La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. Rivolgimenti sociali e politiche della scienza
Rivolgimenti sociali e politiche della scienza
Tra le vittime della Prima guerra mondiale, costata quasi trenta milioni di morti, vi fu anche l'illusione, ampiamente diffusa nei cinquant'anni precedenti, che il progresso materiale e sociale fosse una conseguenza naturale dello sviluppo della scienza e della tecnologia. La guerra diede ragione a quanti sostenevano che l'avanzamento delle conoscenze scientifiche si sarebbe tradotto in un immenso aumento di potenza distruttiva. L'importanza strategica della scienza fu riconosciuta durante la guerra dai governi della maggior parte dei paesi belligeranti, con l'istituzione di apposite agenzie incaricate di indirizzare la ricerca verso obiettivi militari. Le dimensioni e l'assurdità della catastrofe convinsero molti che doveva esserci qualcosa di sbagliato nell'ottimistica visione del mondo condivisa dalla maggioranza prima della guerra, con la sua fede ingenua nel progresso, nella ragione, nel sapere scientifico, nella civiltà e nella democrazia rappresentativa. Le difficoltà economiche, le rivoluzioni e controrivoluzioni e, infine, la Grande depressione rafforzarono la sensazione che si fosse avviata una crisi della società moderna, che nel periodo tra le due guerre coinvolse, almeno temporaneamente, quasi tutte le nazioni più avanzate dal punto di vista scientifico e tecnologico. Le manifestazioni concrete della crisi e le diagnosi sulle cause variarono da paese a paese. Si aprì così un acceso dibattito tra le diverse correnti di pensiero del dopoguerra riguardo a quali elementi della visione prebellica del mondo si dovessero salvare e quali rifiutare.
La varietà degli atteggiamenti verso la scienza rifletteva queste divergenze di fondo. Alcuni la ritenevano responsabile della catastrofe dell'Europa, altri l'accusavano di aver fornito la giustificazione darwiniana del conflitto o di essersi trasformata, per un eccesso di materialismo. Altri pensavano che il problema principale fosse il divario tra il potere di dominare le forze naturali raggiunto dall'umanità e la sua capacità di imporsi regole morali e sociali, e chiedevano la proclamazione di una moratoria sulla ricerca scientifica. Altri assolvevano la scienza e accusavano la società capitalista di aver fatto un cattivo uso del sapere scientifico. Tutti riconoscevano che vi era qualcosa che non funzionava nel complesso rapporto tra società e scienza.
Tra la fine del XIX sec. e l'inizio del XX l'ascesa del nazionalismo fu accompagnata da una serie di iniziative internazionali ‒ esposizioni universali, gare sportive, congressi scientifici ‒ che servivano anche da arena per le ambizioni e l'orgoglio nazionale delle grandi potenze. La Prima guerra mondiale distrusse questo sistema di aperta competizione internazionale e, per quasi un decennio dopo la sua conclusione, gli scienziati rimasero barricati all'interno di 'campi ostili', al punto da indurre alcuni perfino a dubitare del carattere universale e sopranazionale del sapere scientifico. Gli scienziati della parte vittoriosa, soprattutto i belgi e i francesi, denunciarono l'internazionalismo prebellico della Germania (che aveva aperto le sue università agli studenti stranieri e le sue riviste agli autori di altre nazioni) come un sottile espediente mirante al raggiungimento dell'egemonia scientifica a livello mondiale. Temendo un ritorno dell'imperialismo culturale germanico, essi fondarono il nuovo ordine scientifico internazionale sul principio delle alleanze politiche: l'International Union of Academies e l'International Research Council, creati nel 1919, comprendevano solo i paesi alleati e i loro sostenitori, mentre le nazioni neutrali furono invitate ad aderire a certe condizioni. Gli Imperi centrali erano rigidamente esclusi e i loro scienziati non potevano partecipare ai convegni ufficiali e agli scambi scientifici internazionali. Il boicottaggio scientifico della Germania e dell'Austria, per quanto non assoluto, durò con decrescente efficacia per circa otto anni e per alcuni aspetti si prolungò anche oltre.
Gli accademici tedeschi, non meno nazionalisti dei loro colleghi dei paesi vincitori, mostrarono un analogo risentimento nei confronti degli scienziati francesi, inglesi e, in misura minore, americani. L'eccellenza in campo scientifico fu vista come un segno della superstite grandezza del loro paese e come un surrogato della sua perduta potenza, Machtersatz. I portavoce del mondo scientifico proclamarono che era loro dovere sociale e nazionale mantenere la scienza germanica al livello raggiunto prima della guerra e cercare di salvarne il prestigio internazionale. I fautori di questo nuovo internazionalismo, o imperialismo culturale, volsero la loro attenzione ai paesi neutrali e, in particolare, ai paesi scandinavi, alle nuove nazioni dell'Europa orientale, alla Turchia e al Giappone. Albert Einstein, che si era opposto alla guerra nel 1914, nel 1918 accolse con favore la rivoluzione e la nascita della Repubblica di Weimar. I politici di Weimar videro in lui un'importante carta da giocare nelle relazioni diplomatiche con i nemici di un tempo, con i quali desideravano riallacciare i rapporti.
Nel 1919 Arthur S. Eddington (1882-1944) confermò l'esattezza di una delle più importanti implicazioni della teoria della relatività in campo astronomico, dando origine a quel clamore mediatico che trasformò Einstein in una celebrità mondiale. Eddington, un seguace del pacifismo, sperava di favorire il ritorno di un genuino internazionalismo della scienza e definì lo scalpore che egli aveva contribuito a suscitare "il meglio che potesse succedere per le relazioni scientifiche tra Inghilterra e Germania". I nazionalisti della Royal Astronomical Society, tuttavia, si mobilitarono per impedire l'assegnazione della medaglia d'oro a Einstein. Egli dovette aspettare il 1922 prima di potersi recare a Parigi su invito di Paul Langevin e anche allora con mille precauzioni per evitare le proteste antitedesche. Nel 1923 rifiutò un invito alla Conferenza Solvay per solidarietà con i colleghi tedeschi, nessuno dei quali era stato invitato. Allo stesso tempo, in Germania la teoria della relatività era accusata dalla destra di far parte del complotto comunista ed ebraico e, nel 1920, fu attaccata da Philipp Lenard durante un convegno pubblico della Società degli scienziati e medici tedeschi.
L'internazionalismo tornò ad affermarsi lentamente, grazie anche al contributo dell'International Education Board della Rockefeller Foundation, organizzato da Wickliffe Rose. Nel 1924 l'istituto iniziò a finanziare vari centri di ricerca europei disposti ad accogliere studenti stranieri in attesa di una specializzazione. Solo le piccole nazioni neutrali erano in grado di ospitare centri di questo genere. I paesi scandinavi avevano capito, già nel 1917, che il compito di ristabilire la collaborazione scientifica internazionale, e la conseguente opportunità di giocare un ruolo più importante nella politica mondiale, sarebbe toccato a loro. Decisero quindi di aderire alle associazioni internazionali controllate dai paesi dell'Intesa, ma si riservarono il diritto di mantenere contatti accademici con gli scienziati tedeschi soggetti all'ostracismo. La nazione che seppe svolgere meglio questo compito fu la Svezia, grazie a un sapiente dosaggio nell'assegnazione dei premi Nobel. Niels Bohr si servì delle sue notevoli capacità diplomatiche e dei fondi della Rockefeller Foundation e dello Stato danese, per trasformare Copenaghen nel centro mondiale della fisica teorica, frequentato dagli scienziati delle altre nazioni neutrali, dei vecchi Imperi centrali, del Giappone, degli USA, della Gran Bretagna e dell'Unione Sovietica.
La Russia sovietica rimase isolata fino al 1921, quando gruppi di eminenti scienziati furono inviati in Europa nella speranza di ristabilire i contatti accademici e favorire così il riconoscimento diplomatico del governo bolscevico. In alcuni casi ci vollero dieci anni per raggiungere entrambi gli obiettivi. Per tutti gli anni Venti, l'Unione Sovietica mantenne intense relazioni accademiche con la Germania di Weimar, un altro paria internazionale. Benché il boicottaggio nei loro confronti non fosse più applicato dopo il 1926, gli scienziati tedeschi, ancora indignati per le recenti discriminazioni, si rifiutarono di aderire all'International Research Council e successivamente all'International Council of Scientific Unions, anche quando furono invitati a farlo nel 1931: l'internazionalismo non aveva mai recuperato appieno la sua forza. Il nazionalismo e l'isolazionismo tornarono a dominare il mondo scientifico tedesco dopo la vittoria di Hitler nel 1933. Il deterioramento delle relazioni internazionali e l'avvicinarsi di un nuovo conflitto mondiale indussero i filantropi della Rockefeller Foundation a ridurre le loro attività in Europa. L'Unione Sovietica interruppe i rapporti con la Germania nazista e, in seguito, anche con la maggior parte delle altre nazioni, fino a sprofondare nella totale autarchia. Nel 1939 lo scoppio della guerra completò l'inversione di tendenza, rinchiudendo gli scienziati in campi contrapposti.
La crisi economica esplosa subito dopo la fine della Prima guerra mondiale influì sia sui contenuti sia sul contesto della ricerca scientifica. Gli accademici di lingua tedesca subirono una dolorosa perdita di prestigio e di potere economico. Emarginati dal nuovo ordine democratico, essi finirono per rimpiangere il periodo precedente come una specie di età dell'oro. Molti di loro simpatizzavano con l'opposizione reazionaria al governo repubblicano e condividevano l'idea, sostenuta da alcuni ideologi conservatori, che la scienza fosse stata contagiata dal meccanicismo e dal materialismo. I discorsi sulla 'crisi della scienza', riguardanti non solo le difficoltà della professione accademica, ma anche i metodi e i concetti del sapere esistente, divennero uno dei loro argomenti preferiti. La consapevolezza della crisi non rimase confinata agli Imperi centrali. Nel 1919 Paul Ehrenfest confessò a Bohr di sentirsi sempre più emarginato nei Paesi Bassi per le sue idee razionaliste, in seguito al diffondersi del misticismo tra gli studenti delle materie tecniche e scientifiche.
Nei paesi europei e negli Stati Uniti, in quella parte dell'opinione pubblica che professava qualche forma di ideologia razzista, le angosce del dopoguerra si tradussero nella diffusa convinzione che fosse in atto un processo di degenerazione della razza. La scienza sembrava confermare questi timori. I seguaci del darwinismo sociale si preoccupavano che la civiltà moderna fosse divenuta così compassionevole da consentire la sopravvivenza di tutti gli individui, e non solo dei più adatti, impedendo al meccanismo dell'evoluzione naturale di funzionare tra gli esseri umani. I seguaci dell'eugenetica, influenzati dalla scoperta di caratteristiche la cui trasmissione non è condizionata da fattori ambientali, sostenevano che le capacità intellettuali e i modelli di comportamento degli individui dipendono in misura determinante da cause ereditarie. Nate in Inghilterra, queste teorie si diffusero rapidamente all'estero, incontrando l'appoggio di tutti coloro che erano convinti di appartenere a una élite geneticamente superiore.
La guerra suscitò il timore che perfino questa superiorità innata potesse rivelarsi vulnerabile, in mancanza di un'adeguata difesa della razza. I risultati del programma di valutazione del quoziente intellettivo dei soldati americani, pubblicati nel 1921, sembrarono fornire una giustificazione empirica di queste paure. Durante la Prima guerra mondiale oltre un milione di reclute fu sottoposto ai test, messi a punto dagli psicologi Robert M. Yerkes e Henry H. Goddard sulla base di un'idea francese. I risultati confermarono i loro autori nella convinzione che gli individui bianchi, anglosassoni e protestanti possedessero una 'intelligenza innata' superiore a quella degli immigrati in tempi più recenti dall'Europa meridionale e orientale, i quali a loro volta battevano i neri, ma i punteggi medi furono comunque così bassi che quasi la metà delle nuove reclute fu classificata tra i 'ritardati mentali'. L'unica speranza di trovare una soluzione al problema della degenerazione della razza sembrava provenire dalle scienze della genetica e dell'eugenetica. Tra il 1914 e il 1928 nei soli Stati Uniti il numero di college e di università che offrivano corsi di eugenetica salì da 44 a quasi 400. Se in precedenza l'eugenetica era rimasta prevalentemente confinata in una cerchia ristretta di intellettuali, dopo la guerra si sviluppò in un movimento di massa che comprendeva molti biologi, ma anche un numero ancor più cospicuo di avvocati, medici e altri professionisti della classe media. Lo scopo positivo perseguito alle origini, cioè la riproduzione dei caratteri desiderabili, fu rapidamente sostituito dall'esigenza, avvertita sempre più come impellente, di evitare la proliferazione dei tratti indesiderati e ritenuti ereditari, come la tendenza alla criminalità, alla pazzia, alla prostituzione e all'omosessualità.
Il genetista Charles B. Davenport (1866-1944) fondò nel 1910 a Cold Spring Harbor, presso New York, il più importante centro accademico eugenetico degli Stati Uniti, l'Eugenics Records Office, che godeva del sostegno della Carnegie Institution, della Rockefeller Foundation e di altre istituzioni filantropiche. Harry Laughlin (1880-1943), incaricato da Davenport di gestire la struttura, curava i rapporti con il mondo scientifico, il potere legislativo e il pubblico. Nominato nel 1920 'esperto di eugenetica' presso la House Committee on Immigration and Naturalization, Laughlin dichiarò che le masse di nuovi immigrati ‒ costituite in prevalenza da ebrei, italiani e slavi ‒ rappresentavano una minaccia per l'America, come portatori di un 'plasma germinale' qualitativamente inferiore a quello dei primi immigrati europei, appartenenti alla razza nordica. Gli esperti consultati incoraggiarono il Congresso ad adottare nel 1924 una legislazione che limitava l'immigrazione da alcuni paesi europei (i paesi asiatici erano già stati esclusi da tempo, senza bisogno di fornire una copertura scientifica al razzismo). Gli esperti di eugenetica affermavano di avere le prove scientifiche della pericolosità biologica della promiscuità razziale e del fatto che "l'ereditarietà gioca un ruolo essenziale nella trasmissione del crimine, dell'idiozia e dell'imbecillità". Laughlin propose, con il consenso di molti, di impedire la procreazione ai portatori di malattie e ritardi mentali, ai criminali e alle prostitute, attraverso l'isolamento e, se necessario, la sterilizzazione coatta.
Tra il 1907 e il 1917 l'Indiana e altri 14 stati americani approvarono una serie di leggi che autorizzavano la sterilizzazione coatta dei criminali e dei malati mentali, mediante la procedura di vasectomia inventata nel 1899 dal chirurgo A.J. Ochsner. Tuttavia i dubbi sulla costituzionalità di questi provvedimenti ne limitarono l'applicazione, fino a quando, nel dopoguerra, nell'opinione pubblica si verificò una svolta a favore della sterilizzazione coatta. Nel 1924 la Virginia, con l'aiuto degli esperti di eugenetica, emanò uno statuto sulla sterilizzazione che superò l'esame della Corte suprema, la quale nel 1927 approvò a grande maggioranza la sterilizzazione del diciassettenne Carrie Buck, per il quale fu emessa una diagnosi di 'imbecillità mentale'. Fugati definitivamente i dubbi sulla sua costituzionalità, la sterilizzazione fu adottata da oltre 30 Stati e i casi in cui veniva applicata cominciarono a moltiplicarsi. Si stima che circa 60.000 persone siano state sterilizzate legalmente negli Stati Uniti, circa metà delle quali nella sola California. I suoi sostenitori assicuravano che ciò avrebbe permesso di eliminare "i 9/10 dei crimini e delle malattie fisiche e mentali in meno di quattro generazioni".
Anche in Gran Bretagna l'eugenetica godeva di altrettanta popolarità, pur incontrando una maggiore opposizione. La degenerazione della razza era concepita dall'opinione pubblica, sulla base dei suoi pregiudizi di classe, come una minaccia proveniente dal 'residuo sociale', ossia dagli individui afflitti da povertà cronica. Convinti che molti dei concetti più popolari dell'eugenetica fossero privi di una base scientifica, alcuni genetisti inglesi e americani, come Karl Pearson (1857-1936) e Herbert S. Jennings (1868-1947), tentarono di prendere le distanze dal movimento di massa, ma molti altri ne sostennero la validità con la loro autorità di scienziati. A sua volta, la fama dell'eugenetica accresceva l'importanza sociale della genetica agli occhi dell'opinione pubblica. A eccezione di alcuni esponenti del socialismo fabiano e di vari intellettuali, che aderirono a una versione dell'eugenetica edulcorata, la maggioranza della sinistra prese le distanze dalle teorie eugenetiche. L'opposizione delle organizzazioni dei lavoratori, dei cattolici e dei difensori dei diritti civili impedì di introdurre la legislazione eugenetica in Gran Bretagna.
La Società tedesca per l'igiene razziale fu fondata da esponenti di diversi partiti politici e comprendeva, oltre ad alcuni antisemiti dichiarati, un certo numero di genetisti ebrei come Richard Goldschmidt. Dopo la Prima guerra mondiale, Laughlin contribuì all'avvio dei contatti con gli esponenti del movimento eugenetico tedesco, che vedevano negli USA un modello da imitare. La prima legge sulla sterilizzazione coatta fu approvata nel 1933, due mesi dopo la vittoria elettorale nazista, e applicata in modo molto più ampio e sistematico che in America, coinvolgendo tra le 300.000 e le 400.000 persone. Nel 1939 fu affiancata da un programma di eutanasia, finalizzato a eliminare gli individui mentalmente inadatti e, poi, anche quelli considerati di razza inferiore. L'eugenetica e anche la genetica tedesche accolsero l'antisemitismo del regime, dal quale ricevettero un sostegno in quanto discipline di rilevanza ideologica. Oltre la metà dei professori universitari di biologia si iscrisse al partito nazista, la percentuale più alta tra i professori delle discipline accademiche.
L'esempio della legislazione tedesca, ampiamente pubblicizzato, spinse la Danimarca, l'Estonia, la Finlandia, l'Islanda, la Norvegia, la Svezia e due province canadesi ad adottare tra il 1934 e il 1938 la sterilizzazione coatta. Nei paesi scandinavi, privi di minoranze etniche, l'eugenetica non era inquinata da odio razziale o da pregiudizi di classe. Appoggiata da socialisti e conservatori, consentiva solo la sterilizzazione dei malati mentali e fu applicata in un numero relativamente limitato di casi. In Unione Sovietica l'eugenetica non ricevette alcun sostegno da parte del governo o dell'opinione pubblica, ma fu appoggiata da un gruppo di genetisti accademici, che avanzarono delle proposte di regolazione socialista o positiva della procreazione umana. Ma le accuse di essere una disciplina intrinsecamente razzista vanificarono questo tentativo e posero ideologicamente al bando l'eugenetica fin dal 1931. Alla fine della Seconda guerra mondiale, il movimento eugenetico fu screditato dalla scoperta dei crimini nazisti, ma l'assunzione del carattere ereditario del comportamento sociale su cui si basava rimase, tuttavia, diffusa. L'Unione Sovietica reagì in modo eccessivo: i legami con l'eugenetica razzista minarono la fiducia nella stessa genetica, che nel 1948 fu dichiarata un errore ideologico e sostituita temporaneamente da una teoria rivale, definita dell'ereditarietà 'morbida' o influenzata da fattori ambientali, il cui principale esponente fu Trofim Denisovič Lysenko (1898-1976).
Nella Russia rivoluzionaria degli anni Venti si affermò un nuovo modello di relazioni tra scienza e società. Come i loro colleghi delle altre nazioni belligeranti, durante la Prima guerra mondiale, i professori russi avevano cercato di mettere il proprio sapere al servizio dello sforzo bellico del paese, ma si erano dovuti rendere conto, con profondo rammarico, dell'assenza di ogni legame tra la scienza accademica e l'industria. Questa delusione li spinse a proporre una riforma radicale dell'infrastruttura scientifica del paese, ispirata al modello della Kaiser Wilhelm Gesellschaft, fondata a Berlino nel 1911, ma molto più estesa. Gli scienziati russi pensavano che fosse necessario distinguere la professione del ricercatore dall'insegnamento superiore, istituire una rete completa di centri di ricerca e indirizzare la scienza alla risoluzione dei problemi pratici che il paese aveva di fronte. Il primo passo fu compiuto con la creazione della Commissione per lo studio delle forze produttive naturali, istituita nel 1915 presso l'Accademia delle Scienze di Pietroburgo dal geologo Vladimir Ivanovič Vernadskij (1863-1945), che segnò l'abbandono di una secolare preferenza per la scienza pura.
Dopo la rivoluzione, il progetto di riforma ottenne l'appoggio incondizionato del governo bolscevico, che apprezzava in particolare la scelta di indirizzare la ricerca scientifica verso obiettivi economicamente rilevanti. Negli anni della guerra civile furono create decine di istituti di ricerca nei campi più diversi, come l'ottica, i raggi X e la radiologia, l'aerodinamica e l'idrodinamica, l'agronomia, lo studio dei metalli rari e delle onde radio. Grazie a questo trattamento di riguardo, la ricerca scientifica registrò notevoli progressi, nonostante la miseria e le carestie che affliggevano il paese. Scienziati e tecnici ('esperti borghesi' nel gergo bolscevico) ricoprivano alti incarichi nei ministeri, in qualità di dirigenti politici o responsabili della pianificazione economica e industriale. Gli scienziati ricevevano stipendi da ricercatori, e non da docenti, e molti dei nuovi istituti scientifici erano indipendenti dalle università anche sul piano amministrativo. I bolscevichi erano particolarmente attratti dai campi di ricerca che mescolavano utopia e utilitarismo e che promettevano di raggiungere qualche obiettivo pratico mirabolante, anche se remoto, sulla base di tecnologie rivoluzionarie e moderniste, come la radioattività, i raggi X, l'aviazione e la genetica. I centri incaricati di questo tipo di ricerche avevano in genere carattere interdisciplinare, erano finanziati dallo Stato e univano alla ricerca di base nei settori più avanzati la progettazione e la produzione di tecnologia sofisticata, dando luogo a "una simbiosi […] una fusione di scienza 'pura', tecnologia e ingegneria", che precedette di molti decenni quella che sarebbe stata chiamata Big science.
In una brochure del 1918, intitolata Socialismo e scienza, l'ex bolscevico Aleksander Bogdanov (1837-1928) definiva la conoscenza scientifica una "esperienza economica e sociale organizzata" e denunciava il carattere 'borghese' della scienza contemporanea, che si manifestava nel suo elitarismo, nell'attaccamento all'ideologia della scienza 'pura', nella tendenza all'astrazione, nel distacco dagli interessi e dalle pratiche delle masse lavoratrici e nella subordinazione alle leggi del mercato. Bogdanov sperava che, come l'affermazione del capitalismo aveva favorito la nascita della scienza moderna, così l'emergere di una società socialista potesse incoraggiare lo sviluppo di una nuova scienza 'proletaria', che avrebbe fornito nuove interpretazioni del sapere accumulato dalle epoche precedenti e raggiunto nuove conoscenze, basate sulla nuova realtà economica e produttiva. Benché i loro valori di fondo non si distaccassero molto da quelli di Bogdanov, Lenin e la corrente maggioritaria del partito respinsero la definizione di 'scienza proletaria' come un eccesso di radicalismo, che rischiava di danneggiare la collaborazione con gli esperti borghesi. I bolscevichi aspiravano a una scienza in grado di produrre risultati pratici e che fosse accessibile alle masse.
La loro pazienza si esaurì nel 1929, con l'avvio dell'industrializzazione forzata e della rivoluzione culturale sovietica. Il partito ruppe il patto con gli esperti borghesi, che furono sostituiti da 'esperti rossi', in grado di combinare competenza professionale e sincero attaccamento ai valori del socialismo. Molti scienziati e tecnici già in carica, accusati di sabotaggio o slealtà, furono retrocessi, estromessi o processati. Uno dei bersagli principali di questa campagna fu la vecchia Accademia delle Scienze, dove 128 impiegati, ovvero circa l'11% del personale, furono licenziati e alcuni addirittura arrestati, tra cui quattro storici membri dell'Accademia, condannati in seguito a diversi anni di confino. Tuttavia furono molti di più gli scienziati che si affrettarono a dichiararsi leali sostenitori del regime, o i nuovi esperti di provata fiducia istruiti in gran fretta nei politecnici e nelle università. Nel progettare il loro sistema di istruzione scientifica di massa, i bolscevichi si sforzarono di offrire pari opportunità ai rappresentanti delle classi e delle etnie un tempo discriminate, nonché alle donne, mediante l'introduzione di quote crescenti a loro riservate.
Il regime sovietico attribuiva alla scienza un valore molto alto, destinandole una quota del prodotto interno molto maggiore rispetto a nazioni più prospere e più sviluppate dal punto di vista economico. Gli scienziati sovietici non godevano di grande autonomia o indipendenza politica, ma di un certo prestigio sociale ed erano investiti del potere de facto di influire su molte decisioni socialmente rilevanti. Le autorità preposte alla ricerca rifiutavano con forza il concetto di scienza 'pura'. Per la prima volta nella storia, quella dello scienziato divenne una professione di massa, sostenuta e apprezzata di per sé, distinta dall'insegnamento e aperta a un segmento molto ampio della popolazione, compresi i giovani delle classi lavoratrici, le donne e gli appartenenti alle minoranze etniche. Alcune caratteristiche del modello sovietico, e in particolare il grande valore sociale attribuito alla scienza, piacquero agli osservatori stranieri e stimolarono l'adozione di riforme analoghe in altri paesi, dapprima in Asia ‒ nella Repubblica cinese del Guomindang già negli anni Venti ‒ e poi, durante gli anni Trenta, anche nei paesi occidentali.
Al di fuori dell'Unione Sovietica, la maggioranza della comunità scientifica continuò a credere nell'ideale della ricerca pura e disinteressata fino agli anni Trenta. La Grande depressione mise sotto accusa non solo i difetti del capitalismo, ma anche il ruolo svolto dalla scienza al suo interno. Molti infatti attribuivano la colpa della sovrapproduzione di merci e della disoccupazione ai progressi tecnologici resi possibili dalle nuove scoperte scientifiche. Ma la diffusione della povertà tra la popolazione indusse molti scienziati, qualunque fossero le loro convinzioni politiche, a interessarsi maggiormente ai problemi sociali e al possibile contributo della scienza alla loro risoluzione. Perfino la British Association for the Advancement of Science, che si era posta come regola di non farsi coinvolgere nelle questioni di natura politica, approvò nel 1933, dopo due anni di esitazioni e di discussioni, il principio che gli scienziati non dovessero isolarsi dai problemi della società e aggiunse ai suoi interessi tradizionali lo studio dell'impatto sociale della scienza.
Nel luglio del 1931, a Londra, durante l'International Congress of History of Science, ebbe luogo un inatteso ma fondamentale incontro di idee. Al congresso partecipava una nutrita delegazione sovietica, comprendente un politico di alto livello e numerosi importanti scienziati e filosofi marxisti. Nel corso di una sessione appositamente organizzata, Nikolaj Bucharin (1888-1938), Boris Hessen (1883-1938) e altri presentarono a un pubblico impreparato una nuova visione della scienza, che ad alcuni apparve come una vera rivelazione. Secondo l'interpretazione sovietica la scienza, passata e presente, non era una semplice ricerca intellettuale condotta da una successione di grandi menti, ma una risposta intelligente ai problemi economici e sociali e un metodo per risolverli; non doveva essere esercitata necessariamente in modo individuale e non coordinato, ma poteva essere pianificata e praticata collettivamente; invece di isolarsi dalle questioni sociali, gli scienziati avrebbero dovuto impegnarsi risolutamente a risolverle. Alcuni partecipanti al convegno, convertitisi immediatamente alle nuove idee, diedero vita a un gruppo molto coeso di scienziati di sinistra, di cui facevano parte John D. Bernal, John B.S. Haldane e Joseph Needham, che in seguito ricoprirono un ruolo fondamentale nel dibattito sulle relazioni tra scienza e società, svoltosi in Gran Bretagna.
Bernal, iscrittosi anche al partito comunista, volle recarsi qualche mese dopo in Unione Sovietica, per conoscere di persona l'organizzazione sovietica della scienza. "È più importante essere liberi sul piano intellettuale, ma totalmente inutili dal punto di vista sociale, o diventare una componente di un sistema dove la conoscenza e l'azione sono alleate nel perseguire un unico scopo sociale?", chiedeva ai suoi colleghi britannici, già perfettamente convinto che il tempo della ricerca imprevedibile e individualistica fosse tramontato per sempre e che la scienza stessa fosse entrata nella sua fase industriale. A partire dal 1932, Bernal e altri scienziati di sinistra divennero i principali esponenti della Association of Scientific Workers, che promuoveva le teorie marxiste tra gli universitari britannici e il vasto pubblico. Lo scopo dell'Associazione, oltre a elevare il livello di coscienza sociale degli scienziati, era quello di ottenere maggiori finanziamenti pubblici per la ricerca e una maggiore collaborazione tra scienziati e governo. Nel 1937, su incarico del Parliamentary Science Committee, Bernal scrisse un memorandum in cui presentava il suo progetto di riforma del finanziamento pubblico della ricerca, che però fu respinto dal governo. L'atteggiamento delle autorità mutò durante i preparativi e nel corso della Seconda guerra mondiale, quando anche i più fieri oppositori degli scienziati marxisti e la Royal Society compresero la necessità di giungere a un maggiore coordinamento tra la ricerca scientifica, i militari e il governo.
In Francia, Jean-Baptiste Perrin conduceva dal 1930 un'analoga campagna per il riconoscimento della ricerca scientifica come professione specifica all'interno della funzione pubblica, mentre Langevin si era assunto il compito di informare il movimento sulla situazione della scienza in Unione Sovietica. La vittoria dei socialisti alle elezioni del 1932 e il governo del Fronte popolare nel 1936 portarono al potere gli alleati politici degli scienziati. La Caisse Nationale de la Recherche Scientifique (CNRS), creata nel 1935 dalla fusione di due organismi preesistenti, fu incaricata di gestire i fondi destinati alla ricerca. Irène Curie e, dopo di lei, Perrin, accettarono di entrare nel governo del Fronte popolare con l'incarico, recentemente istituito, di sottosegretario di Stato per la ricerca scientifica, ottenendo significativi incrementi nelle allocazioni pubbliche a favore della ricerca. Nel 1939 il CNRS impiegava, a tempo pieno o parziale, circa 600 ricercatori, ossia quasi la metà degli scienziati accademici francesi.
Il risveglio politico degli scienziati americani seguì in gran parte l'esempio inglese, ma con considerevole ritardo. Nel 1937 Robert Merton doveva ancora constatare che "i tentativi degli scienziati inglesi per giungere a un'azione concertata contrastano in modo stridente con l'apatia degli scienziati del nostro paese". Il vento cambiò nei due anni successivi, con la creazione di due organizzazioni di attivisti, l'American Committee for Democracy and Intellectual Freedom to Fight Fascism, di tendenza liberale, e l'American Association of Scientific Workers, più radicale. A quel punto, l'attenzione degli scienziati politicamente impegnati era concentrata su una nuova, gravissima minaccia internazionale, l'ascesa del nazismo in Germania.
La nuova legge che bandiva dagli impieghi pubblici i non ariani e gli oppositori politici del regime nazista, promulgata nella primavera del 1933, produsse l'esclusione in massa dei professori ebrei e socialisti dalle università tedesche. Nella prima ondata di licenziamenti, oltre mille docenti universitari, tra cui circa 300 professori, persero il posto. Gli accademici che protestarono apertamente o che si rifiutarono di accettare le cattedre divenute vacanti furono molto rari. La maggior parte di loro accettò gli ordini in silenzio, spesso approvandoli. Einstein, che era già stato etichettato dalla stampa nazista come un pericolo pubblico, si dimise in segno di protesta prima che la Preussische Akademie der Wissenschaften facesse in tempo a espellerlo. L'intervento presso Hitler di Max Planck (1858-1947), allora presidente della Kaiser Wilhelm Gesellschaft, a favore di Fritz Haber e di altri 'preziosi' scienziati ebrei non sortì alcun effetto. Planck consigliò allora i suoi colleghi, compreso Werner Karl Heisenberg, di evitare le proteste plateali e di adeguarsi alle direttive, se necessario, senza rinunciare mai alla propria dignità personale. I massimi esponenti del mondo scientifico tedesco ritenevano fosse loro dovere salvaguardare le istituzioni accademiche e rifiutare le nomine motivate esclusivamente da meriti politici, pur accettando l'estromissione di individui qualificati.
Leo Szilard (1898-1964), fuggito nel 1920 dall'Ungheria per sottrarsi alle persecuzioni contro gli ebrei, fu costretto a fuggire di nuovo dalla Germania nazista nell'aprile del 1933. Si mise in contatto con il direttore della London School of Economics William Beveridge (1879-1963) il quale, in collaborazione con molti altri importanti scienziati britannici, aveva organizzato l'Academic Assistance Committee, allo scopo di portare soccorso agli accademici rifugiati in Gran Bretagna e di aiutarli a trovare un lavoro. Negli Stati Uniti, l'Emergency Committee for Aid to Displaced German Scholars portava avanti un'azione analoga, con il sostegno della Rockefeller Foundation e di altre istituzioni filantropiche. Bohr offrì a molti colleghi espatriati un rifugio temporaneo a Copenaghen, che per molti costituì una tappa del viaggio verso la salvezza. Gli scienziati costretti ad abbandonare il proprio paese per motivi politici trovarono asilo in molte altre nazioni, tra cui la Francia, la Svezia, la Svizzera, la Turchia e l'Unione Sovietica.
La crisi dei rifugiati, la marea montante del fascismo e il profilarsi di un nuovo conflitto mondiale avvicinarono molto le posizioni degli scienziati liberali e socialisti residenti nelle democrazie occidentali. Posti di fronte all'attacco nazista ai valori costitutivi della scienza, molti di coloro che avevano creduto fino ad allora all'ideale dello scienziato apolitico compresero di doversi schierare politicamente. Governi un tempo riluttanti verso ogni intervento pubblico in campo scientifico cominciarono a concedere fondi sempre maggiori alla ricerca e a indirizzarla in anticipo verso le esigenze belliche. E molti degli scienziati che avevano denunciato l'impiego della scienza a scopi militari giudicarono che fosse loro dovere civico contribuire ai preparativi bellici. In Francia, gli scienziati antifascisti, uniti in un Comité de Vigilance des Intellectuelles Antifascistes, contribuirono alla nascita del Fronte popolare, l'alleanza di tutti i partiti di sinistra e di centro in nome della difesa comune della democrazia. L'idea che scienza e democrazia fossero strettamente connesse e che ambedue fossero minacciate dal fascismo divenne uno slogan comune tra gli scienziati, da quelli liberali a quelli comunisti.
Dalla Nuova Zelanda, dove si era rifugiato, Karl Popper (1902-1994) scriveva che "il progresso [scientifico] dipende in larga misura dalla […] democrazia politica", dal momento che entrambi si basano sostanzialmente sulla libertà di critica. Bernal considerava la scienza un alleato cruciale nell'imminente battaglia finale tra "Stati democratici e Stati fascisti", aggiungendo che "nel suo operare, la scienza è comunismo", poiché in essa "gli uomini hanno imparato a subordinare coscientemente le loro azioni a uno scopo comune, senza rinunciare ai loro meriti individuali". Nel tentativo di dimostrare che "l'ordine democratico è parte integrante dell'ethos scientifico", Merton definiva la scienza come l'unione di quattro "imperativi istituzionali ‒ universalismo, comunismo, imparzialità, scetticismo organizzato". Sergej Vavilov (1891-1951), presidente dell'Accademia delle scienze sovietica, prevedeva che la vittoria sul nazismo avrebbe prodotto "un rafforzamento del ruolo della scienza nonché della democrazia nella vita dei popoli", aggiungendo che "la scienza serve al progresso soltanto quando essa è unita alla democrazia".
Allo scoppio della guerra, gli scienziati di tutti i paesi belligeranti si mobilitarono in massa per contribuire allo sforzo bellico delle rispettive nazioni. I rifugiati dell'Europa centrale, considerati stranieri nemici, furono in genere esclusi dai progetti coperti dal segreto militare. Di conseguenza, mentre gli scienziati del luogo si occupavano di ricerche più urgenti, come quelle sul radar o sulla guerra sottomarina, i rifugiati venivano lasciati a speculare sulla vaga possibilità di costruire una bomba atomica e furono i primi a rendersi conto che essa costituiva una seria minaccia. Gli ungheresi Szilard ed Eugene Wigner convinsero nel 1939 Einstein ad avvertire Roosevelt del pericolo costituito dall'eventualità che i tedeschi riuscissero a realizzare per primi la reazione nucleare a catena. Nel 1940, una nuova idea proposta dal tedesco Rudolf E. Peierls e dall'austriaco Otto Robert Frisch convinse il governo inglese della fattibilità della bomba atomica e contribuì a lanciare il primo serio tentativo di costruirne una, il Tube Alloys Project. Infine, il tedesco Klaus Fuchs sentì il dovere di avvertire le autorità sovietiche del varo del progetto top secret britannico.
Verso la fine della guerra, molti di questi stessi rifugiati ‒ divenuti ormai cittadini americani a tutti gli effetti ‒ furono tra i primi a mettere in discussione le autorità militari che dirigevano il Manhattan Project e a contestare l'uso che i politici volevano fare della bomba. Bohr, fuggito nel 1943 dalla Danimarca occupata dai nazisti, cercò di convincere Roosevelt e Churchill che, senza un serio ripensamento di strategia politica, la scoperta della bomba avrebbe accelerato nel dopoguerra la corsa agli armamenti. Joseph Rotblat abbandonò il Manhattan Project nel 1944, quando capì che la Germania nazista non sarebbe riuscita a costruire la sua bomba, e in seguito fondò il movimento di scienziati Pugwash. Einstein cominciò a temere di aver commesso un grave errore scrivendo quella lettera a Roosevelt. Szilard, James Franck e Evgenij I. Rabinovič furono i principali autori del cosiddetto Rapporto Franck del giugno 1945 che condannava un possibile attacco atomico a sorpresa contro il Giappone, proponendo al suo posto un'esplosione dimostrativa in un'area disabitata.
Dopo Hiroshima, alcuni partecipanti al Manhattan Project, americani e rifugiati, si trasformarono in attivisti politici e fondarono la Federazione degli scienziati atomici, allo scopo di promuovere l'idea di un controllo internazionale degli armamenti nucleari, considerati troppo pericolosi per essere lasciati in mano ai militari o ai singoli governi.