La Seconda guerra mondiale
L’evento Seconda guerra mondiale, nell’interpretazione recente del Novecento, chiude un ciclo trentennale di tensioni internazionali e interne agli Stati, del quale fissa il parossismo estremo saldandone le linee di faglia in una sintesi drammatica e globale. «Età della catastrofe» (E.J. Hobsbawm), la «guerra dei trent’anni» (C. Pavone), ancora le sue radici in un evento dalle origini «controverse» come la Grande guerra, e prosegue alimentata dalla brutalizzazione della politica (G.L. Mosse) in una successione di conflitti, originariamente interni, orientati alla riqualificazione ideologica, etnica e razziale delle «patrie» protagoniste della prima, grandiosa esplosione continentale. Lungo il 1914-18 la centralità europea aveva attirato nel gorgo del conflitto flussi di risorse e impegni sempre più vasti a livello internazionale, innescando dinamiche destinate a dare corpo su scala globale alla fine di quella egemonia. Tutto ciò proprio mentre si materializza il tentativo di costruire una potenza imperiale nel cuore del continente, nodo gordiano della «questione tedesca» che, in chiave di lotta per l’egemonia, rappresenta indiscutibilmente uno dei tratti caratterizzanti la prima metà del secolo e che il 1918 non taglia, rinviandone solo la «soluzione» (J. Barraclough). Oltre il velo della fragile stabilizzazione degli anni Venti, l’onda dominante sembra allora quella di una guerra senza fine, che si alimenta sul continente europeo di una sequenza di conflitti intestini destinati a fissare contrapposizioni ideologiche di carattere ultimativo, attorno alle quali crescono regimi e identità che fanno della guerra il banco storico di prova del destino di popoli che, dall’esser nazioni, precipitano nella rigidità delle razze.
Il revisionismo dei fascismi e del Giappone, uniti da riferimenti ideologici e da un dinamismo comune, conduce a tappe forzate alla guerra, determina i tempi tattici della politica internazionale, in Europa e fuori, ma ha anche una natura intrinsecamente strategica. Esso fissa il legame tra i fasti di un rinnovato e inedito, per dimensioni e contenuti, «stato d’eccezione» interno (C. Schmitt) e la politica estera. Politica dei «grandi spazi» (ancora C. Schmitt) che si traducono escatologicamente in «spazi vitali» di un ordine storico totalmente nuovo. Se la Germania manca di una effettiva strategia planetaria (A. Hillgruber) la sua spinta, e l’accelerazione che scaturirà dall’apertura a est di un confronto che si vuole dirimente e di portata epocale, si nutre comunque di una visione globale e selettiva del destino del genere umano. La dinamica egemonica delle potenze e le spinte geostrategiche dilatano la portata della guerra alla sua dimensione mondiale. Parallela a quella tedesca, nello scacchiere estremo-orientale la spinta giapponese mira a costruire una piena sfera d’influenza economico-politica erodendo il potere britannico e contendendone la successione americana. In entrambi gli orizzonti, la ridefinizione dell’egemonia territoriale si collega a una ristrutturazione degli assetti politico-sociali delle aree investite che ne sconvolge la stessa composizione umana, il profilo etnico-razziale.
Il respiro dell’evento, di una guerra insieme rinnovata e «nuova», si annuncia pertanto in origini che non sollecitano controversie intorno alle responsabilità, come era avvenuto invece per la Grande guerra, ma che trovano anticipazioni tanto feroci e connotate da generare una diffusa percezione della radicalità della catastrofe imminente (gli «anni dell’incubo» di W. Shirer) e, fuori d’Europa, legittimi sospetti intorno al momento in cui si possa effettivamente dire che la nuova guerra sia cominciata. Dai gas italiani in Etiopia allo stupro di Nanchino, i Paesi e i popoli vittime potranno legittimamente chiedere nel dopoguerra di anticipare, per i loro contesti e per il giudizio sui crimini di guerra perpetrati dagli aggressori, gli esordi di un conflitto che associava al dispregio delle regole e degli equilibri internazionali un sostanzioso disprezzo razziale quando non un’aperta propensione allo sterminio.
Il riferimento alle radici profonde della violenza dell’evento che si materializza, il richiamo al ciclo aperto dalla Grande guerra che lo alimenta e che giustifica la nozione di «guerra dei trent’anni» non deve allora offuscare la percezione del salto di qualità che proprio all’interno di quel ciclo si è compiuto. All’antica contrapposizione tra patrie/nazioni connotate da sistemi politico-sociali omogenei si sostituisce un’alternativa tra universi ideologici che possono divaricare le società nazionali inseguendo una inimicizia assoluta (C. Schmitt) che transita dagli Stati sin nel cuore dei soggetti, attingendo a orizzonti universali (H. Arendt). Ciò dà ragione tanto della violenza estrema che si materializza nella fenomenologia del conflitto, quanto della radicale definitività delle conclusioni di esso, che si rifanno al costume della debellatio (E. Traverso), l’annichilimento del nemico come entità politica e statuale riconoscibile.
L’altro passaggio epocale si fissa nel nuovo intreccio di violenza e tecnica, annunziato dal carattere industriale della Grande guerra, che si propone lungo tutto il ventennio interbellico come connotato intrinseco del futuro confronto tra le potenze e dell’inevitabile esondazione della violenza dai fronti militari ai corpi, civili, delle nazioni. Mito aereo e terrore si combinano e sintetizzano allora questa proiezione distruttiva della scienza destinata a fissare il volto futuro della gerarchia delle potenze.
L’esordio stesso, periodizzante, della nuova guerra, si connota del resto proprio alla luce di quella che appare come una dirompente novità e superiorità tecnica. Il Blitzkrieg tedesco scaturisce da una combinazione di nuovi elementi operativi (manovra e penetrazione di punte corazzate integrate dall’appoggio aereo diretto; una logistica tesa in alcuni casi ai limiti dell’azzardo) coniugati alla luce di una strategia politico militare che persegue la rapidità della soluzione e fa del fulmineo shock sulle strutture cardine del dispositivo nemico la chiave della vittoria. La fase dei successi in «guerre locali» (G. Schreiber), tra il 1939 e il 1941, è così dettata dai tempi della Wehrmacht, che fissa a Occidente, e poi nei Balcani, l’ampia area di occupazione, porzione del nuovo ordine futuro, senza però giungere alla soluzione del problema britannico che marina e aviazione non sono in grado di sciogliere. Il teatro Mediterraneo è l’area in cui può allora inizialmente muoversi l’iniziativa italiana spinta all’azzardo «sino alla guerra» (F. Minniti), ma incapace di portare a compimento successi propri e destinata a cozzare con i solidi ancoraggi terrestri e aeronavali britannici nel settore. Il naufragio dalle pretese di autonomia con l’iniziale disastro africano e l’insuccesso in Grecia non solo ridimensionerà il ruolo del partner minore dell’Asse, ma lo risucchierà in una dinamica globale destinata a stritolarlo, proprio per i tempi e la scala che il conflitto verrà assumendo. Destino di una media potenza di fronte alle esigenze dei tempi nuovi (G. Rochat) che enfatizzeranno i limiti reali della preparazione e della mobilitazione italiana. Tanto nelle steppe russe quanto nell’area africana e mediterranea, in cui si sperimenterà il primo confronto tra l’Asse e il dispiegamento del potenziale angloamericano in proiezione continentale. Una evoluzione questa che appartiene alla fase propriamente globale del conflitto, scandita dall’attacco nazista all’Unione Sovietica e da quello giapponese agli Stati Uniti.
La guerra assume il suo carattere estremo a partire dal giugno 1941. Con l’operazione Barbarossa si passa a un confronto strategico globale che si proietta nella profondità del futuro, dando corpo a una dinamica di sostanziale annientamento del nemico. Rassenkrieg (anticipata in parte in Polonia) volta a disegnare una sostanziale selezione e ridislocazione geografica e storica dei ceppi umani, evolvendo con il precisarsi delle politiche di occupazione nelle diverse zone e con la definizione degli strumenti organizzativi per lo sfruttamento di territori e uomini (E. Collotti). Le politiche di annientamento investono l’identità ideologica e il profilo razziale (O. Bartov, C. Browning), intrecciando efferatezza personale, anonima industrializzazione della morte, pianificazione della selezione «naturale» per stenti, lavoro e malattia. Contesto in cui può maturare l’approdo definitivo della «questione ebraica» verso la sua «soluzione finale». La guerra a est materializza le condizioni e le pratiche che confluiscono nella Shoah la cui logica non è estrinseca e parallela a quella della guerra, ma si inscrive all’interno di essa fissando, nell’eliminazione del nemico assoluto incarnato dall’ebreo, un obiettivo del nazismo, una componente della «vittoria» e un luogo di senso (M.R. Marrus).
Il computo delle vittime dà la misura della natura che la guerra assume nei diversi contesti: se il coinvolgimento dei civili rappresenta un elemento ormai generalizzato, la scala in cui ciò avviene è eloquente: circa 23 milioni di sovietici e 19 milioni di cinesi, che sperimentano la brutalità dell’approccio razziale giapponese in Estremo Oriente, segnalano quanto definitiva sia la condotta delle operazioni in quelle aree. Nello spazio creato dalle politiche di occupazione dell’intero tripartito si verificano allora anche le condizioni per la germinazione di resistenze che esprimono tanto la risposta a un progetto di dominio quanto il rifiuto della «collaborazione» che coinvolge parte delle classi dirigenti e degli apparati amministrativi, ma anche delle culture politiche, nei Paesi invasi. Conflitti che investono le stesse identità delle nazioni, trasformandosi in guerre patriottiche e civili insieme, nutrite dai contenuti ideologici globali del conflitto (H. Michel). Riferimento originario per il ricompattarsi delle identità postbelliche delle nazioni ma anche territorio di lacerazioni reali, comunitarie e soggettive, che sapranno riemergere, come spinta della memoria, solo a partire dall’incrinarsi dei paradigmi del lungo dopoguerra, spazio privilegiato del «testimone» post-ideologico (Z. Todorov), disancorato dalle trascorse esigenze delle narrative nazionali.
Se politiche di «guerra ai civili» tendono a trasferirsi anche nel quadrante occidentale dell’occupazione (L. Klinkhammer, P. Pezzino), è in quest’area e nell’Europa centrale che si materializza il secondo asse dell’escalation della violenza distruttiva, collegato alla dinamica tecnologica e incarnato dalla strategia dei bombardamenti aerei. Sperimentato originariamente anche nel Blitz tedesco, questo percorso diviene la strada maestra attraverso la quale gli alleati occidentali possono proiettare in chiave offensiva il proprio potenziale industriale e scientifico-tecnologico prima di approdare sul continente (R. Overy). Esperienza che domina la memoria occidentale di quella guerra e chiama in causa scelte operative ed etiche in merito alla selezione degli obiettivi e alla sua effettiva efficacia militare e strategica. Se l’esito dei bombardamenti è evidente nel caso italiano, per la Germania nazista si individua, pur nella rigidità e tenuta delle strutture del potere, una significativa incidenza sulla selezione degli indirizzi produttivi e sulla possibilità, per il Reich, di porre a frutto l’immenso bacino di risorse reso accessibile dall’occupazione. Il campo della guerra aerea è comunque denso di significati e assume una veste sintetica e carica di futuro. È il territorio in cui più eclatante e decisiva si fa la dinamica scientifico-tecnologica e indiscussa la gerarchia della potenza che ne scaturisce. L’Occidente nutrirà di questa supponente vocazione tecnologica, a lungo maldestramente declinata, la sua pretesa superiorità militare nel dopoguerra. L’approdo della distruttività aerea, che sembra finalmente pervenire alla definizione di un’arma assoluta con i colpi atomici di Hiroshima e Nagasaki, segna l’avvio di una nuova dinamica strategica, anche se il futuro promesso solo in parte risulterà destinato a realizzarsi. La combinazione aero-atomica canalizza lo straordinario itinerario bellico della scienza «fondamentale» e un nuovo paradigma organizzativo della ricerca, anche se il carattere multinazionale del nucleo di scienziati mobilitato è a suo modo un esito del carattere «civile» del conflitto che si concludeva. La memoria delle vittime, e la trasformazione dell’ambiente di vita in obiettivo bellico, da Amburgo al Giappone, porta il corteo della storia e l’interpretazione di oggi a parlare di atmo-terrorismo (P. Sloterdijk).
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