire addirittura i propri laboratori in America.
Le opportunità commerciali offerte dalle biotecnologie furono esaltate da tre eventi verificatisi nel 1980. Il primo fu la storica sentenza con la quale i giudici della Corte Suprema stabilirono la brevettabilità degli organismi geneticamente modificati; il secondo fu l'approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti della legge Bayh-Dole, che autorizzava i destinatari dei fondi pubblici per la ricerca a brevettare i risultati delle loro indagini. Il terzo, infine, fu la decisione della Genentech di quotarsi in borsa: nei primi venti minuti di quotazioni, il prezzo delle azioni passò da 35 a 89 dollari, battendo tutti i record precedenti. In pochi anni, negli Stati Uniti furono fondate diverse migliaia di nuove aziende biotecnologiche, finanziate con capitali di rischio e, in genere, quotate in borsa sin dalle prime fasi della loro attività. In mancanza di vendite e di profitti, gli investitori si mostrarono disposti ad accettare 'indicatori succedanei' del valore delle aziende, come la presenza di noti scienziati nel consiglio di amministrazione, il possesso di brevetti o di farmaci non ancora sperimentati e la promessa di curare molte gravi malattie, inclusi il cancro, il diabete e l'AIDS. Il settore ha attraversato fasi successive di boom e di crisi, ma nel 2002 esistevano negli Stati Uniti ancora circa 1500 aziende attive nel campo delle biotecnologie.
Lo schema che prevedeva il passaggio dai laboratori universitari alla piccola azienda fondata con capitali di rischio e infine alla società quotata in borsa non fu seguito in tutto il mondo. Per esempio, all'inizio degli anni Ottanta l'Europa e gli Stati Uniti possedevano entrambi mercati finanziari molto sviluppati, medici e scienziati ben preparati e metodi terapeutici all'avanguardia. Tuttavia, in Europa non si sviluppò subito un settore separato delle biotecnologie, ma le case farmaceutiche si dotarono di nuovi laboratori interni e conclusero accordi con i centri di ricerca accademici e privati americani. La scarsità di investitori disposti ad assumersi il rischio del finanziamento delle nuove aziende e la presenza di leggi di protezione ambientale più restrittive, da parte dei singoli Stati o a livello comunitario, rallentarono il processo di creazione di nuove imprese di piccole dimensioni fino alla metà degli anni Novanta, quando la concessione di sussidi nazionali ed europei e una semplificazione delle procedure di controllo favorirono la crescita di un settore europeo delle biotecnologie: nel 2002, l'Europa ospitava circa 1900 aziende attive in questo ambito, un numero superiore a quelle degli Stati Uniti.
Oltre alla sfida economica rappresentata dalle nuove start up nel campo delle biotecnologie, l'industria farmaceutica si trovò ad affrontare anche le impegnative questioni poste dalle organizzazioni per la difesa dei malati. Le persone affette da AIDS, tumore della mammella e da altre gravi infermità si mobilitarono per domandare un maggiore impegno della ricerca a loro favore, protestare contro il prezzo eccessivo dei farmaci salvavita e chiedere un'accelerazione delle procedure di controllo. Se, da un lato, l'azione di queste organizzazioni danneggiava l'immagine pubblica delle case farmaceutiche, attaccandone la politica dei prezzi, dall'altro portò, negli Stati Uniti, all'adozione di procedure di controllo più rapide da parte della FDA nel corso degli anni Novanta. La situazione si sviluppò diversamente in Europa e nel resto del mondo, a causa dell'azione convergente di due fattori, vale a dire: da un lato, una minore disponibilità di mezzi da parte dei potenziali attivisti e, dall'altro, un sistema sanitario che non si limitava a fornire medicinali ma offriva forme di assistenza più articolate.
Di conseguenza, l'industria farmaceutica si è trovata a dover affrontare una lotta su due fronti: contro la concorrenza delle nuove aziende biotecnologiche e contro l'insoddisfazione dei consumatori finali dei suoi stessi prodotti. La reazione delle principali case farmaceutiche è stata quella di concentrare tutte le proprie risorse nella ricerca farmacologica e nel marketing, ridimensionando o cedendo ad altri i settori sviluppati nel processo di diversificazione intrapreso negli anni Sessanta e Settanta. Alla fine degli anni Novanta, alcune aziende si sono ispirate per un breve periodo al concetto di 'scienze della vita', per cercare possibili sinergie tra le applicazioni mediche, agricole e industriali delle biotecnologie, ma nel giro di qualche anno questo modello si è rivelato impraticabile. Le stesse norme di sicurezza e di efficacia, ritenute un tempo responsabili della spinta alla diversificazione e del declino della redditività dell'industria farmaceutica, hanno agito in questo caso come fattori del consolidamento industriale e della concentrazione della ricerca verso la scoperta di farmaci altamente remunerativi.
Se fino a dieci anni fa aveva ancora un senso parlare di aziende farmaceutiche americane, tedesche, francesi o inglesi, le fusioni e la crescita degli investimenti internazionali hanno reso queste distinzioni quasi del tutto prive di significato. Tra il 1985 e il 2004, quasi quaranta grandi fusioni hanno dato vita ad aziende di dimensioni e portata senza precedenti nel campo farmaceutico. Nel 1994, per esempio, l'American Home Products si è unita all'Ayerst e Wyeth; nel 1995, la Glaxo si è fusa con la Wellcome e la Pharmacia con la Upjohn; nel 1996, dalla fusione della Ciba-Geigy e della Sandoz è nata la Novartis; nel 1999, la tedesca Hoechst e la francese Rhône-Poulenc hanno dato vita alla Aventis; nel 2000, la Pfizer si è fusa con la Warner Lambert e nel 2003 ha assorbito la Pharmacia; nel 2004 la Aventis è stata acquistata dalla Sanofi-Synthélabo, a sua volta frutto di una lunga catena di fusioni e acquisizioni. Malgrado tutto, però, lo sviluppo simultaneo delle aziende biotecnologiche ha impedito il verificarsi di una concentrazione monopolistica nel settore; la quota del mercato mondiale in possesso delle trenta maggiori case farmaceutiche e biotecnologiche supera di poco il 50% del totale e la Pfizer, l'azienda più grande, ha totalizzato nel 2003 meno del 10% delle vendite mondiali.
Grazie alla sua posizione privilegiata che ne fa, da una parte, un fornitore di un bene pubblico essenziale ‒ i farmaci necessari per combattere le malattie e allungare la vita ‒ e, dall'altra, uno dei protagonisti dell'economia di mercato, l'industria farmaceutica è, dal 1880, il singolo settore produttivo che ha fatto segnare i maggiori profitti. Sin dalle sue origini alla fine del XIX sec., le aziende del settore farmaceutico hanno svolto un ruolo essenziale nel processo di globalizzazione, sviluppato importanti innovazioni scientifiche in diverse branche della medicina, attuato i primi esempi di collaborazione tra mondo accademico e industria ed esplorato nuovi territori nel campo del marketing.
Guardando al futuro, uno dei problemi più seri riguarda la necessità di garantire l'accesso ai farmaci alle popolazioni dei paesi poveri. Gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone totalizzano oltre il 70 % degli acquisti mondiali di medicinali; di conseguenza, la ricerca di medicine in grado di combattere le malattie diffuse prevalentemente nelle zone densamente popolate dell'Africa, dell'America Meridionale e del sudest asiatico è stata finora penalizzata dalle aziende per motivi economici. Tuttavia, proprio la posizione privilegiata di cui godono pone alle case farmaceutiche ineludibili questioni di carattere etico e morale, riguardanti la sperimentazione sull'uomo, la proprietà intellettuale, i costi della salute e l'accessibilità delle terapie salvavita. I negoziati e i compromessi tra industria farmaceutica, governi e associazioni non governative determineranno i futuri rapporti tra sviluppo dell'innovazione medica e redditività di questo importante settore economico.