La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. Nuovi ambiti di indagine della chimica
Nuovi ambiti di indagine della chimica
Intorno al 1900 un attento osservatore del panorama scientifico avrebbe potuto affermare, esagerando ma senza discostarsi troppo dal vero, che la chimica coincidesse sostanzialmente con la chimica organica e fosse praticata perlopiù in Germania. Le ragioni erano da ricercare nell'industria chimico-organica, i cui centri di produzione si trovavano soprattutto in Germania e in Svizzera e il cui fabbisogno di laureati in chimica e di nuove conoscenze su coloranti e prodotti farmaceutici determinava l'indirizzo dell'insegnamento e della ricerca nelle università.
Verso il 1930, e in particolare dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nessuno scienziato serio avrebbe più condiviso questo punto di vista, in quanto il fulcro della ricerca chimica, anche se più lentamente e in modo meno netto rispetto alla fisica, si era spostato negli Stati Uniti. Ben più rilevante di questo spostamento geografico fu però l'enorme ampliamento del campo d'indagine delle scienze chimiche, che si era già delineato sul finire del secolo, quando l'influsso della chimica fisica si accrebbe progressivamente e la chimica inorganica visse una fase di rinascita. In tal modo le sottodiscipline classiche della chimica erano considerate equivalenti, diversamente da quanto avveniva nell'epoca precedente; in seguito, fecero la loro comparsa anche nuove sottodiscipline, quali la biochimica, la chimica dei polimeri e la chimica nucleare, per citare soltanto gli ambiti che si imposero in modo duraturo. Alla nuova immagine della chimica erano associate sostanze naturali come gli ormoni e le vitamine, materiali quali il polietilene e le resine acriliche, esplosivi come l'uranio e il plutonio. All'espansione geografica e a quella sul piano delle discipline si aggiunse la riforma interna della chimica organica classica, dovuta all'influsso delle teorie e dei metodi della fisica.
Tra il 1900 e il 1945 la chimica subì un cambiamento profondo. Il periodo di transizione decisivo per la storia di questa scienza fu quello compreso tra la fine della Prima e la fine della Seconda guerra mondiale e condusse alla nascita di nuove 'discipline ibride' della chimica, tra le quali vanno annoverati sia ambiti di spicco come la biochimica, la chimica dei polimeri e la chimica nucleare sia campi che ebbero grande rilievo soltanto temporaneamente ‒ per esempio la chimica dei colloidi, in concorrenza con la chimica dei polimeri ‒ e discipline di nicchia che non divennero mai importanti quanto gli ambiti più vasti, per esempio la geochimica. La trasformazione della chimica non consistette però esclusivamente (e neppure principalmente) nel ricorso all'interdisciplinarità sotto la forma di una cooperazione tra gli ambiti classici, ma si concretizzò piuttosto nello sviluppo di nuovi sistemi teorici e metodologici specifici, con riferimento a conoscenze esterne, come nel caso della chimica organica fisica e degli apparati strumentali propri della fisica.
Il filo d'Arianna per orientarsi nel labirinto dei programmi d'insegnamento e ricerca nel campo della chimica consisterà in due filoni: il primo fondamentale punto di vista è l'importanza delle scuole e le controversie sorte tra i loro principali rappresentanti; il secondo consiste nel ruolo assunto dai nuovi metodi e dalle nuove tecniche per l'affermarsi e il consolidarsi dei programmi di ricerca di queste scuole. La brevità imposta da una tale rassegna, che comprende fasi essenziali di un quarto di secolo della chimica, impedisce quindi ogni pretesa di completezza; ci si occuperà delle scuole, dei loro rappresentanti e dei loro metodi, la cui storia è già relativamente ben studiata, che possono servire da esempi rappresentativi.
La denominazione chimica organica fisica fu utilizzata per la prima volta nel 1940 da Louis P. Hammett (1894-1987), professore di chimica alla Columbia University di New York. Sebbene Hammett nella prefazione al manuale Physical organic chemistry: reaction rates, equilibria, and mechanisms (1940) riferisse dei tempi in cui tra i chimici fisici e quelli organici era considerato un punto d'onore non capire niente l'uno del campo dell'altro (per così dire una trasposizione anticipata alla chimica delle two cultures di Charles P. Snow), per confutare questo aneddoto poté comunque fare riferimento al lavoro ventennale di numerosi gruppi di ricerca negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e, soprattutto, in Gran Bretagna. Lo scopo di Hammett era trasformare la chimica organica, che con il suo guazzabuglio di reazioni e l'enorme numero di sostanze note era considerata ancora alla stregua di un'arte arcana, in una scienza. Le vecchie regole qualitative dovevano cedere il passo al calcolo esatto delle velocità e degli equilibri di reazione, nonché alla correlazione tra le strutture dei composti e i loro meccanismi di reazione. In questo senso la chimica organica fisica moderna era prima di ogni altra cosa una scienza esatta.
Il 'Lavoisier' della chimica organica del XX sec. fu Christopher K. Ingold (1893-1970), che trascorse la maggior parte della propria carriera allo University College di Londra. Dapprima insieme alla moglie Edith H. Usherwood, più tardi con il collega Edward D. Hughes, Ingold sistematizzò l'intrico delle reazioni organiche mediante schemi meccanicistici e una classificazione dei tipi di reazione più importanti. Al pari di Antoine-Laurent Lavoisier, Ingold ebbe precursori, alleati e avversari; tra i precursori c'erano il chimico tedesco Johannes Thiele (1865-1918) e l'allievo anglotedesco di questi, Bernard Flürscheim (1874-1955). Il concetto di valenza parziale, introdotto da Thiele per spiegare le qualità aromatiche di molecole come il benzolo e il comportamento di composti coniugati come il butadiene, era stato ampliato da Flürscheim, che dal 1905 lavorava nel suo laboratorio privato nello Hampshire, in una teoria per determinare i centri di reazione nei composti aromatici sostituiti. Scopo di tale teoria era capire, e nel migliore dei casi prevedere, come alcuni sostituenti già presenti nell'anello del benzolo governassero le reazioni.
Il più accanito concorrente e avversario di Ingold era il decano della chimica britannica, Sir Robert Robinson (1886-1975). Pur avendo ricevuto il premio Nobel nel 1947 per i suoi lavori nel campo della sintesi delle sostanze naturali, egli riteneva più importanti le sue ricerche teoriche sui meccanismi di reazione. Robinson cooperava in questo settore con Arthur Lapworth (1872-1941), che già intorno al 1900 aveva lavorato sull'evoluzione delle reazioni, sviluppando una teoria basata sulle polarità alternanti. Nel 1921 Robinson e Lapworth ripresero la teoria del legame elettronico di Lewis-Langmuir, fondendola con la loro concezione delle valenze parziali. La premessa fondamentale di Robinson era lo spostamento di elettroni lungo la catena del carbonio di una molecola, provocato dall'induzione elettrostatica, che portava a una forma attiva, polarizzata della molecola stessa; anch'egli voleva spiegare il modello di sostituzione dei composti aromatici e coniugati, utilizzando però una nomenclatura relativamente complicata. Lapworth, Robinson e in certa misura anche Thomas Lowry (1874-1936) introdussero in tal modo in chimica organica la polarizzazione dinamica elettronicamente indotta, staccandosi dal concetto classico di affinità, legato a una concezione spaziale e intuitiva.
Ingold, al pari di Flürscheim, alla metà degli anni Venti respingeva ancora la teoria elettronica dei legami chimici e, in prospettiva storica, era rimasto palesemente indietro rispetto a Robinson. Ancor più grave per lui fu il fatto che Robinson, oltre a correggere alcune previsioni di Ingold sul comportamento di determinate molecole, dimostrò la cattiva qualità del lavoro sperimentale da lui svolto e lo tacciò, infine, addirittura di plagio. La controversia si svolse pubblicamente dal 1923 al 1926 e terminò solo quando l'editor del "Journal of chemistry and industry" decise di non accettare più contributi sull'argomento. Tuttavia a lungo andare fu Ingold a uscire vincitore dalla diatriba. Innanzi tutto adottò l'interpretazione elettronica dei legami chimici di Robinson (e per questo fu accusato di plagio), creando però su tale base un sistema proprio. Poi, insieme a Hughes, accolse nel proprio repertorio metodologico i metodi della fisica moderna, tra cui la spettroscopia a raggi ultravioletti e infrarossi, la polarimetria nonché esperimenti cinetici e termodinamici. Di maggiore rilievo è inoltre il fatto che egli riuscì a ottenere la supremazia nel campo della nomenclatura: termini come 'nucleofilo', 'elettrofilo' e 'mesomeria' furono coniati da Ingold stesso e supportarono il successo delle sue opinioni. Infine conciliò le proprie concezioni con quelle della chimica quantistica, senza arrivare a generalizzazioni che potessero far nascere equivoci. Per contro la descrizione matematica dei problemi chimici rimase sempre estranea a Robinson, che rifiutò a lungo l'impiego di tecniche moderne, concentrandosi su determinazioni classiche della struttura delle sostanze naturali. Senza volerlo lasciò campo libero a Ingold, che peraltro lo dominava (Brock 1992).
In particolare erano quattro aspetti dell'opera di Ingold a caratterizzare la sua sintesi di chimica fisica e organica: (1) la sua abilità nel distinguere tra effetti stereochimici spaziali ed effetti polari, elettronici; (2) il suo concetto di risonanza ossia mesomeria; (3) il suo schema di classificazione delle reazioni di sostituzione e di eliminazione; (4) il suo appropriarsi dei metodi della chimica fisica, tra i quali esperimenti cinetici e termodinamici, misurazioni dipolari e metodi spettroscopici. In tal modo la chimica organica fisica di Ingold era indipendente, anche se compatibile, dalla chimica quantistica che si andava contemporaneamente strutturando. Con il primo aspetto Ingold poteva ricollegarsi a quella che era la chimica organica intorno al 1900, assicurandosi così il successo presso la maggioranza degli scienziati ancora legati a questa tradizione; con il secondo riuscì a utilizzare in chimica il concetto quantomeccanico di energia di risonanza, senza favorire l'equivoco tipico di molti chimici organici secondo cui le forme mesomere di una molecola avrebbero rappresentato casi limite effettivamente esistenti della stessa. Per Ingold la denominazione chimica di mesomeria rappresentava la descrizione di stati intermedi stabili di una molecola, spiegabili in fisica mediante il concetto meccanico-quantistico di risonanza. Grazie al suo schema di classificazione delle reazioni chimiche, Ingold riuscì a conciliare la chimica dei composti aromatici con quella dei composti alifatici. Inoltre gli effetti di determinati sostituenti sul comportamento dei composti furono registrati, classificati e spiegati con la loro capacità (espressa mediante l'elettronegatività) di legare a sé elettroni. L'esito delle reazioni chimiche poté quindi essere previsto per la prima volta su base teorica qualitativa. I primi successi furono la spiegazione dell'inversione di Walden (inversione dell'attività ottica durante le reazioni), delle regole di Hofmann e di Saytzeff per la formazione delle olefine, e di molte regole empiriche per la sostituzione dei composti aromatici. Oltre a ciò Ingold integrò nella sua concezione le conoscenze note e accettate dai chimici circa i processi di ossidazione e di riduzione, come anche la teoria elettronica degli acidi e delle basi. Il suo impianto teorico era inoltre verificabile sperimentalmente, in particolare le misurazioni dipolari permettevano di seguire e razionalizzare i meccanismi di reazione. In tal modo era soddisfatta una condizione essenziale per il successo di una teoria in una scienza sperimentale: la possibilità di generare un numero sufficiente di ipotesi verificabili. Ancora più importante per i chimici era il fatto che le teorie fisico-organiche restavano legate più alla chimica che alla fisica, e che la molecola chimica non poteva essere considerata semplicemente la somma delle sue caratteristiche fisiche, come aveva invece tentato di fare originariamente la chimica quantistica (Nye 1993).
Naturalmente Ingold non era l'unico rappresentante dell'indirizzo fisico-organico nella sua epoca. In primo luogo in Gran Bretagna era attivo, come si è visto, il suo rivale Robinson; Charles Prévost e Albert Kirrmann in Francia; Fritz Arndt e Bernd Eistert in Germania; infine, tra gli altri, Hammett e Howard Lucas negli Stati Uniti svilupparono concezioni analoghe. Gli scienziati francesi risentivano, da questo punto di vista, delle frontiere molto più nette esistenti tra le singole discipline nel loro paese e di un certo isolamento; i chimici tedeschi e americani, invece, del grande rilievo dato agli aspetti pratici e della conseguente predominanza dell'indirizzo sintetico in chimica organica. Probabilmente furono però soprattutto il nazionalsocialismo e la Seconda guerra mondiale a far sì che nel 1945 la tradizione inglese divenisse dominante. Arndt dovette emigrare in Turchia ed Eistert fu spinto ad accettare un impiego poco rinomato nell'industria. Sia in Francia sia in Germania, anche dopo il 1945, le devastazioni avvenute non permettevano ancora una ricostruzione obiettiva. Nonostante tutte le resistenze, gli Stati Uniti divennero infine il centro principale della chimica organica fisica, anche se ancora nel corso del 1941 l'anonimo recensore di un saggio di Hughes poteva scrivere: "Questa nota rappresenta opinioni espresse dall'altra parte dell'Atlantico. Sarebbe deplorevole se giungessero nel nostro paese" (Davenport 1987, p. 529). Già nel 1946, invece, la prima conferenza sui meccanismi di reazione organici si tenne sul suolo americano e nel 1950-1951 Ingold scrisse durante un soggiorno alla Cornell University di Ithaca, New York, il suo libro Structure and mechanism in organic chemistry che, accanto all'opera di Hammett, divenne il testo classico della chimica organica fisica. In senso stretto, Ingold non era tuttavia riuscito a creare una propria scuola dotata di vitalità; di conseguenza dovette lasciare gli ulteriori sviluppi soprattutto ai chimici americani.
Dopo il 1945, il metodo di lavoro fisico-organico fu accolto nella chimica organica moderna, al contrario, per esempio, della chimica dei polimeri e della biochimica, che presero ciascuna la propria direzione. Le teorie fisico-organiche permettevano di progettare in maniera più razionale la sintesi delle molecole organiche, inoltre le stesse verifiche di queste teorie fornivano spesso lo spunto per effettuare esperimenti di sintesi. Grazie all'indirizzo fisico-organico la chimica organica era cambiata profondamente; parlare di rivoluzione ci sembra tuttavia inopportuno, si trattò piuttosto di una riforma. L'importanza del lavoro di Ingold risiede a ben vedere soprattutto nella sua nomenclatura accuratamente scelta, che caratterizza ancora oggi questo ambito della chimica.
Secondo la concezione odierna la cellulosa, il caucciù, l'amido, le proteine e il DNA sono polimeri, ossia grandi molecole che, in linea di principio, sono soggette alle stesse leggi delle altre sostanze chimiche; intorno al 1920, però, queste sostanze erano considerate colloidi. Per colloidi si intendevano sistemi dispersi, le cui particelle erano più grandi delle comuni molecole, pur essendo ancora al di sotto del potere risolutivo dell'occhio umano. Per dirla con le parole del più importante protagonista della chimica dei colloidi, Wolfgang Ostwald (1883-1943), la chimica dei colloidi si occupava dell''universo delle dimensioni trascurate'. Il chimico scozzese Thomas Graham (1805-1869) aveva osservato già nel 1861 che determinate sostanze solubili si disperdevano con estrema lentezza e presentavano un grado di viscosità molto elevato e le caratterizzò come collose, o 'colloidi', differenziandole dalle sostanze cristalline che, in soluzione, si disperdevano facilmente.
Fino agli anni Trenta del Novecento erano in concorrenza tra loro due ipotesi fondamentali per spiegare le caratteristiche dei colloidi. La spiegazione su base chimica partiva dal presupposto che i colloidi fossero molecole molto grandi, unite da normali legami chimici. L'ipotesi di tipo fisico descriveva i colloidi come aggregati di molecole più piccole, tenute insieme da particolari forze, che non avevano nulla a che vedere con i normali legami chimici. Secondo l'ipotesi chimica i fenomeni colloidali erano dovuti quindi a caratteristiche intrinseche delle molecole, mentre per la fisica essi erano uno stato, analogo a quello gassoso, liquido o solido. Nel primo quarto del XX sec. la maggior parte degli scienziati, chimici compresi, dava per scontata l'esattezza della teoria fisica, benché non vi fossero prove empiriche univoche a favore dell'una o dell'altra ipotesi. Questo costituisce già in sé un dato di fatto degno di nota: i chimici esclusero, a quanto pare senza un motivo stringente, una grande classe di importanti sostanze dal loro raggio d'indagine, lasciando questo campo alle ipotesi fisiche. La più grave carenza della teoria chimica era però il fatto che i metodi fondamentali della chimica organica si basavano sull'analisi di sostanze pure. All'epoca la purezza poteva essere raggiunta soltanto mediante cristallizzazione e con le sostanze colloidali ciò era quasi impossibile. La maggior parte dei chimici considerava perciò con disprezzo le ricerche sui colloidi, la 'chimica sporca'. Ben più grave di tali problemi pratici era forse il fatto che le sostanze polimeriche sono sempre miscugli di molecole di diversa grandezza. Non era perciò possibile determinare in linea di principio un peso molecolare unitario ed enunciare un'unica formula di struttura per una data sostanza; proprio questo era però l'obiettivo più importante della chimica organica in quel periodo. Dovendo scegliere tra la purezza della dottrina e alcune limitazioni nell'interpretazione dei fenomeni naturali, la maggior parte dei chimici scelse quest'ultima soluzione (Zandvoort 1988).
L'industria invece era poco toccata da queste remore scientifiche. Materie semisintetiche come la bachelite (una resina fenolica), le fibre viscose, la celluloide, il caucciù e molti altri colloidi erano agli inizi del XX sec. prodotti remunerativi e molto richiesti. Sotto la spinta di questi argomenti, la campagna del chimico fisico Wolfgang Ostwald (figlio del più famoso Friedrich Wilhelm Ostwald) ebbe relativamente buon gioco a propagandare la chimica dei colloidi come la scienza del futuro. Ostwald fondò due riviste nonché una Kolloidgesellschaft (società dei colloidi) e tentò di far affermare la chimica dei colloidi all'interno della chimica fisica. Per Ostwald il fattore determinante non era la struttura molecolare delle singole sostanze, bensì il loro grado di dispersione. Anche molti chimici organici accolsero questa tesi, sviluppando, per esempio, per la struttura del caucciù una teoria aggregativa basata su molecole ad anello costituite da due parti di isoprene (C5H8) ciascuna, che sarebbero state tenute insieme in unità più grandi da speciali forze. Si spiegava così il peso molecolare apparentemente elevato del caucciù e di altri colloidi, senza far vacillare la fede nell'impossibilità dell'esistenza di molecole tanto gigantesche. Nel 1918 la teoria dei colloidi fu supportata dall'analisi strutturale a raggi X della cellulosa, da cui risultò
che la cellula elementare delle radiografie (cioè il più piccolo gruppo di simmetria sempre ricorrente del reticolo cristallino) era nell'ordine di grandezza molecolare del più piccolo costituente possibile di queste sostanze. Dal momento che all'epoca si riteneva che una molecola non potesse essere più grande della cellula elementare, questo fu un duro colpo per i sostenitori della tesi che la cellulosa, il caucciù e molti altri colloidi fossero in realtà lunghe catene di molecole, ossia macromolecole.
Il più importante portavoce di questa tesi era Hermann Staudinger (1881-1965) che, dopo avere insegnato alla Technische Hochschule di Karlsruhe e alla Eidgenössische Technische Hochschule (ETH) di Zurigo, a partire dal 1926 lavorò all'Università di Friburgo in Brisgovia. Staudinger era un chimico organico di formazione classica, che voleva sintetizzare le macromolecole mediante reazioni di concatenamento; per lui le regole della chimica strutturale organica erano valide anche nelle 'dimensioni trascurate' di Ostwald, persino dovendo ammettere grandezze molecolari fino a un miliardo di atomi, ossia da un migliaio a centinaia di migliaia di volte superiori a quelle note fino ad allora. All'obiezione dei chimici organici, che gli facevano notare come le sue sostanze non fossero pure bensì miscugli, Staudinger rispose ridefinendo il concetto di purezza: fintanto che le macromolecole erano costituite da monomeri definiti si sarebbe trattato di molecole pure, anche se presentavano lunghezze diverse. Staudinger trasse i suoi dati in un primo tempo dalle reazioni classiche della chimica organica e, in seguito, da correlazioni tra peso molecolare e viscosità delle sostanze. Benché i risultati da lui ottenuti costituissero una forte evidenza dell'esistenza di macromolecole, ancora alla fine degli anni Venti la maggior parte dei suoi colleghi dubitava dell'esattezza della sua teoria.
Nel 1930 Staudinger ottenne un inatteso sostegno, forse anche indesiderato. Herman Francis Mark (1895-1992), insieme a Kurt H. Meyer (1883-1952), nel laboratorio principale dell'industria I.G. Farben di Ludwigshafen am Rhein, formulò la cosiddetta teoria delle micelle, che rappresentava un compromesso fra la teoria dei colloidi e quella delle macromolecole. Secondo l'opinione di Meyer e Mark, nella cellulosa si aggregavano da 40 a 60 catene di molecole, composte da 30 a 50 unità ca. di glucosio, a formare una micella (Furukawa 1997). Per Staudinger queste catene erano ancora troppo corte e, in un primo tempo, egli negò anche che fossero connesse tra loro; inoltre, non era propenso a correggere le opinioni da lui sostenute in modo tanto dogmatico. Meyer e Mark confermarono la connessione delle catene di molecole, mentre la lunghezza da loro ipotizzata risultò effettivamente troppo corta; la loro teoria si dimostrò così una soluzione di compromesso ideale, anche se limitata nel tempo. Molti nemici giurati di Staudinger accettarono subito la teoria delle micelle, prima che negli anni Trenta si affermasse definitivamente un'ulteriore evoluzione della teoria delle macromolecole o dei polimeri. Per ironia della sorte l'ultracentrifuga, uno strumento dalle alte prestazioni sviluppato originariamente nel contesto della scienza dei colloidi, ebbe un ruolo fondamentale per l'affermarsi della teoria dei polimeri. La necessaria quantificazione, resa possibile grazie al suo impiego, non soltanto andava contro lo stile di ricerca di molti chimici dei colloidi di orientamento tradizionale ma forniva anche indizi difficilmente confutabili del peso molecolare effettivamente elevato di molte sostanze.
Due controversie segnarono il confronto tra la chimica dei colloidi e la chimica dei polimeri. Da un lato la discussione di ordine generale se fossero forze fisiche o legami chimici a determinare il comportamento di queste misteriose sostanze, e in questo contesto l'ipotesi macromolecolare di Staudinger sulle prime sembrò essere in svantaggio; dall'altro lato il passo decisivo verso la chimica dei polimeri divenne possibile per molti chimici soltanto nel momento in cui, con la teoria delle micelle, si presentò una soluzione intermedia. È vero che Staudinger avversò questa teoria altrettanto aspramente quanto la teoria dei colloidi 'pura', ma essa fu invece accolta da molti sostenitori dell'ipotesi fisica. Pur avendo una durata effimera, la teoria delle micelle, e la diatriba scatenatasi intorno a essa, costituì dunque un ponte tra due opposti schieramenti. La sintesi moderna di queste concezioni, ossia la scienza dei polimeri degli anni Cinquanta, univa in sé concezioni fisiche sulle interazioni tra lunghe catene di molecole, metodi chimico-fisici per l'analisi della loro struttura e infine il dogma fondamentale della chimica dei polimeri, ossia che questi fossero costituiti da una lunghissima catena di molecole tenute insieme da normali legami chimici. La chimica dei colloidi invece perse parte della sua ragion d'essere e non riuscì ad affermarsi come sottodisciplina autonoma.
In Germania la chimica dei polimeri era praticata sia negli istituti di ricerca delle università sia in quelli industriali, spesso in stretta collaborazione, tipica per la chimica, tra i due ambiti. Staudinger, Meyer, Mark e molti altri contribuirono con i loro studi all'affermazione della 'chimica macromolecolare' come nuovo, importante settore della chimica organica. Le caratteristiche dei polimeri e le tecniche necessarie a studiarli si discostavano molto da quelle della chimica classica. Grazie ai numerosi allievi formatisi nel suo istituto di Friburgo, alla stesura di manuali, alla fondazione di riviste e a stretti contatti con l'industria chimica, Staudinger riuscì in effetti a radicare saldamente in Germania la chimica dei polimeri, con una continuità degna di nota che va dalla Repubblica di Weimar al nazionalsocialismo e agli inizi della Repubblica federale tedesca.
Negli Stati Uniti fu il progetto di ricerca basilare di un'impresa chimica, la DuPont, a porre i fondamenti essenziali per la crescita della scienza dei polimeri. Assunto alla DuPont dal 1928, Wallace H. Carothers (1896-1937) tentò di risolvere il mistero delle macromolecole partendo dal lato sintetico del problema. Non soltanto ebbe successo dal punto di vista scientifico ma, con le sue invenzioni, il nylon e il neoprene, creò importanti basi per l'industria delle fibre sintetiche e delle materie plastiche (Hounshell 1988). I suoi collaboratori, tra i quali Paul J. Flory (1910-1985) e Carl S. Marvel (1894-1988), riuscirono a trasformare più tardi nelle università americane la chimica dei polimeri in una scienza autonoma su base, per così dire, industriale. Un'altra figura importante divenne negli Stati Uniti Mark, espulso nel 1933 dalla Germania e nel 1938 dall'Austria, che dal 1940 insegnava al Brooklyn Polytechnic Institute di New York. Sulla spinta dell'imponente fabbisogno bellico degli Stati Uniti in fatto di materiali moderni, e spronati dopo la guerra dall'incipiente età della plastica, i polimeri divennero così un nuovo, essenziale gruppo di prodotti di un'antica branca industriale, quella chimica. La diatriba tra la chimica dei colloidi e la chimica dei polimeri costituisce pertanto anche un caso esemplare dell'importanza della tecnica per l'affermarsi delle teorie scientifiche.
Al contrario della chimica dei polimeri la biochimica non è diventata una sottodisciplina della chimica ma si è evoluta nella prima metà del XX sec. in una disciplina autonoma. Situati all'incrocio tra medicina, biologia e chimica, i biochimici si erano avvalsi con alterne vicende di queste scienze, prima di riuscire a istituzionalizzare la loro disciplina. L'origine della biochimica, o 'chimica biologica', secondo la denominazione americana usata intorno al 1920, risale alla chimica fisiologica dell'Ottocento. Intorno al 1800 la chimica organica era ancora considerata la disciplina che studiava le sostanze presenti negli organismi viventi. Nel corso del XIX sec. questo indirizzo mutò radicalmente: la chimica organica si occupava ora in maniera crescente della sintesi di nuove molecole artificiali, la cui struttura era nota e che erano analizzabili con i metodi della chimica classica. La fisiologia invece aveva bisogno di informazioni su sostanze complesse come proteine, grassi e carboidrati, la cui struttura non poteva essere esaminata con i metodi della chimica organica dell'epoca, nonostante i successi e le promesse di chimici brillanti come Hermann Emil Fischer (1852-1919). Inoltre a causa della carenza di modelli esplicativi di tipo chimico, si ricorse sempre più a concezioni provenienti dalla fisica, culminate nel primo quarto del XX sec. nella teoria colloidale delle proteine.
Il vuoto tra la fisiologia e la chimica fu occupato intorno al 1900 dalla biochimica che, in tal modo, raccolse l'eredità della vecchia chimica fisiologica. La dimostrazione della fermentazione acellulare da parte di Eduard Buchner (1860-1917) nell'anno 1897, come vuole la leggenda, diede il colpo di grazia al vitalismo, riconducendo i processi vitali a una visione puramente chimico-fisica e marcò così la nascita della biochimica moderna. Rispetto alla 'vecchia' chimica fisiologica, la 'nuova' biochimica disponeva tuttavia di un bagaglio concettuale e metodologico solo in apparenza superiore. Il concetto di enzima soppiantò quello del protoplasma come agente principale dei processi fisiologici, tuttavia la struttura e il meccanismo di funzionamento della nuova entità continuarono a rimanere senza spiegazione sino alla fine degli anni Venti. La vecchia tricotomia della chimica fisiologica, 'fisicalismo contro chimismo contro vitalismo', restava quindi valida anche per la biochimica, che continuava dunque il percorso a ostacoli tra medicina e biologia da un lato e chimica dall'altro. Temi e concetti come enzima, colloide, macromolecola e circolo intermedio occupavano sfere che, come ordine di grandezza, erano situate tra le molecole dei chimici e le cellule dei biologi, permettendo approcci sia riduzionistici sia vitalistici. Da questo punto di vista la biochimica fu influenzata profondamente da concetti appartenenti alle discipline affini, soprattutto dalla chimica fisica e organica (Kohler 1975, 1982).
Tra il 1920 e il 1945 erano soprattutto tre concetti a dominare la ricerca biochimica, quello di colloide, macromolecola e ciclo. La teoria colloidale, mutuata dalla chimica fisica, prometteva a prima vista di rendere partecipe la biochimica del prestigio della fisica. Secondo gli alfieri della teoria dei colloidi i processi vitali erano guidati da unità fisicamente comprensibili. Tale approccio venne abbandonato alla fine degli anni Venti, in parte perché con esso non si era riusciti a compiere progressi ma, soprattutto, in seguito alla comparsa, con il concetto di macromolecola, di una teoria rivale le cui previsioni potevano essere verificate sperimentalmente con successo. Quando si cominciarono a interpretare i risultati dei metodi strumentali dell'ultracentrifugazione e dell'analisi strutturale a raggi X, sviluppati in origine per la scienza dei colloidi, sempre più nella direzione dell'esistenza di una struttura molecolare delle proteine, nella biochimica si impose finalmente il nuovo paradigma. Numerosi biochimici noti e influenti operarono nella prospettiva concettuale del ciclo. Nel caso di Otto Heinrich Warburg (1883-1970) si trattava della catena respiratoria, alla quale si aggiunsero la glicolisi, il metabolismo del glicogeno, il ciclo degli acidi grassi e molti altri. Il più famoso divenne il ciclo dell'acido citrico o ciclo di Krebs, enunciato nel 1937 da Hans Adolf Krebs (1900-1981). Il ciclo dell'acido citrico è il mediano dei tre cicli di reazione che producono energia negli organismi animali e si colloca tra la glicolisi e la catena respiratoria.
All'inizio degli anni Quaranta la cellula era dunque vista come un sistema di cicli metabolici interconnessi, con l'ATP (adenosintrifosfato) come più importante 'valuta energetica' e numerosi enzimi che catalizzavano la formazione e la decomposizione dei prodotti metabolici. Accanto alla cromatografia, all'analisi strutturale a raggi X, alla microscopia e all'ultracentrifugazione, negli anni Trenta fu introdotta la marcatura con isotopi radioattivi come la più importante delle tecniche per decifrare i cicli della vita. Questo metodo sviluppato da George de Hevesy (1885-1966) accomunava per esempio il chimico fisico Harold C. Urey (1893-1981) e il biochimico Rudolf Schoenheimer (1898-1941) della Columbia University di New York nel progetto ambizioso di studiare con successo i processi biologici utilizzando i metodi e gli approcci tipici della fisica. Ciò fu reso possibile soltanto dal programma di uno dei più influenti research manager di questo periodo, Warren Weaver (1894-1978), della Rockefeller Foundation, il quale coniò la definizione di biologia molecolare e volle riunire attorno agli strumenti di ricerca gruppi di ricercatori provenienti dalla fisica, dalla chimica e dalla biologia. In tal modo permise l'ascesa di uno dei più acerrimi concorrenti della biochimica 'classica', la biologia molecolare. Quel che risalta in maniera evidente è anche il fatto che il teatro della ricerca di rilievo internazionale in questo campo si era spostato dall'Europa agli Stati Uniti.
A partire dal 1933 la politica antisemita e antidemocratica dei nazionalsocialisti in Germania aveva portato tra l'altro al licenziamento di circa un terzo dei biochimici attivi nelle università e negli istituti di ricerca. Proprio nel campo della biochimica (come per la fisica quantistica) la percentuale di scienziati ebrei, e quindi il tasso di emigrazione, era relativamente alta. Il minore prestigio, le scarse possibilità di carriera per i biochimici e l'affinità della materia con la medicina, prediletta da molti studenti ebrei, avevano portato già nella Repubblica di Weimar a questa situazione. Molti espatriarono negli Stati Uniti o in Gran Bretagna dove, per quanto non venissero accolti ovunque a braccia aperte, trovarono comunque in molti casi possibilità di lavoro. Neanche dopo la guerra, con una emigrazione di ritorno praticamente mai avvenuta e una rinnovata fuga di cervelli dalla Germania, migliorò la situazione. Molti ambiti di ricerca della biologia molecolare istituiti nel frattempo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna vennero perciò introdotti in Germania soltanto a partire dalla fine degli anni Sessanta (Deichmann 2001).
All'istituzionalizzazione della biochimica erano stati posti in Germania limiti molto stretti già negli anni Venti del Novecento. Il principio secondo il quale ci doveva sempre essere un professore ordinario a capo di un istituto era troppo rigido, in tempi di ristagno economico, per permettere la nascita di nuove discipline specialistiche. Gran parte dei biochimici rimase pertanto confinata in posizioni subalterne o in pochissimi istituti di ricerca. Negli Stati Uniti invece la biochimica si era potuta affermare a livello di dipartimento come disciplina ausiliaria nella maggior parte delle facoltà di medicina. Il prezzo di questa riuscita istituzionalizzazione era la concentrazione su questioni di diretta rilevanza medica. Furono per esempio negli anni Venti la ricerca sulle vitamine e negli anni Trenta la ricerca sugli ormoni a ricevere per questo motivo un enorme incremento. Se la biochimica da un lato traeva profitto da questo suo accresciuto prestigio pubblico e dai fondi per la ricerca stanziati dalla medicina e dall'industria, dall'altro, come disciplina, era però interessata piuttosto a questioni basilari. Negli Stati Uniti, l'endocrinologia e le scienze dell'alimentazione si separarono dalla biochimica negli anni Trenta e quest'ultima poté quindi smettere di focalizzarsi sulle applicazioni mediche, affermandosi come disciplina autonoma anche negli istituti di chimica e biologia (Kohler 1982).
Dal punto di vista chimico, la biochimica era una mera applicazione dei metodi e delle teorie della chimica. Con i grandi temi della biochimica dal 1920 al 1960 ca., quali l'ossidazione biologica, la fotosintesi, le numerose catene metaboliche intermedie e, infine, anche la scoperta della struttura degli enzimi e la ricerca virologica, questo campo di applicazione era ormai consolidato. Con la nascita della biologia molecolare e la sua fusione con la biochimica classica in una nuova scienza che si potrebbe già definire ingegneria genetica, parevano superati anche i metodi della chimica classica. A questo punto la cosiddetta chimica bioorganica sembrò offrire una via di scampo a più di un chimico alla ricerca di nuove applicazioni. Ampiamente affermatasi negli anni Sessanta e Settanta, la tradizione della biochimica organica risale fino agli inizi del XX secolo. Il suo scopo era in linea di principio la spiegazione delle reazioni biologiche sulla base dei meccanismi della chimica organica fisica. In tal modo, nella seconda metà del XX sec., la chimica organica si era assicurata il suo ambito di ricerca tradizionale, la chimica della vita.
Grazie alle conoscenze acquisite sul nucleo atomico, la Terra e il Cosmo, la chimica, al pari della fisica, sembra essersi appropriata di tutte le dimensioni della Natura. Ciò è stato possibile soltanto a partire dal presupposto di ammettere prove fisiche anche per arrivare a conclusioni chimiche in quanto, pur considerando le stelle alla stregua di un laboratorio chimico, i metodi tradizionali della chimica erano comunque in linea di principio inadeguati a determinare la composizione elementare di soli, pianeti e comete. In aiuto del chimico vennero soprattutto i metodi spettroscopici che, dopo i successi ottenuti in geochimica, promettevano di dare buoni risultati anche in altri settori della disciplina. Il principale punto di riferimento dei tre ambiti qui trattati è l'elemento chimico. Fin dagli inizi della chimica come scienza, la scoperta di un nuovo elemento garantiva al suo autore fama imperitura. Negli anni Trenta e Quaranta alla scoperta subentrò la creazione di nuovi elementi. Il vecchio sogno alchimistico della trasmutazione sembrava essersi così realizzato, naturalmente sotto presupposti completamente diversi. Cosa univa dunque tra loro gli ambiti, apparentemente tanto diversi, della geochimica, della chimica nucleare e della cosmochimica? I metodi geochimici e chimico-nucleari concorrevano e si completavano a vicenda nella 'caccia' a nuovi elementi, oppure nella loro 'coltura', come a dire la loro produzione artificiale. Lo studio della distribuzione geologica degli isotopi permetteva di trarre conclusioni sulla struttura degli atomi. Qui entrava in gioco anche la cosmochimica, dal momento che i risultati geochimici e chimico-nucleari fornivano importanti indizi sulla formazione dell'Universo.
La chimica nucleare si occupa della struttura del nucleo, delle reazioni nucleari e della distribuzione e stabilità dei nuclidi. I confini con la fisica nucleare non sono ben definiti, essendo stati tracciati dagli scienziati stessi sulla base dei metodi applicati. Mentre i chimici nucleari lavorano ricorrendo ai metodi chimici classici di separazione, depurazione e identificazione, i fisici nucleari si distinguono per l'impiego di strumenti, quali gli acceleratori di particelle e la formulazione di teorie e modelli matematici. Benché tale quadro di rigida divisione dei compiti valesse ancora nel 1938-1939, quando Otto Hahn (1879-1968), Lise Meitner (1878-1968) e Fritz Strassmann (1902-1980) scoprirono la fissione nucleare, fu però evidente già da prima che per individuare nuovi elementi, spesso presenti solo in tracce, era necessario il ricorso alle apparecchiature tecniche più avanzate. Radiochimici e geochimici divennero così i pionieri nell'impiego di strumenti e procedimenti di nuova concezione, quali elettrometri, camere di ionizzazione, spettroscopia a raggi X e spettrometria di massa. Lo studio della chimica 'dei fantasmi', come il chimico britannico Arthur Smithells (1860-1939) chiamava le prime ricerche sulla radioattività, o, per usare la definizione di Marie Curie (1867-1934), della "chimie de l'invisible", necessitava di particolari mezzi. Ciò non avvenne senza che vi fossero contrasti sull'effettivo valore delle prove così ottenute. In aiuto dei 'radioattivisti' intervenne però spesso l'industria, come nel caso di Curie (radio), Hahn e Meitner (protoattinio), nonché di Ida (1896-1978) e Walter (1893-1960) Noddack (renio). Grazie a essa, gli scienziati avevano la possibilità di produrre in quantità apprezzabili gli elementi in questione e di poterli studiare. Inoltre era proprio questo a permettere in primo luogo una vera e propria 'chimica' di questi elementi radioattivi (Roqué 2001).
Quanto ciò fosse importante è dimostrato dall'esempio della scoperta del renio e della mancata scoperta del masurio da parte dei coniugi Noddack. Il renio, l'elemento con il numero atomico 75, fu l'ultimo elemento non radioattivo a colmare le lacune ancora aperte nel sistema periodico degli elementi. Dopo la dimostrazione spettroscopica, ritenuta discutibile, fu l'appoggio dato dalla rinomata ditta Siemens und Halske e dall'impresa chimica Vereinigte Chemische Fabriken di Leopoldshalle a permettere la produzione del renio su scala abbastanza grande e quindi a renderne sicura l'individuazione. Per il masurio, che i Noddack credevano fosse l'elemento 43 da loro cercato, i due scienziati non ottennero analogo sostegno da parte dell'industria e non ebbero perciò mai modo di confermare la loro dimostrazione spettroscopica. Questo elemento fu prodotto nel 1937 da Carlo Perrier (1886-1948) ed Emilio Segré (1905-1989) mediante bombardamento del molibdeno con deutoni, e chiamato tecnezio, trattandosi del primo elemento creato in laboratorio. I coniugi Noddack avevano scelto accuratamente i minerali per le loro ricerche, basandosi sulle previste caratteristiche chimiche degli elementi cercati. Essi lavoravano secondo la tradizione classica della geochimica inorganica, pur usando per individuare le sostanze cercate i più moderni metodi fisici. Restavano quindi legati alla definizione della chimica come scienza della materia ponderabile, sostenuta nel Terzo Reich anche dai seguaci della Deutsche Chemie (chimica tedesca). Secondo i Noddack la fisica era una disciplina ausiliaria, i cui strumenti erano attrezzature che in chimica non avevano alcuna rilevanza epistemologica; di conseguenza rimase loro preclusa anche una delle più importanti linee di sviluppo della chimica e fisica nucleari: i cosiddetti elementi transuranici (Van Tiggelen 2001).
Nel 1932 a Cambridge James Chadwick (1891-1974) scoprì il neutrone, il costituente mancante dell'atomo dopo l'elettrone e il protone. Nel 1934 Irène (1897-1956) e Frédéric Joliot-Curie (1900-1958), a Parigi, riuscirono a fornire la dimostrazione della radioattività indotta artificialmente e nello stesso anno a Roma Enrico Fermi (1901-1954), con il suo gruppo di lavoro, iniziava a bombardare con i neutroni gli elementi pesanti. Fino ad allora l'uranio, l'elemento 92, era il più pesante elemento noto. Con l'ausilio del bombardamento a neutroni Fermi intendeva produrre elementi ancora più pesanti, i cosiddetti elementi transuranici. Inoltre, il suo metodo liberava finalmente i fisici dalla dipendenza dai processi di decadimento esistenti in Natura; la radioattività su richiesta sembrava essere a portata di mano. I ricercatori parigini e il gruppo di lavoro berlinese di Meitner, Hahn e Strassmann parteciparono a questa gara, tanto più che i nuovi elementi, accanto alle conoscenze scientifiche, promettevano una notevole gloria al loro scopritore. Alla fine del 1938, quando Fermi annunciò con sicurezza l'esistenza di due nuovi elementi aldilà dell'uranio, questo sogno andò gradualmente in frantumi nel vero senso della parola. Stavolta erano i tradizionali metodi di ricerca chimici a non permettere altra conclusione se non che il nucleo dell'uranio bombardato con i neutroni subiva una fissione. Hahn e Strassmann furono gli autori di questa scoperta per quanto concerne la chimica mentre Meitner, ormai dal suo esilio svedese, e Otto Robert Frisch (1904-1979) riuscirono a dare l'interpretazione fisico-nucleare della fissione nucleare (Sime 2001). La strada verso la bomba atomica e l'energia nucleare era in tal modo tracciata. Gli elementi transuranici tuttavia non restavano una chimera. Durante i lavori che portarono alla costruzione delle prime bombe atomiche negli Stati Uniti, nel 1940 e nel 1941 i chimici Edwin M. McMillan (1907-1991), Philip Abelson e Glenn T. Seaborg (1912-1999) riuscirono in effetti a dimostrare l'esistenza dei primi elementi transuranici, il nettunio e il plutonio. Soltanto pochi anni più tardi il plutonio venne prodotto in quantità nell'ordine dei chilogrammi nei reattori atomici di Hanford e usato nella bomba sganciata su Nagasaki. Per determinare le caratteristiche chimiche del nuovo elemento, importanti soprattutto per mettere a punto tecniche di separazione adeguate, furono sviluppati particolari metodi di lavoro chimici su scala ultramicroscopica. Durante la Seconda guerra mondiale vennero prodotti anche due ulteriori nuovi elementi, sicché nel 1945 il numero totale degli elementi noti era arrivato a 96. Passando per la chimica degli elementi transuranici, la radiochimica di Curie, di Hahn e di altri ricercatori si era evoluta nella moderna chimica nucleare, con tutte le conseguenze politiche e sociali di cui anche la disciplina consorella, per quanto meno nota della fisica nucleare, doveva rispondere. La trasmutazione degli elementi si era fatta realtà e la loro costruzione sembrava ora possibile quasi con la stessa facilità della sintesi delle molecole a partire dalla metà del XIX secolo. Una nuova generazione di chimici nucleari, esperti in fisica e avvezzi all'impiego di grandi apparecchiature tecniche, prese il posto dei radiochimici della vecchia scuola negli istituti di ricerca, in particolare a Berkeley negli Stati Uniti, a Dubna in Unione Sovietica e a Darmstadt nella Repubblica federale tedesca.
La chimica nucleare rimaneva tuttavia pur sempre all'ombra della fisica nucleare; lo stesso si potrebbe dire della disciplina poco nota detta geochimica. La sua fase di formazione iniziò quando la fisica quantistica e la teoria della relatività resero possibili nuovi tipi di cognizioni sul processo di formazione degli elementi chimici e la composizione chimica dell'Universo. Benché naturalmente fossero i fisici a dare l'impronta fondamentale, i chimici fisici contribuirono in modo determinante all'elaborazione delle teorie. Sul piano empirico ebbe particolare rilievo l'indirizzo geochimico rappresentato principalmente da Victor Moritz Goldschmidt (1888-1947) a Oslo e a Gottinga, che permetteva di comprendere sia la struttura del nucleo atomico sia l'origine del Cosmo. Goldschmidt era uno specialista nel campo della distribuzione degli elementi e degli isotopi. Negli anni Venti aveva iniziato con la comparazione sistematica della ripartizione degli elementi sulla Terra, sul Sole e sulle stelle. A tale scopo sostituì la spettroscopia a raggi X, preferita fino a quel momento, con un metodo ottico in grado di fornire dati più precisi. Questi lavori permettevano di trarre conclusioni sulla relativa stabilità di determinate disposizioni del nucleo atomico, oltre a fornire materiale a sostegno dell'ipotesi del big bang.
Nel 1944, nel ricevere il più alto riconoscimento della Geological Society di Londra, la Wollaston Medal, lo stesso Goldschmidt espresse la sua visione della cooperazione tra i campi apparentemente tanto distanti della fisica nucleare e della cosmologia: "Inoltre possiamo già intravedere come il lavoro della geochimica sia strettamente connesso con l'astrofisica e la fisica nucleare, riportandoci al problema ultimo dell'origine ed evoluzione della materia stessa" (Kragh 2001, p. 180). Nel 1950, tre anni dopo la sua morte, con la fondazione della rivista "Geochimica et cosmochimica acta" si formalizzava l'unione tra le due discipline, la geochimica e la cosmochimica, e Goldschmidt, probabilmente anche per motivi di politica scientifica, fu promosso successivamente a padre fondatore di questo nuovo campo di ricerca interdisciplinare.
Sebbene la chimica nucleare, la geochimica e la cosmochimica fossero veramente interdisciplinari ‒ più di tutti gli altri nuovi campi di ricerca menzionati in questo capitolo ‒ il grado di cooperazione tra la fisica, la chimica, la geologia, l'astronomia e le altre discipline 'classiche' coinvolte era variabile; esse erano tenute insieme dall'impiego di strumenti analoghi ma divise dalla diversa preminenza accordata ai fenomeni 'naturali' o 'artificiali'. Tali fratture non sussistevano soltanto lungo le tradizionali frontiere tra le singole discipline ma anche tra le generazioni: i 'radioattivisti' del primo decennio del XX sec. erano fisici al pari dei loro successori, i fisici nucleari, una generazione più tardi, ma lo stile di ricerca dei primi era totalmente impostato sulla radioattività presente 'in Natura' mentre i fisici nucleari, intorno al 1950, non potevano più occuparsi di fisica senza ricorrere ai reattori atomici. Qualcosa di analogo si potrebbe dire dei fisici delle particelle, che dapprima studiavano le radiazioni cosmiche e più tardi si trovarono a lavorare con gli acceleratori di particelle, e anche dei chimici, che erano alla ricerca di nuovi elementi prima nella crosta terrestre e poi nel detector. Questa tecnicizzazione del campo d'indagine delle scienze naturali avanzò di pari passo con la tecnicizzazione del loro contesto di ricerca, il laboratorio.
Uno dei più rilevanti sviluppi della chimica dopo il 1945 fu il largo impiego di strumenti originariamente utilizzati in fisica: spettrometri a raggi infrarossi, a raggi ultravioletti, a RMN (risonanza magnetica nucleare), di massa, e l'analisi strutturale a raggi X. Tale fenomeno si era già andato profilando prima della Seconda guerra mondiale e durante il conflitto ne furono poste le basi fondamentali. Due settori sono di particolare importanza in questo contesto: la fisica chimica, che si sviluppò a partire dal 1930 ca. tra le due discipline classiche, e l'industria chimica e petrolifera. Semplificando si potrebbe dire che la fisica chimica approntava le apparecchiature ed elaborava i metodi che sarebbero poi stati applicati dall'industria chimica, ma così configurato tale quadro appare troppo unilaterale. Al contrario i fisici chimici erano anche utenti e fruitori dei nuovi metodi, mentre i collaboratori delle grandi aziende petrolifere e delle imprese chimiche inventavano e perfezionavano qualche nuovo strumento. La realizzazione degli strumenti scientifici creò quindi nuove dipendenze e interazioni tra l'industria, gli enti governativi e le università. Dopo il 1945 tale tendenza si sarebbe rafforzata e avrebbe portato a nuove forme di organizzazione e a nuovi ambiti d'indagine, contribuendo nel settore della chimica allo sviluppo di uno stile di ricerca analogo a quello delle indagini su vasta scala e del lavoro d'équipe che negli anni Sessanta e Settanta aveva caratterizzato la fisica e la biologia.
Gli strumenti tecnici e fisici non erano mai stati veramente estranei alla chimica. La rivoluzione chimica operata da Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) in Francia sul finire del Settecento, era basato sull'impiego di strumenti come la bilancia, specchi ustori ed eudiometri. All'inizio del XIX sec., in Inghilterra, fu tra gli altri Humphry Davy (1778-1829) a impiegare metodi elettrochimici per la scoperta dei metalli alcalini e alcalino-terrosi. Nella seconda metà del secolo, utilizzando metodi spettroscopici fu trovato l'elio sulla superficie solare, ancora prima di poterne dimostrare l'esistenza sulla Terra. Nella chimica fisica, in fase di ricostituzione a partire dall'ottavo decennio del XIX sec., le prove fisiche erano diventate assolutamente di routine ed erano quasi completamente eliminate le frontiere tra le discipline. Tale sviluppo interessò tuttavia soltanto i settori limite della chimica classica, che aveva trovato il suo vero e proprio fulcro nella chimica organica, ambito in cui gli strumenti tecnici quali le batterie e i metodi fisici come la spettroscopia erano perlopiù sconosciuti, essendo considerati inutili oppure ignorati. Ciò era riconducibile sia alla tendenza, indubbiamente presente, a ignorare quello che esula dal proprio campo (per supponenza o caparbietà) ‒ che in tempi normali, secondo Thomas S. Kuhn (1922-1996), garantendo il regolare svolgimento del lavoro scientifico di routine secondo canoni prestabiliti assolveva a una funzione importante ‒ sia al fatto che le molecole allora oggetto delle indagini dei chimici organici erano troppo complesse per l'impiego degli strumenti dei fisici. Ancora all'inizio degli anni Cinquanta uno dei maggiori chimici teorici degli Stati Uniti, E. Bright Wilson (1908-1981), non riuscì a nascondere la sua ammirazione per le prodezze dei chimici organici, che poco prima avevano sintetizzato il cortisone, una molecola con 21 atomi di carbonio, 28 di idrogeno e 5 di ossigeno, e determinato la sua struttura. Di contro, per il chimico teorico la determinazione anche solo approssimativa di una molecola come l'acido cloridrico, composta soltanto da un atomo di idrogeno e uno di cloro, costituiva pur sempre una dura sfida (Wilson 1952). I chimici organici avevano ottenuto con il loro strumento tipico, la reazione chimica, notevoli risultati nel campo della determinazione della struttura e della sintesi di grandi molecole. Fino agli anni Cinquanta avanzati questo ruolo di preminenza della reazione chimica sarebbe ancora rimasto incontrastato, ma già prima del 1945 si era andata delineando una tendenza a favore dell'impiego di metodi spettroscopici. La fondamentale controversia tra la chimica dei colloidi e la chimica dei polimeri fu portata avanti e poi risolta mediante l'analisi strutturale a raggi X e l'ultracentrifugazione; nella chimica organica fisica i metodi più avanzati venivano già impiegati negli anni Trenta, così come, naturalmente, nella fisica chimica, ma la loro introduzione nella chimica organica fu preparata dalla fisica chimica e dall'industria chimica.
Il più importante centro di sviluppo furono gli Stati Uniti e la forza motrice il pragmatismo, in senso sia filosofico sia nell'uso corrente del termine. In chimica fisica si affermarono perlopiù approcci di tipo semiempirico, dal momento che persino nel caso di molecole semplici la determinazione su base matematica non era possibile a causa della complessità e del numero delle equazioni da risolvere. I chimici e i fisici ricorrevano perciò a modelli semplificati, che permettevano un'analisi ragionevole degli spettri, basata sui livelli di energia degli elettroni, nonché sulla rotazione e vibrazione delle molecole che, con l'adozione di modelli adatti, potevano essere separati, diventando determinabili. Tale pensiero si fondava sul pragmatismo, di cui uno degli esponenti era Charles S. Peirce (1839-1914), mentre il fisico Percy W. Bridgman (1882-1961) della Harvard University riconduceva gli oggetti fondamentali della fisica ai processi di misurazione che li determinavano. In tal modo il sistema di riferimento del mondo reale passava in secondo piano, pur non divenendo obsoleto; al suo posto subentrava il controllo dello strumento di misurazione. Negli Stati Uniti era soprattutto la spettroscopia molecolare, in quanto ambito sperimentale della fisica chimica e della chimica quantistica, a essere particolarmente rappresentata. I centri più importanti erano Harvard e il MIT di Cambridge, nel Massachusetts, la University of Illinois a Chicago, la University of Michigan, la University of California a Berkeley e la Duke University di Durham, North Carolina. Questi gruppi conducevano le loro ricerche negli anni Trenta principalmente utilizzando la spettroscopia a raggi infrarossi; si calcola che nel 1938 negli Stati Uniti fossero in uso circa 15 spettrometri di questo tipo, costruiti dai ricercatori stessi. Non si trattava di un numero consistente, ma rendeva possibile il miglioramento degli strumenti, lo sviluppo di metodi adeguati e la formazione di scienziati e tecnici. La spettroscopia molecolare dimostrò però soprattutto di essere particolarmente adatta alla soluzione di problematiche chimiche, anche se soltanto di quelle poste dalla minore tra le sottodiscipline, ossia la chimica teorica. Con l'ingresso della concezione quantomeccanica dei legami chimici e della struttura molecolare nel pensiero comune dei chimici a partire dagli anni Trenta, si era fatta strada anche la crescente disponibilità ad accettare gli strumenti legati a queste teorie (Reinhardt 2004).
Nel 1947 negli Stati Uniti esistevano già ca. 500 spettrometri a raggi infrarossi, la maggior parte dei quali era costituita da apparecchi commerciali. Motivo di questa crescita vorticosa era un pragmatismo di altro tipo: la necessità da parte dell'industria chimica di disporre di strumenti di controllo per pilotare reazioni su vasta scala aveva portato già prima della Seconda guerra mondiale, e in seguito in misura maggiore nel corso di essa, all'impiego di metodi spettroscopici. La spettroscopia a raggi infrarossi e la spettrometria di massa erano particolarmente adatte all'identificazione e alla determinazione quantitativa di idrocarburi relativamente semplici e di sostanze chimiche aromatiche, che costituivano la parte più rilevante della produzione industriale. L'impiego della spettroscopia faceva risparmiare tempo e denaro, richiedeva però apparecchi per operazioni di routine che fossero di gran lunga superiori, per semplicità di utilizzazione e affidabilità, ai bizzarri strumenti di ricerca dei fisici chimici. Fu soprattutto il programma governativo per la produzione in grandi quantità di caucciù sintetico a esercitare una funzione trainante sullo sviluppo di strumenti adeguati; altrettanto importanti furono i progetti per la produzione di carburanti ad alto rendimento e di penicillina. I prototipi degli strumenti di nuova generazione furono sviluppati dall'industria petrolchimica stessa; vanno qui menzionate soprattutto la Shell Development Company di Emeryville, California, e la American Cyanamid di Stamford, Connecticut. Per la produzione in serie la petrolchimica si serviva di aziende locali specializzate nella costruzione di strumenti, in questo caso la Beckman Instruments e la Perkin-Elmer, assurte poi entrambe al rango di più importanti costruttori di strumenti del dopoguerra (Rabkin 1987).
Prima che l'industria chimica riconoscesse l'efficienza dei nuovi strumenti per la soluzione dei suoi problemi, nei primi tre decenni del XX sec. furono soprattutto le organizzazioni governative, come il National Bureau of Standards (NBS) di Washington, a sviluppare con continuità, anche se su piccola scala, standard e soluzioni modello per l'impiego della spettroscopia a raggi infrarossi e di altre tecniche nell'industria chimica. Una funzione pionieristica fu esercitata in tal senso da William W. Coblentz (1873-1962) al NBS; egli è considerato ‒ analogamente a Goldschmidt per la geochimica ‒ il padre fondatore della spettroscopia a raggi infrarossi in chimica organica.
Diversamente che in Francia e Germania, e ben più che in Gran Bretagna, l'industria petrolchimica e la fisica chimica svilupparono negli Stati Uniti un'infrastruttura per la progettazione, la produzione e l'impiego degli strumenti tecnici più avanzati, processo nel quale la Seconda guerra mondiale e le superiori risorse economiche del paese svolsero un ruolo decisivo. Tuttavia, la concentrazione di questo sviluppo negli Stati Uniti si era già profilata prima del conflitto, grazie alla considerazione relativamente alta di cui godeva la spettroscopia molecolare, ma soprattutto per l'atteggiamento tendenzialmente pragmatico di molti scienziati americani. Dopo la guerra tale sviluppo andò ancora aumentando, finché negli anni Sessanta la ripresa economica e una parziale inversione della fuga dei cervelli diedero modo all'Europa di rimettersi in pari. Insieme agli strumenti migrarono oltre Atlantico anche gli stili di ricerca, le teorie su cui si fondavano e le forme organizzative della ricerca a essi legate. Da allora la chimica americana è riuscita a imprimere il suo marchio sulla scienza mondiale, almeno nella misura in cui questo fu fatto dalla chimica tedesca prima della Grande guerra con l'esportazione dei suoi prodotti.