La scuola romana di filosofia
In due principali significati la scuola romana di filosofia si legò a Gentile.
In primo luogo essa coincise con la nascita della Scuola di filosofia all’interno della facoltà di Lettere dell’Università di Roma, che accorpò per la prima volta gli insegnamenti a cattedra costitutivi di curricula formativi improntati a una forte libertà e autonomia di orientamento degli studenti. La sua costituzione fu il primo risultato della riforma universitaria di Gentile ministro. Il filosofo di Castelvetrano fondò la Scuola nel 1925 e la diresse fino al 1943. Continuò a tenerla in vita e a chiamarla Scuola di filosofia, conservandone l’impronta originaria, anche dopo la formazione dell’Istituto di filosofia, che fece seguito alle disposizioni introdotte dalla legislazione, negli anni 1935-36, del ministro dell’Educazione nazionale Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon.
In una diversa accezione, si è soliti distinguere una seconda generazione di studenti e di studiosi, che entrarono in stretto rapporto con l’attualismo di Gentile, nel momento in cui egli ne offriva la più piena configurazione nei due volumi del Sistema di logica, il primo dei quali fu pubblicato a ridosso del suo trasferimento nell’Università di Roma, nel 1917. L’espressione, dunque, indicherebbe un discrimine fra l’esperienza romana e quella condotta da Gentile nel circolo della Biblioteca filosofica di Palermo (costituita nel 1910) e sulle pagine dell’«Annuario» che vi si pubblicò a partire dal 1912 e che dell’attualismo costituì la prima tribuna.
La vicenda culturale della Scuola di filosofia lascia emergere il suo carattere di pluralità, poiché – dapprima intorno alla cattedra di Gentile e poi nell’unitario perimetro istituzionale della Scuola – trovarono espressione esigenze filosofiche ed esperienze culturali tra loro diverse, sia nel senso che l’attualismo professato da Gentile ne rappresentò un lato e non esaurì in sé tutta la filosofia che nella Scuola vi fu impartita, sia nel senso che alla stessa scuola dell’attualismo si formarono personalità che con quell’indirizzo e con il filosofo stesso intrattennero un rapporto intenso ma libero, che profilò fin dal principio orientamenti e interessi distinti tra gli allievi e degli allievi con il loro maestro. A dimostrazione della labile certezza della definizione scuola romana di filosofia, bastino due osservazioni. In occasione della polemica che Croce intrattenne nel 1924 contro le scuole filosofiche, la difesa fu affidata ad Adolfo Omodeo (B. Croce e la sua scuola, «Giornale critico della filosofia italiana», 1924, 5, pp. 447-52), non a uno dei nuovi scolari romani. La ricostruzione compiuta nel 1925 da Carmelo Licitra, allievo romano (La storiografia idealistica. Dal «programma» di B. Spaventa alla scuola di G. Gentile, pp. 145-92), fissò a grandi linee il peso dell’idealismo, prevalentemente gentiliano, nella produzione di nuovi studi storici, e ne diede conto attraverso i loro autori, tra i quali vi erano, indifferentemente dalla loro sede accademica, Guido De Ruggiero, Vito Fazio-Allmayer, Armando Carlini, Giuseppe Saitta, Cecilia Motzo Dèntice D’Accadia, Augusto Guzzo, Ugo Spirito, Ferdinando D’Amato, Cesare Sgroi, Santino Caramella, Giuseppe Maggiore.
La risposta che, a sua volta, sul piano pratico Gentile offrì, costituendo in quello stesso scorcio di tempo la Scuola di filosofia, ereditò non poco del senso di ampiezza culturale che sempre Croce rappresentò, nella formazione di Gentile, e più in generale nella cultura italiana. E anche una volta estinta da tempo l’esperienza della Scuola, presso l’Istituto di filosofia dell’Università di Roma Franco Lombardi tornò a parlare, al presente, di una «scuola romana» per indicare una colleganza, a molta distanza, con un universo di pensieri in senso ormai molto lato idealistico, «di quei pensatori che, più di altri forse nelle università italiane, si sono nutriti del pensiero di Croce e di Gentile, sia pure per interpretarlo in forme e con spiriti diversi» (Filosofia e società, 1967, p. 423 nota 1; cfr. Testa 1976, p. 18): Carlo Antoni, Guido Calogero, Spirito e Lombardi stesso. Infine, la direzione della Scuola di filosofia nella facoltà di Lettere rappresentò un’esperienza originale in rapporto alla più generale politica universitaria che coinvolse l’Università di Roma in epoca fascista (Cerasi, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia, 2000, p. 526). Del progetto pedagogico legato alla sua riforma – che prevedeva una equipollenza di tutte le materie impartite e orientava gli studenti alla pratica di studi liberi e diretti – Gentile difese sempre l’importanza nella Scuola di filosofia. In questo, la sua posizione mostrò una stretta continuità con il punto di vista espresso nella facoltà di Lettere nel primo decennio del Novecento da Luigi Ceci, Giacomo Barzellotti, Cesare De Lollis. Egli ritenne infatti che l’esame di Stato previsto a conclusione del cursus studiorum fosse criterio sufficiente e obiettivo per il giudizio di idoneità all’esercizio delle professioni. Ma incontrò forti resistenze. Tra il 1923 e il 1933 furono 96 gli interventi legislativi di modifica della riforma gentiliana, che approdarono al Testo unico delle leggi sull’istruzione superiore (r.d. 30 sett. 1933 n. 1592), approvato nel corso del ministero di Francesco Ercole.
Nel complesso, durante il suo magistero romano Gentile assistette a un progressivo smantellamento di quello spirito della riforma che, all’interno della Scuola di filosofia, visse anche dell’idea che il ruolo del libero docente contribuisse all’innovazione scientifica e didattica e rappresentasse un serbatoio per il reclutamento di nuove forze. Questa prospettiva tra il 1933 e il 1935, in piena coincidenza con la realizzazione e l’inaugurazione della Città universitaria di Roma (verso la cui realizzazione Gentile aveva espresso parere contrario), rettore Pietro De Francisci, apparve come stroncata dagli interventi legislativi del ministro De Vecchi (l. 13 giugno 1935 nr. 1100, Disposizioni per un organico concentramento delle istituzioni destinate ai fini della istruzione superiore, e rr. dd. l. 20 giugno 1935 nr. 1070, Riordinamento del Consiglio superiore dell’educazione nazionale, e nr. 1071, Modifiche e aggiornamenti al testo unico delle leggi sull’istruzione superiore). Tali interventi delinearono infatti il primato del principio di gerarchia, rispetto al precedente rapporto sociale inter pares e di colleganza, sia nelle materie di insegnamento (vi erano fissati dalla norma, in contrasto con il principio di autonomia didattica degli atenei, gli insegnamenti fondamentali obbligatori e i complementari), sia nello stato giuridico dei docenti, con un progetto rigido di unificazione e semplificazione delle facoltà, degli istituti superiori, delle scuole, che comportò impoverimento di prospettiva e duplicazione dei corsi tenuti da pochi professori. L’accademia romana come espressione dell’Università di Stato ne accolse alcuni che vi conclusero il cursus honorum di precedenti incarichi governativi, tra loro Balbino Giuliano, cui fu intestata la cattedra di etica, e Francesco Ercole per la cattedra di storia moderna (N. Spano, L’Università di Roma, 1935, pp. 197-214; Cerasi, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia, 2000, pp. 530-33).
La Scuola di filosofia fu istituita da Gentile nel gennaio del 1925 presso la facoltà di Lettere di Roma, che fino a quel momento constava di insegnamenti impartiti da cattedre universitarie non intrattenenti tra loro se non rapporti intervenuti di fatto per singole questioni (collaborazione dei professori per tesi di laurea su materie che fossero a cavallo su più discipline, e simili). Rappresentò sul piano organizzativo un primo risultato dello spirito della riforma, nella componente relativa all’ordinamento delle università (r.d. 30 sett. 1923 nr. 2102, Disposizioni sull’ordinamento dell’istruzione superiore, e r.d. 6 apr. 1924 nr. 674, Regolamento generale universitario), che puntava sul carattere scientifico più che professionalizzante della formazione superiore, con accentuazione di una certa ampiezza degli insegnamenti e della libertà della loro scelta da parte degli studenti.
Nella sua lezione inaugurale del 27 novembre 1920 – stampata nel 1921 con il titolo Il concetto moderno della scienza e il problema universitario (poi in Educazione e scuola laica, a cura di H.A. Cavallera, 1988, pp. 287-311) – Gentile delineò l’essenziale profilo culturale di quel che avrebbe poi realizzato con la sua riforma. Nel 1924 fu approvato lo Statuto dell’Università di Roma, che prevedeva per la facoltà di Lettere la costituzione di dodici scuole di specializzazione, intese sia come raggruppamento di materie di indirizzo per il secondo biennio, sia come perfezionamento postlaurea. Nella facoltà di Lettere nel primo Novecento le uniche erano state la Scuola di arte medievale e moderna, la Scuola orientale, la Scuola di pedagogia e la Scuola di storia antica, alla quale appartenne anche Gentile al momento dalla sua chiamata a Roma (ott. 1917) in cattedra di storia della filosofia, fin lì occupata da Barzellotti. Nel citato resoconto scritto nel 1935 da Nicola Spano in occasione dell’inaugurazione della nuova Città universitaria, un medaglione era dedicato alla Scuola di filosofia, costituita «allo scopo di coordinare nel modo più organico l’insegnamento delle varie discipline filosofiche» e che «per i maestri che vi insegnarono [appariva] uno dei centri più vivi della cultura nazionale» (L’Università di Roma, cit., p. 231). Il documento di tale operosità era testimoniato dalla collana Pubblicazioni della Scuola di filosofia, che raccoglieva opere e ricerche sia dei docenti sia degli allievi, e dalla formazione di una ricca biblioteca specialistica – la Biblioteca di filosofia – diretta, come la Scuola, da Gentile. La Scuola di filosofia univa fra di loro in un rapporto più stretto le cattedre di filosofia che si trovavano nella facoltà, e cioè in concreto, all’atto della sua costituzione, quella di filosofia teoretica assegnata a Bernardino Varisco e quella di storia della filosofia detenuta da Gentile.
Uno schema del primo organico della Scuola di filosofia, intesa come raggruppamento di insegnamenti – manoscritto sul retro di una lettera circolare indirizzata dal rettore Francesco Severi ai professori il 24 dicembre 1924, Pubblicazioni e notizie utili da inserire nell’annuario 1924-25 (Archivio della Fondazione Giovanni Gentile, Fondo Giovanni Gentile, serie 5, sottoserie 9, fasc. 7, Scuola di filosofia) –, registra i primi componenti della Scuola di filosofia, con Gentile (direttore e storia della filosofia), Luigi Credaro (pedagogia), Umberto Ricci (economia politica), Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo), Giorgio Del Vecchio (filosofia del diritto), Raffaele Pettazzoni (storia delle religioni). Negli anni tra il 1919 e il 1923 Gentile aveva avuto anche l’affidamento per la cattedra di pedagogia, come supplente di Credaro (nominato commissario generale per la Venezia Giulia) e ne assimilò nella nuova Scuola l’insegnamento, togliendo spazio all’autonoma Scuola pedagogica presente nella facoltà dal 1905 fino a quel momento. Nella circolare resta in sospeso il nominativo del professore per la materia ‘filosofia’, intesa senza alcuna specificazione ulteriore, in sostituzione della filosofia teoretica, in linea con il convincimento filosofico pervenuto alla critica estrema di ogni dualismo e distinzione tra sfera pratica e sfera teorica, e a un’essenziale identificazione nell’atto del pensare dello stesso momento etico e volontario. Un’idea con la quale Gentile giustificò la soppressione di un autonomo insegnamento di filosofia morale e che difese ancora nel 1939, in una breve e dura nota polemica rivolta contro la restaurazione della filosofia teoretica e la riabilitazione della filosofia morale, volute con norma nazionale da De Vecchi (Filosofia teoretica, siglata G. G., «Giornale critico della filosofia italiana», 1939, 1, p. 163).
Nel 1925 Gentile successe in cattedra a Varisco, lasciando vacante l’insegnamento di storia della filosofia. Nello stesso anno il «Giornale critico della filosofia italiana», in onore del docente appena congedato, ne ospitò l’ultima lezione, che offriva un’esposizione delle sue idee filosofiche fondamentali. In nota, Gentile precisò il suo invito affinché Varisco proseguisse come «libero professore» il suo insegnamento «vanto dei colleghi e degli scolari della scuola romana di filosofia»: la Scuola diretta da Gentile fu così anche per la prima volta menzionata, con riferimento al suo più rigoroso ambito istituzionale (B. Varisco, Vent’anni d’insegnamento universitario, «Giornale critico della filosofia italiana», 1925, 6, p. 184, nota 1). Vi furono liberi docenti Spirito (dal 1924-25 al 1936-38), Arnaldo Volpicelli (nel 1926-27 e 1928-29), Calogero (dal 1927-28 al 1932-33); Pilo Albertelli vi tenne un corso libero di storia della filosofia antica negli anni accademici 1940-41, 1941-42 e nel 1943, fino al suo arresto da parte della Gestapo e alla sua esecuzione alle Cave ardeatine. Liberi docenti negli anni Trenta, per le discipline storiche, furono inoltre Arnaldo Momigliano, Federico Chabod, Delio Cantimori.
Con il passaggio di Gentile dalla storia della filosofia alla filosofia teoretica e con la chiamata (nel 1929) sulla cattedra di storia della filosofia di Pantaleo Carabellese, il settore filosofico della facoltà di Lettere risultò diviso in due indirizzi, non necessariamente contrapposti e però diversi. Per semplificare si potrebbe dire infatti che all’idealismo attualistico di Gentile, che aveva il suo fondamento nel non oggettivabile atto puro e di lì traeva lo stesso concetto di oggetto, corrispondeva, dall’altra parte, un pensiero fondato sull’oggetto puro, cioè Dio, che trasmetteva la sua identità alle singole coscienze, tutte quindi partecipi dell’unità nel loro stesso essere molteplici.
Sebbene Carabellese avesse formato nel tempo un gruppo molto selezionato di allievi direttamente o indirettamente collegati al suo insegnamento, la parte più viva della Scuola fu rappresentata da Gentile: non soltanto perché gli si avvicinavano giovani di vivace intelligenza che con lui contribuirono a rendere vivo e animato il suo insegnamento, ma anche perché Gentile entrò in contatto, all’interno della facoltà di Lettere, con studiosi di grande qualità scientifica che liberamente inserì nella Scuola di filosofia: Buonaiuti, Pettazzoni, Giorgio Levi Della Vida. Non è arbitrario, ma al contrario ovvio notare, in questo allargamento che Gentile veniva facendo dell’ambito costituito dalle materie in senso stretto filosofico, la conseguenza non solo della sua lunga collaborazione con Croce nella redazione della «Critica», ma anche l’esperienza che in quei medesimi anni egli conduceva nell’organizzazione e direzione dell’Enciclopedia Italiana. Per l’estrema varietà delle materie che includeva nel suo orizzonte, l’Enciclopedia fu per un verso condizionata dalla cultura gentiliana e per un altro agì su essa ulteriormente allargandola, come può vedersi anche dai fascicoli del «Giornale critico della filosofia italiana», che Gentile aveva fondato nel gennaio 1920 (con il Proemio, datato 10 ottobre 1919) e che, pur essendo la testata dell’attualismo, incluse esperienze storiche e filosofiche diverse e fu tutt’altro che un organo di dogmatismo.
Il suo principale collaboratore fu in quel primissimo scorcio di anni Spirito, che nella redazione stabile dell’Enciclopedia Italiana era responsabile per la filosofia, l’economia, il diritto e le materie ecclesiastiche, e che negli anni tra il 1926 e il 1932, cioè fino alla conclusione della prima serie editoriale, comparve sotto il fondatore Gentile come segretario di redazione sulla pagina di frontespizio del «Giornale critico della filosofia italiana».
Tra il 1929 e il 1930 Gentile pensò che, come al di fuori dell’università aveva dato origine alla rivista filosofica e alla collana Studi filosofici (edita da Le Monnier di Firenze) – nella quale pubblicò numerosi studi suoi e dei suoi giovani allievi romani –, altrettanto dovesse farsi all’interno dell’università e della stessa facoltà di Lettere. Nacque la citata collana Pubblicazioni della Scuola di filosofia, destinata a includere quel che di meglio la Scuola stessa avesse prodotto a opera di studiosi giovani. Furono pubblicati, tra il 1930 e gli anni Quaranta, venti titoli, i primi – degli anni 1931 e 1932 – editi a Roma dalla tipografia Giovanni Bardi del Senato; in seguito – a partire dal 1933 – dall’editore Sansoni. Tra questi, un posto a parte deve certamente essere riservato a Studi sull’eleatismo di Calogero (pubblicato per ragioni concorsuali in una prima forma incompleta nel 1931 e poi, nel 1932, nell’edizione definitiva e più nota) come anche a La filosofia dell’esperienza di Davide Hume di Galvano Della Volpe (2 voll., 1933 e 1935).
La Scuola di filosofia non era per altro – e come del resto è ovvio – identificabile con quella che Gentile aveva costituito intorno a sé, sia con gli allievi e i giovani collaboratori che erano stati attratti dal suo insegnamento, sia da studiosi che in senso stretto non appartenevano agli studi filosofici. Non propriamente attualista, ma vicina a Gentile per l’orientamento pedagogico, era Valeria Brunetti Benelli, che nel 1920 ebbe il primo incarico di storia della pedagogia. Di più stretta osservanza attualistica, intendendo con ciò farne uno sviluppo di politica culturale, fu Licitra, il quale insieme con Spirito e Volpicelli aveva fondato nel 1923 «La nuova politica liberale», che nel primo anno ebbe tra i suoi collaboratori anche Croce, Antonio Anzilotti, Gioacchino Volpe, Giuseppe Lombardo-Radice, Ernesto Codignola, e che concluse le pubblicazioni nel 1927. L’idealismo attualistico vi era rappresentato come «nostra filosofia», e come la forma teorica nella quale il liberalismo della destra storica incontrava nel fascismo il suo punto di approdo, di questo accogliendo l’esigenza di generale rinnovamento del clima politico e di una nuova coscienza civica (C. Licitra, Giovanni Gentile fascista, «La nuova politica liberale», 1923, 3-4, p. 242). A questi temi Licitra dedicò i libri La nuova scuola del popolo italiano (1924) e Dal liberalismo al fascismo (1925), e fu al fianco di Gentile all’interno dell’Istituto nazionale fascista di cultura e direttore del suo organo «L’educazione politica», lamentando, nel suo ultimo anno di vita (1928) la scarsa capacità di iniziativa e di proposta culturale dell’Istituto.
Vincenzo La Via fu autore della prima monografia composta sul pensiero del maestro, L’idealismo attuale di Giovanni Gentile (1925), interpretato tuttavia in chiave cattolica e iniziante un attualismo che con quello di Carlini e in parte anche di Guzzo fu poi detto ‘di destra’, per contrapporlo a quello ‘di sinistra’ rappresentato da Spirito e da Calogero. Una distinzione che, riprendendo quella che aveva diviso nella filosofia tedesca l’eredità del pensiero hegeliano, prese a significare il particolare modo dell’attualismo di risolvere il problema religioso in una prospettiva di immanenza idealistica, o invece in quella che della religione riaffermava il valore etico e il significato della trascendenza.
Un posto a parte deve essere riservato a Luigi Volpicelli e – in misura assai maggiore – a suo fratello Arnaldo, gentiliano fervente e giurista, che si ritrovò a insegnare teoria generale dello Stato nella pisana Scuola di studi corporativi, fondata e diretta da Giuseppe Bottai tra il 1930 e il 1935, nella quale anche Spirito insegnò economia corporativa. Con Spirito e con la collaborazione del fratello, Arnaldo Volpicelli fondò e diresse i «Nuovi studi di diritto, economia e politica» (1927-35), poi «Archivio di studi corporativi», una rivista importante nel quadro della cultura filosofica e giuridica di ispirazione fascista, particolarmente attenta a quanto nel campo degli studi giuridici e politici si producesse al di fuori dei confini nazionali, con interesse per l’economia sovietica, principalmente studiata in relazione al concetto di corporativismo, che della rivista costituiva il titolo e in quello il nucleo concettuale. Dai «Nuovi studi» nacque la teoria della corporazione proprietaria, che suscitò interesse e attenzione nel capo del governo ma fu anche duramente contestata come una forma di estremismo comunistico da molta parte dell’intellettualità fascista, tanto da indurre tre anni dopo il ministro De Vecchi alla chiusura del periodico.
La situazione della filosofia nell’Università di Roma non cambiò sostanzialmente fino al 1942-43, con la guerra europea e mondiale nella quale l’Italia si era coinvolta il 10 giugno 1940 e fino al suo epilogo dell’8 settembre 1943. L’acquisto forse più notevole che la facoltà registrò in quel periodo, pur senza potergli assegnare una cattedra di ruolo, fu rappresentato nel 1938 dalla chiamata all’insegnamento per incarico di Bruno Nardi, che vi tenne l’insegnamento di storia della filosofia medievale e rappresentò, accanto a Gentile e a Carabellese, il punto più alto della filosofia romana. Nardi, il quale si era allontanato dal mondo cattolico da cui proveniva, non era tuttavia idealista, né nel senso di Gentile né in quello di Croce, sebbene dall’uno e dall’altro avesse tratto elementi vivi di riflessione personale. Oltre che un espertissimo dantista, era uomo di sterminata dottrina nel campo della filosofia sia antica sia medievale, la cui crisi egli individuava nel mondo cartesiano che veniva così anch’esso a costituire un momento essenziale delle sue puntuali competenze. Sarebbe però divenuto professore di ruolo soltanto negli anni 1951-55.
Per quanto a partire dal 1937 all’interno della facoltà di Lettere e filosofia si fosse costituito pure un Istituto di filosofia, fino al 1943 con Gentile restò viva anche la Scuola di filosofia, della quale, nell’ultimo autunno da lui trascorso a Troghi e a Firenze, il filosofo di Castelvetrano affidava per lettera a Nardi la cura delle relative Pubblicazioni, e non meno intratteneva il colloquio epistolare sulle minute e più urgenti questioni della Scuola con la signora Teresa Capocci, che alla Biblioteca di filosofia dedicava la sua cura (lettere di Gentile datate Troghi 29 sett. 1943 e Firenze 3 nov. 1943; Archivio della Fondazione Giovanni Gentile, Fondo Giovanni Gentile, serie 1, sottoserie 3).
La situazione della filosofia alla ripresa della normale vita dopo la cesura rappresentata dalla guerra si presentava angusta. Per un paio di anni l’unico insegnamento che organicamente desse segno di sé fu quello di Carabellese, di storia della filosofia, che culminò nelle dispense Le obbiezioni al cartesianesimo, pubblicate in tre volumi nel 1946.
Nello stesso anno, con il passaggio di Carabellese alla cattedra di filosofia teoretica che era stata di Gentile e con la chiamata di De Ruggiero alla cattedra di storia della filosofia, la Scuola di filosofia ormai divenuta Istituto di filosofia acquistò una fisionomia meno incompiuta, anche perché nel 1947 fu istituita di nuovo la cattedra di filosofia della storia – nella quale aveva insegnato Antonio Labriola – che fu assegnata ad Antoni, il quale vi insegnò a lungo come professore di ruolo prima di passare negli ultimi suoi anni a quella di storia moderna e contemporanea. Ma già nel 1948, con le morti – seguite l’una all’altra a breve distanza di tempo – di De Ruggiero e di Carabellese, l’Istituto di filosofia tornò in una situazione che si potrebbe definire di carenza.
L’unico insegnamento di ruolo fu quello di Antoni, che ebbe per compagni da una parte Nardi, che impartiva le sue lezioni di storia della filosofia medievale, dall’altra Luigi Scaravelli, al quale la facoltà aveva conferito per incarico l’insegnamento di filosofia teoretica. A questo terzetto, che costituì in quel periodo il punto di maggior resistenza della filosofia nella facoltà di Lettere, si aggiungevano gli insegnamenti di Adolfo Ravà per filosofia morale, di Ugo Redanò e di Giacomo Tauro per pedagogia: insegnamenti minori, ma nei quali la materia insegnata era ancora fondamentalmente concepita al modo di Gentile. In una posizione relativamente autonoma si muoveva Enrico Castelli Gattinara, che insegnava per incarico filosofia della religione ed era anche a capo di un Istituto di filosofia autonomo da quello in cui aveva la sua sede: in pratica una stanza nella quale erano raccolti i volumi dei classici della filosofia italiana, che quell’Istituto aveva per statuto il compito di pubblicare. Nella collana Edizione nazionale dei classici del pensiero italiano, per la filosofia moderna uscirono molti volumi delle opere di Antonio Rosmini e di Vincenzo Gioberti. Per la filosofia medievale e rinascimentale furono pubblicati testi importanti di Pier Damiani (De divina omnipotentia e altri opuscoli, a cura di P. Brezzi, con traduzione di B. Nardi, 1943), due volumi di Giovanni Pico della Mirandola (De hominis dignitate, Heptaplus, De Ente et Uno e scritti vari e Disputationes adversus astrologiam divinatricem. Libri I-V, a cura di E. Garin, 1942 e 1946) e due volumi di Giacomo Aconcio (De methodo e opuscoli religiosi e filosofici e Stratagematum Satanae. Libri 8, a cura di G. Radetti, 1944 e 1946).
Particolarmente acuto si presentava il problema della storia della filosofia e anche della filosofia teoretica. La prima fu allora insegnata per incarico da Gerardo Bruni, studioso di Plotino, ma che non aveva tuttavia larghezza di interessi verso più ampie zone del sapere filosofico. Filosofia teoretica era insegnata da Scaravelli, che tenne negli anni accademici 1948-49 e 1949-50 i suoi corsi sulla filosofia di Immanuel Kant, in parte da lui trasferiti dal libro La categoria kantiana della realtà (1947) e nelle dispense, alla sua morte raccolte in volume (L. Scaravelli, Lezioni sulla Critica della ragion pura, in Id., Scritti kantiani, 1973, pp. 191-293). Tuttavia Scaravelli era allora soltanto un professore incaricato, e la facoltà sentiva che una materia che aveva avuto tra i suoi insegnanti Varisco, Gentile e Carabellese doveva essere restituita a un insegnante di ruolo. Fu Spirito il titolare dal 1950 della cattedra romana di filosofia teoretica: con lui veniva a ricostituirsi nella facoltà un nucleo che, non senza ragione, poteva esser detto idealistico nelle sue dimensioni fondamentali, quella crociana rappresentata da Antoni e l’altra gentiliana. La dimensione idealistica dell’Istituto di filosofia si determinò ulteriormente quando tra Antoni e Spirito si pervenne all’idea di conferire adeguata dignità alla cattedra di storia della filosofia, che seguitava a essere ricoperta per incarico.
Ma l’idea di Antoni e di Spirito fu che la cattedra unitaria dovese essere divisa nelle tre età fondamentali – dell’antico, del medievale e del moderno – e che le tre specialità fossero destinate rispettivamente a Calogero, Nardi e Antoni, che così avrebbe lasciato quella di filosofia della storia. Fu una decisione importante perché non solo vide Nardi, che finalmente aveva vinto il concorso di storia della filosofia medievale, essere confermato a più alto titolo nell’insegnamento della sua materia prediletta, ma consentì a Calogero, che da Pisa era frattanto passato al Magistero di Roma, di essere chiamato a ricoprire l’insegnamento di filosofia antica e a tornare quindi alle origini del suo percorso universitario.
Con l’ingresso di Calogero nella romana facoltà di Lettere e filosofia si potenziava in un certo senso l’ambiente idealistico che già era rappresentato da Antoni e da Spirito. Eppure, non si può semplicemente indicare in quei tre studiosi i rappresentanti di una corrente filosofica (l’idealismo) manualisticamente concepita come unitaria e ancora in ogni senso concorde con il pensiero di Croce da una parte e di Gentile dall’altra. Spirito era allora in una fase del suo pensiero che, dopo La vita come amore (1953), si era aperta nella direzione di quello che allora egli definì con il termine di onnicentrismo, ossia in una concezione nella quale l’atto puro di Gentile usciva dalla sua unicità per moltiplicarsi e costituire così altrettanti centri di unitaria consapevolezza. Era una posizione che trasformava ulteriormente la dimensione problematicistica che si era aperta nel 1937 con La vita come ricerca, si era potenziata nel libro Il problematicismo (1948, ma la stampa è del 1947), e che, nel confermare il debito con l’idealismo gentiliano, ne approfondiva la crisi.
Idealista nel senso proprio della parola Spirito lo era soltanto in relazione a un passato che, senza poter essere né dimenticato né contraddetto, era tuttavia pur sempre un passato. E idealista nel senso delle filosofie di Gentile e di Croce certamente non era più neppure Calogero, che, essendo approdato alla fine degli anni Quaranta alla filosofia del dialogo (Logo e dialogo fu pubblicato nel 1950), aveva ormai alle spalle i tre volumi delle Lezioni di filosofia (1946-1948), nei quali il ripensamento dei temi dell’idealismo era stato eseguito con radicalità. Idealista, ma di tipo crociano, era certamente Antoni, che tuttavia ripensava la filosofia del suo maestro da una parte reimmergendola in quella hegeliana – che egli allora studiò intensamente – e da un’altra aprendola a una singolare reinterpretazione del diritto di natura; studi che furono poi raccolti nei volumi Commento a Croce (1955) e La restaurazione del diritto di natura (1959). Quello di Antoni era l’abbozzo di una filosofia che lasciava intravedere con chiarezza nel suo fondo un’istanza corrosiva dello storicismo. In termini crociani la sua filosofia si sarebbe potuta definire come segnata dalla prevalenza che il momento categoriale faceva registrare nei confronti di ciò che è storico: come se anche per questa via Antoni ribadisse la critica da lui rivolta molti anni prima allo storicismo tedesco e al relativismo che vi era implicito (nei saggi che compongono il volume Dallo storicismo alla sociologia, 1940, e in La lotta contro la ragione, 1942) e la sua disposizione a valori considerati nella loro dimensione metastorica. Era perciò un idealismo orientato in direzioni che non erano più quelle dei due maestri che lo avevano rifondato in Italia.
E questo spiega perché, soprattutto intorno alle cattedre di Spirito e di Calogero – che qualche anno dopo il suo ingresso alla facoltà di Lettere era passato alla cattedra generale di storia della filosofia –, si riunissero giovani studiosi che a quei due maestri erano legati da molti fili ma che per il resto guardavano in altre direzioni, attratti dal marxismo, sia nella sua forma gramsciana sia in quella proposta da Della Volpe. Basti pensare che in quel clima di adesione distante si formarono studiosi che ebbero un loro ruolo nella cultura filosofica italiana come Carmelo Lacorte, Lucio Colletti, Emilio Garroni e Gabriele Giannantoni.
La facoltà aveva nel frattempo acquisito con Aldo Visalberghi un pedagogista di orientamento decisamente opposto a quello idealistico che, sia pure in tono minore, aveva fin lì prevalso. Non Gentile, ma John Dewey. Nel suo gruppo di lavoro, caratterizzato soprattutto dalla presenza di Maria Corda Costa, prevalse un orientamento molto vicino alla cultura anglosassone, sicché non fa meraviglia che Visalberghi trovasse un collaboratore congeniale ai suoi interessi intellettuali in Vittorio Somenzi, che nel frattempo era stato chiamato a insegnare filosofia della scienza. Un posto a sé nella facoltà romana deve essere riconosciuto anche a Lombardi, passato da storia della filosofia a Magistero alla cattedra di filosofia morale, che tenne dal 1959 al 1970, e intorno alla quale costituì un gruppo di ricercatori con i quali egli dette vita alla rivista «De homine».
Ci si avvicina così al periodo in cui, uscito dall’insegnamento Spirito e passato Calogero alla cattedra di filosofia teoretica, uscito dall’insegnamento Nardi, al cui posto fu chiamato nel 1962 come professore di ruolo Tullio Gregory, la facoltà subì un ulteriore incremento, quando tra gli insegnamenti fu inserita la storia delle dottrine politiche, sulla cui cattedra fu chiamato dall’Università di Urbino Gennaro Sasso, che, nel 1968, quando la cattedra di storia della filosofia fu divisa in due, vi fu trasferito insieme a Gregory.
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M. Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano, Roma 2008.
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