La Scuola Normale di Pisa negli anni Trenta
Sono noti i giudizi sulla Scuola Normale Superiore che Yvon De Begnac ha attribuito a Benito Mussolini: «Locanda i cui dozzinanti pensano di considerare cultura minore quella della rivoluzione», e «nido di vipere» da «tollerare» per «non […] dare un dispiacere a Gentile», destinato a «morire di crepacuore» per la rottura del suo «giocattolo» (Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, 1990, pp. 405 e 444).
La natura della fonte spinge a prenderli con una certa cautela. Soprattutto, non è il caso di leggerli nel contesto della memorialistica maturata dopo il 1945 da protagonisti della generazione di studenti dell’ultimo decennio fascista come Ruggero Zangrandi (cfr. il suo Il lungo viaggio. Contributo alla storia di una generazione, 1948, poi in ed. rivista e ampliata con il titolo Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, 1962), in base alla quale i maggiori centri di cultura accademica, collegi della Normale in testa, erano veri e propri centri di educazione a un antifascismo velato dall’aspetto di ‘fronda’ interna.
Tale tendenza interpretativa, nel caso dell’istituto superiore pisano, ha tratto la propria forza anche dall’atteggiamento preso dai suoi vertici nei mesi immediatamente successivi al conflitto. Subito dopo il 1945 il direttore Luigi Russo cercò di attenuare la ‘patina’ di regime della direzione gentiliana, riconoscendo al suo predecessore un atteggiamento quasi di protezione nei confronti di docenti e studenti «reprobi» (cfr. Carlucci 2012, pp. 79-142). Allo stesso modo, nel dopoguerra sono state spesso lette come testimonianze della presenza di vere e proprie centrali di opposizione culturale al fascismo le memorie di alcuni protagonisti di quegli anni (per es. A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, 1966, e F. Arnaldi, Cronaca della Normale (1928-1933), «Rendiconti dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli», 1969, 44, pp. 61-70). La recente fioritura di studi permette di fare maggiore chiarezza.
Gentile giunse alla testa della Normale in un momento critico sia per l’istituzione sia sul piano personale. Dopo la Grande guerra l’istituto pisano, sotto la direzione di Luigi Bianchi, si trovava di fronte alla necessità di ripensare la propria identità, vista la contrazione di domande di iscrizione al concorso di ammissione, conseguente alla cronica restrizione delle disponibilità economiche e alla difficoltà a offrire un chiaro valore aggiunto alla formazione e alle carriere degli allievi, almeno rispetto alla fioritura dei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. La morte di Bianchi nel giugno del 1928 sopraggiunse quasi in concomitanza con l’emergere delle prime serie tensioni politiche nel corpo studentesco: ad aprile si era verificato l’arresto degli allievi Umberto Segre, Vittorio Enzo Alfieri e Armando Sedda, accompagnato dall’intensificarsi del controllo di polizia verso un’istituzione che pure aveva preso le distanze dai giovani coinvolti (Simoncelli 1994, passim; Mondini 2010, pp. 105-36; R. Bottoni, Un ebreo antifascista. 1925-1945, «Italia contemporanea», 2000, 220-21, pp. 552-76).
Armando Carlini, rettore dell’ateneo pisano dalla fine del 1927, era consapevole dell’esigenza di un rilancio dell’immagine della Normale, anche in vista dell’affermazione della realtà accademica cittadina, e sapeva che per un simile obiettivo serviva l’impegno di una figura autorevole sul piano intellettuale e affidabile agli occhi delle istituzioni. Per Carlini, Gentile – già ministro della Pubblica Istruzione nel governo Mussolini, figura di spicco nel panorama filosofico internazionale, nonché suo personale amico e sostegno politico-accademico – possedeva il profilo ideale. Fu proprio il rettore, nel giugno del 1928, a proporre al Consiglio direttivo normalistico la nomina di Gentile a regio commissario. Con tale incarico nell’autunno successivo si superò l’ostacolo normativo del regolamento della Scuola, il cui dettato riservava il ruolo di direttore ai docenti di Pisa (Mariuzzo 2010, pp. 29-30).
Dal canto suo, il filosofo siciliano vedeva nella direzione dell’istituto di cui era stato allievo tra il 1893 e il 1897 una grande opportunità. Nelle sue riflessioni sulla riforma delle scuole secondarie, Gentile aveva dimostrato quanto l’esperienza normalistica avesse segnato il suo modo di intendere cultura e formazione. Già nel 1908 egli aveva individuato nel modello consolidatosi alla Normale una difesa dal «gonfio e vano pedagogismo» (La Scuola Normale Superiore di Pisa, 1908, ora in Opere complete di Giovanni Gentile, 40° vol., La nuova scuola media, a cura di H.A. Cavallera, 2a ed. rivista e ampliata, 1988, p. 250), che in Europa stava orientando all’istituzione di «scuole di metodo» (Le teorie didattiche e le scuole di magistero, 1907, ora in Opere complete, cit., p. 182) che trascuravano lo sviluppo dei contenuti nella formazione dell’insegnamento: «un seminario scientifico anzi che un seminario pedagogico» (La Scuola Normale Superiore di Pisa, cit., p. 215) che con il rapporto di convivenza collegiale tra studenti attentamente selezionati, sotto la guida di grandi maestri e con un continuo confronto, offriva a tanti giovani provenienti anche dalle più remote province la possibilità di maturare un sapere vitale, non irrigidito in nozioni precostituite.
L’esperienza di studi alla Normale rappresentava insomma, agli occhi di Gentile, il miglior avviamento al lavoro intellettuale e all’impegno nell’alta cultura. Inoltre, la possibilità di guidare la Scuola verso il pieno consolidamento delle sue potenzialità si presentava quando la posizione del filosofo nelle relazioni politiche aveva iniziato a mostrare segni di crisi (Moretti 2000, pp. 77-85, e 2004, pp. 98-100). Il suo risultato politico fondamentale, la riforma scolastica del 1923, nel suo disegno originario architrave per la costruzione di una nuova coscienza culturale nazionale, era stato sottoposto da subito a critiche trasversali e a ‘ritocchi’ che ne avevano ridiscusso gli equilibri. I tentativi di limitare i danni grazie al rapporto personale che conservava con Mussolini avevano dato risultati solo parziali, e le dimissioni dalla vicepresidenza del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione in seguito alla nomina a ministro, nel luglio del 1928, di un fiero critico del suo sistema educativo come Giuseppe Belluzzo sembravano preludere a una definitiva emarginazione, destinata ad aggravarsi con l’imminente conciliazione tra Stato italiano e Chiesa cattolica e con il conseguente ridimensionamento dell’idealismo politico tra le opzioni culturali del regime. L’istituzione pisana poteva così diventare, sotto la direzione di Gentile, una cittadella del rigore selettivo e una riserva di vita comunitaria dedicata interamente agli studi, concreta dimostrazione della qualità dei principi educativi messi in discussione, e modello per la formazione della classe dirigente e intellettuale della nazione.
L’approvazione dello statuto normalistico del 1932, che oltre a rendere possibile a Gentile di assumere a tutti gli effetti l’incarico di direttore sanciva l’autonomia amministrativa e culturale della Scuola dall’Università pisana, e stabiliva definitivamente tra i suoi obiettivi quello di «promuovere […] l’alta cultura scientifica e letteraria» anche con l’istituzione di corsi seminariali tenuti da un corpo docente interno, fu il punto di arrivo della ‘rifondazione’ della Normale su nuove basi materiali e culturali messa a punto da Gentile nei suoi primi anni di direzione. A partire dal 1929, quando la nomina a capo del ministero dell’Educazione nazionale (nuovo nome, dal 1929, del ministero della Pubblica Istruzione) di figure meno ostili come Balbino Giuliano (1929-32) e poi Francesco Ercole (1932-35) rese possibile impostare una trattativa con il governo, Gentile e Carlini si mossero per ottenere con il consenso di Mussolini il supporto economico necessario all’ampliamento del patrimonio edilizio della Normale e all’ingrandimento del palazzo della Carovana, e per istituire un Consorzio interprovinciale della Toscana tirrenica volto al finanziamento dell’università di Pisa (M. Moretti, Questioni di politica universitaria pisana (1928-40), in Le vie della libertà, 2008, pp. 15-31).
Su questa più solida disponibilità di risorse e strutture Gentile impiantò una campagna per l’aumento dei posti di allievo normalista fin quasi a raddoppiarli, con la previsione di superare le distinzioni di status tra gli allievi nell’accesso ai servizi e di assegnare a tutti un posto da convittore nella struttura collegiale, sebbene ciò significasse escludere dall’ammissione le studentesse, considerate comunque dal filosofo generalmente inadeguate alla ricerca (cfr. la sua lettera agli «Annali dell’istruzione media» del giugno 1931, ora in Opere complete, cit., pp. 344-48).
Il tentativo era quello di adeguare nell’offerta culturale e nelle possibilità materiali la Scuola ad accogliere un corpo studentesco selezionato con cura su base nazionale, anche garantendo l’accresciuta sinergia con un ateneo pisano in crescita e in grado di confrontarsi con le maggiori università del Paese. Segno tangibile della collaborazione tra le istituzioni accademiche della città fu, nel 1932, l’ampliamento dell’accoglienza collegiale alle facoltà universitarie professionalizzanti, tradizionalmente escluse dal modello normalistico originario. Vennero infatti inaugurati il Collegio nazionale medico e, soprattutto, il Collegio Mussolini, per studenti della facoltà di Giurisprudenza destinati a specializzarsi nel campo disciplinare coltivato presso la Scuola di perfezionamento in studi corporativi, diretta dal 1929 da Giuseppe Bottai. Quest’ultimo suggello, in particolare, quasi simboleggiava l’impegno di esponenti di spicco delle correnti ‘intellettuali’ dell’establishment fascista a costituire a Pisa un centro di formazione delle classi dirigenti della nuova Italia, strutturato secondo il modello istituzionale della Normale e le direttrici teoriche dell’idealismo politico e dello ‘Stato etico corporativo’, anche in concorrenza con orientamenti opposti attivi nell’opinione pubblica e nel partito.
Le vicende normalistiche degli anni Trenta devono essere lette alla luce di questo progetto, incentrato su alcuni elementi: vita comunitaria di studi che riprendesse l’ideale di un gruppo di giovani selezionati in base alla loro qualità intellettuale, «né poveri, né ricchi: tutti uguali, perché tutti liberi da cure materiali», e di una «piena libertà spirituale in animi sgombri da ogni prosaica cura della vita d’ogni giorno» (così Gentile nel discorso per l’inaugurazione dei nuovi locali della Scuola del 1932, in Opere complete, cit., p. 357); adesione alla ‘rivoluzione’ fascista e contributo a formare la generazione che l’avrebbe portata a compimento; difesa e, in prospettiva, riaffermazione della proposta educativa gentiliana incentrata sull’edificazione nella coscienza collettiva dello ‘Stato etico’ attraverso un’intensa pratica culturale; rispetto assoluto, da parte di docenti e studenti, per lo spirito di servizio, e dedizione piena per le delicate funzioni di studio, insegnamento e amministrazione dei servizi pubblici a cui l’ammissione alle istituzioni normalistiche garantiva l’accesso.
Così si comprende l’atteggiamento della direzione di fronte al primo grave caso di dissenso politico: quello esploso alla fine del 1932, quando lo studente in filosofia Claudio Baglietto, ottenuta una borsa di studio per Friburgo, scelse di non tornare in Italia per il servizio militare. Gentile, che aveva dato alle autorità le garanzie necessarie per il rilascio del passaporto, vista l’impossibilità di far recedere il giovane dalle profonde convinzioni nonviolente e antimilitariste, impostò una reazione decisa. Dalla volontà di riportare sotto controllo i cenacoli di dialogo e discussione che avevano condotto lo studente a questa scelta di pacifismo radicale scaturirono, tra il 1932 e il 1933, prima il tentativo di obbligare il segretario Aldo Capitini, ex normalista e confidente di Baglietto, a entrare nel Partito nazionale fascista, e poi, di fronte al suo rifiuto, il suo licenziamento e allontanamento da Pisa.
Sempre nel 1933, l’allontanamento del vicedirettore della Scuola rimasto in carica dai tempi di Bianchi, Francesco Arnaldi, avvenne in modi meno bruschi, ma trovò le sue motivazioni profonde nell’accusa al docente di aver accettato lo sviluppo di posizioni antigovernative, e nella sua insofferenza per le politiche di ampliamento della Scuola a discipline ‘di regime’ come gli studi giuridico-corporativi.
La sostituzione del segretario e del vicedirettore ereditati dal predecessore con, rispettivamente, Alessandro Perosa e Gaetano Chiavacci, avrebbe dovuto garantire a Gentile la possibilità di utilizzare i rapporti interpersonali tra docenti e allievi favoriti dalla vita collegiale come strumento per il controllo dell’ambiente della Normale. Negli anni successivi però non mancarono altri casi di opposizione politica attiva, da quello dello studente altoatesino Otto Hibler, coinvolto nella propaganda pangermanista e per questo condotto al confino ed espulso dalla Scuola nel 1935 (Simoncelli 1998, pp. 174-80), a quello, più delicato per i suoi strascichi, di Ermenegildo Moretti, allievo del Collegio Mussolini, che nel 1938 si recò in Spagna per combattere nella guerra civile tra i ranghi delle forze repubblicane. Le sue lettere ai compagni, che, intercettate dalla polizia, tratteggiavano un quadro di libertà di dibattito tra gli studenti al limite del consentito, attirarono ancora una volta l’interesse delle forze di pubblica sicurezza sulle residenze studentesche, e portarono a un’indagine interna sulle discussioni di politica nel convitto di Giurisprudenza (Mariuzzo 2010, pp. 223-33).
Di questo spaccato di vita collegiale la dirigenza della Scuola, più o meno consapevolmente, non colse le potenziali implicazioni, che avrebbero potuto indicare la permanenza sottotraccia di una pluralità di posizioni all’interno della comunità studentesca. Il dialogo vedeva coinvolti anche giovani aderenti alle posizioni di regime, in un ambiente in cui però fiorivano in forma quasi ‘spontanea’, dettata da considerazioni culturali prima ancora che politiche, tendenze che proponevano uno sguardo non conformista all’ordine costituito (Carlucci 2012, pp. 58-65). Vi era in questi atteggiamenti una continuità con le prime pulsioni di opposizione ‘etico-politica’ al fascismo maturate negli anni Venti, in parte riprese e gradualmente riorganizzate nella proposta liberalsocialista che, avanzata da Capitini, trovò circolazione dopo il suo allontanamento grazie a discreti contatti con Guido Calogero, docente di filosofia a Pisa chiamato proprio da Gentile a svolgere dal 1935 esercitazioni alla Normale, e Luigi Russo, ex allievo della Scuola in cattedra nello stesso periodo per letteratura italiana. Erano poi presenti studenti cattolici come Vittore Branca, Giovanni Getto, Arsenio Frugoni, Landolino Giuliano, e nel collegio giuridico futuri esponenti democratico-cristiani di spicco come Paolo Emilio Taviani. Il gruppo, pur senza risoluzioni di natura espressamente politica, si fece testimone dei disagi e delle tensioni vissuti dal cattolicesimo organizzato nei rapporti con il regime. A partire dalla crisi tra partito e Azione cattolica nel 1931, fu oggetto di attacchi da parte dei vertici del locale Gruppo universitario fascista (GUF), cui rispose con azioni dimostrative, come l’esibizione durante le lezioni del distintivo della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), finché nel 1934 Chiavacci non pose fine alla pratica per evitare ritorsioni (Simoncelli 1998, pp. 143-45).
L’apparente contraddizione di una dirigenza normalistica capace tanto di controlli piuttosto stretti su studio e vita degli allievi, quanto di accoglienza di atteggiamenti eterodossi o addirittura sospetti, può essere circostanziata. In primo luogo, alla Normale come in altre sue imprese culturali coeve, prima tra tutte l’Enciclopedia Italiana (G. Turi, Il mecenate, il filosofo e il gesuita. L’Enciclopedia Italiana, specchio della nazione, 2002), Gentile cercò di riassorbire i protagonisti della dissidenza intellettuale in progetti culturali comuni. Così la presenza di Calogero si affiancava a quella di Leonida Tonelli, firmatario nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti e chiamato nel 1930 alla guida del seminario interno di matematiche complementari, e a quella di un altro aderente al citato Manifesto promosso da Croce, Giorgio Pasquali, titolare dell’incarico in filologia classica.
Rientrava almeno in parte nel quadro il ritorno alla Scuola come docente di Delio Cantimori. Da allievo, tra il 1924 e il 1929, questi si era collocato su posizioni di aperta adesione al fascismo, a causa della condivisione, tramite l’attualismo gentiliano, dell’orizzonte ideale corporativo come composizione e ‘sintesi dialettica’ delle esigenze espresse dal sistema sociale, e negli anni successivi era stato assiduo collaboratore delle pubblicazioni della riflessione corporativa orbitanti attorno alla scuola di Bottai. Quando, però, nel 1940, venne chiamato da Gentile alla cattedra di storia (Simoncelli 1994, pp. 109-22), aveva iniziato una revisione delle sue posizioni che, senza condurlo a un impegno politico immediato, lo portò comunque a una concezione del marxismo come sintesi delle istanze di rigenerazione della società attraverso il profondo mutamento dei rapporti socioeconomici.
Il percorso di Cantimori, esemplare per la generazione che attraversò le ideologie degli anni Trenta alla ricerca di soluzioni alla crisi di un’epoca, aiuta a seguire l’evoluzione degli atteggiamenti dell’ambiente normalistico. La sua crescente insofferenza nei confronti di un fascismo che perdeva il supposto spessore ideale, per farsi giustificazione del dominio e della repressione, non era estranea alle impressioni che l’entourage di Gentile trasmetteva agli studenti.
Fin dalle prime battute della sua direzione, il filosofo di Castelvetrano accettò l’obbligo per i normalisti, titolari di posto di studio superiore con sussidio, di far parte delle organizzazioni giovanili del partito, ma chiarì che non avrebbe mostrato nessuna indulgenza nei confronti di iniziative del GUF pisano che distraessero in qualunque modo dagli impegni istituzionali. Così, per es., nel 1933 la partecipazione alla vittoriosa regata Pisa-Pavia non fu sufficiente a permettere all’allievo del Collegio medico Giuseppe Beltrandi di conservare il posto a fronte di risultati accademici non soddisfacenti (Mariuzzo 2010, p. 90). La direzione non si smentì neppure in circostanze più serie. Negli anni dell’impegno militare in Etiopia e in Spagna, Chiavacci censurò gli eccessi di spirito nazionalista nei confronti di studenti stranieri, e si impegnò a condurre a ‘miglior consiglio’ i giovani che intendevano interrompere temporaneamente gli studi per partire volontari (Simoncelli 1998, pp. 145-47).
Una simile politica non scongiurò tutti gli arruolamenti: nel 1934 la partenza per l’Africa di Bottai indusse a seguirlo dal collegio corporativo il professore interno Gioacchino Nicoletti, mentre due anni dopo, dalla stessa istituzione, si recò a combattere nella penisola iberica lo studente Carlo Tomazzoli (Mariuzzo 2010, pp. 121 e 224). La freddezza di Gentile per simili atteggiamenti indicava un’evidente frizione tra la sua proposta culturale e di formazione degli intellettuali italiani e le iniziative di coinvolgimento politico e militare del partito, a partire dal consolidamento delle politiche autoritarie della metà degli anni Trenta. L’isolamento in cui il filosofo finì per trovarsi in quegli anni, in cui perse i contatti persino con alcuni dei suoi interlocutori degli anni pisani (Cesa 2004; Tarquini 2009), riverberò sulla Scuola e sulle abitudini degli allievi.
Punto nodale del processo fu l’ascesa al ministero dell’Educazione nazionale, nel gennaio del 1935, di Cesare Maria De Vecchi, promotore di un più rigido controllo politico su tendenze non conformiste presenti anche nell’alveo della cultura ufficiale. De Vecchi si scagliò contro il progetto normalistico, non solo rimuovendo Gentile dalla direzione alla fine del suo mandato nel novembre del 1936, ma anche mettendo in discussione le posizioni dei docenti più impegnati con i suoi studenti. Sempre nel 1936, infatti, il ministro sembrò supportare le richieste provenienti dall’università di non rinnovare a Pasquali l’incarico in filologia classica. L’anno precedente, invece, la rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica», animata da allievi di Gentile come Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, espressione delle concezioni più radicali del corporativismo e luogo privilegiato di esordio nel dibattito intellettuale dei più brillanti studenti del Collegio Mussolini, cessò le pubblicazioni con il trasferimento d’autorità di Spirito a Messina (Simoncelli 1994, pp. 64-73; Simoncelli 1998, pp. 150-53; Mariuzzo 2010, pp. 122-34).
La sostituzione al ministero, a fine 1936, di De Vecchi con Bottai, sodale di Gentile per il progetto pisano solo alcuni anni prima, contribuì a riportare il filosofo siciliano alla direzione della Normale con l’anno accademico 1937-38, ma non coincise con una completa restaurazione degli assetti precedenti. I fermenti più innovativi, sul piano della formazione alla vita intellettuale e dell’ingresso di giovani nel dibattito politico e nella vita istituzionale, furono decisamente ridimensionati, e da parte del governo crebbe la pressione a ridurre le istituzioni normalistiche a semplici centri di formazione tecnica per insegnanti e amministratori pubblici, in sintonia con una tendenza autoritaria destinata ormai a caratterizzare tutto l’establishment fascista e a emarginare chi, come Gentile, si era contraddistinto per una proposta più dinamica, improntata a una maggiore autonomia intellettuale.
Fu non a caso in questo torno di tempo che letture e spunti tipici dell’intellettualità fascista raccoltasi attorno alla proposta idealista di Gentile e al corporativismo radicale, generalmente presenti nelle esperienze di preparazione agli esami di ammissione alla Scuola e alle annesse strutture collegiali, come la storiografia crociana, le riflessioni di Georges Sorel sul conflitto sociale, le elaborazioni del socialismo ‘planista’ e dei new dealers americani (Mariuzzo 2010, pp. 233-35; Mondini 2010, pp. 166-84), suscitarono sospetto e qualche forma di censura. Le spregiudicate prese di posizione che nei primi anni Trenta avevano portato gli studenti pisani ai trionfi ai Littoriali della cultura e dell’arte iniziarono a condurre, con la seconda metà del decennio, a un certo interesse per le critiche all’esperienza fascista e alle sue supposte degenerazioni.
Di fronte alla crisi della riflessione sul corporativismo da lui promossa in anni precedenti sia sul piano politico sia su quello accademico, il ministro Bottai trovò un altro strumento per perseguire la sottomissione della vita accademica alle volontà della politica (e in prospettiva per trasformare la cultura universitaria in uno strumento per la propria affermazione) nell’applicazione della legislazione razzista varata nel 1938, sia per la promozione di campi disciplinari orientati secondo paradigmi razziali, sia, e soprattutto, per la selezione di corpo studentesco e personale docente in base alla ‘razza’.
Anche la direzione della Normale ricevette precise direttive per il ritiro dei posti per studenti non ariani e la sostituzione del personale di origine ebraica. A più riprese, Gentile e Chiavacci valutarono la possibilità di limitare la portata della ‘marea antisemita’ agendo con discrezione. Tra gli allievi rischiavano di non veder rinnovato il posto Bruno Bassani, studente del Collegio medico, e Giorgio Fuà, che si apprestava a iniziare il secondo anno di Giurisprudenza presso il Collegio Mussolini. Il direttore valutò, senza successo, la possibilità di ottenere per essi una ‘discriminazione’ in base a meriti familiari, ma alla fine dovette cedere e sottrarre a essi il posto in collegio (Mariuzzo 2010, pp. 173-75). Né poté evitare l’allontanamento di Paul Oskar Kristeller, lettore di tedesco: in ottemperanza alle indicazioni ministeriali, Gentile lo sostituì con un insegnante segnalato dal consolato tedesco (a sua volta rimpiazzato l’anno dopo da Cesare Luporini), e dovette far interrompere la pubblicazione dei suoi più recenti lavori. Tutto ciò che il filosofo siciliano poté fare per il giovane ebreo tedesco fu evitargli il ritorno in Germania agevolando il suo trasferimento negli Stati Uniti (Simoncelli 1994, pp. 81-88).
Questi casi attestano, da un lato, la tendenza di Gentile a opporsi alla nuova ondata di ingerenze politiche a scapito dell’autonomia gestionale e culturale della Normale, e a intervenire quantomeno in favore di individui a suo avviso non meritevoli di essere colpiti dai provvedimenti razzisti (confermata, per es., da Paolo Simoncelli in «Non credo neanch’io alla razza». Gentile e i colleghi ebrei, 2013), dall’altro, la sostanziale assenza di risultati. La sua influenza politica era ormai ridimensionata, e in generale l’ambiente accademico pisano fu incapace di forme aperte di opposizione alla normalizzazione razzista, mostrando in alcuni suoi esponenti l’interesse a trovare spazio nei dibattiti sulle questioni sanitarie e antropologico-demografiche promossi dai nuovi ordinamenti, e a sfruttare in ragione delle proprie esigenze i posti di studio e d’insegnamento liberati dagli allontanamenti per ragioni razziali (I. Pavan, F. Pelini, La doppia epurazione. L’Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra, 2009).
Anche negli anni successivi il direttore della Normale portò avanti azioni di mera testimonianza, come il ricordo di Alessandro D’Ancona, direttore della Scuola negli anni in cui Gentile era studente. Alla commemorazione di Michele Barbi, il filosofo siciliano non poté esimersi dal ricordare il comune «maestro di scienza e di vita», che in quanto ebreo non avrebbe potuto neppure essere menzionato in discorsi ufficiali, indicandolo come «israelita, ma di eccezione» (Opere complete di Giovanni Gentile, 49° vol., Frammenti di critica e storia letteraria, a cura di H.A. Cavallera, 1996, p. 546), quasi a proporre a simbolo della critica convinta alla repressione razzista (o almeno a quella indiscriminata) il maggior ispiratore dei suoi programmi formativi e culturali.
Era il 1942. Ormai la guerra stava svuotando i collegi normalistici a causa dell’estensione a buona parte degli studenti universitari dell’arruolamento senza possibilità di rinvio, istituito l’anno precedente. Vari allievi ed ex allievi, che nell’ambiente pisano avevano iniziato a maturare freddezza e finanche distacco critico rispetto al regime, vissero l’impegno militare e soprattutto il trauma del 1943 come un’esperienza chiarificatrice di orientamenti e scelte di vita fino ad allora solo covate tra attesa e smarrimento. Nacque così la partecipazione in varie forme alla lotta antinazista di giovani di diversa età e provenienza, come Carlo Ludovico Ragghianti, Carlo Azeglio Ciampi, Raimondo Ricci, Giovanni Pieraccini, Giuliano Lenci, e anche di chi, come gli studenti del collegio giuridico Rurik Spolidoro e Francesco Pinardi e l’allievo di Scienze Corso Ricci, nella Resistenza trovò la morte. Un discorso non dissimile vale per coloro che, come Alessandro Natta e Cinzio Violante, vissero il rifiuto di collaborare con i tedeschi e la dura esperienza della prigionia militare.
Ma sarebbe erroneo rendere questi percorsi di opposizione alla dittatura, spesso sfociati per chi sopravvisse alla guerra in un impegno politico nei grandi partiti democratici, come frutto di uno sviluppo ‘naturale’ dell’esperienza di iniziazione alla cultura adulta vissuta a Pisa. Esempi di altro tipo – come quello dell’allievo del collegio giuridico Enzo Pezzato, sorpreso dall’8 settembre nel natio Veneto e divenuto personaggio di rilievo nella Repubblica sociale, giungendo a dirigere l’organo del partito «La Repubblica fascista» prima di essere fucilato dai partigiani alla fine del conflitto, o quelli di giovani provenienti dalla Normale impegnati a superare la tragedia bellica garantendosi soprattutto la sopravvivenza propria e delle famiglie – chiariscono quanto sia difficile raccogliere in un unico sguardo la varietà delle traiettorie prosopografiche compiute dagli allievi una volta lasciata Pisa (Mariuzzo 2010, pp. 277-300; Mondini 2010, pp. 239-305).
Alla Normale, d’altro canto, la direzione Gentile non aveva resistito a lungo alla caduta di Mussolini. Il filosofo si dimise nell’agosto del 1943 di fronte all’ostilità del nuovo ministro Leonardo Severi, e non ebbe più la possibilità di occuparsi della sua ‘creatura’.
M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, Bari 1977.
P. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, Milano 1994.
R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo. L’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), «Storia della storiografia», 1997, 31, pp. 1-128.
P. Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (1928-1938), Milano 1998.
M. Moretti, Gentile, D’Ancona e la ‘scuola’ pisana, «Giornale critico della filosofia italiana», 1999, 78, 1-2, pp. 65-116.
M. Moretti, Gentile e la Normale di Pisa. In margine ad alcuni studi recenti, in L’Università che cambia, Atti del 2° Convegno sulla didattica universitaria, 28-30 ott. 1998, a cura di C. Xodo, 1° vol., L’università ieri. Il Novecento secolo dell’Università. Tra continuità e rottura, Padova 2000, pp. 63-90.
C. Cesa, I nemici di Giovanni Gentile (1929-1941), «Giornale critico della filosofia italiana», 2004, 24, 1, pp. 1-18.
M. Moretti, Scuola e università nei documenti parlamentari gentiliani, in Giovanni Gentile, filosofo italiano, Atti del Convegno di studi, Roma, Palazzo Giustiniani, 17 giugno, Soveria Mannelli 2004, pp. 77-108.
Le vie della libertà. Maestri e discepoli nel ‘laboratorio pisano’ tra il 1938 e il 1943, Atti del Convegno, Pisa, 27-29 sett. 2007, a cura di B. Henry, D. Menozzi, P. Pezzino, Roma 2008.
A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009.
A. Mariuzzo, Scuole di responsabilità. I Collegi nazionali nella Normale gentiliana (1932-1944), Pisa 2010.
M. Mondini, Generazioni intellettuali. Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946), Pisa 2010.
S. Zappoli, Guido Calogero (1923-1942), Pisa 2011.
F. Amore Bianco, Il cantiere di Bottai. La scuola corporativa pisana e la formazione della classe dirigente fascista, Siena 2012.
P. Carlucci, Un’altra università. La Scuola Normale Superiore dal crollo del fascismo al Sessantotto, Pisa 2012.