La seconda guerra punica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La seconda guerra punica (218 - 202 a.C.) è dominata dal genio militare di Annibale, che porta il conflitto in Italia e sconfigge quattro volte di seguito gli eserciti romani, causando almeno 100 mila tra morti e prigionieri. Ma la strategia di Annibale fallisce perché gli alleati, nonostante numerose defezioni, mantengono una notevole coesione. Logorato da anni di inutili campagne, Annibale è alla fine costretto a tornare in patria: nell’estate del 202 a.C., a Zama, Publio Cornelio Scipione gli infligge la sconfitta decisiva. Le conseguenze della guerra annibalica sono comunque pesantissime: da un punto di vista psicologico, in primo luogo, ma anche dal punto di vista materiale, con l’Italia fiaccata da almeno 200 mila morti e centinaia di comunità distrutte.
Nato nel 247 a.C., Annibale è il primo di tre fratelli (gli altri sono Asdrubale e Magone). Ammirando Santippo, il padre gli dà come precettore Sosilo di Sparta, per iniziarlo alla cultura greca. Per gli aspetti militari prende a modello Alessandro, studiandone campagne e personalità. Conosce poi la produzione di argomento bellico dell’età sua. Superiore a Pirro e, come tattico, persino ad Alessandro, Annibale è il sommo esponente della scuola militare ellenistica e ne applica i dettami, innovandoli, sui campi d’Italia. Meno potente e compatto delle armate greche, il suo esercito è più versatile e adatto a ogni tipo di terreno: la tattica prevede l’aggiramento del nemico, preparato da un centro capace di offrire una resistenza elastica e di combattere arretrando e completato da valide cavallerie, pesanti e leggere, di Libi, Iberi, Galli e soprattutto Numidi.
Costretto ad affrontare uno stato assai più potente, Annibale deve evitare una guerra di logoramento e confida, per riuscirvi, sulla propensione di Roma alle battaglie campali. Certo che le dimensioni fisiologiche degli eserciti del tempo potranno impedire ai nemici di schiacciarlo con la forza del numero, conta sulla sua superiorità tattica per sconfiggere le armate che gli verranno via via opposte. Convinto che la federazione romana si regga sulla forza e sul prestigio delle legioni, è sicuro di vederla crollare dopo i primi rovesci. Attaccata e vinta sul suo territorio, Roma vedrebbe gli alleati e persino i cittadini disertare o passare al nemico e si arrenderebbe. Annibale pensa dunque – e lo afferma in Livio – di condurre una guerra-lampo simile a quelle combattute in Oriente, risolte in una o due battaglie soltanto.
Il Barcide tuttavia non ha compreso né la realtà politica, né la mentalità di Roma e commette errori fatali. L’esercito punico, reclutato tra i barbari d’Occidente, non può, per mantenere l’efficienza, tradire i requisiti naturali di quei popoli, capacità combattiva e nativa ferocia, e lacererà l’Italia, esasperando soprattutto le genti tirreniche. Quanto ad Annibale, egli, educato alla greca, concepisce a supporto dell’attività bellica l’uso sistematico dell’espediente e dello stratagemma, che aumenta le possibilità di vittoria, ma è inaccettabile per la primitiva etica romana. Padrone dell’arte ellenica di mêtis, l’uso bellico dell’intelligenza, appare agli occhi del popolo e della classe dirigente romani come un nemico con cui non si può trattare.
Egli confida troppo, poi, sulle risorse dei primi alleati, i Celti cisalpini e Capua. Sotto le sue insegne in 20 mila, i Galli sono però divisi e incapaci di perseverare nello sforzo, continuando la guerra o inviandogli aiuti. Questo passo è reso arduo, inoltre, dalla barriera di territorio romano che taglia in due la penisola interrompendo i contatti con l’Italia centrale: una barriera su cui perderà l’esercito e la vita suo fratello Asdrubale. Capua, d’altronde, malgrado le ambizioni, non sa divenire un centro di aggregazione credibile. Il sogno di coagulare la "seconda Italia" – quella appenninica, non integrata e ostile a Roma – è destinato a fallire. Le genti passate a lui rimangono entità singole, senza strategia comune, mentre regge compatta l’area tirrenica, avvinta a un senato il cui carattere transnazionale costituisce la vera forza di Roma. Questa realtà, che rappresenta un unicum nel mondo di allora, è lo scoglio contro cui si infrangerà il suo piano, decretandone la sconfitta.
Il console Publio Cornelio Scipione deve attaccare in Spagna, mentre il collega Tiberio Sempronio Longo deve passare in Africa. La strategia di Roma è però vanificata dall’azione del Barcide, che, partito sul far dell’estate, varca i Pirenei e, dopo aver eluso le truppe di Scipione al guado sul Rodano, supera le Alpi, piombando in Italia. Mentre Sempronio risale dalla Sicilia, Scipione muove contro il nemico. Vinto e ferito presso il Ticino, con gli Insubri in rivolta, deve però ripiegare su Piacenza. Poco dopo (dicembre 218 a.C.) il collega dà battaglia.
Attirate dai Numidi oltre il Trebbia, le truppe romane vengono travolte sui fianchi e aggirate dalla cavalleria e dagli elefanti, poi assalite alle spalle da un reparto posto in agguato nottetempo: una parte dell’esercito può aprirsi un varco, ma le perdite, morti o prigionieri, sono di 15 mila uomini circa. La Cisalpina è perduta.
Mutato il quadro politico, per il 217 a.C. vengono eletti Cneo Servilio Gemino e per la seconda volta Caio Flaminio. I consoli attendono sugli opposti versanti della penisola, Servilio ad Ariminum e Flaminio ad Arretium (Arezzo), contando di riunire le forze non appena siano chiare le linee di marcia del nemico.
Annibale, tuttavia, è troppo abile: sbucato a primavera inoltrata nell’alto bacino dell’Arno, scende per la val di Chiana. Nella conca di Tuoro, dove il lago Trasimeno sfiora i monti oltre Cortona, le legioni cadono in trappola: inferiore di numero, accerchiato e con il lago alle spalle, l’esercito romano viene sconfitto. Altri 15 mila soldati vanno perduti, morti o prigionieri e lo stesso console perisce per mano di un capo degli Insubri. Poco dopo anche la cavalleria di Servilio viene annientata.
A nulla serve il ricorso alla prassi antica della dittatura: Roma rifiuta la strategia del prescelto, Fabio Massimo, che – ritenendo impossibile affrontare Annibale sul campo – propone di logorarlo con la guerriglia. Con procedura anomala il popolo gli impone come magister equitum un avversario politico, Marco Minucio Rufo, che poi equiparerà a lui, vanificando per il dissenso tra i due l’unità di comando. Giunto nel sud, Annibale continua a devastare la penisola e si spinge fino all’agro Falerno, donde esce con uno stratagemma malgrado il tentativo di Fabio per bloccarlo. Al termine dell’anno si ritira a Gereonio per svernare.
Le proteste di cittadini e socii spingono allo scontro, che soprattutto uno dei consoli, l’homo novus Caio Terenzio Varrone, apertamente sollecita. Reclutate quattro legioni, Varrone e il collega Emilio Paolo raggiungono i veterani che sorvegliano Annibale in Apulia: è la forza più numerosa mai messa in campo da Roma: 80 mila uomini circa. Il 2 agosto 216 a.C., presso Canne, nella piana dell’Ofanto, le legioni danno battaglia ma, avvolte con una manovra perfetta, vengono annientate. Sul campo rimangono 50 mila caduti e 19 mila sono i prigionieri; periscono il console Emilio Paolo, l’ex console Servilio Gemino, Minucio Rufo, entrambi i questori, 29 tribuni militari, 80 senatori e un numero enorme di cavalieri.
In meno di due anni Annibale ha traversato la penisola, devastandola, ha distrutto tre armate consolari e messo fuori combattimento, tra morti e prigionieri, oltre 100 mila nemici. Di attaccare l’Urbe pensa di non aver bisogno: come aveva previsto, infatti, la federazione italica prende a sfaldarsi, lasciandogli intravedere la vittoria. Oltre a Capua, decisa a sostituirsi a Roma, in breve tempo disertano i Lucani e gran parte degli Apuli, tutti i Sanniti tranne i Pentri e tutti i Bruzzii tranne gli Uzentini; poi, via via, l’intero mondo italiota, Siracusa e quasi tutta la Sicilia. Il meridione tradisce al completo. Ad aggravare la situazione vengono prima la disfatta del console Albino ad opera dei Boi, nella Silva Litana, poi l’alleanza tra Annibale e Filippo V, re di Macedonia.
Malgrado ciò, Roma rifiuta di trattare. Vietano il negoziato formalmente la malizia e la crudeltà attribuite al nemico e alla sua armata; certo la paura, che salda all’Urbe l’Italia tirrenica, i cui esponenti sono da tempo integrati in senato. La rivolta cessa così di estendersi: con l’eccezione di Capua, nell’Italia media il Barcide non trova alleati. Quelle che gli si affiancano sono forze disperse e malsicure, non più fedeli a lui di quanto lo siano state a Roma e prive di strategie comuni. Di più, sono incapaci di lottare alla pari con le legioni e i generali della repubblica, inferiori ad Annibale, sono però in grado di tener testa ad ogni altro nemico. Pur potendo raccogliere forze notevoli, il Cartaginese è costretto a frazionarle e a delegarne il comando, e finisce per esporle alla sconfitta. Annibale diviene ora vulnerabile alla strategia di Fabio, che punta alla guerra d’usura e non ottiene più le grandi battaglie campali che gli permetterebbero forse di vincere. Moltiplicate le leve (in armi rimangono a lungo da 20 a 25 legioni), i Romani si limitano a sorvegliarlo con un esercito, mentre le altre forze, lontano da lui, gli sottraggono basi e alleati.
Il Barcide ottiene successi minori, che però non bastano. Malgrado l’inasprirsi della lotta, malgrado le misure durissime prese per logorare il nemico e prevenire diserzioni e tradimenti, il corso della guerra cambia. Nel 211 a.C. la puntata in direzione di Roma non salva Capua, circondata e costretta ad arrendersi. Nello stesso anno cade Siracusa e l’anno dopo è perduta la Sicilia. Nel 209 a.C. viene ripresa Taranto, mentre in Spagna, dove sono morti il padre e lo zio Publio Cornelio Scipione, il futuro Africano, abbatte l’impero di Cartagine in meno di tre anni.
Quando, nell’estate del 206 a.C., la testa di Asdrubale (che, cercando di raggiungerlo, è stato vinto e ucciso al Metauro) viene gettata davanti alle sue trincee, il Barcide perde ogni speranza. Confinato nel Bruzzio, poi accerchiato a Crotone, dove lascerà memoria delle sue gesta, deve infine tornare in patria. È l’autunno del 203 a.C.: Annibale è rimasto in Italia per 15 anni.
Lo attende Scipione, il quale, raggiunto il consolato, ha portato la guerra in Africa. Più volte vincitore, eleva al trono di Numidia Masinissa, re dei Massili, e acquisisce per sé, e più ancora sottrae al rivale, l’apporto decisivo della cavalleria berbera. Sul campo di Zama Annibale compie il suo capolavoro, infliggendo al giovane rivale una lezione di tattica, ma non può evitare la decisiva sconfitta.
È lui il primo, ora (201 a.C.), a patrocinare la pace. Essa è durissima: Cartagine deve abbandonare la Spagna e lasciar libere le città africane oltre le Fosse Fenicie; restituire a Masinissa, almeno in teoria, i possessi che eran stati suoi o degli antenati anche entro i confini riconosciuti dal trattato e rinunciare a condurre operazioni militari fuori della Libia (dove, inoltre, può guerreggiare solo con l’assenso dei Romani); consegnare gli elefanti da guerra e la flotta eccetto dieci navi; restituire prigionieri e disertori; impegnarsi a pagare in cinquant’anni 10 mila talenti d’argento; dare infine 100 ostaggi, scelti tra la più nobile gioventù cittadina. Roma controlla ormai il bacino occidentale del Mediterraneo.
Dura secondo Floro al punto che “il popolo vincitore non era dissimile da un popolo vinto”, la guerra con Cartagine lascia in Italia tracce indelebili e avvia una svolta profonda.
Roma si è rinnovata: la città è adesso il centro più popoloso della penisola e ha sviluppato un nuovo modello di economia, orientato verso il commercio. Immutate sono le strutture politiche, ma il senato ha acquisito un potere e un prestigio immensi. Scipione, infine, ha elaborato da quelle annibaliche tattiche nuove, che sfruttano la flessibilità delle legioni. Il nuovo esercito è superiore alle armate ellenistiche e rende superfluo, in Oriente, il ricorso al potenziale demografico della repubblica. Già capace di fondere realtà diverse, Roma apprende a prevalere con le armi e questo mezzo seduce la sua classe dirigente per oltre due secoli.
Enormi sono state però le spese e spaventosi i danni. Quattrocento città, prese da Annibale, sono state riconquistate dai Romani; molte sono state distrutte, molte altre espugnate e messe a sacco. I campi e le fattorie del meridione sono stati devastati per anni e intere popolazioni deportate o fatte schiave. Alla fine della guerra Lucania, Apulia e Bruzzio appaiono semideserte e a poco valgono i tentativi di risollevare Campania e Sannio. Altissimo è stato il costo in termini di vite: 200 mila almeno tra cittadini e alleati sono morti o dispersi. Gravi tra la popolazione maschile soprattutto, le perdite piegano una società che sui maschi fonda processi produttivi e potenza militare: e le difficoltà incontrate nel reclutare truppe per gli impegni oltremare inducono il senato a ridurre i livelli minimi di censo richiesti.
Ancor più drammatica è la cifra politica e morale del conflitto. La calata di Annibale ha indotto l’"altra Italia" – quella appenninica e greca, non integrata – a ribellarsi. La rivolta coinvolge quasi tutti gli Osco-Sabellici e gli Italioti e ripropone antichi contrasti sopiti con l’unificazione della penisola. L’Italia prova così l’angoscia di un duro scontro intestino.
Al termine della guerra molte comunità fedifraghe vengono private di parte dell’agro e la pena sembra mite, togliendo agli Italici, falcidiati dalla guerra, terre che non potrebbero coltivare per carenza di braccia. Il demanio assorbe dunque, nel sud, superfici enormi, ma queste non vengono assegnate, poiché anche tra i cives è soprattutto il ceto contadino ad aver sofferto. Rimasto quasi intatto, tale patrimonio fondiario desta l’avidità dei proprietari terrieri, che possono affittarne senza ostacoli grandi estensioni perché sono i soli interessati. Quando la curva demografica risale, il possesso si è ormai consolidato, ed essi finiscono per ritenere l’occupazione delle terre un diritto, da difendere anche contro le leggi agrarie frattanto emanate.
“In certa misura era l’Italia delle antiche roccaforti d’altura, di pastori e piccoli contadini, di orgogli tribali e cantonali che la bufera annibalica aveva spazzato via. A guerra finita, le antiche strutture apparivano in gran parte distrutte” (Giancarlo Susini). Peggio: entrano in crisi i valori etici che hanno sostenuto la repubblica fino alla vittoria e che sono sembrati incrollabili.