Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In una “filologia” intesa quale nuovo metodo cognitivo e nelle problematiche civili sorte all’inizio del Quattrocento nei cenacoli umanistici fiorentini si coglie bene il fascino contradditorio del Rinascimento, che appare come una stagione “bifronte”: da un lato il mito di una Roma rinascente sviluppa una passione classicista per un passato considerato migliore dell’epoca presente; dall’altro il metodo sviluppato per recuperare quel passato pone le condizioni per una nuova concezione del mondo e del tempo.
La “scarcerazione” dei classici
Poggio Bracciolini
Lettera di Poggio Bracciolini a Guarino Veronese (Costanza, 15 dicembre 1416)
Era penoso, e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. Ché se Marco Tullio si rallegrava tanto per il ritorno di Marcello dall’esilio, e in un tempo in cui a Roma di Marcelli ce n’erano tanti, ugualmente egregi ed eccellenti in pace e in guerra, che devono fare i dotti, e soprattutto gli studiosi di eloquenza, ora che noi abbiamo richiamato, non dall’esilio, ma quasi dalla morte stessa, tanto era lacero e irriconoscibile, questo singolare ed unico splendore del nome romano, estinto il quale restava solo Cicerone? E infatti, per Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai necessariamente vicino al giorno della morte. Poiché non c’è dubbio che quell’uomo splendido, accurato, elegante, pieno di qualità, pieno di arguzia, non avrebbe più potuto sopportare quel turpe carcere, lo squallore del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido come solevano essere i condannati a morte, con la barba squallida e i capelli pieni di polvere, sicché con l’aspetto medesimo e con l’abito mostrava di essere destinato a un’ingiusta condanna. Sembrava tendere le mani, implorare la fede dei Quiriti, che lo proteggessero da un ingiusto giudizio; e indegnamente colui che una volta col suo soccorso, con la sua eloquenza, aveva salvato tanti, soffriva ora, senza trovare neppur un difensore che avesse pietà della sua sventura, che si adoperasse per la sua salvezza, che gli impedisse di venire trascinato a un ingiusto supplizio.
Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952
Leonardo Bruni
Vita di Dante
Opere letterarie e politiche
Tornando adunque al nostro proposito, dico che Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia [di Campaldino]; et vorrei che ’l Boccaccio nostro di questa virtù più che dello amore di nove anni avesse fatto mentione et di simili leggerezze, che per lui si raccontano di tanto huomo. Ma che giova dire? La lingua pur va dove il dente duole, et a chi piace il bere, sempre ragiona di vini.
Doppo questa battaglia tornasi Dante a casa et agli studii più ferventemente che prima si diede; et niente di manco, niente tralasciò delle conversazioni urbane et civili. Et era mirabile cosa che, studiando continovamente, a niuna persone sarebbe paruto ch’egli studiasse per l’usanza lieta et conversatione giovanile. Nella quel cosa mi giova di riprendere l’errore di molti ignoranti, e quali credono niuno essere studiante se non quelli che si nascondono in solitudine et in otio; et io non vidi mai niuno di questi camuffati et rimossi dalla conversatione deli uomini che sapesse tre lettere. Lo ingegno grande et alto non ha bisogno di tali tormenti; anzi è verissima conclusione et certissima che quelli che non appara tosto non appara mai: sì che stranarsi et levarsi dalla conversatione è al tutto di quelli i quali niente sono atti col basso ingegno ad imprendere.
Né solamente conversò civilmente con gli uomini Dante, ma ancora tolse moglie in sua giovanezza, et la moglie sua fu gentil donna della famiglia de’ Donati, chiamata per nome monna Gemma, della quale ebbe più figliuoli, come in altra parte di questa opera diremo. Qui il Boccaccio non ha patientia, et dice le mogli essere contrarie agli studi et non si ricorda che Socrate, il più sommo philosopho che mai fusse, ebbe moglie et figliuoli et officii nella repubblica della sua città; et Aristotile, che non si può dire più là di sapientia et di doctrina, ebbe due mogli in varii tempi, et ebbe figliuoli et ricchezza assai; et Marco Tullio, et Catone, et Seneca, et Varrone, latini sommi philosophi, tutti ebbono mogli, figliuoli et officii et governi nella repubblica. Sì che, perdonimi il Boccaccio, i suoi guidicii sono molto fievoli in questa parte et molto distanti dalla vera oppinione. […]
L. Bruni, Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, Torino, Utet, 1996
Nel modo di intendere il termine “filologia” (amore per la parola) in relazione all’umanesimo già risiede una fondamentale interpretazione di quella stagione. Essa fu tanto una pratica erudita, tesa a recuperare l’antichità greco-romana come luogo di una civiltà dai valori eterni, quanto l’espressione di una nuova forma mentis e di una nuova istanza logica. Per questa sua intrinseca ambiguità l’umanesimo è stato valutato in maniera assai diversa: da chi, come Paul Oskar Kristeller, ne ha limitato la portata a un movimento tutto letterario, a chi invece, come Eugenio Garin, ne ha colto le ripercussioni sulla storia del pensiero: la pratica filologica aprirebbe la strada al metodo induttivo proprio della scienza moderna. È il sogno di riportare in vita tutta una civiltà che muove i primi umanisti in giro per l’Europa a liberare dai “carceri” dove sono reclusi gli amati autori latini. Il richiamo all’antichità classica e l’assillante ricerca delle testimonianze di quel mondo costituiscono il mito generatore del movimento umanistico. Con Poggio Bracciolini comincia la serie di clamorose scoperte di classici da secoli dimenticati: visitando alcune antiche biblioteche delle abbazie della Germania, nell’estate del 1416, tra una sessione e l’altra del concilio di Costanza (1414-1418), Poggio riporta alla luce dall’abbazia di San Gallo alcune orazioni di Cicerone, le Argonautiche di Valerio Flacco e l’Institutio oratoria di Quintiliano. Di quest’ultimo ritrovamento in particolare mette subito al corrente, pieno di entusiasmo, l’amico Guarino Veronese (1374-1460), in una delle sue più celebri lettere. L’anno dopo seguono i ritrovamenti delle Silvae di Stazio, delle Puniche di Silio Italico, delle Historiae di Ammiano Marcellino, dell’Astronomicon di Manilio e del De rerum natura di Lucrezio, opera fondamentale per la ricezione latina dell’epicureismo, che eserciterà una profonda influenza su buona parte della tradizione di pensiero del Quattrocento. Quasi negli stessi anni, intanto, Ambrogio Traversari e Giovanni Aurispa conducono le loro esplorazioni nelle città greche, con l’incarico di riportare in patria quanti più codici possibile, in tutti i campi dello scibile: nel 1421 l’Aurispa porta in Italia ben 238 manoscritti contenenti opere di Aristotele, Platone, Aristofane, Callimaco, Demostene, Erodoto, Eschilo, Luciano, Strabone, Teofrasto, Diogene Laerzio, Tolomeo, Archimede.
La filologia tra nostalgia del passato e apertura al futuro
Questa “improvvisa” disponibilità di nuovi manoscritti si traduce ben presto in un nuovo atteggiamento verso i testi, teso a verificare la bontà della lezione tramandata e, soprattutto attraverso il confronto (collazione) fra i vari testimoni di un’opera, a emendarne i passi corrotti. Nasce l’ecdotica o critica del testo, la disciplina che, attraverso un accurato esame dei manoscritti, ricostruisce le opere letterarie secondo la volontà del loro autore. Questo innovativo spirito critico si manifesta anche nell’atteggiamento antidogmatico nei confronti delle auctoritates consacrate dalla tradizione medievale.
Alcuni umanisti sono abbagliati dalla luce che proviene dal mondo antico: Niccolò Niccoli e Ciriaco d’Ancona esprimono nelle loro infaticabili ricerche di libri, monete e iscrizioni tutta la nostalgia per un’età perduta. Altri, invece, inseriscono i riscoperti autori classici in un nuovo canone pedagogico, inaugurando metodologie didattiche in grado di aprire al futuro: è il caso delle celebri scuole fondate da Guarino Veronese a Ferrara, il “Contubernium”, e da Vittorino da Feltre a Mantova, nella Villa Zoiosa, in cui accorrono studenti da tutta Europa.
Questa tensione tra volontà di ritorno al passato e attuazione di nuovi metodi di conoscenza è al centro del capolavoro, le Elegantiae latinae linguae (1441-1449), del più celebre filologo del primo Quattrocento, Lorenzo Valla: si tratta di una grammatica storica del latino in sei libri dove l’autore, autoproclamatosi novello Camillo, mitico eroe della Roma repubblicana, si propone di ripristinare il lessico e la sintassi della lingua di Cicerone, Quintiliano e Virgilio. La lingua latina è infatti considerata un sacramentum senza il quale non è possibile nessuna forma di sapere e di civiltà. Le centinaia di schede in cui Valla squaderna tutta la sua erudizione linguistica non obbediscono però solo al criterio normativo della “latinità”, ma anche a quello della chiarezza espositiva (explanatio), che lega concretamente le parole alle cose.
È proprio tenendo conto di quest’ultima necessità che Valla ristruttura l’impianto logico-retorico consegnato da Aristotele al pensiero occidentale e, attraverso Porfirio e Boezio, fatto proprio dalla scolastica. In nome di un linguaggio che si emancipi dagli astratti sillogismi medievali Valla, nelle sue Dialecticae disputationes, disancora il latino dal piano metafisico, sfrondandolo dai monstra linguistici medievali senza senso (ens, quidditas, deitas), per impiantarlo, secondo la lezione di Quintiliano, in una dimensione mondana regolata dalla “consuetudine”.
La necessità di un latino più chiaro è sentita come particolarmente urgente proprio negli anni del concilio di Ferrara-Firenze (1436-1439), in cui le due Chiese, la latina e la greca, sono impegnate in un estremo tentativo di comprensione reciproca su termini teologici.
I capolavori della filologia
L’acquisita consapevolezza dello sviluppo storico del latino consente a Valla di scrivere il suo libello polemico più celebre: nel De falso credita et ementita Constantini donatione (1440) egli riesce a dimostrare apocrifo, mettendo in luce gli anacronismi linguistici del testo, quel privilegio su cui da secoli la Chiesa legittimava il proprio potere temporale. Il suo acume critico verso la tradizione coglie in errore talvolta anche le fonti stesse del sapere classico, da molti considerate perfette: è il caso, ad esempio, di Livio “che non erra”, ripreso invece da Valla nella Epistola de duobus Tarquinis (1444) per un errore di genealogia dei primi re di Roma.
Dismessa la sua vocazione militante, alla fine del Quattrocento la filologia trova in Angelo Poliziano (1454-1494) il suo esponente di spicco, in grado di riprendere l’eredità valliana e affinare definitivamente il metodo filologico: nelle sue due Centuriae di annotazioni, i Miscellanea, egli emenda passi corrotti e chiude “finestre” ancora abbondanti nelle lezioni dei classici, soprattutto ope codicum, cioè sulla base di nuovi manoscritti pervenutigli spesso grazie a casi fortunati (fors fortuna). È sua profonda convinzione, infatti, che ““non ci sia niente di più pericoloso per i nostri studi di ciò che molti osano fare quando, sull’autorità di nessun codice antico, non basandosi sulla testimonianza di nessun buon autore, sulla base di semplici sospetti sovrascrivono la loro lezione a quella precedente”” (Secunda Centuria, 5, 4).
Quasi contemporaneamente il coetaneo Ermolao Barbaro, patrizio veneto, compone l’altro monumento della filologia quattrocentesca, le Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam: la critica del testo dà sul finire del secolo la massima dimostrazione di forza nel correggere una delle enciclopedie più importanti del sapere occidentale, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio , oltre alla Corographia del geografo latino Pomponio Mela. Questo apice di erudizione viene però raggiunto proprio nel momento in cui gli studia humanitatis, ripiegando verso la nuda filologia, sembrano decretare la fine del “sogno” (Francisco Rico) di guidare tutti i saperi verso una renovatio dell’uomo, così come era avvenuto a Firenze, città apripista dell’umanesimo.
Il sapere al servizio di una città: l’umanesimo civile fiorentino
Filologia e mito di Roma avevano infatti dato vita a Firenze, a inizio secolo, ad una peculiare stagione che il critico tedesco Hans Baron ha definito Bürgerhumanismus (umanesimo civile). Esso affonda le sue radici in una rinnovata concezione mondana degli studi secondo cui il vir bonus è l’uomo saggio pronto ad assumersi incarichi di responsabilità politica per la propria patria: lo insegnano le opere politiche di Aristotele e di Platone, che si vanno traducendo, e soprattutto il De officiis di Cicerone, vera “Bibbia dell’umanesimo civile”. Il primo umanista che incarna questo ideale è un allievo di Francesco Petrarca, Coluccio Salutati: in alcune lettere di questo umanista che fu cancelliere per 30 anni (1376-1406) della Repubblica fiorentina, in controtendenza a una ancor viva tradizione ascetica medievale, si tessono le lodi della vita attiva su quella contemplativa. Ma la stagione civile dell’umanesimo fiorentino rappresenta anche una prima occasione di confronto fra i sostenitori di un ritorno esclusivo ed incondizionato al mondo antico, in una prospettiva elitaria e incurante del presente, e i fautori di un recupero del mondo greco-latino inteso come inizio di una tradizione culturale e civile progressiva che sarebbe sfociata nella letteratura volgare delle tre “corone fiorentine”, cioè Dante, Petrarca e Boccaccio. Il dibattito si sviluppa nel corso di un ben preciso contesto storico: la lunga campagna espansionistica condotta sul finire del Trecento dal Ducato di Milano, guidato da Gian Galeazzo Visconti. La guerra con Milano pone alcuni cittadini e intellettuali della Repubblica fiorentina nella necessità di ripensare l’identità della propria città, mettendo in relazione la sua gloriosa tradizione culturale e civile con le sue mitiche origini romane: in questa prospettiva la querelle fra chi sostiene la fondazione di Firenze opera di Cesare e chi invece ne fa risalire l’origine al periodo repubblicano, in anni ancora rigogliosi per le libertà politico-civili, si carica di una particolare importanza. Nella pubblicistica che si sviluppa in questi anni, la seconda opzione implica la fede in una portata “universale” della missione libertaria di Firenze nella battaglia contro la tirannica Milano.
Leonardo Bruni e la florentina libertas
Il mercante Cino Rinuccini, in una sua Risponsiva (1397) scritta in volgare ribatte per primo all’invettiva che il cancelliere milanese Antonio Loschi aveva rivolto contro i fiorentini e la forma repubblicana del loro governo. Sulla sua scorta Salutati porta a termine alla fine della guerra, vinta da Firenze per la morte improvvisa del duca di Milano (1402), la sua Invectiva in Antonium Loscum (1403), in cui dimostra sulla base di fonti storiche che l’origine di Firenze è avvenuta in età repubblicana, giustificando ed esaltando così il ruolo della sua città come erede e baluardo dell’antica libertas.
Il mito della florentina libertas è ripreso e sviluppato da Leonardo Bruni (cancelliere fiorentino nel 1411 e poi dal 1427 al 1444) nella sua Laudatio florentinae urbis (1403-1404): in questa celebre orazione, che segue il modello della Panathenaica del retore greco Elio Aristide, Bruni elogia Firenze quale città ideale in relazione alla sua posizione geografica, alle virtù dei suoi cittadini, alla cultura letteraria espressa, alla disposizione stessa dei suoi edifici, in cui si esprime quel senso prospettico e quel gusto del simmetrico caratteristici dell’età di Brunelleschi e di Donatello. L’autore sostiene inoltre che la libertà della sua città avrebbe una matrice etrusca prima ancora che romana. L’ideologia della florentina libertas trova espressione anche nei 12 libri delle Historiae florentini populi (1416-1444) e nell’Oratio in funere Iohannis Strozze (1427), discorso funebre per il comandante delle truppe fiorentine che si risolve nell’encomio della sua patria. La rivalutazione della cultura letteraria volgare trecentesca, all’interno della stessa ideologia, è attuata da Bruni nel secondo dei suoi Dialogi ad Petrum Paulum Istrum (1401-1408), proprio per bocca di quel Niccolò Niccoli che le pagine di Vespasiano da Bisticci dipingono invece come un campione di un umanesimo antiquario alieno da ogni militanza civile. Nella Vita di Dante, scritta in volgare nel 1436, il grande concittadino è esaltato, prima ancora che come sommo poeta, come uomo di cultura impegnato nelle magistrature civili e combattente nell’esercito fiorentino.
Degli anni Trenta del Quattrocento sono anche due opere in volgare inquadrabili pienamente nello spirito dell’umanesimo civile fiorentino: il celebre dialogo Della famiglia di Leon Battista Alberti, sorta di manuale rivolto al futuro pater familias per la conduzione della vita familiare, e il trattato Della vita civile di Matteo Palmieri, opera pedagogica e politica, intrisa di una forte religiosità, che è anche una sorta di sintesi delle istanze civili dell’umanesimo fiorentino consegnate alla nuova classe dirigente politica, insediatasi in città nel 1434 con Cosimo de’ Medici.