La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Dalla patologia cellulare alla patologia molecolare
Dalla patologia cellulare alla patologia molecolare
A partire dal 1855 la centralità della cellula nello sviluppo dei processi morbosi attraverso la continuità delle generazioni cellulari (omnis cellula e cellula), parallelamente a un'esplicita negazione della dottrina del blastema, costituirono i presupposti fondamentali dell'opera di Rudolf Virchow (1821-1902), che metteva capo a un cambiamento radicale delle assunzioni teoriche che avevano inizialmente ispirato la sua opera di patologo e la patologia in generale. Virchow aveva riconosciuto nella cellula l'unità fondamentale della vita e il primum movens di ogni stato di malattia derivante da un eccitamento abnorme, da un rallentamento patologico o dall'interruzione di una o più funzioni biologiche, in grado di minare la capacità cellulare di nutrirsi, accrescersi e riprodursi. In pratica, le malattie si riducevano ad alterazioni attive e passive delle funzioni cellulari, le quali erano il risultato di processi chimico-fisici intracellulari (entro certi limiti deducibili dalle modificazioni morfologiche osservabili con il microscopio) e tutte le espressioni patologiche erano il risultato di trasformazioni, ripetizioni e degenerazioni delle cellule nei tessuti. Un fenomeno morboso, più che entità ontologica a sé stante (un ens morbi), doveva considerarsi un processo dinamico determinato da una successione di generazioni cellulari la cui storia poteva essere inferenzialmente tracciata a partire dall'osservazione istopatologica. Al di là dei rilevanti contributi settoriali in vari campi della patologia e dell'anatomia patologica (come, per es., gli studi sulla trombosi e l'identificazione della leucemia nella sua forma 'splenica' e 'linfatica'), l'opera scientifica di Virchow rappresentò una pietra miliare nella storia delle concettualizzazioni teoriche in medicina, riuscendo a imporre, con il concetto di 'patologia cellulare', un principio fisiopatologico coerente e unitario alla base dell'interpretazione di un'enorme massa di manifestazioni morbose differenti. Con Virchow e subito dopo le sue ricerche, ebbe origine una terminologia tassonomica che rifletteva le diverse alterazioni morfologiche cellulari, tuttora ampiamente in uso, come per esempio: ipertrofia, iperplasia, atrofia, aplasia, ipotrofia, distrofia, ipoplasia, necrosi, infiltrazione, tesaurismosi, e così via. Oltre che sul piano dottrinale la sua opera fu fondamentale anche su quello metodologico, perché divenne uno strumento interpretativo dei quadri morbosi osservabili al microscopio. La sua applicazione alla patologia del sangue, per esempio, rese possibile l'identificazione dei vari gruppi cellulari alterati nelle emopatie come le leucemie, le anemie e le poliglobulie.
Dopo Virchow la tradizione patologica diveniva più complessa, perché i patologi cominciavano non solo a sviluppare i metodi della batteriologia, ma anche a guardare oltre la morfologia e a costruire le basi scientifiche della loro disciplina non semplicemente sull'anatomia patologica ma anche sulla fisiologia patologica e sulla chimica patologica. Nel frattempo, gli sviluppi della ricerca citologica generalizzavano il meccanismo della riproduzione cellulare per divisione nucleare, a cui seguiva la descrizione dei processi di fecondazione e meiosi e quindi della struttura biochimico-molecolare del protoplasma, mentre le concezioni citologico-biochimiche preludevano all'emergere dei concetti della genetica e della biologia cellulare. Questi sviluppi possono essere rappresentati esaminando l'evoluzione delle conoscenze in relazione ai problemi tradizionali della patologia, come quelli del cancro e dell'infiammazione, e caratterizzando in maniera schematica l'ascesa dell'immunopatologia e della patologia molecolare.
1. Il problema del cancro
Uno fra i più fecondi campi di applicazione della patologia cellulare, dal punto di vista scientifico e diagnostico, fu certamente lo studio dei tumori. La dottrina di Virchow divenne un codice non solo per interpretare il caos proliferativo tumorale, ma anche per mettere ordine, per quanto fossero sul punto di affermarsi differenti visioni basate sui principî della Cellularpathologie. Il punto fondamentale di discussione era costituito dalla specificità tissutale e dalla trasformabilità di una categoria cellulare in un'altra. Il problema istogenetico si tramutava in uno citogenetico. L'osservazione di elementi cellulari patologici di un certo tipo (per es., formazioni tumorali epiteliali) in tessuti completamente diversi dal punto di vista embriologico e morfologico (come il tessuto connettivo) fece emergere ben presto il problema della loro origine. Secondo Robert Remak (1815-1865), la capacità di modificarsi delle cellule si restringeva progressivamente durante lo sviluppo e quindi non era possibile la trasformazione di un tessuto differenziato, come quello epiteliale, in un altro. L'eterotopia di un tipo istologico poteva allora giustificarsi ammettendo la presenza di 'germi' embrionali aberranti dislocati spazialmente, a seguito di errori insorti nella meccanica embriogenetica. La trasformabilità cellulare era invece ammessa da Virchow, che aveva introdotto il termine metaplasia per indicare il mutamento morfologico di un tessuto. Sulla base dei caratteri istologici Virchow distingueva le neoformazioni in omologhe, che riproducevano un tipo cellulare già presente, ed eterologhe, che invece da questo si allontanavano strutturalmente. Le prime, simili ai tessuti normali, avevano tendenzialmente decorso benigno mentre le seconde, dall'aspetto istologico atipico, manifestavano caratteristiche di malignità. La capacità cellulare di trasformarsi non era però comune a qualsiasi tipo cellulare. Secondo Virchow, questa anzi era caratteristica del tessuto connettivo che costituiva la "fonte germinale" fondamentale delle eteroplasie, la matrice in grado di rispondere a stimoli abnormi dando origine alle neoformazioni, fossero queste tumori, tubercoli, processi infiammatori (cellule del pus) o cicatriziali. Così, dopo il rifiuto della libera formazione delle cellule patologiche, il blastema era sostituito dal connettivo nella sua potenzialità generativa dei tessuti abnormi. Quando il processo patologico appariva diffondersi a sedi lontane, vale a dire metastatizzare, Virchow riteneva che ciò avvenisse per mezzo di un 'succo' dannoso, trasportato dai fluidi corporei (o da cellule migranti), con la proprietà di stimolare le normali cellule connettive multipotenti residenti nei tessuti a distanza, inducendone la reazione e la conseguente formazione di tumori di natura analoga alla neoformazione primaria. La teoria della genesi connettivale delle neoformazioni, che ebbe inizialmente grande successo soprattutto in Germania, fu contestata nel 1865 in un lavoro del chirurgo Carl Thiersch (1822-1895) sull'origine dei tumori epiteliali, dal titolo Der Epithelialkrebs, namentlich der Haut (Il cancro epiteliale, specialmente della pelle). Analizzando le sezioni istologiche seriali di alcuni tumori epiteliali (della cute, delle labbra e della bocca), egli dimostrò la continuità del tessuto patologico con l'epitelio. Per spiegare la patogenesi di quei tumori epiteliali, discussi ampiamente in letteratura, che apparivano svilupparsi in mezzo al tessuto connettivale, Thiersch fece ricorso alla vecchia teoria di Remak dei germi embrionali dislocati in sedi ectopiche. Prese anche in considerazione la possibilità che un tessuto epiteliale trasformato in senso canceroso fosse capace di rilasciare cellule malate in grado di migrare e impiantarsi a distanza, generando una crescita tumorale manifesta ancor prima che la lesione primaria riuscisse a esprimersi. Diveniva così chiaro il carattere altamente specifico della proliferazione secondaria, allo stesso modo in cui si mantenevano costanti i caratteri istologici di un tessuto trapiantato sperimentalmente da una regione all'altra dell'organismo. Thiersch indicò come 'ipotesi del trapianto' (Transplantationhypothese) la trasmissione a distanza del tumore attraverso la migrazione di cellule malate. Le sue idee influenzarono diversi patologi e convertirono immediatamente il chirurgo Theodor Billroth (1829-1894), che all'epoca insegnava a Zurigo ed era stato in precedenza fautore dell'ipotesi connettivale di Virchow.
Lo sviluppo dei tumori epiteliali (carcinomi) fu l'argomento di due lavori di sintesi dal titolo Die Entwickelung der Carcinome (Lo sviluppo del carcinoma, 1867, 1872) proposti da Wilhelm Waldeyer (1836-1921), professore di anatomia patologica a Breslavia, e pubblicati sulla rivista "Archiv für pathologische Anatomie, Physiologie, und für klinische Medizin" fondata e diretta da Virchow. Nel primo, riportando le sue osservazioni sul carcinoma della mammella, Waldeyer notava come lo stato precoce del processo patologico fosse caratterizzato dalla moltiplicazione delle cellule epiteliali negli acini della ghiandola mammaria, seguita dalla proliferazione reattiva di cellule connettive di piccola dimensione. Procedendo nello sviluppo della neoformazione si arrivava alla rottura della membrana basale degli acini con disseminazione al tessuto circostante e formazione reattiva di un tessuto stromale fibroso. Waldeyer asseriva di non aver mai osservato la trasformazione epiteliale carcinomatosa del tessuto connettivo; vi era sempre separazione tra le due componenti cellulari in proliferazione per quanto, talvolta, queste non fossero ben distinguibili all'osservazione microscopica. A conclusioni analoghe si arrivava anche nei casi del carcinoma dello stomaco e dell'utero. In questi tumori la disseminazione 'locale' era tracciabile a partire dal tessuto epiteliale di origine. Quando invece si osservava la migrazione a distanza del processo neoformativo, cioè una metastasi, Waldeyer ammetteva l'embolizzazione di ammassi di cellule cancerose per via ematica, linfatica o attraverso altri fluidi corporei in grado di impiantarsi e colonizzare sedi anche lontane rispetto al luogo primario di sviluppo del tumore. Anche se l'argomento di questo primo lavoro riguardava la patogenesi dei carcinomi Waldeyer non si lasciò sfuggire la possibilità di accennare a una tesi più generale, estendibile anche ai sarcomi, tumori di origine connettivale, ai quali si potevano applicare le stesse considerazioni fisiopatologiche dei carcinomi. Usando una logica stringente e pur riconoscendo la natura inferenziale delle sue conclusioni, Waldeyer confermò cinque anni dopo le idee raggiunte sulla fisiopatologia dei tumori, grazie anche a numerose nuove osservazioni. Su base istogenetica presuntiva e clinico-biologica propose una loro classificazione distinguendo i caratteri generali dei sarcomi (di origine connettivale) da quelli dei carcinomi (di origine epiteliale).
Non tutti aderirono prontamente alle idee di Waldeyer e lo stesso Virchow continuò, seguito da alcuni patologi tedeschi, a sostenere l'origine connettivale dei carcinomi. In Francia rimase a lungo influente la teoria del blastema ma, nel momento in cui iniziò a penetrare la patologia cellulare, molti studiosi seguirono una teoria 'mista' in base alla quale i carcinomi si sviluppano sia dall'epitelio sia dal connettivo. La teoria oncogenetica di Virchow prese piede anche in Inghilterra e in Italia e dominò fin oltre l'inizio degli anni Ottanta del XIX secolo. Alla fine, comunque, furono le idee di Waldeyer che prevalsero e il programma della patologia cellulare, in questa versione, raggiunse l'importante risultato di guidare l'identificazione istopatologica dei tumori, influenzando profondamente la loro valutazione clinica e quindi il loro trattamento terapeutico. Se la patologia cellulare si era dimostrata importante per capire e descrivere la patogenesi del cancro non altrettanto si poteva dire per la sua eziologia. Virchow aveva attribuito lo sviluppo dei tumori a diversi stimoli 'irritativi', Thiersch a uno squilibrio funzionale fra la crescita epiteliale e connettivale, molti altri osservatori a cause più particolari come i traumi, ipotetici agenti di contagio, o ancora le sostanze chimiche responsabili dello sviluppo di tumori sperimentali e professionali, quali il cancro del naso e dello scroto negli spazzacamini. Un allievo di Virchow, Julius Friedrich Cohnheim (1839-1884), professore all'Università di Breslavia e poi di Lipsia, riprese e generalizzò nelle sue lezioni di patologia generale, pubblicate in Vorlesungen über allgemeine Pathologie (Lezioni di patologia generale, 1877-1880, 1882) la teoria di Remak dei germi embrionali, facendola diventare principio eziologico fondamentale delle neoformazioni tumorali. Secondo la sua ipotesi, durante le prime fasi dello sviluppo si sarebbe prodotto un numero ridondante di cellule che potevano rimanere in parte inutilizzate nel tessuto adulto. Essendo dotate di grande potenzialità riproduttiva, data la loro natura embrionale, queste avrebbero potuto innescare una crescita abnorme portando alla formazione di un tumore. I caratteri di malignità della neoformazione erano, secondo Cohnheim, legati alla resistenza opposta alla sua crescita dall'organismo. Quando questa resistenza si allentava nel sito di sviluppo, il tumore manifestava un'invasione locale; in caso di caduta più generale della resistenza si aveva una disseminazione a distanza lungo la corrente linfatica. L'ipotesi oncogenetica di Cohnheim aveva il serio limite di non riuscire a spiegare come mai la crescita abnorme si innescasse in un dato momento piuttosto che in un altro, e venne poi sostanzialmente abbandonata. Sopravvisse soltanto, fino allo sviluppo della biologia molecolare, come spiegazione di quei particolari tumori a composizione complessa, indicati da Virchow con il termine di 'teratomi', in cui il tessuto rudimentale embrionale di origine, oltre alla persistenza nell'adulto, sembrava caratterizzato dalla segregazione, vale a dire dalla dislocazione spaziale in sede impropria.
Le teorie eziopatogenetiche del cancro entrarono in una nuova era con gli sviluppi della citopatologia nella seconda metà del XIX secolo. Nel 1879 il patologo tedesco Julius Arnold (1835-1915) osservò anomalie della mitosi nei preparati istologici di diversi tipi di tumore che pochi anni dopo furono messe in relazione con l'origine e il successivo sviluppo di queste neoformazioni. L'identificazione dei cromosomi e le irregolarità nucleari osservate nei tumori condussero all'ipotesi, suggerita nel 1902 da Theodor Heinrich Boveri (1862-1915) con Über mehrpolige Mitosen als Mittel zur Analyse des Zellkerns (Le mitosi multipolari come strumento di analisi del nucleo cellulare) e in maniera più sistematica nel 1914 con Zur Frage der Entstehung malignen Tumoren (La questione della formazione dei tumori maligni), della possibile genesi cromosomica delle neoplasie. Egli sostenne l'origine unicellulare dei tumori e l'idea che in queste patologie alcune alterazioni genetiche fondamentali possano essere submicroscopiche e non interessare un intero cromosoma. Tuttavia fino agli anni Cinquanta del Novecento le osservazioni cariologiche furono poche, anche se indicarono la presenza di anomalie nucleari nelle neoplasie. Gli sviluppi delle tecniche citogenetiche portarono finalmente a identificare diverse alterazioni cariotipiche nei tumori (il primo e più famoso esempio fu la presenza del cromosoma Philadelphia nell'85% dei casi di leucemia mieloide cronica).
Altre teorie eziologiche furono formulate con l'identificazione di fattori quali virus oncogeni e vari agenti chimici e fisici (energia radiante, traumi, fattori termici) in grado di indurre lo sviluppo di tumori. Inoltre i progressi della biochimica portarono alla formazione di una teoria metabolica delle neoplasie sostenuta da Otto Heinrich Warburg (1883-1970), secondo la quale i tumori si sviluppavano per un'alterazione irreversibile della respirazione cellulare.
Lo studio eziologico del cancro riceverà tuttavia un impulso ancora più grande dagli sviluppi della genetica molecolare che hanno fornito, negli ultimi trent'anni del Novecento, gli strumenti per l'indagine biochimico-molecolare di queste patologie. Si è così giunti all'identificazione, alla caratterizzazione e allo studio di mutagenesi di molti dei geni implicati nella patogenesi dei tumori (oncogeni, geni onco-soppressori, geni riparativi del DNA e geni coinvolti nel controllo del ciclo cellulare). Si tratta di apporti sperimentali che hanno portato a concepire il cancro come una malattia genetica della cellula somatica.
2. Il problema cellulare dell'infiammazione
La dottrina fisiopatologica di Virchow dovette affrontare anche l'antica questione dell'infiammazione intesa come risposta tissutale a uno stimolo irritativo. Il problema era già stato trattato numerose volte da quando Aulo Cornelio Celso (I sec. d.C.) ne aveva definito i quattro caratteri clinici fondamentali: rubor, tumor, dolor e calor, ai quali successivamente era stato aggiunto un quinto, la functio laesa. L'infiammazione, che deve il nome al rossore e al calore che segnalano la sua presenza nelle parti dell'organismo visibili all'ispezione diretta, era anche stata considerata una realtà ontologica a sé stante, un'essenza patologica vera e propria, che aveva come punto di partenza l'essudazione vasale. Sviluppando la sua polemica antiontologica, Virchow aveva ricondotto il fenomeno a un problema di patologia cellulare, sostenendo che il coinvolgimento dei vasi non fosse patognomonico del processo morboso, come invece si riteneva all'epoca. Come tale, secondo lo scienziato tedesco, l'infiammazione era un processo dinamico scomponibile in due categorie fondamentali: la parenchimatosa, nella quale il processo patologico si sviluppava direttamente nel tessuto, e la secretoria (o essudativa) caratterizzata da trasudamento di liquido dai vasi. In quest'ultimo caso gli elementi cellulari tissutali, sulla base di un'affinità reciproca con il sangue, avrebbero esercitato un'influenza attrattiva sul materiale nutritizio di provenienza vasale, estraendone una quota adeguata alle necessità occasionali per mezzo della trasudazione. L'irritazione, vale a dire la causa nociva agente sul tessuto, poteva determinare, secondo Virchow, tre tipi di ripercussioni: funzionali (con alterazione delle funzioni), nutritive (quando si provocava un eccesso o un difetto di nutrizione locale) e formative (che portavano a riproduzione cellulare locale e a formazione di corpuscoli purulenti). Lo scienziato tedesco non riconobbe il passaggio di cellule attraverso la parete vasale per cui la risposta proliferativa cellulare veniva a costituire un fatto locale di pertinenza del tessuto su cui si era esercitata l'azione patogena.
Il problema fu affrontato in maniera radicalmente diversa dal suo allievo Cohnheim nel lungo articolo, Über Entzündung und Eiterung (Sull'infiammazione e la suppurazione) pubblicato nel 1867 e poi, in particolare, in Neue Untersuchungen über die Entzündung (Nuove ricerche sull'infiammazione) del 1873. Adottando un'impostazione di studio decisamente dinamica, basata sull'osservazione delle modificazioni nell'animale sperimentale, egli descrisse una serie di fenomeni caratteristici dell'infiammazione quali il ruolo centrale dei vasi nel processo (sua è l'affermazione "senza vasi non c'è infiammazione"), in opposizione a Virchow, e il passaggio nello spazio intercellulare degli elementi corpuscolati del sangue attraverso le pareti vasali integre. Cohnheim indicò con il termine 'diapedesi' (dal greco διαπηδάω, balzare attraverso) il transito dei globuli rossi e con extravasation o emigration la migrazione dei globuli bianchi, un fenomeno che era già stato descritto da William Addison (1802-1881) e da Augustus Volney Waller (1816-1870) due decenni prima e, addirittura, da Henri Dutrochet (1776-1847) fin dal 1824.
Le idee di Cohnheim sul passaggio dei globuli bianchi subirono una notevole trasformazione fra il 1867 e il 1873. Inizialmente egli pensava che il transito cellulare attraverso la parete dei vasi fosse secondario a movimenti attivi dei leucociti in grado di aprirsi varchi temporanei nelle pareti vasali che rimanevano intatte. Sei anni dopo il patologo tedesco sostenne invece che alla base del fenomeno infiammatorio vi fosse un'irritazione dei vasi in grado di provocare una lesione 'molecolare' sulla parete (invisibile al microscopio), attraverso la quale si sarebbero fatti strada i globuli bianchi (e quelli rossi) sospinti dalla pressione laterale.
Il termine 'diapedesi', utilizzato da Cohnheim, è stato impiegato variamente, non senza qualche ambiguità; alcuni autori come Howard Florey (1898-1968) hanno ristretto il suo significato al solo passaggio dei globuli rossi nello spazio interstiziale (in accordo con la denominazione originale di Cohnheim), altri lo hanno applicato all'attivo movimento dei globuli bianchi attraverso la membrana vasale, altri ancora alla migrazione di entrambi i tipi cellulari.
Il fenomeno di migrazione leucocitaria transendoteliale, relativamente privo di contenuto teleologico nella sua formulazione iniziale, assunse un significato più chiaro a partire dal 1884 con gli studi di Il´ja Il´jč Mečnikov (1845-1916) sulla fagocitosi che attribuivano un ruolo attivo ai globuli bianchi provenienti dal sangue. Se fino a questo momento il processo infiammatorio era stato visto sovente come una manifestazione nociva che accompagnava le malattie (o esso stesso una malattia), ora invece appariva persuasivamente come una risposta protettiva e difensiva dell'organismo nei confronti di agenti o eventi dannosi provenienti dall'ambiente esterno.
Nel 1871-1872 il fenomeno della fagocitosi era già stato descritto da Giulio Bizzozero (1846-1901) professore di patologia generale dapprima a Pavia e poi a Torino. Utilizzando come modello sperimentale la camera anteriore dell'occhio del coniglio in cui era stata scarificata la cornea, aveva osservato la formazione di grandi cellule che "godono di vivace contrattilità e che ponno [...] introdurre nel protoplasma gli elementi che stanno nel liquido che li circonda". Bizzozero capì chiaramente la funzione teleologica di 'spazzini'che si sviluppavano per 'ingoiare' e rimuovere gli elementi estranei dalla camera anteriore dell'occhio attraverso la loro disaggregazione e riassorbimento e, in definitiva, la loro digestione intracellulare. Nel 1873 intuì che i "materiali d'infezione" potessero essere "divorati" dai globuli bianchi semoventi ai quali veniva quindi attribuito un ruolo nella difesa dell'organismo contro le aggressioni esterne. Si trattava di idee estremamente originali, se si considera che non era ancora stata sviluppata pienamente la teoria microbiologica delle malattie infettive legata principalmente ai nomi di Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch (1843-1910). Nei dieci anni successivi, anche altri ricercatori osservarono il fenomeno, ponendolo in rapporto con i meccanismi difensivi dell'organismo nei confronti delle aggressioni esterne. Tuttavia soltanto con Mečnikov si arriverà alla vera e propria teoria articolata della fagocitosi, intesa come capitolo fondamentale di quella parte della biologia dell'infiammazione che verso la fine del secolo si sarebbe andata legando e compenetrando con la nuova scienza immunologica. Punto di partenza degli studi di Mečnikov furono alcune ricerche sviluppate fin dal periodo in cui era studente all'Università di Kharkov, in Ucraina, quando gli capitò di osservare, nelle planarie paludicole, cellule mesodermiche ameboidi in cui avveniva la digestione endocellulare di sostanze nutrienti. Nel 1882, durante un soggiorno a Messina, mentre stava osservando le cellule semoventi in una larva trasparente di stella marina, Mečnikov ebbe improvvisamente l'idea che "cellule analoghe potrebbero servire nella difesa dell'organismo contro intrusi dannosi". Immediatamente infisse alcune spine di rosa nell'epidermide di questi animali e il mattino dopo, attorno a queste, osservò un gran numero di cellule mobili che si erano evidentemente raggruppate nel tentativo di rimuovere il corpo estraneo. Mečnikov sviluppò allora il programma di ricerca sulle difese immunitarie degli organismi, iniettando nella Daphnia (una pulce d'acqua dolce agevolmente osservabile perché trasparente) un fungo, la Monospora bicuspidata. Le cellule nomadi mesodermiche raggiungevano i microorganismi inglobandoli attivamente e il fenomeno appariva come una sorta di lotta 'darwiniana' fra organismi in competizione. L'esito era comunque incerto e, a seconda della carica microbica e di altri fattori contingenti, l'infezione poteva essere contenuta oppure dilagare irrefrenabilmente. Il fenomeno fu denominato 'fagocitosi' (1884), unendo la radice greca φαγ- (mangiare) e il sostantivo ϰύτοϚ (cavità, cellula).
Per un evento fortuito Mečnikov ebbe l'occasione di mostrare alcuni esperimenti a Virchow che si trovava casualmente a Messina. Il patologo tedesco rimase colpito da questi risultati, forse anche perché una proliferazione di cellule mesodermiche indotta da stimoli irritativi in organismi avascolari (come le stelle marine) finiva per confermare la sua ipotesi, contestata da Cohnheim, secondo cui il sistema circolatorio non era assolutamente indispensabile nella risposta infiammatoria. Inoltre la fagocitosi, enfatizzando il ruolo delle cellule nella difesa dell'organismo, poteva considerarsi in linea con i principî della patologia cellulare. Con l'appoggio di Virchow lo scienziato russo pubblicò i suoi primi lavori sull'argomento ed estese rapidamente le osservazioni ai Vertebrati, giungendo alla conclusione che il fenomeno fagocitario fosse la caratteristica fondamentale del processo infiammatorio lungo tutta la scala zoologica e come tale presente anche negli organismi privi di un sistema vascolare strutturato. In esplicita opposizione a Cohnheim secondo il quale non poteva esservi risposta infiammatoria senza vasi, Mečnikov coniò il motto "non c'è infiammazione senza fagociti".
L'elaborazione della teoria fagocitaria ebbe anche l'effetto immediato di rendere compatibile la patologia cellulare con la batteriologia in piena espansione, ponendo la cellula al centro del processo patologico scatenato dall'invasione batterica. Der Kampf der Zellen und der Bakterien (La lotta fra cellule e batteri, 1885) è proprio il titolo di un lavoro di Virchow che registra con soddisfazione l'importanza delle "povere piccole cellule" nella nuova scienza infettivologica, grazie ai progressi realizzati dalla teoria 'cellularista' di Mečnikov.
Nel 1888 l'oculista tedesco Theodore Leber (1840-1917) scoprì che sottili capillari riempiti di batteri o di materiale settico impiantato nella cornea o nella camera anteriore dell'occhio del coniglio erano in grado di attirare i leucociti. Il fenomeno denominato 'chemotassi' fu immediatamente incorporato da Mečnikov nell'ambito della sua concezione fisiopatologica. La teoria della fagocitosi (e quindi la nuova concezione dell'infiammazione), intesa come processo biologico reattivo esteso lungo tutto l'albero filogenetico, raggiunse con lo scienziato russo un discreto grado di articolazione concettuale che prevedeva l'azione concertata dei microfagi (granulociti polimorfonucleati), dei macrofagi (monociti circolanti e istiociti sessili), di fattori specifici prodotti dai microfagi in grado di stimolare i fagociti e di sostanze chimiche in grado di eccitare il movimento unidirezionale dei leucociti verso il luogo colpito dall'irritazione (chemotassi). La teoria risolveva su nuove basi anche il problema posto dagli sviluppi della microbiologia (e della batteriologia in particolare) alla patologia cellulare, iniziando a caratterizzare il tipo di risposta tissutale alle invasioni microbiche, attraverso l'identificazione dei tipi cellulari coinvolti.
Mečnikov dovette affrontare molti attacchi in seguito alla scoperta dell'immunità umorale, inizialmente percepita come ipotesi antagonista a quella da lui sostenuta che spiegava meglio la specificità immunologica. Non mancarono però tentativi di conciliare le istanze divergenti della teoria cellulare fagocitaria con le ipotesi umorali dopo che Almroth Wright (1861-1947) e Steward R. Douglas (1871-1936) scoprirono nel 1903 il fenomeno dell'opsonizzazione, cioè la capacità di alcune componenti solubili del siero di facilitare la fagocitosi da parte dei leucociti.
Molti patologi dell'epoca sostenevano poi che i leucociti, invece di possedere un ruolo protettivo nei confronti delle infezioni, fossero in grado addirittura di favorirne la coltura e la disseminazione nell'organismo. Particolarmente avversi alle teorie di Mečnikov si dimostrarono alcuni scienziati tedeschi tra cui lo stesso Koch, mentre i francesi furono a lui favorevoli, anche perché lo scienziato russo, dopo aver insegnato all'Università di Odessa, trascorse gli ultimi ventotto anni della sua vita di ricercatore proprio all'Institut Pasteur di Parigi. A cavallo del secolo, tuttavia, la teoria fagocitaria fu stabilmente incorporata nella nascente dottrina immunologica, mentre la statura scientifica di Mečnikov era ufficialmente sancita dal massimo riconoscimento scientifico mondiale, il premio Nobel per la medicina o la fisiologia conferitogli nel 1908. Pochi anni dopo un eminente patologo tedesco, Ludwig Aschoff (1866-1942), introdusse il concetto di sistema reticoloendoteliale, un 'organo diffuso' dalle molte funzioni, compresa la difesa immunitaria, che include tutte le cellule fagocitarie dell'organismo.
Con il concetto di fagocitosi, il problema cellulare dell'infiammazione entrava ormai nella dimensione scientifica rappresentata dall'immunologia.
Negli anni Venti del XX sec. si conosceva un unico fattore chimico endogeno del processo infiammatorio, l'istamina, che agisce sui vasi sanguigni; nei decenni seguenti si identificarono molte altre sostanze come la serotonina, le varie frazioni del complemento, le chinine e le citochine. Divenne allora chiaro che tutte le fasi dell'infiammazione sono prodotte da messaggeri chimici.
La reazione infiammatoria caratterizzata dalla piena espressione dei quattro segni cardinali di Celso apparve la variante acuta di un fenomeno che includeva anche una forma cronica, tipica di molte malattie che si sviluppano quando la causa non viene rimossa e permane a lungo mantenendo una sorta di equilibrio con le forze difensive dell'organismo. In questi casi il rossore e il calore della flogosi si attenuano mentre persistono il dolore e la tumefazione. Talvolta la cronicizzazione consegue alla fase acuta, altre volte si presenta come tale ab initio. La definizione di queste forme a lungo decorso dell'infiammazione trovò un punto di convergenza unificante con la caratterizzazione del tessuto di granulazione, descritto variamente nei suoi caratteri microscopici a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Si tratta di un dispositivo dell'organismo sviluppato per affrontare agenti patogeni (per es., batteri o funghi) o fattori irritanti (corpi estranei come spine o schegge) difficili da eliminare, attorno ai quali si stratificano macrofagi e altri tipi cellulari a seconda dell'agente lesivo. Tessuto di granulazione è quello che si forma nella superficie delle ulcere cutanee, attorno agli ascessi, nell'infezione tubercolare, nella sifilide e nell'artrite reumatoide, una tipica malattia in cui la risposta immunitaria è patologica.
3. L'ascesa dell'immunopatologia
Agli inizi del Novecento l'infiammazione, intesa quale meccanismo reattivo aspecifico, e la risposta immunitaria, concepita quale processo difensivo specifico, andavano delineandosi come due dispositivi armati e coordinati fra loro, in grado di proteggere gli esseri viventi dalle aggressioni provenienti dall'ambiente esterno. Tuttavia ben presto si cominciò a capire che tutti questi meccanismi difensivi, in alcune condizioni alterate, potevano instaurarsi contro le stesse strutture dell'organismo. Oltre alla riparazione completa del danno tissutale, l'infiammazione poteva in certi casi esaltarsi fino alla suppurazione, all'ulcerazione e alla distruzione dell'organo oppure produrre una reazione cicatriziale con proliferazione in eccesso del tessuto connettivale (fibrosi) e, talvolta, perdita parziale o totale di funzione. In questi ultimi casi il danno era da considerarsi un effetto secondario abnorme di una risposta difensiva amplificata ed esaltata, anche se aspecifica. Furono poi scoperti alcuni meccanismi perversi di controllo e regolazione della risposta difensiva specifica in grado di causare processi patologici di diverso tipo.
L'immunopatologia, vale a dire quell'aspetto della reazione immunitaria dell'organismo per cui quest'ultimo ne subisce talvolta un danno, si sviluppò tra Otto e Novecento parallelamente all'evoluzione delle conoscenze sia di base sia applicate in ambito immunologico. Numerose osservazioni andarono configurando il concetto di ipersensibilità, per indicare quell'insieme di fenomeni che si verificano quando lo stimolo provoca una risposta immunitaria eccessiva, inutile o abnorme, tale che il danno della reazione è superiore alla causa che l'ha provocata.
Uno dei primi protagonisti di queste ricerche fu Koch a cui si deve nel 1882 l'identificazione del Mycobacterium tubercolosis. Koch scoprì nel 1890 che l'iniezione intradermica della soluzione ottenuta filtrando una coltura di bacillo tubercolare (tubercolina) in animali e negli esseri umani già sottoposti all'infezione tubercolare, provocava un'esacerbata reazione infiammatoria locale. Koch si aspettava in realtà che la tubercolina consentisse di curare la tubercolosi, ma si vide che la somministrazione poteva anche indurre una reazione sistemica potenzialmente fatale. L'anno dopo lo scienziato tedesco osservò che l'inoculazione di bacilli tubercolari in animali già esposti in precedenza all'infezione provocava una severa risposta immunitaria locale con formazione di un tessuto di granulazione (fenomeno di Koch), vale a dire una reazione infiammatoria cronica con proliferazione cellulare. Per spiegare il fenomeno, Koch ammise che i soggetti sensibilizzati avessero un carico di 'tossine tubercolari' già alto al punto che un'ulteriore somministrazione di bacilli o di tubercolina, superando la soglia 'sostenibile' localmente dal tessuto, avrebbe provocato una consistente reazione tossico-infiammatoria. In realtà aveva scoperto la reazione di ipersensibilità ritardata o cellulo-mediata, cioè una risposta infiammatoria che si sviluppa tardivamente, caratterizzata dalla formazione di granulomi, tipica dell'infezione tubercolare e della dermatite da contatto.
Un altro tipo di ipersensibilità, l''anafilassi' (cioè 'antiprotezione' o 'mancata protezione', di significato opposto alla 'profilassi'), si sviluppa invece immediatamente dopo che un particolare stimolo ha agito sull'organismo precedentemente sensibilizzato ed è capace di indurre una risposta immunitaria che provoca la liberazione di sostanze chimiche in grado di scatenare una reazione dannosa, locale o sistemica. Questo fenomeno, nella forma generalizzata (shock anafilattico), fu descritto dettagliatamente nel 1902 da Paul Portier e Charles R. Richet e fu successivamente messo in relazione a manifestazioni locali quali la febbre da fieno, l'asma bronchiale e le allergie alimentari. Nel 1906 il barone Clemens von Pirquet introdusse il termine 'allergia' per indicare uno stato di alterata reattività immunologica. Il vocabolo, prontamente adottato, fu impiegato negli Stati Uniti per indicare l'anafilassi mentre in Europa continuò a essere utilizzato come sinonimo per qualsiasi tipo di ipersensibilità. La fisiopatologia cellulare dell'anafilassi fu in parte chiarita soltanto quando si riconobbe il ruolo delle Mastzellen (cellule ben nutrite) o mastociti, un tipo cellulare del connettivo caratterizzato istologicamente e citologicamente fin dal 1877-1879 da Paul Ehrlich attraverso l'identificazione dei granuli citoplasmatici metacromatici, vale a dire di quelle formazioni che si tingono in maniera differente rispetto al colore del reagente impiegato. Tra il 1887 e il 1894 il dermatologo tedesco Paul Gerson Unna identificò i mastociti nelle lesioni cutanee dell'orticaria pigmentosa e in altre dermatosi. Tuttavia soltanto nel 1940 si osservò che nel corso dello shock anafilattico queste cellule scaricavano i loro granuli, rilasciando sostanze nel circolo sanguigno. La natura di tali sostanze venne chiarita nel 1953 da James F. Riley e Geoffrey B. West, i quali dimostrarono sperimentalmente quanto i mastociti fossero ricchi d'istamina. Pertanto, si tornava alle osservazioni di inizio secolo che avevano rivelato il coinvolgimento di questa sostanza nella reazione anafilattica, ma si ponevano le basi per i successivi sviluppi dell'immunologia clinica che avrebbero dimostrato, a partire dal 1966-1967, il ruolo delle immunoglobuline 'reaginiche' (le IgE) in questa forma di ipersensibilità.
Un altro tipo cellulare, il granulocita polimorfonucleato, risultò presente nella forma di ipersensibilità scoperta dal fisiologo svizzero Maurice Arthus nel 1903. Mentre lavorava all'Institut Pasteur di Lille, egli osservò una reazione cutanea nel coniglio sottoposto a iniezioni di siero di cavallo, ripetute ogni 6 giorni in sedi diverse; dopo la quarta iniezione si manifestava localmente un edema molle, dopo le successive, lesioni emorragiche e necrosi (il cosiddetto fenomeno di Arthus). Gli studi istologici evidenziarono la presenza di granulociti polimorfonucleati che furono ritenuti responsabili del fenomeno distruttivo fino alla necrosi tissutale locale. La cascata degli eventi che portavano al fenomeno di Arthus fu chiarita soltanto con lo sviluppo dell'immunologia e con l'identificazione dei complessi antigene-anticorpo depositati lungo i vasi. Tali complessi sono in grado di scatenare una reazione infiammatoria con intensa attivazione dei polimorfonucleati, reclutati da frazioni chemiotattiche del complemento per rimuovere gli stessi complessi, i quali a loro volta provocano una lesione alle venule e la distruzione tissutale locale. Meccanismi patogenetici analoghi furono identificati per molte altre condizioni immunopatologiche causate dai complessi antigene-anticorpo, come la malattia da siero descritta nel 1905 da Pirquet e Bela Schick all'ospedale Sant'Anna di Vienna, la poliarterite nodosa, la glomerulonefrite poststreptococcica, le polmoniti da ipersensibilità.
Un altro meccanismo di ipersensibilità, responsabile della citotossicità nella incompatibilità da trasfusione e in altri processi patologici, iniziò a delinearsi nel 1901 con l'identificazione dei gruppi sanguigni AB0 da parte di Karl Landsteiner, il quale, per queste ricerche, ottenne il premio Nobel nel 1930.
Un'intera classe di malattie a patogenesi immunitaria emerse come eccezione di uno dei postulati fondamentali dell'immunologia delle origini, quello dell'horror autotoxicus stabilito da Ehrlich, secondo il quale l'organismo reagisce solamente contro ciò che gli è estraneo e mai contro sé stesso. Molte di queste affezioni erano raggruppate sotto l'etichetta di 'malattie reumatiche', entità cliniche spesso accomunate alla gotta e conosciute fin dalla più remota Antichità. All'inizio dell'Ottocento l'anatomista francese François-Xavier Bichat aveva sostenuto che il 'reumatismo' colpiva il tessuto fibroso e nel 1904 William Osler descrisse con precisione le manifestazioni cliniche essenziali del lupus eritematoso sistemico, avanzando anche l'ipotesi che fossero determinate da un'infiammazione vasale (vasculite). Soltanto nel 1942 il patologo Paul Klemperer avrebbe chiarito che il lupus eritematoso sistemico e la sclerodermia avevano qualcosa in comune, vale a dire una lesione infiammatoria nella sostanza fondamentale del tessuto connettivo, introducendo la denominazione di 'malattie del collageno' per caratterizzarle (in realtà intendeva asserire 'malattie del tessuto connettivo'). In seguito furono incluse in questa categoria clinica anche l'artrite reumatoide, la panarterite nodosa, la dermatomiosite e altre entità morbose. L'etichetta, che implicava il concetto di 'tessuto extracellulare' inteso come sistema biologico funzionale, ebbe enorme successo, e quando nel 1950 Klemperer cercò di correggerla, era ormai troppo tardi. In effetti in queste malattie il collageno è normale (o si altera secondariamente a causa del processo infiammatorio sottostante) mentre anomala è l'immunità, come divenne chiaro dopo lo studio originale di Klemperer. Le difese immunitarie potevano, in certe condizioni patologiche, attaccare in maniera aberrante anche le normali strutture dell'organismo oltre agli agenti nocivi provenienti dall'ambiente esterno. Le malattie risultanti da questo 'ammutinamento immunitario' furono allora incluse nel raggruppamento delle malattie autoimmuni. In realtà un modello patogenetico dell'autoimmunità era disponibile fin dal 1937, quando Hans Brockmann descrisse, nel siero di pazienti affetti da malattia reumatica, la presenza di anticorpi fissanti il complemento diretti contro componenti del tessuto cardiaco. Osservazioni presto seguite dall'identificazione, nella stessa malattia, di anticorpi che cross-reagivano con diversi antigeni cardiaci e con antigeni dello streptococco e che portarono a un'interpretazione fisiopatologica della cardite che si sviluppa in corso di reumatismo articolare acuto. Dopo le malattie dovute all'ipersensibilità e le autoimmuni, una terza categoria immunopatologica andò definendosi quando gli sviluppi dell'immunologia permisero di circoscriverne i caratteri essenziali: le immunodeficienze congenite e acquisite. Le prime osservazioni risalgono al 1952, quando Ogden C. Bruton segnalò una mancata produzione di gammaglobuline in un bambino che sviluppava frequentemente infezioni batteriche gravi, e al 1965, con la descrizione dei difetti immunologici legati a ipoaplasia del timo (sede della produzione dei linfociti T). La definizione clinico-patologica di queste e di altre malattie a patogenesi immunitaria promuoverà i recenti tentativi terapeutici basati sul trapianto di midollo osseo e sulla terapia genica, del tutto impensabili fino a un recente passato.
4. La patologia molecolare
All'inizio del Novecento, gli sviluppi della teoria atomica e molecolare della materia, gli affinamenti della termodinamica, le ricerche sulla composizione chimica dei tessuti animali e vegetali e le scoperte chimico-fisiche sulle proprietà dei colloidi portarono a interpretare i fenomeni vitali nei termini di meccanismi molecolari. L'approccio chimico alla fisiologia rivelò allora tutto il suo valore esplicativo, determinando progressivamente un'espansione della ricerca nella direzione dei componenti ultimi delle cellule, mentre la biochimica si rivolgeva all'analisi delle reazioni che si sviluppano nel metabolismo cellulare e allo studio delle singole tappe che compongono le complesse vie delle trasformazioni chimiche nelle cellule, ossia diventava 'biochimica dinamica', come la definì Frederick Gowland Hopkins (1861-1947) in una relazione presentata nel 1913 alla British Association. Questa nuova concezione biochimica dei fenomeni vitali assunse rapidamente uno statuto esplicativo anche dei fenomeni patologici, in particolare a opera del medico internista e chimico patologo britannico Archibald E. Garrod, le cui intuizioni segnarono un punto di svolta del pensiero fisiopatologico (anche se percepito come tale soltanto molti anni dopo). Nel 1908 egli tenne di fronte al Royal College of Physicians di Londra le Croonian lectures dal titolo Inborn errors of metabolism. Immediatamente pubblicate sulla rivista inglese "The Lancet", furono raccolte in un volume l'anno successivo e nuovamente edite nel 1923, con dedica proprio a Hopkins (a friend of many years).
Garrod era partito da un suo studio sull'alcaptonuria, The incidence of alkaptonuria: a study in chemical individuality, pubblicato sulla stessa rivista nel 1902. La malattia, caratterizzata dall'escrezione urinaria dell'acido omogentisinico, una sostanza che diventa scura in ambiente alcalino o dopo esposizione alla luce, è evidente fin dalla nascita o dai primi giorni di vita in quanto l'urina produce una colorazione nerastra dei pannolini del neonato. L'acido omogentisinico si accumula nell'organismo legandosi al collagene delle cartilagini e ad altri connettivi, conferendo un colorito scuro alla sclera e provocando manifestazioni artritiche. Garrod aveva capito che questa sostanza aumenta in modo abnorme a seguito di un blocco enzimatico lungo la via metabolica degli amminoacidi tirosina e fenilalanina. La frequenza dell'anormalità fra consanguinei (in particolare tra i cugini primi) e la recente riscoperta delle leggi di Mendel permisero a Garrod e al genetista William Bateson di ipotizzare una trasmissione genetica recessiva del raro difetto biochimico dell'alcaptonuria. La malattia era quindi prodotta da un blocco molecolare innato e geneticamente determinato che chiudeva una particolare via metabolica, intasandola di un suo prodotto intermedio, escreto come tale con le urine.
Piuttosto che invocare la formazione de novo di vie anomale (abnormal lines) lungo le quali si sarebbero immesse le sostanze aumentate in maniera patologica (ciò avrebbe forse voluto affermare un cambiamento nel 'piano enzimatico' cellulare che smentiva il rapporto fra enzimi ed eredità mendeliana), Garrod sostenne una sorta di "permanenza del metabolismo" rifacendosi espressamente a Claude Bernard (1813-1878), il quale aveva sostenuto che le 'leggi' della vita nello stato patologico sono le stesse vigenti in condizioni normali, così come le leggi meccaniche in una casa che sta in piedi sono le stesse operanti in un'altra che crolla. Per lo scienziato francese, la formazione del glucosio nel diabete derivava da un'esagerazione patologica delle normali funzioni fisiologiche, piuttosto che da nuovi fenomeni chimici tipici della malattia. Secondo Garrod un analogo squilibrio di normali passaggi fisiologici era in opera nell'alcaptonuria, dove il blocco enzimatico non induceva la formazione di vie alternative, bensì di modalità alternative del metabolismo con accumulo di sostanze normalmente trasformate a flusso continuo, favorendone quindi l'escrezione urinaria "senza ulteriori modificazioni".
Il metabolismo non appariva più come un blocco unico ma come un sistema differenziato in "compartimenti", sotto l'influenza degli enzimi e variabile da individuo a individuo. Così Garrod sviluppò il concetto di 'individualità chimica' dei soggetti, determinata dai particolari caratteri del loro assetto biochimico, da cui derivava la loro 'diatesi', vale a dire quella particolare costituzione che poteva predisporre a determinate affezioni.
Fin dal 1902 Garrod aveva riunito l'alcaptonuria, l'albinismo e la cistinuria fra le malattie del metabolismo a base genetica; nelle Croonian lectures del 1908 incluse anche la pentosuria e, nella seconda edizione del 1923, aggiunse pure la steatorrea e l'ematoporfiria congenita. Queste condizioni, collettivamente indicate come 'errori innati del metabolismo', erano per lui gli analoghi biochimici, per difetto, delle malformazioni anatomico-strutturali.
Garrod riuscì così a fondere genetica, biochimica e medicina in maniera nuova e originale, stabilendo un ponte tra l'unità mendeliana di trasmissione ereditaria da lui chiamata 'fattore ereditario' (gene), l'unità di trasformazione biochimica (enzima) e la malattia. Tuttavia le sue intuizioni diverranno oggetto di indagine sperimentale soltanto trent'anni dopo con le ricerche di George W. Beadle (1903-1989) ed Edward L. Tatum (1909-1975) sulla muffa del pane Neurospora crassa. Mediante i raggi X, essi ottennero mutazioni rivelate dalla necessità di aggiungere al mezzo di coltura specifiche sostanze nutritive, in assenza delle quali la muffa non cresceva. Attraverso una serie di esperimenti in cui incrociavano il tipo selvatico con i mutanti, Beadle e Tatum giunsero alla conclusione che i geni controllano i singoli enzimi delle varie tappe metaboliche.
Nei primi trent'anni del Novecento lo studio della funzione degli ormoni, la scoperta delle vitamine e l'isolamento dell'insulina nel 1921, spinsero sempre più la ricerca in campo patologico verso il dominio biochimico con programmi rivolti allo studio delle trasformazioni molecolari dei costituenti cellulari. Heinrich Schade sostenne i principî di una 'patologia molecolare' secondo cui la sede originaria dei processi morbosi non era nelle cellule, bensì situata al livello soggiacente: la struttura colloidale del protoplasma e le sue macromolecole componenti.
Una tappa interessante del processo di transizione verso un'interpretazione molecolare dei processi patologici è collegabile al nome di un allievo di Hopkins, Rudolph A. Peters (1889-1982), professore di biochimica presso la Oxford University. Studiando all'inizio degli anni Trenta le manifestazioni biochimiche da carenza della tiamina (vitamina B1) nel piccione, nel ratto e nel topo, egli introdusse nel 1931 il concetto di 'lesione biochimica' per indicare il difetto o la modificazione biochimica che precede direttamente le alterazioni patologiche. Questo, per Peters, significava concentrarsi sulle alterazioni enzimatiche iniziali lungo i 'nodi' di una catena metabolica, piuttosto che aspettare lo sviluppo di danni tissutali visibili al microscopio. In sintesi si trattava di sostituire la biochimica all'anatomia patologica. I termini della ricerca in campo patologico venivano così rovesciati. Fino ad allora si era privilegiato il dato morfologico con la speranza di risalire poi alle cause biochimiche.
Ora diventava centrale isolare la lesione biochimica quando ancora risultava reversibile e prima che si innescasse la deriva patologica con lo sviluppo di danni strutturali. Il primo esempio proposto di tale alterazione furono i sintomi osservati in un piccione sottoposto a una dieta carente di tiamina, una sostanza isolata in forma pura nel 1926. L'avitaminosi B1 determina una mancata ossidazione del piruvato, soprattutto nel sistema nervoso per il quale questo passaggio è fondamentale perché esso ricava tutta la sua energia dall'ossidazione aerobica del glucosio; si producono allora nel piccione segni di disfunzione nervosa, quali convulsioni e quella particolare rigidità definita opistotono. Quando compaiono, questi sintomi neurologici sono completamente reversibili nel giro di pochi minuti per iniezione intracerebrale di tiamina: la lesione quindi non può essere strutturale, ma solamente biochimica. Anche gli errori innati del metabolismo di Garrod rientravano, in un certo senso, nel concetto di lesione biochimica, ancorché di tipo particolare, in quanto geneticamente determinati.
Un'altra idea introdotta da Peters nel 1952 fu quella di 'sintesi letale' per descrivere il fenomeno di conversione metabolica di una sostanza, di per sé non tossica, in un'altra in grado di provocare una lesione biochimica irreversibile. Gli studi su questo fenomeno iniziarono nel 1947 osservando gli effetti del fluoroacetato, un sale il cui corrispondente acido viene estratto dalla pianta sudafricana Chailletia cymosa. Sia in vitro sia in vivo il fluoroacetato è trasformato in acido fluorocitrico il quale, come Peters e i suoi collaboratori furono in grado di dimostrare, inibisce l'enzima aconitasi bloccando il ciclo dell'acido citrico. Il modello del fluoroacetato fu utilizzato da diversi ricercatori per spiegare l'effetto di molte sostanze naturali che diventano tossiche quando si trasformano chimicamente all'interno dell'organismo.
L'approccio biochimico ai fenomeni patologici ha trovato importanti punti di contatto e di fusione con la patologia cellulare a impronta morfologica, dopo l'introduzione della microscopia elettronica. Una possibile integrazione fra lesioni biochimiche e lesioni strutturali è infatti più agevole quando "certe entità morfologiche coincidono con entità chimiche al livello macromolecolare" (Aloisi 1986, p. 46). Grazie all'introduzione dei metodi di frazionamento ‒ in particolare l'ultracentrifuga messa a punto tra il 1924 e il 1926 dallo svedese Theodor Svedberg (1884-1971) ‒ si è ottenuto l'isolamento di frazioni subcellulari specifiche in grado di conservare in vitro buona parte della loro attività funzionale. È stato quindi possibile studiarne la biochimica correlandola, a partire dagli anni Cinquanta, con la morfologia, grazie all'uso del microscopio elettronico.
Un altro, nonché decisivo, passaggio dalla biochimica funzionale a quella strutturale nella spiegazione molecolare dei fenomeni patologici fu realizzato, nel 1949, dal chimico statunitense Linus C. Pauling (1901-1994) con l'introduzione del concetto di 'malattia molecolare' a proposito della drepanocitosi o anemia falciforme, una malattia caratterizzata dalla forma a falce che viene assunta dai globuli rossi in carenza di ossigeno.
Negli anni Venti e Trenta Pauling aveva gettato le basi teoriche e sperimentali per lo studio chimico-fisico delle proteine e della loro struttura tridimensionale. Nel 1935 aveva studiato il modo attraverso il quale l'ossigeno lega l'emoglobina e durante la Seconda guerra mondiale si era occupato di ricerche sui sostituti del sangue, da utilizzare in situazioni di emergenza. L'interesse verso l'anemia falciforme nacque a Harvard a contatto con l'ematologo americano William B. Castle, dal quale apprese che soltanto nel sangue venoso (cioè a bassa tensione di ossigeno) i globuli rossi dei pazienti si deformano assumendo la nota forma a falce. Questo particolare rapporto fra la presenza dell'ossigeno e la modificazione morfologica delle cellule suggerì a Pauling che fosse proprio l'emoglobina a essere implicata nel processo, cambiando conformazione tridimensionale e inducendo forzatamente il profilo falciforme eritrocitario durante il passaggio del sangue nelle vene. Il chimico americano nel 1946 assegnò il compito di indagare l'anemia falciforme, come argomento della tesi di dottorato di ricerca, allo studente Harvey A. Itano che, utilizzando il metodo dell'elettroforesi, riuscì a separare l'emoglobina patologica da quella normale, identificando anche i soggetti eterozigoti con quantità quasi uguali delle due forme. La scoperta enfatizzava il rapporto tra geni e proteine, rivelando come una mutazione genetica si esprimesse modificando dal punto di vista chimico-fisico il polipeptide. Inoltre mostrava drammaticamente la presenza di un legame causale, e non semplicemente una correlazione, fra l'espressione clinica dell'anemia falciforme e la presenza di una molecola diversa di emoglobina. Nel 1949 Pauling e collaboratori pubblicarono sulla rivista americana "Science" lo storico articolo Sickle cell anemia, a molecular disease, che fin dal titolo introduceva il concetto di 'malattia molecolare'. L'articolo ebbe anche notevole importanza dal punto di vista della politica e della sociologia della scienza perché dimostrava in maniera spettacolare quanto i progressi nella ricerca di base potessero avere effetti rilevanti nella medicina. Qualcuno iniziò anche a parlare di molecole malate tuttavia Pauling fu categorico nel sostenere che entità simili non esistevano. Il concetto di malattia poteva applicarsi alla biologia e alla medicina, non alla chimica: era sempre un organismo a essere malato, non la singola molecola.
Dopo la scoperta di Pauling rimaneva ancora aperto il problema dell'esatta natura del difetto chimico che alterava la molecola dell'emoglobina. La risposta giunse dall'Inghilterra con gli articoli di Vernon M. Ingram, A specific difference between the globin of normal human and sickle-cell anemia haemoglobin (1956) e Gene mutations in human haemoglobin: the chemical difference between normal and sickle-cell haemoglobin (1957), pubblicati sulla rivista "Nature", nei quali il problema venne affrontato applicando la nuova tecnica del fingerprinting, modificando metodi sviluppati da Frederick Sanger per determinare la struttura primaria dell'insulina (vale a dire la sequenza degli amminoacidi componenti). La tecnica del fingerprinting permette di sfruttare in successione il potere di separazione dell'elettroforesi e della cromatografia. Ingram fu in grado di dimostrare che le due forme di emoglobina differivano per un solo amminoacido, che era la valina nell'emoglobina dei soggetti anemici e l'acido glutammico in quella dei soggetti normali. Non si trattava soltanto di una spiegazione eziologica definitiva di una malattia: per la prima volta una mutazione mendeliana veniva posta in rapporto diretto con la variazione di una sequenza polipeptidica.
Questa scoperta stimolò lo studio del pressante problema di quali regole di corrispondenza esistessero fra sequenze genetiche e sequenze polipeptidiche. Soltanto dieci anni dopo la soluzione sarebbe stata completamente conosciuta, con la decifrazione del codice genetico.
La biologia molecolare era ormai emersa come disciplina intersecante la biochimica, la genetica e la microbiologia, e accanto a essa una nuova configurazione fu assunta anche dalla patologia molecolare (il cui risvolto clinico sarà denominato 'medicina molecolare') intesa ora come campo di applicazione alla patologia della stessa biologia molecolare.
Il raggio d'azione della patologia molecolare si è rapidamente ampliato fino a includere sia le mutazioni genetiche e gli errori nei processi di traduzione-trascrizione dell'informazione genetica, sia quell'insieme di alterazioni molecolari epigenetiche che si producono a ogni livello nel fenotipo.