La seconda rivoluzione scientifica: introduzione. Bohr ed Einstein: fenomeni e realta fisica
Bohr ed Einstein: fenomeni e realtà fisica
Gli storici della scienza hanno tentato diverse vie interpretative per giungere a decifrare razionalmente il processo di pensiero che, nel 1905, avrebbe portato Albert Einstein alla formulazione della relatività ristretta e alla contemporanea demolizione della concezione classica dello spazio e del tempo. Tuttavia, l'unico indizio certo che è possibile cogliere resta l'individuazione, alla base del ragionamento einsteiniano, di un paradosso che sarebbe scritto direttamente nelle equazioni di Maxwell; o, per meglio dire, di una conseguenza paradossale che deriverebbe dal tentativo di ricondurre la descrizione dei fenomeni elettromagnetici all'interno dell'immagine del mondo della meccanica di Newton. Si tratta del ben noto paradosso, nel quale Einstein si era imbattuto all'età di 16 anni, dell'osservatore che si trovi a seguire un raggio luminoso alla velocità della luce. Il paradosso nasce dal fatto che, se si assume la condizione classica sulle trasformazioni di coordinate per i sistemi inerziali, e quindi se si ammette la validità della composizione galileiana delle velocità, quell'osservatore dovrebbe vedere il raggio di luce come un campo elettromagnetico oscillante nello spazio, in stato di quiete. Saremmo perciò obbligati a concludere che, almeno per quell'osservatore particolare, le leggi della fisica non sono le stesse leggi che sperimenta un qualsiasi altro osservatore inerziale.
Probabilmente fu proprio l'ignoranza, o la sottovalutazione dell'efficacia logica di quel paradosso, che impedì a Hendrik Antoon Lorentz e Jules-Henri Poincaré di anticipare di qualche anno la scoperta di Einstein, e che li costrinse a risolvere il problema dell'invarianza formale delle equazioni di Maxwell con 'metodi artificiosi'. Falliti i tentativi di rilevare sperimentalmente effetti dovuti all'esistenza di un ipotetico vento d'etere ‒ che avrebbero permesso, tra l'altro, di determinare la velocità assoluta della Terra ‒ essi introdussero opportune modifiche nel sistema di ipotesi della teoria elettrodinamica, con l'intento di conciliare la validità dei principî generali della fisica con l'inosservabilità di alcune conseguenze empiriche della teoria. Quel paradosso aveva invece un eccezionale potere euristico, se è vero, come afferma Einstein, che conteneva già il germe della teoria della relatività ristretta; infatti, mai sarebbe stato possibile scioglierlo in modo soddisfacente "finché l'assioma sul carattere assoluto del tempo, cioè della simultaneità, fosse rimasto ancorato nell'inconscio, senza che noi ce ne accorgessimo" (Einstein 1949, p. 53). Tuttavia se individuare questo assioma e riconoscere il suo carattere arbitrario erano le condizioni necessarie per giungere alla soluzione, per così dire, tecnica del paradosso, ciò implicava un insieme di opzioni filosofiche decisamente impegnative alla luce della tradizione moderna della scienza.
Questo spiega perché, ancora nelle Autobiographical notes, Einstein sentisse il bisogno di ricordare il debito intellettuale che, per la sua scoperta, aveva con gli scritti di David Hume e di Ernst Mach. Riportare alla coscienza l'archetipo del tempo assoluto per giungere poi a rivelarne la natura arbitraria, quale assioma implicito di un particolare sistema teorico, comportava alcune tesi generali sul terreno metodologico; per esempio, che le nostre modalità conoscitive hanno un'intrinseca variabilità e storicità segnata dai differenti tentativi messi in atto per adeguare i nostri linguaggi alla descrizione degli oggetti della conoscenza; e, inoltre, che non esistono modi di pensare e linguaggi più o meno formalizzati, i quali rifletterebbero una qualche struttura della realtà che avremmo colto una volta per tutte da un punto di vista assoluto. Accettare queste tesi era, all'epoca, tutt'altro che ovvio, poiché di fatto significava rimettere in discussione uno degli ideali a lungo perseguiti dalla scienza moderna, secondo il quale sarebbe possibile identificare un nucleo finito di leggi di Natura valide su ogni scala spaziale e temporale. Significava anche rinunciare all'idea che quel nucleo rappresenti il limite verso cui convergerebbero le nostre conoscenze.
"Costanza della velocità della luce" e "indipendenza delle leggi dalla scelta del sistema inerziale" sono dunque asserti contraddittori per l'immagine classica del mondo.
Tuttavia si può dimostrare che la loro incompatibilità è apparente se, in primo luogo, si adotta un nuovo principio universale, il quale affermi che le leggi della fisica sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz; in secondo luogo, se si costruisce un nuovo universo di discorso che rinunci all'abituale separazione delle idee di spazio e di tempo; e, infine, se si aderisce a una nuova immagine fisica della realtà che rimetta in discussione il carattere assoluto dei fenomeni.
Anche la storia della meccanica quantistica è una storia di paradossi, dei tentativi posti in essere per rimuovere gli ostacoli teorici ed epistemologici derivanti dall'impossibilità di analizzare gli effetti quantistici rifacendosi a immagini fisiche consuete, oppure per individuare situazioni sperimentali limite tali da poter giustificare la ricerca di soluzioni teoriche più adeguate a esprimere le finalità conoscitive della scienza. Il fatto che, come per la relatività di Einstein, anche per la scoperta della meccanica quantistica i problemi interpretativi abbiano assunto spesso questa forma sintetica e particolarmente espressiva non è una pura coincidenza. Anche in questo caso si trattava di riportare alla coscienza alcuni preconcetti, e di riconoscere sia che essi hanno svolto il ruolo di assiomi per particolari raffigurazioni teoriche della Natura, sia che è arbitrario difenderne la validità assoluta, una volta che un nuovo insieme di conoscenze porti, all'interno di quelle immagini, a conseguenze paradossali. Si sarebbe tuttavia riconosciuto che le contraddizioni potevano essere eliminate grazie a un nuovo principio fisico generale e a una nuova e più astratta immagine della realtà. E soprattutto, con la soluzione dei paradossi prodotti dall'indivisibilità del quanto di azione, diveniva sempre più evidente il carattere soggettivo di tutti i fenomeni fisici e ancora più stretta e necessaria la dipendenza della descrizione degli oggetti dalla posizione dell'osservatore e del soggetto.
Così, una delle tesi più forti e inattaccabili con cui in particolare Niels Bohr e Wolfgang Pauli difesero l'idea della complementarità e l'interpretazione probabilistica della funzione d'onda sosteneva che questi erano i soli strumenti concettuali che portavano alla dissoluzione del paradosso del dualismo onda-corpuscolo. D'altra parte, non è affatto casuale che Einstein muovesse da un'implicazione apparentemente paradossale della meccanica quantistica per giungere a rifiutare la teoria e indicare la necessità di una ridefinizione dei fondamenti della microfisica.
Cosa direbbe Lei della situazione seguente? Supponiamo che due particelle si muovano l'una verso l'altra con la stessa quantità di moto molto grande, e che esse interagiscano per un tempo brevissimo quando passano per una data posizione. Consideriamo ora un osservatore che voglia occuparsi di una delle due particelle, lontano dalla regione di interazione, e misuri la quantità di moto; allora, in base alle condizioni sperimentali, egli sarà ovviamente in grado di dedurre la quantità di moto dell'altra particella. Se però egli scegliesse di misurare la posizione della prima particella, potrebbe dirci dove si trova l'altra. Questa è una deduzione semplice e perfettamente corretta che si ricava dai principî della meccanica quantistica; ma non è davvero paradossale? Come può lo stato finale della seconda particella essere influenzato da una misura fatta sulla prima, dopo che è cessata ogni interazione tra esse? (Rosenfeld 1967, pp. 127-128)
Così Einstein, nel 1933, illustrava a Léon Rosenfeld le ragioni della sua ferma opposizione all'interpretazione ufficiale della meccanica quantistica, e a questo problema si ricollega l'articolo che egli scrisse nella primavera del 1935 in collaborazione con Boris Podolsky e Nathan Rosen. Questo lavoro sarebbe divenuto noto come 'paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen', sebbene in tal caso il termine non sia del tutto appropriato; infatti, non solo non è il paradosso l'obiettivo della loro analisi, ma soprattutto, come vedremo, esso non fornisce alcuna risposta circa i motivi per cui, entro lo schema di ragionamento della meccanica quantistica, sarebbe possibile concludere che l'atto di misura su un sistema trasferisce, a distanza e istantaneamente, informazioni a un altro sistema, consentendogli di modificare il proprio stato. Ciò è vero nel senso che non viene colta alcuna contraddizione logica o individuata alcuna premessa arbitraria nell'argomento che permette di ricavare da principî fisici generali conclusioni così assurde. In realtà, proprio questo era stato l'obiettivo degli iniziali tentativi di confutazione che Einstein aveva ricercato fin dal famoso Conferenza Solvay del 1929, quando aveva tentato, senza successo, di dimostrare l'incoerenza della teoria attraverso esperimenti mentali non soggetti alle restrizioni imposte dalle relazioni di indeterminazione.
Il paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen è in realtà una dimostrazione che consente di inferire da una contraddizione finale la falsità della premessa, per giungere poi a esprimere un giudizio di incompletezza sulla teoria. Le premesse della dimostrazione sono però diverse e non tutte così evidenti.
Ogni esame serio di una teoria fisica deve tener conto della distinzione tra la realtà oggettiva, che è indipendente da qualsiasi teoria, e i concetti fisici con i quali la teoria opera. Questi concetti sono intesi corrispondere alla realtà oggettiva e mediante questi concetti ci formiamo un'immagine di questa realtà. (Einstein 1935, p. 777)
La memoria si apre con questa richiesta filosofica, che impegna la scienza sulla portata conoscitiva dei propri apparati concettuali, detta i criteri per valutare il successo di una teoria e, in definitiva, fissa le condizioni per la sua accettazione. Non è sufficiente che i suoi calcoli relativi ai fatti di Natura siano in buon accordo con le osservazioni e le misure; questo ci può dire qualcosa sulla sua correttezza, ma, anche per i tre autori, la meccanica quantistica è una teoria corretta. Piuttosto è necessario, secondo Einstein, Podolsky e Rosen, che la teoria verifichi la cosiddetta condizione di completezza: "ogni elemento della 'realtà fisica deve avere' una 'controparte nella teoria fisica'". Date quelle premesse, si trattava di un requisito epistemologico evidente: assumendo l'esistenza di una realtà presupposta alle nostre modalità di rappresentazione, solo se i concetti definiti all'interno del nostro schema teorico fissano univocamente il loro riferimento e, viceversa, ogni elemento di realtà possiede un corrispondente termine teorico, possiamo pensare che le immagini descritte con questi concetti siano in grado di riflettere la struttura del mondo esterno.
Il problema non era nuovo: venivano riproposti obiettivi interpretativi che avevano caratterizzato e condizionato gli sviluppi iniziali della teoria quantistica dell'atomo. Tuttavia, come avrebbe sottolineato Podolsky, un'istanza realistica di questo genere sarebbe implicita nella natura stessa della conoscenza scientifica: "I fisici credono nell'esistenza di cose materiali reali, indipendenti dal nostro pensiero e dalle nostre teorie. Noi costruiamo teorie e inventiamo parole (come elettrone, positrone, ecc.) nel tentativo di spiegare a noi stessi cosa conosciamo del mondo esterno e aiutarci a ottenere nuove conoscenze" (in: "New York Times", 4 maggio 1935, p. 11). A suo avviso, chiedere a una teoria di fornire una buona immagine della realtà oggettiva equivale a sottoporla a controlli severi per verificare se essa "contiene una controparte per ogni elemento del mondo fisico" (ibidem).
è ovvio però che, quando si tenti di tradurre questo criterio generale in un concreto strumento di analisi della struttura di una teoria, sorge immediatamente una difficoltà che rischia di compromettere la fondatezza dell'intero ragionamento; la condizione di completezza sembrerebbe, infatti, dipendere da considerazioni filosofiche a priori, le quali consentano di determinare prima quali siano gli elementi della realtà e fissare poi le regole di corrispondenza tra questi e il sistema di concetti. A tale difficoltà fanno esplicito riferimento gli autori della memoria, i quali, tuttavia, considerano non necessaria per i loro fini una definizione esauriente di realtà, e ritengono che ci si possa limitare a semplici considerazioni relative ai risultati delle misure e alle procedure sperimentali.
Saremo soddisfatti con il seguente criterio, che a noi sembra ragionevole. Se, senza disturbare in alcun modo un sistema, possiamo predire con certezza (cioè, con probabilità uguale all'unità) il valore di una quantità fisica, allora esiste un elemento della realtà fisica che corrisponde a questa quantità fisica. Ci sembra che questo criterio, pur essendo lungi dall'esaurire tutti i modi possibili di riconoscere una realtà fisica, ci fornisca almeno uno di questi modi, ogniqualvolta si verifichino le condizioni considerate in esso. Questo criterio, inteso come una condizione, non necessaria, ma semplicemente sufficiente, di realtà, è in accordo con l'idea di realtà sia classica, sia quanto-meccanica. (Einstein 1935, pp. 777-778)
Non intendiamo riprendere le molte e controverse analisi circa la ragionevolezza di tale criterio di realtà o prender partito circa la sostenibilità del realismo scientifico che sottende l'intero ragionamento einsteiniano. D'altra parte per i nostri scopi è sufficiente richiamare l'attenzione su un aspetto relativo alla struttura logica dell'argomento di Einstein, Podolsky e Rosen, sul quale peraltro concordano sia i critici sia i sostenitori del loro punto di vista: il criterio di realtà entra in modo tanto essenziale nello schema del ragionamento che qualsiasi dichiarazione sulla sua insostenibilità comporterebbe l'immediata confutazione della dimostrazione. D'altra parte, è chiaro quale sia l'obiettivo della memoria; gli autori si propongono di eseguire un controllo sulla completezza della meccanica quantistica o, più precisamente, di verificare se il tipo di descrizione della realtà fisica ammesso dal suo formalismo soddisfi il requisito che, in base alle loro assunzioni, dovrebbe possedere qualsiasi descrizione completa della realtà.
La dimostrazione è suddivisa in due parti, che riflettono l'articolazione di questo programma:
a) nella prima, si tenta di caratterizzare, alla luce della condizione di completezza, le modalità di descrizione della teoria e si definisce il grado di realtà attribuibile alle quantità che fissano lo stato di un sistema quantistico;
b) nella seconda, invece, si verifica l'esistenza di situazioni sperimentali che richiedono una descrizione più ampia di quella permessa dalla meccanica quantistica.
È qui che interviene in modo rilevante il criterio di realtà, e soprattutto si rende necessaria un'assunzione implicita che, come vedremo, comporta un singolare superamento del paradosso del 1933.
Il caso di una particella
Per illustrare le possibilità di descrizione della meccanica quantistica, gli autori discutono l'esempio di una particella avente un solo grado di libertà. Lo stato quantistico del sistema è completamente caratterizzato, per la teoria, dalla funzione d'onda ψ, la quale ne definisce le quantità fisiche. In generale, a ogni quantità fisica α del sistema corrisponde un operatore A, tale che, se la funzione d'onda ψ che fissa il suo stato è un'autofunzione di A, allora
dove a è un numero. Ciò significa che, per qualunque particella che si trovi nello stato ψ, la teoria prevede che la quantità fisica α abbia con certezza il valore a, e questo è anche il risultato che otterremmo da una misura di α; in base al criterio di realtà, possiamo allora dire che esiste un elemento della realtà che corrisponde alla quantità α. Se, per esempio, la funzione d'onda è data da
dove p0 è una costante e x una variabile indipendente, poiché l'operatore associato alla quantità di moto è
la [3] diventa
Quindi, se lo stato della particella è rappresentato dalla [2], la quantità di moto avrà con certezza il valore p0, e per Einstein, Podolsky e Rosen "ha senso dire che la quantità di moto della particella in [questo] stato è reale" (Einstein 1935, p. 778). Non potremmo, però, in questo caso assegnare un valore definito alla posizione della particella, poiché a essa corrisponde un operatore che per lo stato [2] non soddisfa l'equazione [1]. La meccanica quantistica dice, per esempio, che se si effettua una misura di posizione si ha una certa probabilità che il risultato sia compreso in un certo intervallo di valori. Tuttavia, osservano gli autori,
una tale misura disturba la particella e quindi altera il suo stato. Dopo che sia stata determinata la coordinata, la particella non si troverà più nello stato dato dalla [2]. La conclusione che di solito nella meccanica quantistica si ricava da qui è che, 'quando la quantità di moto di una particella è conosciuta, la sua coordinata non ha alcuna realtà fisica'. (ibidem)
Da una parte, quando lo stato di una particella è descritto da una funzione d'onda che ci permette di prevedere con certezza il valore della sua quantità di moto, resta indeterminato il valore della posizione e possiamo fare soltanto previsioni probabilistiche sul risultato di una sua misura. Dall'altra, ogni misura effettuata per determinare la posizione disturba, dicono gli autori, la particella, ne altera lo stato e quindi modifica la funzione d'onda iniziale.
Se conoscere con precisione una quantità fisica e farle corrispondere un elemento di realtà equivale alla condizione che il sistema sia descritto da una funzione d'onda che soddisfi la [1], ovvero che la funzione d'onda sia un'autofunzione dell'operatore associato a quella quantità, segue, per il criterio di realtà, la seguente asserzione: la funzione d'onda descrive lo stato della particella solo se, quando conosciamo la sua quantità di moto, la coordinata non ha alcuna realtà fisica. Tuttavia questo è vero in generale, per qualunque coppia di quantità fisiche associate a operatori che non commutano; allora, "la precisa conoscenza di una di esse preclude una tale conoscenza dell'altra. Inoltre, ogni tentativo di determinare quest'ultima sperimentalmente altera lo stato del sistema in modo tale da distruggere la conoscenza della prima" (ibidem). Ciò significa che ogni operazione di misura, ogni tentativo di determinare sperimentalmente il valore di una quantità sulla quale la teoria non è in grado di fare previsioni precise, e quindi non può riconoscerle immediatamente una realtà fisica, ha l'effetto di cancellare il contenuto di realtà di una seconda quantità che caratterizza lo stato del sistema.
Resterebbe pertanto aperta alla meccanica quantistica questa rigida alternativa: "o (1) 'la descrizione della realtà […] data dalla funzione d'onda non è completa, oppure (2) quando gli operatori corrispondenti a due quantità fisiche non commutano, le due quantità non possono avere una realtà simultanea'" (ibidem). Se la funzione d'onda rappresentasse correttamente ed esaurientemente lo stato di un sistema quantistico, se la descrizione della meccanica quantistica fosse completa, ovvero se ogni elemento di realtà avesse una controparte nella teoria, l'impossibilità di prevedere con precisione entrambe le quantità significherebbe semplicemente che esse corrispondono a elementi incompatibili nella realtà. Altrimenti, non resterebbe che esprimere un giudizio di incompletezza sulla teoria, e affermare che le restrizioni imposte dal formalismo alle previsioni di quantità fisiche non derivano da 'difetti' della realtà, ma dai limiti del contenuto descrittivo della funzione d'onda.
Nonostante il carattere logicamente stringente del ragionamento, conclusioni del genere potrebbero essere giudicate non necessarie; è sufficiente far osservare che "le informazioni ricavabili dalla funzione d'onda corrispondono esattamente 'a ciò' che può essere misurato senza alterare lo 'stato' del sistema, [per difendere, con argomenti a prima vista ragionevoli, la tesi che] la funzione d'onda contiene una descrizione completa della realtà fisica del sistema nello stato cui essa corrisponde" (ibidem, pp. 778-779). Evidentemente, anche dal punto di vista degli autori, non esisterebbe alcun problema di completezza per una teoria in grado di predire con esattezza quelle quantità che possono essere misurate senza che il disturbo del sistema provochi un'alterazione del suo stato e quindi un cambiamento della funzione d'onda; e ciò è quanto effettivamente accade nella meccanica quantistica. Per Einstein, Podolsky e Rosen, un argomento del genere non è però difendibile, poiché si dimostra che, assumendo come vera l'ipotesi della completezza della teoria, il criterio di realtà conduce almeno in un caso a una contraddizione con le possibilità di descrizione ammesse dalla funzione d'onda.
L'esperimento delle due particelle
La seconda parte dell'articolo è dedicata alla discussione del ben noto esperimento mentale del sistema composto da due particelle, le quali, dopo aver interagito per un certo tempo, possono essere considerate e studiate come due sottosistemi indipendenti. Si dimostra, sotto opportune condizioni, ma in pieno accordo con il formalismo della teoria, che attraverso misure sulla prima particella è possibile predire con certezza, e senza disturbare in alcun modo il secondo sistema, o il valore della quantità di moto P o il valore della posizione Q dell'altra particella. Coerentemente con il criterio di realtà definito dagli autori, ha quindi senso considerare le quantità P e Q come elementi di realtà; esse, come nella fisica classica, definiscono in tal modo lo stato della particella. La conclusione della dimostrazione è questa:
In un primo momento abbiamo dimostrato che o (1) la descrizione quanto-meccanica della realtà data dalla funzione d'onda non è completa, oppure (2), quando gli operatoti corrispondenti a due quantità fisiche non commutano, le due quantità non possono avere una realtà simultanea. Muovendo poi dall'ipotesi che la funzione d'onda, fornisce una descrizione completa della realtà fisica, siamo arrivati alla conclusione che due quantità fisiche, con operatori che non commutano, possono avere una realtà simultanea. Così la negazione di (1) porta alla negazione dell'unica altra alternativa (2). Siamo quindi obbligati a concludere che la descrizione quanto-meccanica della realtà fisica data dalle funzioni d'onda non è completa. (ibidem 1935, p. 780)
Prima ancora che l'articolo fosse pubblicato dalla "Physical review", i risultati del lavoro furono divulgati con grande clamore dal "New York Times" che, con il titolo Einstein attacks quantum theory, riportava un ampio resoconto delle tesi in esso sostenute. Sebbene questa iniziativa provocasse l'irritazione di Einstein, il quale riteneva che un quotidiano non fosse una sede idonea per discutere seriamente questioni di carattere scientifico, il rilievo dato a quell'evento era ampiamente giustificato; soprattutto, sarebbe stato confermato dalle reazioni immediate della comunità dei fisici e dall'ampio interesse che il paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen ha suscitato in mezzo secolo di discussioni teoriche e filosofiche sui fondamenti della meccanica quantistica.
L'articolo solleva interrogativi molto seri sul valore conoscitivo della scienza; ma ciò non dovrebbe far perdere di vista quale sia la sua reale portata, quale sia, cioè, la tesi dimostrata in quel lavoro: se si assume il principio secondo cui la completezza di una teoria scientifica è definita da una rigida relazione di corrispondenza tra concetti ed elementi della realtà, e qualora si accetti di considerare reali quegli elementi che sono definiti attraverso il criterio di realtà formulato dagli autori, allora la meccanica quantistica è una teoria incompleta.
Tuttavia, dal controllo severo cui Einstein, Podolsky e Rosen l'avevano sottoposta, la meccanica quantistica in realtà usciva apparentemente indenne; essi non vi avevano colto una contraddizione formale o una lacuna concettuale, ma la violazione di un astratto ideale di spiegazione e di rappresentazione del mondo fisico. Proprio per questo, sebbene dichiarassero la loro piena convinzione circa l'esistenza di una descrizione della realtà fisica anche per i microoggetti, non erano in grado di affermare se questa descrizione dovesse essere ricercata con una modifica della teoria, oppure se una teoria completa fosse incompatibile con i fondamenti stessi della meccanica quantistica; il loro articolo non conteneva dunque indicazioni utili per un futuro programma di ricerca.
Due mesi dopo la pubblicazione del lavoro di Einstein, Podolsky e Rosen, la stessa rivista americana riceveva un lungo scritto di Bohr con il medesimo titolo e che si apre con il rifiuto della dichiarazione di una presunta incompletezza della meccanica quantistica, o meglio con un giudizio critico sulla fondatezza delle premesse che a quella dichiarazione condurrebbero: "Non mi sembra che la direzione del loro ragionamento riesca a cogliere la situazione effettiva che la fisica atomica ci pone di fronte" (Bohr 1935b, p. 696). Alla domanda, che è contenuta nel titolo comune dei due lavori, Can quantum-mechanical description of physical reality be considered complete?, secondo Bohr non ha alcun senso rispondere con un sì o con un no, per il semplice motivo che essa è mal formulata, se alle parole "descrizione", "realtà fisica", e "completa" si assegnano i significati voluti da Einstein. A questo quesito Bohr contrappone l'interpretazione del 1927 la quale, a suo avviso, mostra con chiarezza che la meccanica quantistica, nel proprio campo specifico di validità, "risulta una descrizione completamente razionale dei fenomeni fisici con i quali abbiamo a che fare nei processi atomici" (ibidem). La natura dei fenomeni che coinvolgono i microoggetti è tale che le contraddizioni e i paradossi sono apparenti; essi non sono indizi evidenti di presunta incompletezza della teoria, ma "dimostrano soltanto una fondamentale inadeguatezza del punto di vista tradizionale della filosofia naturale per una trattazione razionale di questi fenomeni" (ibidem, p. 697).
Bohr tende così a capovolgere l'impostazione che pretenderebbe, come sembra suggerire Podolsky, di misurare la validità interpretativa di una teoria con il metro di un'idealizzazione della realtà coerente con una particolare situazione fenomenica ‒ quella che caratterizza la fisica del macroscopico ‒ e compatibile con le modalità di descrizione ammesse dalle teorie classiche: l'impostazione, cioè, che richiede a ogni teoria di contenere un'immagine adeguata della realtà obiettiva e di fornire comunque un modello visualizzabile di essa. Al contrario, secondo Bohr, si tratta di valutare quale sia la natura dei fenomeni di cui si occupa la teoria, attraverso un'analisi delle condizioni nelle quali il fenomeno quantistico può essere osservato e indagato sperimentalmente, e delle possibilità di definire le parole che inventiamo e i concetti fisici che caratterizzano lo stato di un sistema. Solo così è possibile ricavare un modello di descrizione che tenga conto della realtà degli oggetti quantistici.
Tra Bohr ed Einstein non c'era accordo neppure su una definizione generale delle finalità conoscitive della loro disciplina: per Einstein "la fisica è un tentativo di afferrare concettualmente la realtà, quale la si concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata. In questo senso si parla di 'realtà fisica'" (Einstein 1949, p. 81). Bohr negava gli stessi presupposti delle critiche di incompletezza mosse alla meccanica quantistica, poiché, a suo avviso, adottando un diverso approccio metodologico era facile scoprire che il criterio di realtà di Einstein, "per quanto prudente possa apparire la sua formulazione, contiene un'ambiguità essenziale quando viene applicato ai problemi concreti" (Bohr 1935b, p. 697). Era questo il problema centrale della fisica quantistica: l'esistenza di un'interazione indeterminata in ogni processo di misura implica una ridefinizione del concetto di fenomeno che entra in contrasto con l'ideale enisteiniano di una concettualizzazione della realtà non condizionata dalla nostra osservazione e per questo richiede, secondo Bohr, una "revisione radicale del nostro atteggiamento nei confronti della realtà fisica" (ibidem).
La sostanza della replica di Bohr, l'elemento di maggiore debolezza teorica che egli coglieva nel ragionamento degli avversari, era indicata in modo chiaro già nella breve lettera inviata a "Nature" il 29 giugno, nella quale era annunciata la pubblicazione dell'articolo sulla "Physical review". Qui, dopo aver ripreso il criterio di realtà di Einstein, Podolsky e Rosen, e riassunto in poche righe i passaggi essenziali della loro dimostrazione, Bohr concludeva:
Vorrei sottolineare, tuttavia, che il criterio citato contiene un'ambiguità essenziale quando è applicato a problemi di meccanica quantistica. è vero che nelle misure in considerazione è esclusa ogni diretta interazione meccanica tra il sistema e gli agenti di misura, ma un esame più attento rivela che il procedimento di misurazione influenza in modo essenziale le condizioni sulle quali si fonda l'effettiva definizione delle quantità fisiche in questione. Poiché queste condizioni devono essere considerate come un elemento inerente a ogni fenomeno, cui può essere applicato senza ambiguità il termine 'realtà fisica', la conclusione degli autori suddetti non sembrerebbe giustificata. (Bohr 1935a, p. 65)
La strategia adottata da Bohr nella replica è dunque volta a demolire gli assunti della dimostrazione, non a contestarne la coerenza logica; il che, tuttavia, non comportava che egli desse vita a una disputa sulle implicazioni ontologiche della nuova fisica. I suoi argomenti erano teorici e riguardavano la natura del fenomeno quantistico, il rapporto tra 'condizioni di osservazione' e 'possibilità di definizione', il problema del disturbo del sistema nel corso di una misura e la distinzione tra oggetto fisico e apparato sperimentale. Bohr utilizzava anche la discussione di alcuni esperimenti mentali, sebbene, egli osservava, si trattava di una semplice riproposizione di cose ben note e analizzate in precedenti occasioni.
La premessa del ragionamento, il presupposto logico e teorico di qualunque esame del problema della descrizione in meccanica quantistica, è per un giudizio sul significato dell'ipotesi di Planck ‒ un giudizio che si era formato lentamente nel corso di alcuni decenni di ricerche ‒: nello studio dei fenomeni relativi al mondo microscopico si presenta un elemento di individualità che è completamente estraneo alla fisica classica. Alla luce di questo postulato, l'impossibilità di svolgere un'analisi più dettagliata della reazione tra una particella e lo strumento di misura, il fatto cioè che ogni osservazione su un microoggetto dia sempre luogo a ciò che Einstein chiamava una perdita di conoscenza di una parte del sistema non è una caratteristica di una particolare procedura sperimentale, ma una proprietà essenziale di ogni dispositivo adatto a studiare un fenomeno di questo tipo.
Al di là delle loro diverse inclinazioni filosofiche, il punto teorico da cui aveva origine il contrasto tra Bohr ed Einstein era il seguente: Einstein non accettava il postulato quantistico come premessa necessaria della teoria. In realtà, il problema delle implicazioni concettuali e fisiche dell'ipotesi di Planck li aveva sempre visti su posizioni contrapposte, fin da quando si discuteva sulla natura della radiazione. Ora, quello stesso problema li portava a parlare linguaggi diversi, a non accordarsi neppure sulla scelta delle questioni scientificamente rilevanti e ad allontanarsi lungo prospettive interpretative e programmi di ricerca divergenti. Se la meccanica quantistica non si fondasse sul postulato dell'individualità dei processi atomici, e se la struttura matematica della teoria riflettesse semplicemente, attraverso le relazioni di Heisenberg, le limitazioni conoscitive richieste da particolari procedimenti di misura, l'esperimento mentale di Einstein avrebbe realmente dimostrato che l'impossibilità di un'analisi esauriente delle proprietà di un sistema dipende da un'inadeguata rappresentazione teorica della realtà fisica. In tal caso, l'individualità del fenomeno, che per Bohr deriva dall'interazione indeterminata implicita nell'idea di quanto di azione, nella meccanica quantistica si risolverebbe in "una descrizione incompleta, caratterizzata da una raccolta arbitraria di diversi elementi della realtà fisica, a costo di sacrificarne altri" (Bohr 1935b, p. 699); cambiando dispositivo sperimentale, non si farebbe altro che selezionare di volta in volta condizioni di osservazione che consentono di evidenziare solo alcuni aspetti del sistema fisico.
Il postulato della teoria però porta a conclusioni molto diverse. L'individualità quantistica esprime un aspetto epistemologico fondamentale della nuova fisica, dal quale non può prescindere una qualunque definizione di realtà: la natura stessa dei fenomeni quantistici ci obbliga "a una discriminazione razionale tra diversi dispositivi con le loro procedure sperimentali, che sono adeguati o per un uso non ambiguo dell'idea di localizzazione spaziale, o per un'applicazione legittima del teorema di conservazione della quantità di moto" (ibidem). Da questo punto di vista, la teoria tiene certamente conto di un elemento di arbitrarietà, della nostra libertà di scegliere le condizioni di osservazione; ma il fatto che si debba rinunciare a uno dei due aspetti della descrizione, che nella loro sintesi definiscono il modello classico, riguarda, in definitiva, la stessa realtà fisica e i vincoli concettuali che essa ci impone. Infatti, tale rinuncia "dipende essenzialmente dall'impossibilità, nel campo della teoria quantistica, di controllare accuratamente la reazione dell'oggetto sullo strumento di misura, cioè il trasferimento di quantità di moto nel caso di misure di posizione, e lo spostamento nel caso di misure di quantità di moto" (ibidem).
L'aspetto problematico della perdita di controllo su una parte dell'interazione non consiste, tuttavia, nell'impossibilità di conoscere, quando si studia un fenomeno quantistico, il valore di una data quantità fisica, riguarda piuttosto l'impossibilità di definire queste quantità. I paradossi nascono dunque dal contrasto tra 'condizioni di osservazione' e 'possibilità di definizione', da un uso indiscriminato e acritico dei concetti di 'posizione' e 'quantità di moto', dal non tener conto che questi concetti, nelle particolari situazioni sperimentali, realizzate concretamente o solo costruite con il pensiero, non sempre per la teoria quantistica sono definibili e dotati di significato.
Per Bohr, l'argomento di Einstein, Podolsky e Rosen poggia dunque su basi inesistenti; la loro definizione di realtà è, per la teoria quantistica, inaccettabile, poiché il problema al quale essi si riferiscono con l'espressione "senza disturbare in alcun modo il sistema" non coglie la natura reale dell'interazione tra oggetto e strumento. In tutti gli esempi discussi, osserva Bohr, non esiste, infatti, alcun "problema di disturbo meccanico del sistema in esame durante l'ultimo stadio critico del processo di misura. Ma anche in questo stadio si pone essenzialmente la questione di un'influenza sulle reali condizioni che definiscono i possibili tipi di predizione riguardo al comportamento futuro del sistema" (Bohr 1935b, p. 700).
L'intervento dell'osservatore non provoca alcuna alterazione dello stato reale del sistema, non maschera la conoscenza di una delle quantità fisiche, né cancella la sua realtà; esso fissa soltanto le condizioni perché si possano definire senza ambiguità i concetti che sono utilizzati nella descrizione del fenomeno, e che ci consentono di fare previsioni sull'evoluzione del sistema. Poiché per Bohr l'espressione "realtà fisica" può essere riferita soltanto al fenomeno, non ha senso parlare di descrizione incompleta della realtà fisica. D'altra parte, a suo avviso, in nessun caso la descrizione della meccanica quantistica avrebbe potuto essere valutata con il criterio di Einstein; piuttosto essa andava "caratterizzata come un'utilizzazione razionale di tutte le possibilità di un'interpretazione non ambigua delle misure, compatibile con l'interazione finita e incontrollabile tra gli oggetti e gli strumenti di misura nel campo della teoria quantistica" (ibidem).
Non si può certo dire che Bohr contrapponesse soluzioni semplici e facilmente comprensibili all'evidenza intuitiva dell'argomento di Einstein; in realtà, con quella definizione egli riproponeva lo schema interpretativo che aveva riassunto nell'idea di complementarità. A suo avviso, il problema della descrizione dei fenomeni non poteva essere posto in termini generali e astratti, essendo strettamente legato alla possibilità di considerare la descrizione della realtà fisica indipendente dalle particolari condizioni di osservazione. Con l'idea di interazione finita e incontrollata, il postulato quantistico aveva messo in discussione per la prima volta questa possibilità e segnato una brusca discontinuità con la fisica classica. Einstein non riconosceva la necessità di un postulato quantistico; perciò, coerentemente, chiedeva alla teoria di contenere una descrizione oggettiva del mondo fisico, indipendente cioè dalle nostre osservazioni.
Secondo Bohr, al contrario, il problema della descrizione andava affrontato alla luce di una situazione completamente nuova; esso richiedeva una soluzione razionale che riuscisse a conciliare l'elemento di individualità proprio della realtà dei processi quantistici, con l'esigenza di utilizzare comunque i concetti classici per interpretare i risultati sperimentali, ovvero di riferirsi a strumenti di descrizione che non solo erano definiti in contesti teorici ormai superati, ma soprattutto presupponevano l'indipendenza dell'evento dalla sua osservabilità.
Esisteva, a suo avviso, un'unica condizione razionale per superare questo conflitto: i simboli della meccanica quantistica possono essere interpretati senza ambiguità solamente nei casi in cui i suoi apparati matematici "permettono di predire i risultati che si dovrebbero ottenere con un dato dispositivo sperimentale descritto in modo completamente classico" (Bohr 1935b, p. 701). In altri termini, l'esistenza di vincoli linguistici, che ci obbligano a parlare di "posizione" o di "quantità di moto" per esprimere il risultato di una misura, non ha conseguenze di rilievo sul modo in cui il formalismo della meccanica quantistica rappresenta lo stato di un sistema e descrive la sua evoluzione. Questo perché è corretto associare ai simboli x o p, che compaiono nella funzione d'onda, i termini "posizione" o "quantità di moto" solo quando la teoria è in grado di prevedere quale sarà il risultato esatto di una misura, date certe condizioni di osservazione. Queste condizioni, come si è visto, per la teoria quantistica, delimitano le possibilità di definizione dei concetti classici, quindi assicurano che si possa dare un'interpretazione non ambigua della misura e stabiliscono una corrispondenza tra concetti definiti e simboli matematici. E riprendendo la portata più generale del principio formulato nel 1927 Bohr osservava che "solo la mutua esclusione di due procedure sperimentali consente una definizione non ambigua delle grandezze fisiche complementari e un uso non ambiguo dei concetti classici complementari" (ibidem, p. 700).
Coerentemente con l'idea di complementarità ripresa in questo contesto, dovremmo allora negare ogni fondamento sia alla premessa sia alla conclusione della dimostrazione di Einstein, Podolski e Rosen. Da una parte, è falsa l'asserzione secondo la quale in meccanica quantistica, "quando gli operatori corrispondenti a due quantità fisiche non commutano, le due quantità fisiche non possono avere una realtà simultanea". Dall'altra, è anche falsa la conclusione circa la realtà simultanea di queste quantità che si ricava dall'esperimento delle due particelle, poiché in essa non si tiene conto che le previsioni esatte sui valori di P e Q della seconda particella sono ricavate attraverso due successive operazioni di misura sulla prima, quindi da due diverse condizioni di osservazione e, ovviamente, da due diverse possibilità di definizione dei concetti associati a quei simboli.
Prevedendo proprio obiezioni di questo genere, Einstein, Podolsky e Rosen avevano scritto al termine del loro articolo:
In realtà, non si arriverebbe alla nostra conclusione insistendo sul fatto che due o più quantità fisiche possono essere considerate elementi simultanei della realtà 'solo quando esse possono essere misurate o previste simultaneamente'. Da questo punto di vista, poiché si può prevedere o l'una o l'altra delle due quantità P e Q, ma non tutte e due simultaneamente, esse non sono simultaneamente reali. Ciò fa sì che la realtà di P e Q dipenda dal processo di misura attuato sul primo sistema, che non disturba in alcun modo il secondo. Non ci si può aspettare che una ragionevole definizione di realtà permetta questo. (Einstein 1935, p. 780)
Essi escludevano questa possibilità, facendo ancora una volta appello a inevitabili conseguenze paradossali. Secondo il fisico danese, il problema non riguardava, però, né il disturbo né la realtà, ma solo i nostri concetti.
Rileggendo questi passi [scriverà alcuni anni dopo Bohr, a proposito della sua replica] mi rendo perfettamente conto dell'inefficacia del mio modo di esprimermi, che deve aver reso molto difficile cogliere il filo logico del ragionamento. Esso era inteso a mettere in evidenza la sostanziale ambiguità implicita nel fatto di riferirsi agli attributi fisici degli oggetti, quando ci si occupa di fenomeni in cui non si può fare alcuna distinzione netta tra il comportamento degli oggetti stessi e la loro interazione con gli strumenti di misura. (Bohr 1949, p. 234)
Forse Bohr, parlando di oscurità espositive, intendeva riferirsi ad affermazioni come "il termine 'realtà fisica' può essere riferito correttamente solo al fenomeno", da cui aveva tratto la conclusione, logicamente necessaria, circa l'arbitrarietà del giudizio di incompletezza della descrizione quanto-meccanica. Tuttavia, egli non metteva in discussione la validità degli argomenti utilizzati in quell'occasione; riconosceva soltanto che il criterio di realtà e il tentativo di confutazione di Einstein, Podolsky e Rosen lo avevano obbligato a precisare meglio alcuni aspetti delle sue precedenti formulazioni, i quali probabilmente potevano fornire lo spunto per obiezioni di questa natura; non a caso la sua replica si era sviluppata attorno ai concetti di 'interazione indeterminata' e di 'individualità del fenomeno'. Su tali concetti egli avrebbe sentito il bisogno di tornare in scritti successivi; questa volta il tema centrale della discussione riguardava un altro paradosso, e l'obiettivo della polemica non era più Einstein, bensì fisici che fin dall'inizio avevano sostenuto con convinzione l'interpretazione di Copenaghen.
"I paradossi quantistici": queste parole annotava Bohr in uno degli appunti preparatori della Conferenza di Como, e in un altro manoscritto affermava: "dal punto di vista della natura complementare dell'osservazione e della definizione sembra possibile trattare coerentemente i paradossi della teoria quantistica in pieno accordo con le esperienze più semplici" (ms. 12-13 ottobre 1927). I paradossi cui si riferiva Bohr sono quelli derivanti dalla cosiddetta natura duale della radiazione e della materia. Dirà Pauli, per illustrare la situazione nella quale si era venuta a trovare la fisica alla fine del 1926: "la differenza tra le conseguenze delle due immagini è altrettanto insormontabile quanto l'analoga differenza tra le due relazioni logiche 'o-o' e 'sia-sia'" (Pauli 1950 [1964, II, p. 1151]). Se ci riferiamo al classico esperimento mentale del fotone e delle due fenditure, secondo la rappresentazione corpuscolare il fotone non può che attraversare o una fenditura o l'altra; mentre, se prendiamo in considerazione la rappresentazione ondulatoria, al fine di interpretare l'interferenza prodotta, dobbiamo tener presente che la distribuzione risultante del fotone dipende ovviamente dai possibili percorsi delle onde parziali sia attraverso l'una, sia attraverso l'altra fenditura.
Come si è visto, le relazioni di Heisenberg mostravano che i paradossi erano scritti nelle formule semplici della teoria quantistica, dove compare la costante di Planck: in quelle formule, h fissa una relazione di proporzionalità diretta tra coppie di simboli ai quali sono associati concetti utilizzati, rispettivamente, per una rappresentazione ondulatoria o corpuscolare di un oggetto fisico. Il dualismo era dunque implicito nell'idea stessa di quanto di azione, e le relazioni di indeterminazione fornivano una soluzione tecnica relativamente agevole del paradosso: esse escludono, infatti, che nelle nostre osservazioni si verifichino situazioni sconcertanti come quelle a cui ci conduce qualsiasi tentativo di rappresentare visivamente il comportamento di un fotone; solo in questo caso ci troveremmo "di fronte alla difficoltà di dover dire, da un lato, che il fotone sceglie sempre 'una' delle due direzioni e, dall'altro, che si comporta come se le avesse percorse 'entrambe'" (Bohr 1949, p. 222).
Nessuna contraddizione dovremmo invece cogliere nell'uso della descrizione ondulatoria e della descrizione corpuscolare, visto che una delle conseguenze della teoria è mostrare che gli esperimenti a cui si possono applicare quelle diverse descrizioni sono tra loro incompatibili. Non si tratta perciò di assegnare a un fotone o a un elettrone una natura duale, ma di riconoscere che nello studio di un fenomeno quantistico gli esperimenti descrivibili con il linguaggio delle onde e quelli descrivibili con il linguaggio dei corpuscoli si escludono a vicenda. Le relazioni di indeterminazione rendono infatti conto di un'interazione indeterminata tra oggetto e apparato di misura, per cui ogni misura tendente a determinare la direzione di propagazione di un fotone impedisce lo studio del fenomeno di interferenza; viceversa, un esperimento di interferenza esclude la possibilità di seguire il fotone nello spazio e nel tempo. Nel già citato saggio del 1949, Bohr sottolineava che questo era un punto "di grande importanza logica, poiché solo il fatto che ci troviamo di fronte alla scelta 'o' di tracciare il percorso di una particella 'oppure' di osservare gli effetti di interferenza ci permette di sfuggire alla necessità paradossale di concludere che il comportamento di un elettrone o di un fotone dipenderebbe dalla presenza di una fenditura del diaframma, attraverso la quale si potrebbe dimostrare che non è passato" (ibidem, pp. 217-218).
Questa, tuttavia, non può che essere la soluzione tecnica del paradosso, perché se davvero la meccanica quantistica si limitasse a giustificare in tali termini la coesistenza di concezioni contraddittorie circa la natura fisica degli oggetti microscopici, essa non sarebbe affatto immune dal genere di obiezioni sollevate da Einstein. D'altra parte, per superare realmente quei paradossi, dissolvendoli, era necessario cogliere il nesso tra le limitazioni imposte dalle relazioni di Heisenberg all'uso dei concetti classici e la natura discontinua dei processi microscopici; il che richiedeva, in ultima analisi, che si esplicitasse il significato del concetto di 'interazione indeterminata'. Ma su questo il fronte dei sostenitori dell'interpretazione di Copenaghen era molto meno compatto di quanto si è soliti sostenere.
Nel 1933, in occasione del conferimento del premio Nobel, Werner Karl Heisenberg tornava sui problemi interpretativi della meccanica quantistica chiarendo definitivamente la propria posizione. A suo avviso, mentre lo scopo della fisica classica è l'indagine dei processi oggettivi che avvengono nello spazio e nel tempo, "nella teoria quantistica la situazione è completamente diversa. Proprio il fatto che il formalismo della meccanica quantistica non può essere interpretato come una descrizione visiva di un fenomeno nello spazio e nel tempo mostra che la meccanica quantistica non si occupa in alcun modo della determinazione oggettiva dei fenomeni spazio-temporali" (Heisenberg 1965, p. 296). La causa di questo ribaltamento di prospettiva interpretativa sarebbe, per Heisenberg, il fatto che, "mentre nella teoria classica la modalità di osservazione non ha alcuna influenza sull'evento, nella teoria quantistica il disturbo associato con ogni osservazione del fenomeno atomico ha un ruolo decisivo" (ibidem, p. 297).
La perturbazione discontinua del sistema costituisce dunque un elemento determinante nella valutazione dei limiti di ogni descrizione spazio-temporale; le relazioni di indeterminazione vengono così interpretate come una legge della teoria che esprime l'essenza di ogni processo di misura, dove una parte della perturbazione resta fondamentalmente sconosciuta:
La determinazione sperimentale di qualunque evento spazio-temporale richiede in ogni caso un sistema di riferimento 'fissato' cioè un sistema di coordinate in cui l'osservatore è in quiete ‒ cui riferire tutte le misure. L'assunzione che questo sistema sia 'fissato' implica che si ignori dall'inizio la sua quantità di moto, poiché 'fissato' implica, ovviamente, niente altro che ogni quantità di moto trasferita a esso non evochi alcun effetto percettibile. A questo punto, l'indeterminazione fondamentalmente necessaria è così trasmessa 'via' l'apparato di misura all'evento atomico. (ibidem, p. 298)
Era perciò necessario abbandonare lo schema della fisica classica, che tende a oggettivare i risultati delle osservazioni, riferendosi a processi spazio-temporali che obbediscono a leggi, o meglio riconoscere che questo schema entra in conflitto con il carattere non visualizzabile degli eventi, simbolizzato dalla costante di Planck. E da qui Heisenberg concludeva, a proposito dei limiti di validità della meccanica classica: "La fisica classica rappresenta quello sforzo di studiare la Natura in cui si cerca di ricavare dalle osservazioni conclusioni su processi oggettivi e si ignora così l'influenza che ogni osservazione ha sull'oggetto da osservare; quindi, la fisica classica ha i suoi limiti nel punto a partire dal quale l'influenza dell'osservazione sull'evento non può essere più ignorata" (ibidem, p. 299).
È dunque chiaro che per Heisenberg l'interazione indeterminata riguarda le conseguenze di un effetto fisico di natura discontinua, di una perturbazione che interviene in ogni osservazione; in questo egli mostrava di essere rimasto fermo alle posizioni che aveva difeso, contro Bohr, nella primavera del 1927. Ma allora, come si è detto, sarebbero perlomeno comprensibili le critiche di Einstein e non avrebbe nulla di arbitrario la sua convinzione che vi sia "qualcosa come lo stato reale di un sistema fisico, che esiste oggettivamente, indipendentemente da ogni osservatore o misura, e che può essere descritto, almeno in linea di principio, con i mezzi di espressione della fisica" (Einstein 1953, p. 6). Certamente, il punto di vista di Heisenberg non impediva che questa tesi potesse dar vita a un programma di ricerca alternativo; e non a caso anche Einstein leggeva le relazioni di indeterminazione come una 'perdita di conoscenza' di una parte del sistema, provocata dal procedimento di misura. D'altronde, come trovare in quel modo di intendere l'idea di interazione indeterminata argomenti convincenti per evitare i commenti ironici di Erwin Schrödinger alle risposte evasive dietro le quali, a suo avviso, erano soliti trincerarsi i sostenitori del punto di vista ufficiale? Secondo Schrödinger, quelle risposte avevano il solo pregio "di essere inattaccabili perché basate sul principio semplice e sicuro che la sana e sobria realtà, per gli scopi della scienza, coincide con ciò che è (o può essere) osservato" e perché davano per scontato "che ciò che è o può essere osservabile coincide esattamente con ciò che alla meccanica quantistica piace chiamare osservabile" (Schrödinger 1955, p. 15). Schrödinger aveva perfettamente ragione nel sottolineare che le radici della controversia andavano cercate nel significato che si attribuiva al principio metodologico secondo cui "è la teoria a decidere che cosa possiamo osservare" (ibidem).
A questo tipo di obiezioni Heisenberg contrapponeva unicamente una presa di posizione sui limiti conoscitivi della teoria, la quale, appunto, non si occupa della determinazione oggettiva dei fenomeni spazio-temporali. Nel suo ragionamento, si doveva infatti ammettere implicitamente che lo stato di un sistema fosse definibile indipendentemente da ogni processo di osservazione; le relazioni di indeterminazione rendevano allora conto dell'effetto fisico per cui le nostre osservazioni, a causa di un'interazione finita con il sistema da parte dell'apparato, ci permettono soltanto di raccogliere informazioni incomplete su quello stato.
In ciò egli non si discostava molto dall'atteggiamento di quei fisici che, alla fine dell'Ottocento, ricercavano ipotesi plausibili per spiegare perché non possiamo misurare la velocità assoluta della Terra, come dovrebbe essere assumendo la concezione classica dello spazio e del tempo assoluti. In entrambi i casi, si tentava di spiegare l'impossibilità di determinare sperimentalmente un aspetto della realtà. Ma così si rinuncia a priori ad analizzare le assunzioni che rendevano necessarie quelle previsioni inosservabili, e si rinuncia a riflettere sul grado di arbitrarietà di tali assunzioni alla luce delle nuove leggi della fisica. Bohr rifiutava il punto di vista di Heisenberg, proprio perché coglieva in esso gli argomenti sui quali faceva leva la critica di Einstein:
in particolare non sarebbe fuori luogo a questo proposito mettere in guardia contro un equivoco che verosimilmente sorge quando si cerca di esprimere il contenuto delle ben note relazioni di indeterminazione di Heisenberg […] con questa affermazione: "la posizione e la quantità di moto di una particella non possono essere misurate simultaneamente con quanta accuratezza vogliamo". Secondo questa formulazione, sembrerebbe come se avessimo a che fare con una rinuncia arbitraria della misura dell'uno o dell'altro dei due attributi ben definiti dell'oggetto; ciò non precluderebbe la possibilità di una teoria futura che prenda in considerazione entrambi gli attributi in linea con la fisica classica. Dalle considerazioni precedenti dovrebbe essere chiaro che la situazione della fisica atomica nel suo insieme priva di ogni significato attributi intrinseci quali quelli che le idealizzazioni della fisica classica tenderebbero ad attribuire all'oggetto. (Bohr 1937, pp. 292-293)
Al contrario, fa osservare Bohr,
il ruolo corretto delle relazioni di indeterminazione consiste nell'assicurare quantitativamente la compatibilità logica di leggi apparentemente contraddittorie, le quali compaiono quando usiamo due diversi dispositivi sperimentali, di cui solo uno permette un uso non ambiguo del concetto di posizione, mentre solo l'altro permette l'applicazione del concetto di quantità di moto quale è definito esclusivamente mediante la legge di conservazione. (ibidem)
Per Bohr, come per Pauli, l'obiettivo primario era esplicitare il significato e le conseguenze fisiche e teoriche della scoperta planckiana dell'indivisibilità del quanto di azione; e non è certo casuale che entrambi vedessero in questo una stretta analogia con quanto era avvenuto in fisica con la scoperta di un'altra costante della Natura, la velocità delle luce. A loro avviso, non c'era alcun problema particolare riguardante la perturbazione dello strumento sull'oggetto osservato. L'interrogativo corretto era un altro: che cosa accade se in linea di principio, cioè per la natura stessa dei processi fisici, l'interazione resta in ogni caso indeterminata e non può essere tenuta sotto controllo neppure con un raffinamento degli strumenti? Quali concetti fisici e quali categorie interpretativi siamo obbligati a modificare con l'avvento dell'idea di discontinuità?
Sembrava quasi che essi seguissero alla lettera gli insegnamenti metodologici di Einstein che nel 1905, abbandonando i presupposti della fisica dell'etere, si era chiesto quali concetti e quali categorie fosse necessario modificare se si assumeva l'esistenza di un limite alla velocità di propagazione dell'azione, e quale nuova immagine della realtà fosse compatibile con la nuova teoria. Proprio perché Pauli e Bohr ritenevano che questa fosse la domanda fondamentale assumevano la finitezza del quanto di azione e la discontinuità o individualità dei processi atomici come postulato della nuova meccanica.
Le idee di 'discontinuità' e di 'individualità' mettono in luce aspetti della realtà che sono del tutto estranei alle teorie classiche, così come il postulato della velocità della luce riguarda aspetti della realtà che sono incomprensibili per la concezione dello spazio e del tempo della meccanica newtoniana. L'interazione indeterminata associata a ogni processo di misura è la conseguenza osservativa dell'individualità dei processi atomici e delle leggi della meccanica quantistica, cosi come la dipendenza della simultaneità degli eventi dallo stato di moto dell'osservatore è, per la teoria della relatività, la conseguenza osservata del postulato della velocità della luce e delle leggi dell'elettromagnetismo. E in entrambi i casi le conseguenze dei postulati implicano una violazione del senso comune. La relazione tra 'interazione indeterminata' e 'individualità del fenomeno' va intesa nel senso che, ogni qualvolta tentiamo di fare oggetto di indagine l'interazione che resta indeterminata nel corso di una misura ‒ per esempio, la quantità di moto quando eseguiamo una misura di posizione ‒ dobbiamo utilizzare un nuovo dispositivo sperimentale; un dispositivo che dà luogo inevitabilmente a una nuova interazione indeterminata e quindi a un fenomeno totalmente nuovo.
Ogni processo atomico possiede allora una sua intrinseca individualità, in quanto, come affermava Bohr, ogni tentativo di suddividere il fenomeno, ossia di controllare gli aspetti che restano indeterminati una volta scelto un certo dispositivo sperimentale, origina sempre un fenomeno differente. Si deve perciò concludere che ogni fenomeno è determinato univocamente ed è inseparabile dalle condizioni sperimentali nelle quali si manifesta; in questo senso, secondo Bohr, la meccanica quantistica sviluppa l'idea relativistica della dipendenza dei fenomeni dal sistema di riferimento. Tuttavia la dipendenza di cui parla la meccanica quantistica esprime una condizione ancora più forte, perché esclude ogni possibilità di descrivere in modo univoco gli oggetti atomici tramite le usuali proprietà fisiche, ovvero di descrivere i fenomeni indipendentemente dal 'modo' in cui sono stati osservati.
La revisione del concetto classico di fenomeno richiedeva, per Pauli, "la possibilità logica di un nuovo e più ampio modello di pensiero", il quale ci obblighi a prendere in considerazione "l'osservatore, comprendendo l'apparato da lui usato, in modo diverso da come avviene nella fisica classica". L'osservatore non ha più la posizione distaccata o nascosta che gli viene implicitamente riconosciuta dalle idealizzazioni dei modelli classici di descrizione, ma, come dice Pauli, è "un osservatore che con i suoi effetti indeterminabili crea [ogni volta] una nuova situazione" (Pauli 1954 [1964, I, p. 1131]). In quel modello di pensiero si tiene infatti conto che ogni osservazione è il risultato di una libera scelta da parte dell'osservatore tra procedure sperimentali che si escludano l'una con l'altra. Tuttavia, per Bohr, questa scelta non implicava, come invece riteneva Heisenberg, alcuna rinuncia sul piano conoscitivo; essa era piuttosto la conseguenza, implicita nel postulato quantistico, "del riconoscimento che un'analisi [più particolareggiata dei fenomeni atomici] è esclusa 'in linea di principio'". Proprio per evitare le obiezioni cui si prestava il ragionamento di Heisenberg, egli sconsigliava l'uso di
frasi, che si trovano spesso nella letteratura fisica, come 'disturbare il fenomeno per mezzo di osservazioni' o 'creare attributi fisici a oggetti atomici per mezzo di misurazioni'. Queste frasi, che possono servire a rammentare i paradossi apparenti della teoria quantistica, possono al tempo stesso creare confusione, poiché parole come 'fenomeni' e 'osservazioni', cosi come 'attributi' e 'misurazioni', sono usate in un modo difficilmente conciliabile con il linguaggio comune e la loro definizione pratica. (Bohr 1949, p. 235)
Per rendere conto del nuovo stato di cose, egli suggeriva di utilizzare la "'parola fenomeno' esclusivamente per riferirci alle osservazioni ottenute in circostanze ben definite, comprendenti una descrizione dell'intero congegno sperimentale" (ibidem, p. 237). Il fenomeno ha dunque una sua individualità che si manifesta nell'impossibilità concettuale di operare una netta separazione tra il sistema fisico, classicamente definibile e descrivibile in modo indipendente da ogni osservazione, e lo strumento di misura, mediante il quale quel sistema può essere osservato. L'osservatore, fissando le condizioni nelle quali un oggetto atomico viene osservato, compie ogni volta un intervento di portata indeterminata, fissa cioè i vincoli per il corso del fenomeno, senza tuttavia influenzare con ciò il risultato della misura.
Il paradosso del dualismo scompare tecnicamente, come abbiamo visto, se si tiene conto che ogni descrizione è sempre riferita a una particolare situazione sperimentale e riguarda fenomeni singoli. In questo contesto, il paradosso può essere allora soltanto il risultato di un presupposto filosofico: perché esso esista si deve, infatti, ammettere che le immagini classiche delle onde e dei corpuscoli, con cui descriviamo di volta in volta i fenomeni singoli, si riferiscano anche a proprietà possedute dai sistemi, indipendentemente da qualsiasi interazione con gli strumenti di osservazione. Così, nella descrizione dei processi quantistici, è ancora possibile utilizzare i concetti classici di "posizione", "velocità", "frequenza" senza cadere negli esiti catastrofici del dualismo, solo se si rinuncia a tale presupposto filosofico; o meglio, solo se si riconosce che esso deriva da un'assolutizzazione arbitraria di un'immagine scientifica del mondo. Il paradosso si dissolve solamente se si ammette ‒ per usare un modo di esprimersi tradizionale ‒ che l'uso dei concetti classici per descrivere le manifestazioni fenomeniche degli oggetti non implica necessariamente che gli oggetti stessi possiedano proprietà corrispondenti a quei termini anche quando non sono osservati.
I paradossi della realtà si trasformano così in paradossi del nostro linguaggio e delle sue diverse funzioni descrittive rispetto a ciò che si ritiene sia l'oggetto della descrizione. E se vogliamo tradurre il ragionamento precedente su questo nuovo piano, dobbiamo necessariamente concludere che i paradossi scompaiono solo se si rinuncia a credere che quel linguaggio rifletta una struttura della realtà e si riconosce che le nostre descrizioni non sono indipendenti dal punto di vista scelto dall'osservatore per descrivere la realtà con il linguaggio di cui dispone. Questa è, tra l'altro, la conseguenza del processo di astrazione concettuale che accompagna la crescita della conoscenza e che nella microfisica comporta che il linguaggio formale con cui si esprime la teoria non sia più in grado di suggerire un'immagine intuitiva e visualizzabile della realtà.
Nel suo ultimo scritto, Planck faceva notare che la differenza sostanziale tra la meccanica classica e la meccanica quantistica, derivante dall'introduzione del quanto di azione, non riguardava la dibattutissima questione della causalità e del determinismo; piuttosto, a suo parere, il dato realmente nuovo di cui bisognava prendere atto era che il significato di ogni simbolo presente nella teoria non è più "immediatamente e direttamente intelligibile". Se, infatti, è vero che la funzione d'onda della meccanica quantistica è "completamente determinata per tutti i punti e tutti i tempi dalle condizioni iniziali e al contorno", allora "il principio del determinismo è rigorosamente valido nell'immagine del mondo della meccanica quantistica come in quella della fisica classica" (Planck 1964, pp. 401-402). "La differenza", aggiungeva Planck, "sta solo nei simboli e nella matematica" una differenza che, come è espresso rigorosamente dalle relazioni di Heisenberg, si riflette in "un'incertezza nella traduzione" dei simboli, dal linguaggio teorico al linguaggio con cui descriviamo i risultati delle nostre osservazioni. è proprio l'incertezza di questa traduzione che ci obbliga a riconoscere che "il significato di un certo simbolo non ha un senso definito, a meno che non si precisino le condizioni del particolare strumento di misura" (ibidem) usato per tradurre quel simbolo in un termine del nostro linguaggio. L'incertezza delle nostre previsioni, concludeva Planck, si riduce così a un'incertezza nella traduzione tra termini di due linguaggi differenti. Di questa incertezza tengono conto le leggi della meccanica quantistica, dove la funzione d'onda "non ci dà i valori delle coordinate in funzione del tempo, ma semplicemente la probabilità che le coordinate possiedano certi valori in determinati istanti" (ibidem). "La questione", dirà Bohr, ricordando le discussioni alla V Conferenza Solvay
era se, per ciò che riguarda i singoli effetti, si dovesse adottare una terminologia proposta da Dirac, secondo la quale ci troviamo di fronte a una scelta compiuta dalla 'Natura', o se invece come suggeriva Heisenberg, dovessimo dire che la scelta era compiuta dall'osservatore che costruisce gli strumenti di misura e legge ciò che essi registrano. Qualsiasi terminologia del genere, tuttavia, sembrerebbe dubbia, poiché da una parte è poco ragionevole attribuire alla Natura una volizione nel senso comune della parola, e dall'altra, non è certo possibile all'osservatore influenzare gli eventi che possono verificarsi nelle condizioni da lui predisposte. A mio avviso, l'unica alternativa sta nell'ammettere che, in questo campo dell'esperienza, ci troviamo di fronte a fenomeni individuali, e che le nostre possibilità di adoperare gli strumenti di misura ci permettono solo di fare una scelta fra i diversi tipi di fenomeni complementari che vogliamo studiare. (Bohr 1949, p. 223)
La differenza fondamentale tra la descrizione classica e la descrizione quanto-meccanica della realtà fisica nasce, dunque, da una ridefinizione dello stesso concetto di fenomeno e dalle conseguenze inevitabili della distinzione operata in questo caso tra l'apparato di misura e l'oggetto in esame. Nel mondo degli atomi e delle particelle, l'interazione prodotta in ogni processo di misura forma una parte inseparabile del fenomeno: questa è la conseguenza non del contrasto tra il carattere macroscopico degli strumenti e quello microscopico dei processi elementari, ma di una nuova legge di Natura, che ci obbliga ad abbandonare il requisito di continuità proprio delle nostre forme di rappresentazione. D'altra parte, nello stesso concetto di descrizione è implicita l'assunzione di una separabilità di principio tra il fenomeno descritto e gli strumenti attraverso i quali raccogliamo i dati per la descrizione.
L'idea di complementarità esprime allora il carattere mutuamente esclusivo delle descrizioni riferite a particolari condizioni di osservazione e quindi a fenomeni individuali; d'altra parte, la meccanica quantistica può ammettere soltanto descrizioni complementari, perché ciascuna di esse presuppone un'operazione concettuale di distinzione tra oggetto e apparato incompatibile con la natura del fenomeno quantistico. In questo senso, si può allora affermare che "le condizioni reali di misura costituiscono un elemento inerente alla descrizione di ogni fenomeno", per cui una realtà indipendente nel significato ordinario non può essere assegnata né al fenomeno, né allo strumento di osservazione; piuttosto l'accento va messo, come ricordava Bohr in una lettera a P.A.M. Dirac, sul carattere soggettivo dell'idea di osservazione e sul contrasto che esiste tra questa e l'idea classica di oggetto isolato.
La meccanica quantistica solleva dunque, per Bohr, il "vecchio problema filosofico dell'esistenza oggettiva dei fenomeni indipendentemente dalle nostre osservazioni" arricchendolo di nuovi significati: "la scoperta del quanto di azione mostra non solo i limiti naturali della fisica classica, ma pone la scienza della Natura in una situazione del tutto nuova […]; ogni osservazione richiede un'interferenza sul corso del fenomeno che è di natura tale da privarci dei fondamenti che sono alla base del modo di descrizione causale" (Bohr 1930, p. 77). E, criticando quanti tendevano a interpretare la fisica quantistica come la conferma di particolari indirizzi filosofici, per esempio del positivismo, Pauli faceva notare che "la situazione gnoseologica di fronte alla quale si trova la fisica moderna non era stata prevista da alcun sistema filosofico" (Pauli 1950 [1964, II, p. 1150]).
In verità, se questa situazione era del tutto sconosciuta e nuova per le implicazioni relative all'abbandono della causalità, non lo era affatto, secondo Bohr, sia per quanto riguarda il problema della realtà fisica, sia per quanto riguarda l'indipendenza dei fenomeni dalle condizioni di osservazione. E a Einstein Bohr ricordava che era stata la relatività a richiamare per la prima volta la nostra attenzione sulla "dipendenza essenziale di ogni fenomeno fisico dal sistema di riferimento dell'osservatore". Essa aveva permesso, infatti, di "chiarire i paradossi legati alla velocità finita della luce e il giudizio sugli eventi da parte di osservatori in moto relativo, mostrando l'arbitrarietà contenuta proprio nel concetto di simultaneità, e suggerendo quindi un atteggiamento più libero sul problema della coordinazione spazio-temporale". Sul piano concettuale essa ci obbliga, infatti, a rinunciare all'abituale separazione delle idee di spazio e di tempo se non vogliamo precluderci la comprensione delle leggi della fisica.
La meccanica quantistica non fece altro, secondo Bohr, che sviluppare quella revisione del nostro atteggiamento verso la realtà fisica, avviata dalla relatività di Einstein, il quale aveva contribuito "alla fondamentale modifica di tutte le idee riguardanti il carattere assoluto dei fenomeni fisici":
Abbiamo imparato dalla relatività che l'espediente della netta separazione di spazio e tempo, richiesto dai nostri sensi, dipende puramente dal fatto che le velocità di cui si tratta comunemente sono piccole rispetto alla velocità della luce. Similmente, possiamo dire che la scoperta di Planck ci ha portato a riconoscere che la correttezza del nostro atteggiamento tradizionale, che è caratterizzato dal requisito della causalità, dipende dal piccolissimo valore del quanto di azione rispetto alle azioni con cui abbiamo a che fare nei fenomeni ordinari. (Bohr 1930, p. 77)
Nelle obiezioni rivolte all'interpretazione della meccanica quantistica e soprattutto nell'articolo del 1935, Einstein sembrava, invece, dimenticare la grande lezione che la relatività aveva dato a proposito del problema della realtà fisica. Così scriveva Paul Ehrenfest a Samuel Goudsmit, George E. Uhlenbeck e Gerhard Heinrich Dieke il 3 novembre del 1927:
È stato per me molto piacevole essere presente durante le conversazioni tra Bohr e Einstein. Come un gioco di scacchi. Einstein tutto il tempo con nuovi esempi […] Bohr circondato da nuvole di fumo filosofico costantemente alla ricerca di argomenti per abbattere un esempio dopo l'altro. Ma io sono sempre senza riserve dalla parte di Bohr e contro Einstein. Il suo atteggiamento nei confronti di Bohr è ora esattamente uguale all'atteggiamento dei difensori della simultaneità assoluta verso di lui. (in: Bohr 1985, p. 38)