La scrittura come forma del sapere filosofico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La filosofia degli inizi sperimenta diverse forme di scrittura: la rivelazione sapienziale espressa in forma poetica (Parmenide, Empedocle) oppure in aforismi oracolari (Eraclito); o ancora la trattazione in prosa, come quella di Anassagora, Democrito e dei sofisti. Nell’ambito del gruppo socratico emerge un nuovo genere letterario, il dialogo filosofico, in cui Platone riconosce la forma più adeguata di trasmissione del sapere filosofico, perché evita il dogmatismo del trattato riproducendo il dibattito critico fra interlocutori impegnati nella ricerca della conoscenza.
“Se possedessimo ancora l’opera puramente filosofica (dogmatica) di Platone [...] allora avremmo davanti a noi la filosofia di Platone in una forma più semplice. Invece possediamo soltanto i suoi dialoghi, e questa forma ci rende difficile farci subito un’idea della sua filosofia e darne un’esposizione precisa. La forma dialogica contiene molti elementi, molti lati eterogenei”. (G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia, II 1)
Fin dai suoi incerti inizi, nel VI secolo a.C., la forma di sapere che più tardi sarebbe stata chiamata filosofica deve lavorare alla definizione di un ambito intellettuale autonomo e di uno specifico stile di pensiero, e, parallelamente, di una adeguata forma espressiva. Le manca anche una denominazione che la distingua dalla “sapienza” sophia), una dimensione condivisa da altre e tradizionalmente più autorevoli figure intellettuali come i poeti: sembra infatti che il termine “filosofia” (amore del sapere) abbia assunto il suo significato specializzato, e destinato a una durevole fortuna, solo verso la fine del V secolo a.C., nell’ambito del gruppo socratico-platonico.
I “filosofi” degli inizi sperimentano dunque varie forme espressive, muovendosi nell’ambito delle possibilità offerte dalla tradizione culturale. Si tratta in primo luogo della stessa forma letteraria poetica – l’esametro omerico – che è propria anche ai loro grandi rivali sul terreno della “sapienza”, i poeti epici e gnomici come Omero ed Esiodo. I messaggi sapienziali di Parmenide ed Empedocle (destinati forse a venire eseguiti come vere e proprie performances di fronte a un pubblico ristretto) si valgono dunque dell’autorevolezza della scrittura poetica, come risulta quasi inevitabile nell’ambiente siciliano e magno-greco. Sull’altro versante del mondo greco, lo ionico Eraclito affida invece il suo pensiero alla forma, altrettanto prestigiosa, della sentenza oracolare (secondo una tradizione, i detti eraclitei, incisi su tavolette d’oro, vennero affidati alla custodia di un tempio). In territorio ateniese, Anassagora occupa una posizione di crinale: il suo messaggio di verità sul mondo è globale quanto quello dei suoi predecessori italici e ionici, ma viene affidato alla scrittura in prosa, largamente diffusa nella cultura attica del V secolo a.C.
In questo ambiente culturale vengono a delinearsi due tendenze prevalenti. Da una parte, la trascrizione rielaborata di conferenze pubbliche, praticata in primo luogo dai sofisti che vi espongono le loro tesi, spesso intellettualmente provocatorie; ma letture pubbliche di testi, cui seguiva la loro diffusione scritta, sono tenute anche dai grandi storici come Erodoto e probabilmente Tucidide. Un altro filone fiorente della letteratura in prosa è costituito dalla nascente manualistica tecnica, dalla medicina all’architettura alla matematica; e a questo filone, più che alla precedente forma sapienziale, possono forse venire accostati i trattati filosofico-scientifici di Democrito, purtroppo interamente perduti.
Nel percorso della sua formazione, dunque, il sapere filosofico ha oscillato tra messaggi sapienziali in forma poetica oppure oracolare, e scrittura in prosa intermedia tra la lecture sofistica e la manualistica tecnica.
La decisione di dotare la filosofia, oltre che di questo nuovo nome, di uno specifico ambito di argomenti e soprattutto di un’altrettanto peculiare forma argomentativa, per confutazione e dimostrazione, che la distinguano da tutte le altre forme di sapere, tradizionali o moderne che siano, viene presa nell’ambito del gruppo socratico negli ultimi decenni del V secolo a.C. Ad essa corrisponde l’adozione di quella forma espressiva, il dialogo filosofico, che di solito si attribuisce a Platone ma che costituisce invece probabilmente la modalità del linguaggio filosofico in cui il suo stesso pensiero si era formato, e che naturalmente egli porta alla sua espressione più elevata.
Il dialogo, inteso come dibattito in cui si confrontano opinioni rivali, non è certamente un’invenzione socratica. Sullo sfondo sta naturalmente la consuetudine, tipicamente ateniese, del dibattito politico nell’assemblea e nella boulé, e di quello giudiziario nei tribunali. Ci sono poi i memorabili dibattiti tramandati, o piuttosto inventati, dagli storici, come il logos tripolitikòs (sulla miglior forma di governo) nel III libro delle Storie di Erodoto, o quello fra gli Ateniesi e i Meli nel V libro di Tucidide. Nel campo della poesia, il teatro, soprattutto quello euripideo, è naturalmente ricco di confronti dialogici fra i personaggi (il cui carattere principale, che si sarebbe trasmesso al dialogo filosofico, è l’assenza della voce dell’autore); secondo la tradizione, inoltre, Platone si sarebbe particolarmente ispirato ai mimi di Epicarmo e di Sofrone (che secondo Diogene Laerzio teneva “sotto il cuscino”).
È però certamente il modo in cui Socrate stesso concepisce e pratica la filosofia – il confronto dialogico diretto con gli intellettuali, i politici, i poeti della polis, inteso alla confutazione di idee preconcette e alla ricerca di soluzioni teoriche più adeguate – a fondare quello che per qualche decennio diventerà un vero e proprio genere letterario: il logos sokratikòs, il dialogo filosofico. Come avrebbe notato Aristotele, esso costituisce una rappresentazione (mimesis) di incontri che si presumono realmente avvenuti (Poetica 1447a28-b13). Può darsi che una sorta di trascrizione di dialoghi reali sia effettivamente all’origine del genere, come viene attestato nel prologo del Teeteto di Platone. Ma la scrittura di dialoghi conosce subito uno straordinario successo all’interno del gruppo socratico e, è lecito presumere, presso i lettori colti di Atene. Dalle scarne testimonianze che ci sono pervenute, raccolte (ad eccezione dei testi platonici e senofontei) a cura di Gabriele Giannantoni in Socratis et socraticorum reliquiae, abbiamo notizia di almeno 14 autori di logoi sokratikòi, per circa 200 titoli in 250 libri (inclusi Platone e Senofonte), che furono pubblicati nei primi trent’anni del IV secolo a.C.: una produzione di dimensioni assolutamente imponenti, che rende sorprendente il successo del genere e altrettanto sorprendente il suo subitaneo tracollo, dovuto, è il caso di anticipare, alla nascita delle scuole di filosofia e alla loro esigenza di disporre di trattazioni organiche e sistematiche, che avrebbero assunto la forma, questa sì definitiva, del trattato filosofico.
La comparsa del dialogo socratico significa l’avvio di una competizione fra generi: da un lato la letteratura filosofica, che cerca di legittimare un suo spazio nel contesto culturale della città, dall’altro i suoi rivali, quello tradizionale, la poesia, e quelli più recenti, la sofistica e la retorica istituzionalizzata con successo da Isocrate. Ma significa anche il provvisorio affermarsi di un modo di concepire la stessa pratica intellettuale della filosofia, che è agevole comprendere mediante il confronto con la forma trattato, destinata a succedere al logos sokratikòs. Nella grande stagione del dialogo, ciò che la filosofia mira ad affermare non è un insieme di contenuti dottrinali (che siano sapienziali, alla maniera dei vecchi maestri di verità, oppure, più modernamente, “scientifici”), bensì uno stile di razionalità, che a sua volta non può andare disgiunto da una forma di vita (Aristotele avrebbe osservato nella Retorica che a differenza del logos matematico, privo di finalità, quello socratico mira comunque a influenzare “costumi e scelte morali”, III 1417a18-21). Il dialogo stimola l’interlocutore ad esporre le sue convinzioni in materia di etica, di politica, di cultura; sottopone poi queste opinioni a un’argomentazione confutatoria (elenchos), che mira a dimostrarne l’accettazione acritica, e può concludersi con l’esortazione a un’ulteriore ricerca o con la proposta di nuove prospettive, meglio fondate anche se in ogni caso provvisorie. La razionalità filosofica si definisce dunque come una pratica di pensiero critico rivolto contro i giacimenti tradizionali di pregiudizi e idées réçues, e mirante ad una consapevolezza teorico-pratica più matura, quindi anche a forme di vita riformate sulla base di questa consapevolezza. Il suo ambito, almeno in questa prima fase, è essenzialmente etico-pratico, ma la stessa pratica dell’argomentazione dialogica porta la filosofia a dotarsi di strumenti logico-metodici, e più in generale epistemologici, che possano legittimare le sue pretese di verità in opposizione alla mera persuasione irrazionale indotta da retorica e poesia.
Platone porta il genere del dialogo filosofico a livelli teorici e letterari senza precedenti, e destinati a restare ineguagliati; non tradisce mai però i caratteri costitutivi del logos sokratikòs, l’esercizio aperto di uno stile di razionalità critico-dialettico e la finalità etico-pratica. Grazie al dialogo, Platone può allestire un grandioso teatro filosofico, in cui viene messa in scena non tanto una determinata filosofia, quanto piuttosto la filosofia stessa nel processo della sua autocostruzione mediante il confronto fra tesi rivali e il lavoro assiduo dell’argomentazione; il senso ultimo di questo lavoro sta nella convinzione che ad ogni incremento di consapevolezza e di sapere non possa non corrispondere un mutamento positivo della forma di vita dello spettatore-destinatario del teatro filosofico.
La scrittura dialogica, che Platone probabilmente non inventa ma che incontra nella sua frequentazione del gruppo socratico (a dire il vero, Aristotele sembra abbia attribuito questa invenzione a un tale Alexamenos di Teo che ci è del tutto ignoto, fr. 3 Ross), risponde in modo del tutto soddisfacente ad alcune esigenze centrali del suo pensiero.
C’è in primo luogo la questione della scrittura. Proprio perché ritiene che la filosofia non consista tanto in un insieme di dottrine, ma in un modo di pensare e di vivere, Platone ha scritto nel Fedro che la scrittura è inadeguata ad esprimere la filosofia, perché ne fissa e irrigidisce i contenuti, che invece possono prendere forma solo nel dialogo vivo fra uomini che confutano e argomentano tesi contrapposte. D’altro canto, la scrittura è necessaria perché la memoria dei discorsi del maestro e dei suoi interlocutori sia conservata per l’educazione delle generazioni future (Leggi VII 811e). Scrivere dialoghi – come imitazione artistica dei discorsi vivi – è dunque il solo modo per sottrarre, almeno parzialmente, l’inevitabile scrittura filosofica dall’imputazione di contraffare lo spirito stesso della filosofia.
Il dialogo filosofico, come quello teatrale, consente inoltre l’assenza dell’autore dalla scena, il suo anonimato. Questo è importante per Platone perché evita che il suo discorso filosofico si presenti nella forma di un messaggio sapienziale e dogmatico, estraneo quindi all’insegnamento socratico, e inoltre per un motivo più sottile, nel quale però consiste un aspetto rilevante della destinazione e del senso del suo lavoro filosofico. Uno dei grandi compiti che Platone ha assegnato alla sua filosofia è un ripensamento critico che vada alle radici dei motivi del fallimento – al tempo stesso politico, etico, culturale – della grande esperienza della polis, di quella stagione periclea in cui egli stesso si è formato e che è naufragata nella sconfitta, nella guerra civile, nel nichilismo valoriale ed epistemico della sofistica. Il dialogo gli permette di richiamare per l’ultima volta sulla scena i protagonisti di una generazione da poco scomparsa – politici, poeti, sofisti, retori – interrogarli sulle loro credenze, i loro sistemi valoriali, i loro pregiudizi inconsapevoli; quando questo composito materiale di opinione (doxa) viene reso esplicito, se ne può condurre una confutazione che ne mostri le incoerenze e le contraddizioni, in modo da obbligare quei protagonisti (almeno quelli intellettualmente onesti) ad ammettere di fronte al pubblico del dialogo i propri errori, e la necessità di un nuovo inizio. A questo punto, la generazione dei padri scomparsi può venire definitivamente congedata. Platone conta che la città, che ancora si riconosce in quei padri, possa venire convinta a non ripetere gli stessi errori, a dotarsi di saperi più consistenti, a imboccare la via della propria ricostruzione politica e morale. Ma a questo scopo, la confutazione dei padri deve venire condotta non dall’autore dei dialoghi ma da un loro coetaneo, a sua volta scomparso da poco, e illustre vittima degli errori della città: Socrate, appunto, il personaggio centrale del dialogo filosofico (non si deve però pensare che questo personaggio rappresenti in modo esclusivo ed esaustivo il punto di vista e il pensiero di Platone, che sono piuttosto da cercare in tutti gli interlocutori dialogici, come accade per gli autori di teatro).
La straordinaria ampiezza e la potenza teorica di questo processo di interrogazione critica di un’intera epoca storica contribuiscono a fare dei dialoghi platonici non solo testi di alta filosofia, ma anche un grandioso affresco intellettuale del mondo pericleo. A questo lavoro di interpretazione e di revisione Platone si dedica non solo nei dialoghi giovanili, ma lungo tutta la sua produzione filosofica: basti pensare che due dei dialoghi più tardi, il Teeteto e il Sofista, sono destinati a venire in chiaro da un lato sul relativismo scettico di Protagora, che aveva distrutto secondo Platone la possibilità di riferirsi a valori oggettivamente “veri”, e così abbandonato le condotte private e pubbliche all’arbitrarietà soggettiva e alla persuasione demagogica; dall’altro a definire finalmente l’enigmatica natura di quella figura intellettuale, il sofista appunto, che Platone individua come il vero protagonista della cultura periclea, e come il proprio rivale più insidioso.
In questo straordinario lavoro di confronto intellettuale, la forma dialogica consente infine a Platone una mossa efficace per la confutazione dei rivali. Si tratta della strategia della intertestualità. Sulla scena del dialogo la cultura sottoposta ad esame è fatta parlare con le sue voci, i suoi linguaggi. Basterà qualche esempio: i politici “periclei” nell’epitafio del Menesseno; i retori e i demagoghi, come Gorgia, Polo, Trasimaco, nel Gorgia e nel primo libro della Repubblica; i sofisti nel Protagora, nel Teeteto, nell’Eutidemo; i sapienti naturalisti nel Fedone e nel Sofista; i poeti nello Ione, nei libri secondo e terzo della Repubblica, nel Simposio; i medici e i matematici rispettivamente nei libri terzo e settimo della Repubblica; e l’elenco potrebbe continuare fino a coincidere praticamente con l’intera produzione platonica. Lo scopo di questa operazione di intertestualità è, nel senso di Bachtin, una parodia delle forme culturali e dei generi letterari riportati con i loro linguaggi sulla scena filosofica, cioè quello di criticarli, sovvertirli o in qualche caso di cooptarli, trasfigurati, nel discorso della filosofia che mira a rimpiazzarli (dove però “parodia” non significa né sottovalutazione né sufficienza: il successo della strategia platonica dipende anzi dal prendere estremamente sul serio i rivali intellettuali, che appaiono a volte persino potenziati rispetto ai loro “originali” perché la confutazione possa risultare più rigorosa e convincente, anche se essa non rinuncia spesso l’arma dell’ironia).
Il successo del dialogo filosofico nella versione platonica è straordinario. Innanzitutto nei riguardi dei generi letterari rivali: la produzione di testi sofistici nel IV secolo a.C. sembra si sia rapidamente inaridita, e, per quanto riguarda la retorica, la pur prestigiosa scuola di Isocrate perde buona parte della sua influenza. Ma il dialogo platonico determina anche l’estinzione della produzione e della circolazione degli altri logoi sokratikòi: essi vengono rapidamente perduti, e lo stesso Senofonte, la cui opera si è salvata grazie alla produzione storiografica, non viene più annoverato fra i filosofi già a partire da Aristotele. Paradossalmente, lo stesso dialogo platonico resta però in un certo senso vittima del suo successo. La filosofia, che vi è stata rappresentata nel suo farsi concreto, viene dotandosi, ad opera dello stesso Platone e per le esigenze di consolidamento della sua scuola, l’Accademia, di un corpo dottrinale via via più stabile e consistente. I dialoghi tardi di Platone, come il Timeo e le Leggi, presentano perciò una forma tendenzialmente monologica e sistematica. E Aristotele (benché a sua volta autore di dialoghi, che non hanno però più nulla in comune con lo stile e l’atmosfera del logos sokratikòs), dota la filosofia di quello che sarebbe restato il suo principale strumento di elaborazione e di insegnamento, il trattato disciplinare (pragmateia o methodos). Le grandi scuole filosofiche dell’ellenismo sono le sedi della proliferazione della forma trattato, e gli stessi platonici restano fedeli al maestro solo mediante la composizione di trattati di commento ai suoi dialoghi.