La scienza in Cina: dai Qin-Han ai Tang. Tre scuole di pensiero
Tre scuole di pensiero
di Zheng Jianjian
Fondatore della scuola moista è Mo Di, altrimenti detto Mozi ‒ il Maestro Mo. Nulla di preciso è riportato nelle fonti più antiche circa le date della sua vita, e le ricerche degli studiosi moderni sono giunte a conclusioni in molti casi contrastanti. Appare certo, tuttavia, che Mozi sia vissuto nel periodo compreso tra le epoche di due celebri esponenti della scuola dei Ru, Confucio (551-479 a.C.) e Mencio (372-289 a.C. ca.). È significativo che entrambi questi personaggi rappresentino punti di riferimento fondamentali nell'evoluzione storica della scuola moista.
Mozi era in origine un carpentiere, e si definiva per questo un 'uomo di basso ceto' (jianren). Tali erano per lo più anche i suoi discepoli e seguaci ‒ contadini e artigiani di ogni tipo. Si dice che Mozi abbia esordito studiando le dottrine di Confucio, ma che poi, insoddisfatto di tutta la pedante congerie di teorie e di pratiche dei confuciani circa i 'riti', abbia costituito una propria scuola di pensiero in opposizione a essi (Huainanzi, Yaolüe xun). L'attività della scuola moista si protrasse dalla vita di Mozi fino alla vigilia della fondazione della dinastia Qin (221-206 a.C.), coprendo approssimativamente tutto l'arco del periodo degli Stati combattenti (480-221 a.C.). Al loro apogeo, i moisti meriteranno l'appellativo di 'scuola illustre' e arriveranno a dividersi equamente l'egemonia con i confuciani (Han Feizi, Xianxue; Lüshi chunqiu, Zunshi).
Di alcune celebri tesi moiste ‒ quali la promozione dei meritevoli (shangxian), la valorizzazione degli intellettuali (qinshi), l'amore senza distinzione (jian'ai), la condanna della guerra di aggressione (feigong), la parsimonia in generale (jieyong) e nei riti funebri in particolare (jiezang), il volere del Cielo (Tianzhi, ovvero l'idea che il Cielo possedesse una volontà e potesse punire gli empi e premiare i buoni), la condanna del fatalismo (feiming) ‒ si può affermare che fossero formulate dal punto di vista degli 'uomini di basso ceto', e che pertanto esercitassero un forte richiamo sulla massa di chi lavorava con la forza delle braccia, sui piccoli proprietari e su una parte degli intellettuali dell'epoca. Allo stesso tempo, i moisti erano esecutori estremamente consapevoli e rigorosi delle proprie teorie, e le loro imprese facevano sensazione. Mozi stesso metteva in pratica e difendeva i suoi principî con la severità ascetica di un monaco. Per diffonderli vagò per anni da un paese all'altro, lontano dal proprio, senza sottrarsi ad alcuna durezza. La tradizione vuole che il camino della sua casa non si sia mai annerito (Wenxuan, Dabing xi), e che a ogni ritorno, il più delle volte, egli ripartisse senza neppure arrivare a sedersi (Wenzi, Ziran; Huainanzi, Xiuwu xun). Celeberrimo è l'aneddoto, riportato in numerose fonti, che narra del suo lungo e ardimentoso viaggio durato dieci giorni e dieci notti, per dissuadere il Regno di Chu dall'attaccare il Regno di Song (Zhanguo ce, Song ce; Lüshi chunqiu, Ailei; Huainanzi, Xiuwu xun). Un'estrema abnegazione distingueva anche i discepoli della scuola, uomini che si sentivano legati al mondo dal dovere e osservavano una rigida disciplina, pronti a sfidare ogni sorta di pericolo in difesa dei loro principî, e a morire pur di non rinnegarli (Huainanzi, Taizu xun). Tra le tesi fondamentali dei moisti, talune ‒ come l''amore senza distinzioni', la 'parsimonia' nei consumi e nei riti funebri o la 'condanna della musica' (feiyue), che propugnava la proibizione di musiche e danze ‒ erano considerate in contrasto con l'organizzazione gerarchica della società, con i riti, con le consuetudini umane; esse incontrarono l'opposizione o il dissenso di alcuni tra i maestri delle altre scuole, quali i confuciani Mencio e Xunzi (313-230 a.C. ca.), il taoista Zhuangzi (369-286 a.C. ca.) e il legista Han Fei (280-233 a.C. ca.). Tra costoro, le critiche più aspre vennero da Mencio, che denunciò l''amore senza distinzioni' dei moisti come irrispettoso dell'autorità paterna, e li stigmatizzò come "bestie" (Mengzi, Tengwengong xia). Ciò nonostante, gli avversari delle tesi moiste manifestarono ampio apprezzamento nei riguardi delle attività filantropiche della scuola (Mengzi, Jinxin shang; Zhuangzi, Tianxia).
Oltre agli aspetti politici, etici e religiosi della società, la ricerca moista si rivolse a indagare in modo rilevante i fenomeni oggettivi del mondo naturale e i principî a essi soggiacenti, nonché le leggi generali che governano il pensiero, in ambiti che oggi ascriveremmo alle scienze naturali e alla logica. I risultati della scuola in tali campi furono notevoli per ricchezza e profondità. I moisti stessi classificavano le loro attività in tre categorie, come si legge in un passaggio del Mozi: "Praticare la rettitudine è simile a questo, che coloro che sanno argomentare argomentino, coloro che sanno spiegare spieghino, coloro che sanno essere fattivi siano fattivi. Allora la rettitudine sarà compiuta" (Mozi, Gengzhu). In questo contesto "essere fattivi" si riferisce alle attività pratiche dei moisti, soprattutto nel lavoro artigiano e nelle costruzioni; "spiegare" indica la propaganda delle tesi politiche della scuola, ma anche, ovviamente, l'insegnamento e la trasmissione del sapere scientifico; "argomentare", infine, è la discussione e l'indagine che hanno come loro oggetto un livello più profondo della conoscenza, in primo luogo l'investigazione sulla Natura e la logica. Da questo passaggio, che rivela l'importanza della ricerca per i moisti, si evincono altresì i due fattori che determinarono i successi scientifici della scuola: l'attività pratica, principale fonte di conoscenza, e poi la corrente di pensiero "dialettica" di quel periodo, che doveva esercitare una così profonda influenza sui moisti.
L'importanza del contributo logico e scientifico moista sarebbe stata riconosciuta soltanto alla fine del periodo Qing (1644-1911), in significativa concomitanza con l'irruzione della scienza occidentale. E in effetti, nonostante la ricerca filologica sui testi della scuola, ancora oggi non è possibile comprendere fino in fondo le teorie scientifiche dei moisti se non in rapporto a quelle dell'Occidente. Le corrispondenze tra le prime e le seconde ‒ soprattutto quelle dell'antica Grecia ‒ sono notevoli, così come altrettanto profondo è il distacco dei moisti dalla tradizione tecnologica e scientifica cinese. Tale circostanza, in Cina, fu avvertita nettamente nel mondo intellettuale tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Il celebre Liang Qichao (1873-1929) ebbe ad affermare costernato: "Se tra i vecchi libri del nostro paese si vuole cercare qualcosa che corrisponda da lontano al cosiddetto spirito scientifico dei nostri giorni, quello è il Canone moista. Solo quello!" (1936, prefazione). Si può forse capire, allora, come mai i moisti siano stati costantemente incompresi nella lunga stagione premoderna della storia cinese.
Le tesi della scuola moista sono racchiuse pressoché interamente in un unico libro, il Mozi o Libro del Maestro Mo, autori del quale, oltre a Mo Di, furono i discepoli di diverse generazioni. L'opera raggiunse la sua stesura definitiva verso la fine del periodo degli Stati combattenti, e secondo il Trattato di bibliografia (Yiwen zhi) della Storia della dinastia Han posteriore (Hou Hanshu) comprendeva in origine 70 capitoli (pian); oggi, però, ne sopravvivono soltanto 53. I passaggi di interesse logico e scientifico sono concentrati in massima parte nei sei capitoli che vanno dal XL al XLV, intitolati nell'ordine: Canone, parte prima o superiore (Jing shang); Canone, parte seconda o inferiore (Jing xia); Spiegazione del Canone, parte prima o superiore (Jingshuo shang); Spiegazione del Canone, parte seconda o inferiore (Jingshuo xia); Casistica maggiore (Da qu); e Casistica minore (Xiao qu). Oggi si suole definire Canone moista (Mojing) l'insieme di questi sei capitoli, o dei primi quattro soltanto. Si parla anche di Dialettica moista (Mobian), benché il termine Canone moista sia attestato in effetti già nel Zhuangzi (Tianxia). Questa sezione si distingue palesemente dagli altri capitoli del Mozi non soltanto nei contenuti, ma anche nella forma e nello stile; il linguaggio è conciso, e insieme denso di implicazioni logiche. Gli studiosi contemporanei tendono ad attribuire il Canone alla fase tarda della tradizione moista, collocandone la redazione nella seconda metà del periodo degli Stati combattenti; al suo interno, tuttavia, sussistono indiscutibilmente tesi che si possono far risalire agli esordi della scuola e al suo stesso fondatore.
I primi quattro capitoli, in particolare, sono caratterizzati da una struttura peculiare, articolata in proposizioni chiamate rispettivamente Canone e Spiegazione. A ogni proposizione del Canone ne viene abbinata una corrispondente della Spiegazione, così da formare un argomento organico molto simile a quelli che oggi si direbbero una definizione scientifica o un teorema. Eccone un esempio:
Canone (I, prop. XLI): Limitato è ciò che avendo qualcosa davanti non include [l'intera estensione di] un regolo.
Spiegazione: Limitato: ciò che non include un regolo, è limitato; se tutto è incluso nel regolo, non c'è limite.
In questo caso, ci troviamo di fronte a una definizione relativa a "ciò che non ha limite" (wuqiong). Di solito è il Canone a offrire la definizione o il teorema, mentre la Spiegazione ne propone un'ulteriore delucidazione. Il primo carattere o i primi due di quest'ultima rappresentano il termine da definire e non fanno parte della proposizione che segue, come il carattere qiong, 'limitato', nel caso appena illustrato. Nella versione originaria del Mozi, il Canone, parte prima e la Spiegazione del Canone, parte prima erano due capitoli indipendenti (analogo discorso per le rispettive parti seconde); per chiarire la relazione tra le proposizioni del Canone e quelle della Spiegazione, curatori successivi del testo estrapolarono i termini iniziali delle proposizioni del Canone e li preposero quali voci da definire alle corrispondenti glosse della Spiegazione.
È importante sottolineare che nel corso della sua lunga tradizione il testo del Mozi subì un gran numero di rimaneggiamenti e alterazioni, soprattutto nei capitoli del Canone moista. Una corruzione particolarmente rilevante si è prodotta nel Canone, parte prima e nella corrispondente parte seconda, determinando confusioni ed errori incredibili nel testo dei primi quattro capitoli. Nonostante le utili correzioni che un gran numero di studiosi ha apportato a più riprese a partire dall'epoca Qing, molti passaggi presentano tuttora lezioni erronee o di interpretazione problematica. Per alcuni di questi ‒ pochi, in verità ‒ la corruzione del testo è tale che una ricostruzione è ormai impossibile, a meno di un miracolo. Eppure, malgrado tutto questo, il Canone moista continua a emanare una luce seducente con la profondità dei suoi contenuti.
Secondo una stima di Tan Jiefu (1964), i primi quattro capitoli del Canone sono costituiti da circa 180 proposizioni. Allo stesso studioso si deve una classificazione di tali proposizioni; tra di esse, 22 riguardano lo studio della Natura, 17 la matematica, 11 la meccanica, 8 l'ottica, 20 la gnoseologia, oltre 50 la logica. Complessivamente, le proposizioni di argomento scientifico coprono all'incirca il 75% del totale del Canone moista, e ne rappresentano pertanto la componente principale. Il restante 25% verte su temi politici, giuridici, economici, pedagogici ed etici. Gli ultimi due capitoli, la Casistica maggiore e la Casistica minore, sono dedicati prevalentemente alle nozioni logiche. Inoltre, sparse in altri capitoli del Mozi, si ritrovano le conoscenze in materia di acustica e di macchinari elementari che i moisti applicavano nella costruzione di opere di difesa, destinate soprattutto a consentire agli Stati più deboli di fronteggiare le aggressioni esterne ('Sulla progettazione di porte e mura delle città', 'Sulla progettazione delle torri di guardia', 'Sulla progettazione dei sotterranei', ecc.).
Nella breve esposizione delle tesi moiste di interesse scientifico che daremo qui di seguito, si fa riferimento alla numerazione delle proposizioni del Canone moista stabilita da Tan Jiefu (1964).
Nella conoscenza generale dell'Universo, i moisti stabilirono una loro teoria del tempo e dello spazio, di cui diedero innanzitutto le seguenti definizioni:
Canone (I, prop. XXXIX): Una durata racchiude tempi diversi.
Spiegazione: Durata: [dall']antichità [al] presente, [dall']alba [al] crepuscolo.
Canone (I, prop. XL): Lo spazio racchiude luoghi diversi.
Spiegazione: Spazio: l'Est, l'Ovest, la Casa, il Sud, il Nord.
Il testo della proposizione XXXIX recitava in origine: "Il presente, una durata, [dall']antichità [al] presente, e inoltre il crepuscolo". Il celebre esegeta Wang Yinzhi, vissuto in epoca Qing, interpretò il primo carattere jin ('il presente') come una dittografia indotta dalla successiva occorrenza del medesimo carattere ('[al] presente'), e il carattere qie ('e inoltre') come un lapsus calami in luogo del molto simile dan, 'alba' (Song Yiran 1936). Nella proposizione XL, al posto del carattere yu ('spazio') il testo originario aveva shou ('conservare'), graficamente molto simile al primo ma evidentemente erroneo. Anche tale emendamento è dovuto a Wang Yinzhi, il quale propose anche di espungere il carattere jia, 'casa', ricorrente nel testo della Spiegazione della stessa proposizione, intendendolo come una dittografia indotta dal simile yu in principio di frase; in tal caso, la correzione appare inspiegabilmente forzata, e concordiamo con Song Yiran nel mantenere la lezione originale così come nell'interpretazione complessiva della frase (1936). Le correzioni delle due proposizioni sopra illustrate sono state accolte anche da Qian Baocong (1981). Va osservato che sono stati proposti anche emendamenti differenti. Così Tan Jiefu (1964, p. 119), seguendo Hui Shi, ha proposto di leggere la Spiegazione della proposizione XXXIX nel modo seguente: "Durata: unisce antichità e presente, alba e tramonto"; e la Spiegazione della proposizione XL come: "Spazio: ricopre l'Est, l'Ovest, il Sud, il Nord" (dove il carattere zhong nel senso di 'ricoprire' è una variante di meng, che ha appunto questo significato e si scrive come zhong ma con il radicale 'erba'). Queste ricostruzioni, tuttavia, sono estremamente arbitrarie e distanti dal testo originale, non giovano a una migliore comprensione di questo e non possono pertanto essere accolte.
Le due proposizioni, rispettivamente, possono essere interpretate come segue:
Canone: Una durata (jiu) sta ad indicare un ampio lasso di tempo.
Spiegazione: Durata (jiu): il tempo che intercorre dall'antichità al presente o dall'alba fino alla sera possono, a titolo di esempio, essere definiti una durata [In questo senso, il significato del termine jiu è sensibilmente diverso da quello comune, che si riferisce al prolungarsi di un'azione nel tempo].
Canone: Spazio (yu) sta ad indicare una regione dello spazio.
Spiegazione: Spazio (yu): se al luogo (la casa) in cui viviamo aggiungiamo l'Est, l'Ovest, il Sud e il Nord, quello che ne risulta è lo spazio.
Queste due definizioni di tempo e di spazio sono insieme semplici e originali. Secondo il Libro del Maestro Wen (Wenzi), Laozi avrebbe detto che "il passato, l'avvenire ed il presente sono detti 'tempo' (zhou); le Quattro Direzioni, l'alto e il basso sono detti 'spazio' (yu)" (Wenzi, Ziran). Qui il concetto di 'tempo' sostanzialmente coincide con la 'durata' dei moisti, poiché entrambe le nozioni si riferiscono a un lasso di tempo ‒ un tempo finito. Il 'tempo' di Laozi, tuttavia, abbraccia una durata estesissima (passato, presente e futuro), con una sfumatura di ineffabilità che in definitiva ne fa un concetto filosofico. La 'durata' dei moisti, invece, è una nozione concreta, riferita a un'estensione determinata di tempo che può andare "dall'antichità al presente" o "dall'alba al crepuscolo"; a confronto del 'tempo' di Laozi, si contraddistingue per una maggiore scientificità. Quanto allo spazio, quello moista non include "l'alto" e "il basso" di Laozi, ma enfatizza la posizione dell'osservatore (la "casa"); a quest'ultimo, e non alla comune geografia descrittiva che collocava il Fiume Giallo "a nord" e lo Yangzi "a sud", vanno riferiti i quattro punti cardinali. Si tratta pertanto di un concetto empirico. Degno di attenzione è anche l'ordine in cui sono elencate le direzioni (est, ovest, sud, nord) in luogo della successione oggi abituale in Cina (est, sud, ovest, nord). Non si può fare a meno di pensare che questa sottile differenza rinvii al metodo che si usava nell'antica Cina per determinare i quattro punti cardinali: dapprima si univano le ombre del sole all'alba e al tramonto, lungo una retta che necessariamente andava da est a ovest; quindi si tracciava una bisettrice, le cui estremità indicavano rispettivamente il sud e il nord (tale metodo è illustrato nel Zhoubi, Xia). In altre parole, si determinava dapprima la direzione est-ovest e poi quella sud-nord. Tale circostanza rivela visibilmente la natura empirica del concetto moista di spazio.
La relazione tra 'spazio' (yu) e 'tempo' o 'durata' (jiu) viene discussa ulteriormente nelle seguenti proposizioni:
Canone (II, prop. XIII): Lo spazio talvolta si sposta. La spiegazione sta nel fatto che esso è duraturo (chang). Lo spazio (yu) ha una durata (jiu).
Spiegazione: Duraturo (chang): [è ciò che] spostandosi permane. Lo spazio ha una durata. Il Sud e il Nord esistono all'alba ed esistono anche al tramonto. Lo spazio si sposta nella durata.
Le proposizioni del Canone, parte seconda, comprese quelle della parte equivalente della Spiegazione, corrispondono grosso modo a quelli che oggi si definirebbero teoremi. La forma generale è la seguente: la prima parte della proposizione del Canone enuncia una conclusione, mentre la seconda parte ("la spiegazione è data sotto[...]") offre un'esposizione sommaria, per parole-chiave, della ragione in virtù della quale tale conclusione è stata raggiunta; la proposizione della Spiegazione illustra in dettaglio questa ragione. Va osservato che nell'opera di Tan Jiefu (1964) la suddetta proposizione del Canone è divisa in due proposizioni distinte; ma in tal modo si finisce con l'infrangere la struttura stessa di tali argomenti quale è stata appena esposta. Una suddivisione del genere appare del resto illogica se applicata alla proposizione corrispondente della Spiegazione. Pertanto, siamo fondamentalmente d'accordo con Song Yiran (1936), che, tuttavia, propone una punteggiatura leggermente diversa, e con Jin Qiupeng (1984), la cui ricostruzione è analoga alla nostra. In realtà, la proposizione XIII discute due aspetti di un unico problema, che possiamo spiegare nel modo seguente:
Canone: Lo 'spazio' (yu) talvolta si può 'spostare'(!) Ciò si riferisce da un lato ai cambiamenti di posizione, dall'altro allo scorrere del tempo.
Spiegazione: Quando l'osservatore si sposta, anche la posizione di ciò che gli sta di fronte cambia. Inoltre, in una prospettiva temporale, anche lo 'spazio' si può 'spostare', come 'il Sud e il Nord' si 'spostano' dall'alba fino alla sera.
Bisogna ammettere che un'interpretazione del genere, rispetto all'affermazione per cui "lo spazio spostandosi permane", può apparire non del tutto soddisfacente. Riteniamo invece che il significato della frase "Il Sud e il Nord esistono all'alba ed esistono anche al tramonto, lo spazio si sposta nella durata" sia palese. Evidentemente, la proposizione pone in mutua relazione le coordinate spaziali e quelle temporali, sulla base della considerazione che entrambe sussistono entro un'unica struttura. Si tratta senza ombra di dubbio di un concetto estremamente avanzato. A prima vista, sembra che uno spazio statico venga definito suscettibile di muoversi all'improvviso. Ma è chiaro che in questo caso i moisti si avvalgono di un paradosso che ricorda quelli utilizzati dai dialettici (v. par. 3): lo "spazio che a volte si sposta" assomiglia alle "ruote che non toccano terra", alle "squadre da carpentiere che non sono squadrate" o alle "frecce in volo che in certi momenti non sono né ferme né immobili" di cui parlava Hui Shi (Zhuangzi, Tianxia). A differenza dei dialettici, tuttavia, i moisti propongono una spiegazione razionale del paradosso utilizzato.
La relazione tra tempo e spazio ritorna nelle proposizioni LXIII e LXIV del Canone, parte seconda. Qui i moisti sottolineano che quando si percorre una determinata distanza, necessariamente si impiega un certo periodo di tempo, e che la durata può essere limitata o illimitata.
Nella proposizione XLIII del Canone, parte prima è discusso il concetto di inizio, equiparato a un istante nel tempo; è anche stabilita una differenza tra un tempo durevole (youjiu) e uno istantaneo (wujiu): "il tempo a volte ha durata, altre volte non ha durata. L'inizio occorre senza durata". L''inizio' e l''estremità' (duan), che discuteremo tra breve, rappresentano le unità più piccole rispettivamente del tempo e dello spazio (o lunghezza).
La proposizione XLI del Canone, parte prima, citata in precedenza, presuppone l'idea di uno spazio infinito, e può essere interpretata come segue:
Canone: Definiamo una porzione di lunghezza come limitata se misurandola con un regolo, a un certo punto, possiamo raggiungerne oppure oltrepassarne il limite (ovvero il 'qualcosa davanti', qian).
Spiegazione: Quando misuriamo una qualsiasi lunghezza, se esiste il suddetto limite (qian), tale lunghezza è limitata (youqiong); altrimenti, se dopo innumerevoli misurazioni non si riesce a raggiungerne o a oltrepassarne il limite, tale lunghezza è infinita (wuqiong).
In questa notevole definizione di una lunghezza senza limiti si esprime con chiarezza la concezione moista di uno spazio infinito. Essa colpisce per la sua considerevole astrazione, prossima a quella delle moderne definizioni matematiche di infinito, ma allo stesso tempo è semplice e concreta. Immaginiamo per un istante un falegname che con un regolo misuri la lunghezza di un pezzo di legno, o un contadino che verifichi l'estensione di un campo: le proposizioni appena illustrate ci appariranno allora come le conclusioni del tutto naturali di una tale prassi.
L'idea moista di uno spazio illimitato e divisibile si esprime a pieno nella proposizione LX del Canone, parte seconda, che analizzeremo più avanti insieme al contributo della scuola in campo matematico.
In breve, la visione dell'Universo nella scuola moista appare concreta e precisa, ed essenzialmente di natura geometrica. I moisti non formularono pressoché alcuna teoria o ipotesi astrusa, né si fecero influenzare da certe concezioni della Natura che a quei tempi erano correnti; furono invece molto vicini al moderno spirito scientifico, e recepirono con un approccio critico le tesi delle altre scuole. Le loro obiezioni si rivolgevano non soltanto ai confuciani, ma anche ai dialettici, ai taoisti, alla scuola dello Yin-yang, e così via, come nella proposizione XLIII del Canone, parte seconda, in cui attaccano in modo esplicito la teoria allora in voga delle Cinque fasi che ciclicamente si generano e conquistano a vicenda (per la ricostruzione e l'interpretazione di questa proposizione, v. Tan Jiefu 1964; Jin Qiupeng 1984):
Canone: Le Cinque fasi non si conquistano [l'un l'altra] in modo regolare. La spiegazione è data sotto 'idoneità'.
Spiegazione: Le Cinque sono [il ciclico] scaturire di metallo, acqua, terra, legno, fuoco. Ma se il fuoco fonde il metallo, [è perché] il fuoco è molto, e se il metallo consuma il tizzone, [è perché] il metallo è molto. Il metallo rinchiude l'acqua, il fuoco abbandona il legno.
Come vedremo, nelle tesi del Canone moista si riflette talora anche la contrapposizione della scuola ai dialettici.
Nel campo della meccanica, va innanzitutto rilevata la definizione che i moisti danno del concetto di forza:
Canone (I, prop. XXI): Forza è ciò con cui un corpo solleva con vigore.
Spiegazione: Forza: Di ciò che pesa si dice che scende. Portare in alto un peso è sollevare con vigore.
Nell'interpretazione di questa proposizione, seguiamo gli emendamenti e la punteggiatura proposti da Song Yiran; la punteggiatura suggerita da Tan Jiefu ci sembra invece incompatibile con le regole del cinese classico. Possiamo esplicitare la definizione nel modo seguente:
Canone: Ciò che chiamiamo forza è quella cosa di cui il corpo di un uomo si avvale per sollevare con vigore.
Spiegazione: Un oggetto pesante (un peso) va verso il basso. Se un uomo porta in alto un oggetto pesante, si ha il sollevare con vigore di cui si è detto.
Come è possibile vedere, questa proposizione esprime una nozione di forza umana; la maggior parte degli studiosi, tuttavia, vi legge l'asserzione di una relazione generale esistente tra la forza e il movimento dei corpi (Qian Linzhao 1951; Hong Zhenhuan 1958); soltanto pochi autori continuano a sostenere che la definizione moista si riferisca unicamente alla forza umana. In ogni caso, la proposizione mette in rapporto forza e movimento, e questo è un particolare degno di nota.
Nel Canone, parte seconda, le proposizioni da XXIV a XXVIII sono dedicate alla meccanica, e discutono rispettivamente i principî della leva e del piano inclinato. In particolare, nella proposizione XXIV è descritto il mazzacavallo, uno strumento in uso nella Cina antica per attingere acqua dai pozzi. I moisti osservarono che se il fulcro di questo attrezzo veniva spostato, anche la sua posizione di equilibrio ne risultava modificata. Nella proposizione XXV si specifica che l'equilibrio del mazzacavallo dipende non soltanto dall'intensità della forza applicata alle sue due estremità, ma anche dalla lunghezza dei suoi due bracci, separati dal fulcro. Qian Baocong ritiene che l'espressione "peso influente" (quanzhong) nella Spiegazione di questa proposizione corrisponda a quello che nella moderna meccanica è il concetto di momento. A sua volta, Hong Zhenhuan (1958) identifica lo strumento descritto nella proposizione XXVI con una puleggia. Inoltre, i cosiddetti 'cervi a corde' e 'cervi rotanti' di cui si fa menzione nel capitolo del Mozi intitolato Sulla progettazione delle torri di guardia, altro non sarebbero che pulegge effettivamente in uso a quei tempi (Pan Yongyang 1990; Hong Zhenhuan 1958). Le proposizioni XXVII e XXVIII del Canone, parte seconda, descrivono i piani inclinati. La Spiegazione della proposizione XXVII, in particolare, illustra un 'elevatore', attrezzo che sfruttando un piano inclinato era utilizzato per sollevare oggetti pesanti. Nella stessa proposizione si asserisce quanto segue: "qualunque oggetto pesante, se non viene influenzato da una forza esterna, cadrà perpendicolarmente al piano della superficie terrestre". Se invece subisce una deviazione, allora deve aver incontrato l'ostacolo di una forza esterna. La nozione espressa nella proposizione XXI del Canone, parte prima, secondo cui "di ciò che pesa si dice che scende", è qui approfondita ulteriormente.
Le cognizioni dei moisti in materia di ottica sono raccolte nel Canone, parte seconda, in otto proposizioni, da XVI a XXIII, che gli studiosi moderni definiscono abitualmente come le otto proposizioni di ottica (Hong Zhenhuan 1962). La prima di esse descrive la formazione e le proprietà dell'ombra; la seconda verte sulla relazione tra luce e ombra in presenza di più di una sorgente di luce; la terza descrive l'esperimento della formazione di immagini attraverso un piccolo foro; la quarta ha per oggetto il fenomeno della riflessione della luce; la quinta illustra la relazione tra un oggetto e le dimensioni della sua ombra in rapporto alla perpendicolarità, inclinazione, vicinanza o lontananza della fonte luminosa; la sesta descrive la relazione tra un oggetto e la sua immagine riflessa in uno specchio piano; la settima e l'ottava, infine, illustrano la relazione tra oggetti e le loro immagini riflesse dentro specchi rispettivamente concavi e convessi. Nell'insieme, le otto proposizioni offrono una concisa descrizione di nozioni di ottica relative a immagini e ombre, che appaiono conformi ai principî fondamentali dell'ottica geometrica. La loro sistematicità e completezza, l'ordine degli argomenti e l'assenza di corruzioni testuali di rilievo hanno valso a questa sezione del Mozi una grande attenzione da parte degli studiosi. Occorre ricordare che tali teorie e nozioni furono acquisite attraverso la sperimentazione. La natura di questi esperimenti può essere facilmente immaginata: essi dovevano nascere dall'attenta osservazione dei fenomeni ottici ai quali si può assistere nella vita di tutti i giorni, oppure nel corso del lavoro di un artigiano per realizzare specchi di bronzo, concavi, ustori, o superfici sferiche.
In questa sede ci limiteremo ad analizzare una sola di tali proposizioni, la XVIII:
Canone: Un'immagine riflessa si capovolge nel punto wu. Si hanno estremità e lunghezza dell'immagine. La spiegazione è data sotto 'estremità'.
Spiegazione: Immagine riflessa: un uomo in luce appare come se proiettasse [luce]. I bassi sono alti, gli alti sono bassi. L'oscurità dei piedi viene illuminata in basso, perciò l'immagine [di essi] si formerà in alto; l'oscurità della testa viene illuminata in alto, perciò l'immagine [di essa] si formerà in basso. Le estremità dalla loro distanza si uniscono nella luce, pertanto la [loro] immagine riflessa si troverà racchiusa all'interno.
Il testo originale di questa proposizione non presenta errori o alterazioni. Il carattere dao, 'capovolgersi', era in origine scritto dao, 'arrivare', senza il radicale 'uomo', ma anticamente i due caratteri erano intercambiabili. Qualcuno, come Tan Jiefu, a suo tempo ha emendato il carattere xu ('tepore') all'interno della Spiegazione con quello assai simile zhao, che significa 'illuminare' o 'riflettere'. Ma in realtà neppure questo è necessario, poiché la lezione originaria consente una spiegazione più esauriente. Il carattere jing ha qui il significato di 'riflesso', o più esattamente di 'immagine riflessa'. In questa accezione ricorre anche nelle proposizioni XXI, XXII e XXIII. Quanto al carattere xu, la Spiegazione delle figure e interpretazione dei caratteri (Shuowen jiezi) lo definisce come 'nuda (o 'rosseggiante') apparenza' (Xu Shen, radicale 'fuoco'). Song Yiran ritiene che il carattere xu stia per il suo omofono scritto senza il radicale 'fuoco', indicante "il tepore del sole che sorge" (Xu Shen, radicale 'sole'), e lo interpreta pertanto come "la luce che si irradia al sorgere del Sole" (1936, p. 219). Vedremo che tale interpretazione appare estremamente calzante. La proposizione illustra quello che oggi si può definire un esperimento sulla formazione di un'immagine attraverso un piccolo foro. Con un po' di attenzione e di fortuna, il fenomeno ottico connesso a tale esperimento può essere osservato nel corso della vita quotidiana. Di seguito diamo la nostra interpretazione:
Canone: Quando la luce emanata da un corpo attraversa un foro molto piccolo, dall'altra parte del foro si formerà un'immagine capovolta. Questo accade nel punto di intersezione della luce con il foro (il 'punto wu'). Tale immagine possiede due estremità e una lunghezza determinata ("si hanno estremità e lunghezza dell'immagine"). La sua formazione può essere compresa attraverso l'osservazione dell'estremità.
Nel testo, il "punto wu" corrisponde al punto di convergenza della luce, come viene riconosciuto da quasi tutti gli studiosi (Song Yiran 1936). Veniamo ora alla Spiegazione, la cui funzione, ricordiamolo, era quella di aggiungere un commento esplicativo alle proposizioni del Canone. In primo luogo, occorre osservare che oggetto dell'esperimento è un individuo. Nel testo della Spiegazione, "l'uomo in luce" può essere inteso come "l'uomo che emette luce" o "l'uomo investito dalla luce". Un uomo ovviamente non può emettere luce, ma se si trova sotto una intensa fonte luminosa può dare questa impressione a chi gli sta accanto; è questo che il testo intende quando afferma che "un uomo in luce appare come se proiettasse". Su queste premesse, possiamo parafrasare la Spiegazione nel modo seguente:
Spiegazione: Un uomo che si trovi sotto il Sole sembra proiettare luce come un corpo luminoso. Quando questa luce viene proiettata attraverso un piccolo foro e dall'altra parte si forma un'immagine, si può avere un fenomeno per cui l'immagine di un uomo di bassa statura appare alta, e quella di un uomo alto appare bassa ("I bassi sono alti, gli alti sono bassi"). I piedi stanno in basso, ma nell'immagine che si forma dopo il passaggio della luce nel foro staranno in alto; la testa sta in alto, ma nell'immagine che si forma dopo il passaggio della luce nel foro starà in basso ("L'oscurità dei piedi viene illuminata in basso, perciò l'immagine [di essi] si formerà in alto; l'oscurità della testa viene illuminata in alto, perciò l'immagine [di essa] si formerà in basso"). Attraversando il piccolo foro, la luce fa sì che le due estremità del corpo corrispondano in modo inverso a quelle della sua immagine. È così che in una camera oscura si forma un'immagine capovolta ("le estremità dalla loro distanza si uniscono nella luce, pertanto la [loro] immagine riflessa si troverà racchiusa all'interno").
Il carattere yu, 'insieme', nell'ultima frase ha il valore verbale di 'associarsi', 'unirsi'; le due estremità del corpo sono unite dalla luce. Da questa spiegazione si può osservare la chiarezza con cui i moisti descrivono l'esperimento della formazione di immagini attraverso un foro (oggi diremmo della camera oscura), come pure la correttezza della loro analisi di questo fenomeno.
La proposizione XVIII ha richiamato l'interesse e l'apprezzamento di un gran numero di studiosi. In qualche caso, tuttavia, sono state espresse valutazioni fondamentalmente negative. Angus C. Graham (1978), per esempio, dissente dall'interpretazione generale offerta in questa sede, sostenendo che il termine ying (scritto jing nel testo originale) vada inteso nel senso di 'ombra' piuttosto che di 'immagine riflessa', e propone numerosi emendamenti alla lezione tradizionale.
La ricchezza del Canone moista si estende alle proposizioni matematiche, dedicate in gran parte all'esposizione di nozioni di geometria. Alcune vertono sui concetti di infinito e di limite, mentre un piccolo numero discute questioni di aritmetica. Tra queste ultime, la proposizione LIX del Canone, parte prima, offre una precisa descrizione del sistema decimale:
Canone: 'Uno' è minore di 'due', ma maggiore di 'cinque'. La spiegazione è data sotto: 'stabilire la posizione'.
Spiegazione: 'Uno': nel cinque c'è l'uno. Nell'uno c'è il cinque. Nel dieci, il due.
Quello di 'corpo' è il primo concetto geometrico illustrato nel Canone moista, come appare nella proposizione II del Canone, parte prima:
Canone: Il corpo, si divide in due.
Spiegazione: Corpo: Come uno di due (una metà). L'estremità (duan) di una linea.
In questa proposizione, la maggior parte degli studiosi interpreta il termine 'corpo' (ti) come 'parte', e attribuisce al carattere jian (qui tradotto come 'due') il significato di 'intero'. Tale lettura, tuttavia, appare poco appropriata, in quanto non spiega le caratteristiche di questo 'corpo', né si addice alla comune accezione del termine nel senso di 'solido'. In realtà, il carattere jian in questa proposizione va inteso nel significato di 'due', attestato nella Spiegazione delle figure e interpretazione dei caratteri (sotto il radicale 'grano'). Se il corpo può 'dividersi in due', esso non può essere che uno. Zheng Jianjian (1991) ritiene che questa proposizione sottolinei l'unità e la coesione di un corpo, contrapponendolo al 'due', ovvero a ciò che è diviso. Nel Canone moista, tuttavia, non viene mai evidenziato il carattere tridimensionale dei corpi, il loro volume. Benché includa i solidi al suo interno, il 'corpo' moista è dunque un concetto eminentemente topologico. L'incompletezza di questa proposizione viene integrata altrove, nella proposizione LV del Canone, parte prima, dove si afferma che "spesso è ciò che ha grandezza" (che possiede spessore e quindi volume). Le due enunciazioni, insieme, formano il concetto moista di solido.
Il termine 'estremità' (duan) ricompare nella proposizione LXI del Canone, parte prima, dove esprime un concetto di estrema rilevanza. La sua definizione è la seguente: "la parte più esterna e priva di spessore di un corpo". La nozione è formulata evidentemente sulla base dei concetti di 'corpo' e di 'spessore' illustrati in precedenza. Nell'ordine delle proposizioni del Canone, questa struttura progressiva delle enunciazioni non è casuale. Esempi tipici ne sono le Spiegazioni della proposizione LIII: "Uguale lunghezza si ha quando due linee finiscono nello stesso luogo"; della proposizione LIV: "Al centro, le linee hanno eguale lunghezza"; e della proposizione LVIII: "Si ha un cerchio quando le linee che si dipartono dal centro hanno tutte la stessa lunghezza". Veniamo ora ad analizzare la proposizione suddetta e la sua Spiegazione:
Canone: Estremità (duan) è la parte più esterna e priva di spessore di un corpo.
Spiegazione: Estremità: è pari a nulla.
Se ne può offrire il seguente significato:
Canone: Ciò che chiamiamo 'estremità' (duan) è quella parte priva di spessore che si trova all'estremità di un corpo.
Spiegazione: 'Estremità' non è un corpo reale, in quanto non possiede spessore né volume. È identica al nulla.
Abbiamo qui una notevole proposizione, che definisce un concetto astratto di 'estremità', la cui principale caratteristica è quella di essere priva di spessore e di volume. Ma un corpo privo di volume non esiste in Natura. D'altronde, la definizione afferma con chiarezza che 'estremità' è la parte 'priva di spessore' e 'più esterna' di un corpo. Il carattere qian, letteralmente 'ciò che sta davanti' e qui tradotto come 'parte più esterna', compare anche altrove nel Canone, per esempio nella già citata proposizione XLI del Canone, parte prima, oppure nella Spiegazione della proposizione LXIII ("Una linea sta davanti a una porzione di uno spazio piano e dopo un'estremità, non sta tra un'estremità e uno spazio"). Corrisponde, più o meno, a ciò che oggi definiremmo 'bordo', 'margine'. Quanto al concetto di 'estremità', si tratta dell'esito di una riflessione razionale, che approfondisce e generalizza le conclusioni tratte da esperienze abituali, come l'osservazione dell'estremità di una canna di bambù. Ne vedremo le implicazioni quando affronteremo la nozione moista di limite. Sono in molti a ritenere che l''estremità' dei moisti corrisponda al punto della geometria occidentale, ma a nostro avviso si tratta di una forzatura. Se nella proposizione LXI del Canone, parte prima, si parla di un 'corpo' come di un segmento, la sua 'estremità' può essere effettivamente concepita come un punto. Ma se il corpo è di un'altra natura geometrica, la corrispondente 'estremità' potrà non essere più un punto. Potrà trattarsi di una superficie, o perfino di un segmento. Va poi ricordato che in una proposizione si indica come caratteristica dell'estremità quella di non avere spessore.
Nel Canone moista, il concetto di linea retta viene reso con il termine chi, il cui significato originario era quello di 'regolo', per poi passare a designare la lunghezza misurata con tale strumento.
Il carattere qu, a sua volta, può essere inteso come riferito a una superficie piana, ma anche in questo caso non si tratta di un termine univoco. Per esempio, anche il termine 'estremità' può talora riferirsi a una superficie piana limitata, in quanto estremità e piano sono entrambi privi di spessore. Il dialettico Hui Shi ebbe a dire: "Ciò che non ha spessore non può essere accumulato, [eppure] la sua grandezza arriva a mille li" (Zhuangzi, Tianxia). Questa sentenza costituisce la più antica testimonianza della natura di una superficie piana (Qian Baocong 1981).
In breve, le nozioni geometriche dei moisti (che qui abbiamo illustrato soltanto in parte), sebbene lontane dal rigore e dalla sistematicità di quelle della geometria europea, sono affini a queste per la loro astrazione e la loro forza logica. Le idee della geometria moista sono fondamentalmente corrette; in alcuni casi arrivano a una profondità sconosciuta finanche alla tradizione europea, descrivendo relazioni e strutture topologiche. Tra queste, la definizione del concetto di 'estremità', che andiamo a discutere, si estende fino a includere una nozione di limite che appare avanzata anche in una prospettiva moderna.
In precedenza, a proposito della proposizione XLI del Canone, parte prima, abbiamo discusso il concetto moista di lunghezza infinita. Una nozione di infinito riferita ai numeri cardinali è discussa nella proposizione LXXIII del Canone, parte seconda, sebbene in maniera non altrettanto chiara.
La proposizione LX del Canone, parte seconda, è l'ultimo importante testo tra quelli di argomento matematico; essa illustra principalmente il concetto di limite:
Canone: Ciò che non ha metà e non può essere separato ulteriormente. La spiegazione è data sotto 'estremità' (duan).
Spiegazione: Se si divide una lunghezza a metà e si continua fino a quando la parte centrale non è abbastanza grande per essere divisa a metà, quella è 'l'estremità'. Se si eliminano le estremità di una linea, si ottiene un punto nel centro; se si toglie metà dopo metà, si arriverà a un punto prossimo a nulla, e poiché il nulla non può essere diviso, nulla si potrà più togliere.
Il significato è il seguente:
Canone: Ogni volta che la si taglia a metà [riferito a una retta o a una lunghezza], rimane invariabilmente una porzione che non può essere annullata. Quella è l'estremità.
Spiegazione: Prendiamo un segmento e dividiamolo in due parti uguali, poi prendiamo una metà e dividiamola ancora in due e così via, fino al momento in cui ciò che rimane non può essere diviso ulteriormente. Quella è l''estremità'. Se dopo ogni divisione prendiamo un segmento, l'estremità finale verrà individuata nel suo centro; ma ogni divisione deve produrre due metà esattamente uguali, altrimenti l'operazione non ha valore. L'estremità non ha lunghezza e quindi non può essere sottoposta a divisione.
Ciò che è descritto in questo passo equivale a una proposizione matematica, e in effetti corrisponde approssimativamente a un celebre teorema della matematica moderna. La sua origine risale a un paradosso del dialettico Hui Shi: "Se ogni giorno si taglia a metà un bastone lungo un chi, ne rimarrà sempre qualcosa anche dopo diecimila generazioni" (Zhuangzi, Tianxia). La descrizione di un processo senza fine rimanda evidentemente al concetto di lunghezza infinita. I moisti hanno indagato su di esso e ne hanno raggiunto la conclusione finale, il concetto di limite. 'Estremità' (duan) è ciò che rimane da questo processo infinito di sottrazione, metà dopo metà. Non importa quante volte dimezziamo una lunghezza, non potremo eliminare questa 'estremità'; nell'insieme del processo, pertanto, essa si mantiene immobile. Per vaga ed elementare che sia, la descrizione moista di questo processo e del suo risultato è probabilmente la più antica mai data. La proposizione può essere vista come una forma embrionale del famoso teorema di Cantor all'interno della teoria dei numeri reali della matematica moderna. Da essa si evince altresì che il concetto di 'estremità' nella proposizione LXI del Canone, parte prima, non nasce dal nulla, ma al contrario è il risultato di una ricerca logica rigorosa. Si può considerare a pieno titolo l''estremità' moista come il 'limite' del processo infinito descritto in precedenza, e poiché non può avere spessore (che altrimenti la renderebbe ulteriormente divisibile), essa equivale al 'nulla' (wu). L'uso del termine appare pertanto univoco nelle due proposizioni del Canone.
Oltre alle scienze naturali, quello della logica è un altro campo in cui i risultati dei moisti appaiono considerevoli. Logica, per definizione, è un ramo della conoscenza che pone l'attività del pensiero umano come principale oggetto d'indagine. Nella Cina antica, i moisti furono i primi a essere consapevoli del significato di tale indagine, e formularono una teoria logica alquanto sistematica. La logica, a quel tempo, era chiamata 'studio delle argomentazioni' (bianxue). La Casistica minore esordisce così:
Scopo di colui che argomenta è distinguere tra giusto e sbagliato, indagare sull'alternarsi del buono e del cattivo governo, chiarire similitudini e differenze, ed esaminare a fondo l'attinenza dei nomi agli oggetti. Egli decide tra beneficio e danno, risolve dubbi e difficoltà, esplora la verità riguardo la moltitudine delle cose, e considera quanti tipi diversi di affermazioni si equivalgono. Egli fa riferimento agli oggetti con l'aiuto dei nomi, esprime pensieri attraverso le frasi, sostiene ragioni attraverso spiegazioni, accetta e propone seguendo il metodo dell'analogia [...].
Questo brano può essere considerato come un'illustrazione programmatica della logica moista. La prima parte descrive principalmente gli obiettivi dell'indagine logica. Tra questi, va osservato come i moisti analizzino e descrivano in modo accurato il mondo naturale e oggettivo, considerandolo uno degli obiettivi principali della loro ricerca. È la sezione del Canone dedicata alle scienze naturali che incorpora i risultati ottenuti nel campo della logica, includendo proposizioni dedicate esclusivamente a questo argomento. Grazie a tali nozioni relativamente sistematiche e mature, le tesi moiste appaiono descritte in modo conciso e razionale. Inoltre, ai moisti si deve il pionieristico perfezionamento di tre forme di pensiero fondamentali: nozione, giudizio e deduzione. Essi ne descrissero relazioni e differenze, proponendo inoltre tre categorie deduttive: 'causa', 'principio', 'classe', e tutta una serie di forme specifiche di inferenza: 'falsa', 'probabile', 'risultato', 'analogia', 'uguaglianza', 'abduzione', 'deduzione', 'conclusione'. Misero in evidenza alcune regole del pensiero all'interno di argomenti inferenziali, come i principî dell'equivalenza, della contraddizione, del terzo escluso, della ragione sufficiente, e così via; tali concetti sono in effetti la base della logica ordinaria.
Gli studiosi hanno individuato numerosi punti in comune della logica moista con quella aristotelica e quella indiana, oltre, ovviamente, a una serie di peculiarità (Chen Menglin 1983, introduzione). Rispetto alla logica di Aristotele, quella moista appare incompleta ed elementare, anche se per certi aspetti la sua investigazione ha raggiunto un'estrema profondità. In ogni caso, essa può competere a pieno titolo con gli altri sistemi di indagine razionale nel mondo antico.
Con l'avvento della dinastia Qin (221-206), i moisti uscirono di scena; nei primi anni del regno di Wudi (140-87) degli Han anteriori si registrava ancora l'attività di qualche tardo epigono, ma la scuola come tale era ormai finita. Se la causa di questa scomparsa va ricercata principalmente nei mutamenti sociali e politici di quell'epoca, la mancata trasmissione delle tesi moiste, in particolar modo di quelle scientifiche e logiche, deve essere ascritta soprattutto alla loro peculiarità e all'egemonia confuciana e taoista.
Prima che gli eruditi Qing, soprattutto sotto i regni di Qianlong (1736-1795) e Jiaqing (1796-1820), rispolverassero il vecchio Mozi e ne facessero oggetto di una serrata rivisitazione filologica, pochissimi furono coloro che mostrarono interesse per le teorie della scuola. Tra questi, vale la pena di ricordare un eminente letterato dell'epoca Jin (265-420), Lu Sheng (250-320), che scrisse un commentario ai primi quattro libri del Mozi (Glosse alla dialettica moista, Mobian zhu). Di questo testo oggi sopravvive soltanto una introduzione (inclusa nella Storia della dinastia Jin, Jinshu), che ha esercitato una considerevole influenza sulle letture moderne del Canone moista: in essa, Lu Sheng equipara l'intero Canone a un sistema di studio delle argomentazioni (ovvero di logica), e indica Mozi quale precursore dei dialettici come Hui Shi o Gongsun Long (320-250 ca.). Inoltre, viene nuovamente sollevata la questione del 'senza spessore'. Un altro studioso fu Liu Wei, matematico vissuto nel III sec. d.C. e autore di un celebre commentario ai Nove capitoli sui procedimenti matematici (Jiuzhang suanshu, epoca Han), in cui s'introduceva il metodo per calcolare il valore approssimativo dell'area del cerchio e del rapporto tra circonferenza e diametro (π) insieme a una nozione inequivocabile di limite (Bai Shangshu 1983). Gli studiosi contemporanei sono concordi nel vedere in tale metodo l'influenza dei concetti di limite e di infinito teorizzati dalla scuola moista.
di Marc Kalinowski
Con il termine 'cosmologi' si designano oggi le correnti di pensiero preimperiali e dell'inizio degli Han anteriori (206 a.C.-9 d.C.) che hanno maggiormente contribuito allo sviluppo delle speculazioni sulla Natura e all'elaborazione dei sistemi correlativi e simbolici che caratterizzano le rappresentazioni della realtà fisica nella cosmologia cinese. Sull'origine di tali speculazioni e sui rapporti di esse con gli altri campi della cultura, però, si conosce poco sia a causa del numero limitato di fonti antiche che trattano questi argomenti in modo sistematico sia a causa dell'assenza d'informazioni sul contesto in cui esse hanno preso forma. La stessa esistenza di una scuola cosmologica dai contorni ben definiti è problematica e discutibile.
La classificazione delle scuole
Le classificazioni stabilite dai dossografi e dai bibliografi dell'epoca della dinastia degli Han anteriori hanno influenzato il nostro modo di considerare le correnti di pensiero preimperiali. Nel trattato bibliografico della Storia della dinastia Han [anteriore] (Hanshu), basato su un catalogo compilato alla fine del I sec. a.C., le opere appartenenti alla sezione dei 'maestri' (zhuzi) sono suddivise in scuole (jia). La scuola dello Yin-yang, alla quale si dà in genere il nome di 'cosmologica', appare in terza posizione dopo la scuola dei Ru (letterati confuciani) e del Tao (taoista). L'elenco delle opere appartenenti a questa corrente si apre con un trattato attribuito a Zi Wei, un astrologo la cui esistenza è attestata nel cosiddetto Commentario di Zuo alle 'Primavere e autunni' (Zuozhuan), una cronaca storica del periodo 770-481 a.C. compilata intorno al IV sec. a.C. A eccezione di Zou Yan (v. oltre), gli altri autori menzionati sono praticamente sconosciuti; quasi la metà di essi visse durante il periodo Qin (221-206 a.C.) e durante l'inizio degli Han. Servendosi di una formula tratta dai Classici confuciani, l'autore della Storia della dinastia Han [anteriore] definisce i sostenitori della scuola dello Yin-yang come specialisti di scienze astro-calendariali, distinguendo da un lato una corrente ortodossa incaricata di vigilare sull'armonia tra le attività umane e i cicli naturali, e dall'altro lato una corrente eterodossa criticata per il suo uso sconsiderato di ricette emerologiche e culti demoniaci.
Le tradizioni della scuola dello Yin-yang hanno origine con la carica di astrocalendarista presso le monarchie antiche. Conformarsi con venerazione al cielo maestoso, dare ordinamento ai movimenti del Sole, della Luna, degli astri e dei contrassegni siderali, trasmettere rispettosamente al popolo i momenti propizi: queste sono le loro qualità. Chi invece pratica queste tradizioni in modo ottuso, si attacca alle interdizioni e ai tabù, e si rinchiude in procedimenti di minor conto abbandonando il mondo degli uomini per servire gli spiriti. (Hanshu, Yiwen zhi, pp. 1734-1735)
Circa cento anni prima, lo storico Sima Qian (145-86 a.C. ca.) riportava nelle sue Memorie di uno storico (Shiji) le opinioni del padre Sima Tan (m. 110 a.C.) sui maestri di pensiero. Questi distingue anzitutto i metodi (shu) dello yin-yang, quindi i discepoli di Confucio (ruzhe) e di Mozi (mozhe), e infine altre tre correnti le quali sono le uniche a essere definite 'scuole': i legisti (fajia), i dialettici (mingjia) e i taoisti (daojia). Questo è il suo giudizio sui metodi degli specialisti dello yin-yang.
Io ho esplorato i metodi dello yin-yang. Essi tengono in massimo conto i presagi e moltiplicano le interdizioni e i tabù; ciò è di ostacolo agli uomini e accresce le loro paure. Ciononostante, il modo in cui questi metodi danno ordinamento ai grandi principî di conformità al ciclo delle stagioni non può essere ignorato [...].
Lo yin-yang, le 4 stagioni, le 8 direzioni, le 12 divisioni celesti e i 24 periodi solari sono tutti portatori di precetti e di prescrizioni. Chi si conforma a essi prospera, mentre gli altri, se non perdono la vita, vanno incontro alla propria rovina. Ma non è necessariamente così. Per questo, se da un lato dico che [i metodi dello yin-yang] sono di ostacolo agli uomini e accrescono le loro paure, dall'altro lato la generazione degli esseri in primavera, la loro fioritura in estate, il loro declino in autunno e il loro riassorbimento in inverno sono l'espressione più elevata delle norme che governano l'ordine celeste (tiandao). Non conformarsi a esse significa non poter instaurare le regole di ordinamento del mondo. Ecco perché dico che non si possono ignorare i grandi principî di conformità al ciclo delle stagioni. (Shiji, 130, pp. 3289-3290)
Sima Tan scriveva in un'epoca in cui il taoismo godeva ancora di un certo credito presso la corte degli Han; egli stesso aderiva agli ideali professati da questa scuola. Nelle sue pagine, infatti, la scuola taoista è l'unica a non essere oggetto di un giudizio negativo e a essere anzi presentata come la migliore soluzione agli sforzi di unificazione intrapresi sin dall'inizio della dinastia: "Nei suoi metodi, la scuola taoista segue i grandi principî di conformità dello yin-yang, sceglie il meglio del confucianesimo e del moismo, e riprende l'essenziale della scuola dialettica e del legismo" (ibidem, p. 3289). Al di là delle differenze dottrinali che ispirano le descrizioni delle Memorie di uno storico e della Storia della dinastia Han [anteriore], si notano alcune convergenze. Anzitutto, i metodi dello yin-yang si basano sull'idea di una correlazione tra l'ordine naturale, rappresentato dai movimenti celesti e dal ciclo stagionale, e l'ordine umano. In secondo luogo, questi metodi sono non soltanto legittimi, ma anche necessari per l'avanzamento della civiltà. In terzo luogo, non bisogna confondere le loro applicazioni nella pratica del buon governo con le volgari pratiche emerologiche e magico-religiose.
Infine va osservato che la qualifica di 'scuola' attribuita alle dottrine dello yin-yang nella Storia della dinastia Han [anteriore] non compare in Sima Tan, così come tale qualifica non è utilizzata per i sostenitori del confucianesimo e del moismo. Diversamente dai termini ruzhe e mozhe, che designano i seguaci degli insegnamenti di Confucio e di Mozi, il termine yin-yang non è mai associato a individui o a una corrente d'idee che deterrebbe l'esclusiva delle pratiche e della trasmissione dei metodi dello yin-yang. Appare del tutto probabile che lo yin-yang, insieme alle quattro stagioni, alle otto direzioni e alle altre nozioni menzionate da Sima Tan, facesse parte di un fondo di conoscenze comuni che, nelle loro applicazioni non superstiziose, meritavano, secondo il parere dello storico, di figurare tra le principali fonti d'ispirazione della scuola taoista.
Con la vittoria del confucianesimo durante il regno dell'imperatore Wu, la situazione mutò rapidamente. Nel periodo compreso tra Dong Zhongshu (179-104 a.C. ca.), considerato dalla tradizione come "l'iniziatore dell'integrazione dello yin-yang nella dottrina dei letterati" (Hanshu, 27A, p. 1317), e la fine degli Han anteriori si compie la cosmologizzazione del confucianesimo a opera di letterati quali Liu Xiang (77-6 a.C. ca.) e suo figlio Liu Xin (m. 23 d.C.), al quale si deve la compilazione del catalogo bibliografico della Storia della dinastia Han [anteriore]. Il culto del cielo, che garantisce la legittimità del potere imperiale sul piano cosmologico, è istituito nell'anno 31 della nostra era; in questo periodo s'inizia inoltre a progettare la costruzione nella capitale di un Palazzo delle Luci, un edificio concepito a immagine del mondo, menzionato nei testi antichi, nel quale l'imperatore era solito offrire sacrifici stagionali in date stabilite dalla liturgia calendariale delle 'Ordinanze mensili' (il Mingtang). È a partire da questo momento che sono posti i fondamenti scritturali, filosofici e religiosi del confucianesimo Han.
Per Granet, le nozioni cosmologiche cinesi appartengono a un "fondo istituzionale" molto antico, nel cui ambito rappresentano le idee direttrici e la parte comune a tutte le scuole di pensiero (1934, p. 23); queste idee sono riprese da Needham, che pone le concezioni cosmologiche a fondamento della scienza cinese. Il Tao, lo yin-yang, il qi ('soffio, influsso vitale'), le Cinque fasi (wuxing), i cicli naturali, il pensiero correlativo, la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, e il Classico dei mutamenti (Yijing) sono esaminati in dettaglio e ricondotti a un progetto teorico globale definito 'filosofia dell'organismo'. La scuola dello Yin-yang prima di Dong Zhongshu è denominata 'scuola dei naturalisti', e Zou Yan è elevato al rango di 'fondatore' del pensiero scientifico cinese.
Il poco che sappiamo di questo personaggio, probabilmente vissuto nei paesi di Qi e di Yan tra il 347 e il 276 a.C., proviene da fonti di epoca Han. Le Memorie di uno storico lo presentano come uno specialista delle scienze tradizionali e un riformatore politico. A Zou Yan sono attribuite alcune innovazioni nel campo dell'investigazione della Natura, di teorie classificatorie e di geografia simbolica, ma egli è noto soprattutto per la sua dottrina della legittimazione cosmologica dei cambiamenti dinastici. Secondo questa dottrina, il corso della storia si evolverebbe in base a cicli periodici determinati dall'alterno dominio di cinque agenti naturali (Cinque fasi), e il passaggio da un periodo all'altro provocherebbe automaticamente un cambio di dinastia. Zou Yan sembra anche essere stato in contatto con ambienti interessati alle arti magiche e alle tecniche d'immortalità. Tuttavia, alcuni studiosi criticano l'ipotesi che Zou Yan sia stato un filosofo della Natura e il fondatore della scuola dei cosmologi e lo ritengono piuttosto un tecnico e un taumaturgo, le cui attività si svolgevano al di fuori dell'universo speculativo delle scuole di pensiero preimperiali (Graham 1989). La stessa esistenza di un legame tra Zou Yan e un'ipotetica corrente naturalista è stata messa in causa; si ritiene infatti che il suo contributo più certo ai movimenti d'idee dell'epoca possa essere rintracciato nell'ambito delle dottrine sulla sovranità, le quali hanno costituito i fondamenti ideologici dell'ordine imperiale (Sivin 1995a). L'opacità storica della figura di Zou Yan non permette di spingersi oltre; ma anche se egli non è stato un innovatore, i suoi insegnamenti hanno indubbiamente fatto scuola e gli va almeno riconosciuto il ruolo svolto sia nel rinnovare sia nel trasmettere le tradizioni cosmologiche del suo tempo. In conclusione, le ricerche degli ultimi decenni del XX sec. sul pensiero e la religione del periodo preimperiale hanno permesso d'inquadrare la questione dell'origine e dello sviluppo delle concezioni cosmologiche tra la metà del periodo degli Stati combattenti e la fine degli Han anteriori. Con il termine 'cosmologi' non s'intende più un gruppo ben definito di persone o una particolare scuola di pensiero, bensì l'insieme di coloro che, per la maggior parte anonimi e senza necessari legami l'uno con l'altro, hanno riflettuto sui rapporti tra realtà fisica, uomo e società, contribuendo a porre i principî di una filosofia della Natura, e a elaborare i sistemi classificatori e i modi di ragionamento propri della cosmologia correlativa (Schwartz 1985; Graham 1989; Henderson 1984).
Per quanto riguarda le origini più antiche del pensiero cosmologico, varie sono state le linee di ricerca. In primo luogo, si è tentato di ritrovare gli antecedenti dei modelli classificatori e cosmografici della dottrina delle Cinque fasi nelle strutture rituali e nelle rappresentazioni astrocalendariali risalenti al periodo arcaico (Allan 1991; Pankenier 1995). È stato inoltre messo in luce il legame tra l'emergere di un naturalismo filosofico durante gli Stati combattenti e l'evoluzione delle concezioni del divino inteso come potenza impersonale, regolatrice del corso della Natura e del mondo, nel periodo Zhou. Studi recenti hanno infine dimostrato come i primi lineamenti di un realismo cosmologico siano apparsi negli ambienti degli annalisti, dei divinatori, degli astrologi, dei musicisti e dei medici vissuti nel periodo delle Primavere e autunni le cui attività sono riportate nel Commentario di Zuo alle 'Primavere e autunni' (Graham 1989).
Nei primi testi dei maestri di pensiero dell'epoca degli Stati combattenti, a cominciare dai Dialoghi di Confucio, non vi è spazio per l'investigazione della Natura; è necessario attendere il IV sec., con gli scritti di Laozi, di Zhuangzi e, in misura minore, di Mencio, per assistere allo sviluppo delle grandi nozioni costitutive del naturalismo filosofico che si trova alla base della cosmologia correlativa. Il periodo di fioritura del pensiero cosmologico si situa però tra il III e la metà del II sec. a.C. I principali documenti che testimoniano la penetrazione del discorso cosmologico presso i maestri di pensiero si trovano nelle grandi compilazioni di quest'epoca, classificate dai bibliografi della fine degli Han anteriori nel gruppo della scuola degli eclettici (zajia) a causa del loro carattere anonimo e composito. Alcune di esse furono redatte da circoli d'intellettuali raccolti sotto il patrocinio di mecenati, come le Primavere e autunni del Signor Lü (Lüshi chunqiu, 239 a.C. ca.) e il Libro del Maestro dello Huainan (Huainanzi, 139 a.C. ca.). I problemi di datazione sono più complessi per il Libro del Maestro Guan (Guanzi), ma i testi che compongono quest'opera sono in gran parte attribuiti ai membri dell'Accademia Jixia, patrocinata dai prìncipi di Qi (nell'odierno Shandong) a partire dal IV sec. a.C. Queste tre opere sono accomunate dalla caratteristica di tramandare i testi più significativi della cosmologia correlativa preimperiale e dell'inizio degli Han; alcuni capitoli riguardano direttamente l'astrologia, il calendario e la dottrina delle Cinque fasi, associando queste compilazioni eclettiche alle tradizioni tecniche (v. oltre). In molti altri capitoli il discorso cosmologico acquista una dimensione più speculativa, non nel senso di una scienza dei fondamenti della realtà fisica, ma in quello di un naturalismo filosofico in cui la prospettiva cosmologica è sempre circoscritta al campo della politica e della morale. Ciò è particolarmente vero per le Primavere e autunni del Signor Lü, che rappresentano la tendenza più speculativa delle correnti cosmologiche preimperiali.
A partire dagli anni Settanta del XX sec. le campagne di scavi archeologici condotte in varie regioni della Cina hanno riportato alla luce un numero sempre crescente di manoscritti su seta e su bambù risalenti al periodo compreso tra la fine degli Stati combattenti e l'inizio degli Han. Le biblioteche funerarie di Baoshan (316 a.C.), Shuihudi (217 a.C.), Mawangdui (168 a.C.), Yinqueshan (134 a.C.) e altre ancora hanno arricchito di nuova linfa le ricerche sull'evoluzione della cosmologia correlativa e delle correnti di pensiero preimperiali.
Il gran numero di testi riguardanti le tradizioni tecniche (astrologia, calendario, divinazione, medicina, tecniche di lunga vita, pratiche magico-religiose) contenuti in questi scritti dimostra che si trattava di pratiche ampiamente diffuse nello stesso periodo in cui il pensiero cosmologico influenzava sempre più la letteratura dei maestri di pensiero. Questi testi hanno dato vita a linee di trasmissione durature, poiché si trovano numerosi paralleli nel trattato bibliografico della Storia della dinastia Han [anteriore] non nel gruppo dei cosmologi (scuola dello Yin-yang) all'interno della sezione sui 'maestri', bensì in quello delle 'arti militari' (bingjia, gruppo yin-yang o 'scritti dello yin-yang') e delle scienze tradizionali (sezioni shushu o 'calcoli e metodi', e fangji o 'prescrizioni e ricette'). Tuttavia, i possibili accostamenti tra i manoscritti e le compilazioni eclettiche del III e II sec. cui si è accennato sopra mostrano la grande interazione esistente tra le conoscenze tecniche e le speculazioni politico-morali dei cosmologi preimperiali e dell'inizio degli Han. Al di là del fatto che Zou Yan sia stato, o no, l'iniziatore della dottrina delle successioni dinastiche, la teoria cosmologica sulla quale si fondava tale dottrina era di uso comune nell'astrologia calendariale alla fine del III sec.; lo stesso vale per la dottrina dei cinque sovrani che governano il ciclo delle stagioni nelle 'Ordinanze mensili'. La legittimità delle dottrine dal punto di vista politico appare dunque soprattutto come l'espressione, trasposta sul piano delle concezioni tradizionali della storia e del governo, di pratiche divinatorie e credenze religiose che erano ampiamente diffuse nella società. I manoscritti yin-yang di Yinqueshan contengono inoltre alcuni trattati sulle interdizioni calendariali e i riti stagionali, confermando l'estrema popolarità dei 'metodi dello yin-yang' già un secolo prima dell'istituzione della liturgia delle 'Ordinanze mensili' presso la corte degli Han.
Le biblioteche funerarie informano anche sui movimenti d'idee dell'epoca, con manoscritti riguardanti l'evoluzione delle dottrine cosmologiche e dei sistemi correlativi. Di particolare interesse è il trattato dei Cinque condotti (Wuxing) di Guodian (300 a.C. ca.), in cui compare per la prima volta il termine wuxing, non nel senso di 'cinque agenti naturali' ma in quello di 'cinque qualità etiche' del saggio. Il testo sembra risalire al ramo delle scuole confuciane fondate da Mencio e da Zi Si nel IV sec. a.C. Nella stessa corrente d'idee, i commentari al Classico dei mutamenti rinvenuti a Mawangdui hanno ampliato la nostra conoscenza della teoria cosmologica con riferimento al pensiero morale e politico del confucianesimo. Sempre a Mawangdui sono stati rinvenuti vari manoscritti che gli specialisti ritengono legati al taoismo Huang-Lao, una scuola molto in voga all'inizio degli Han, associata da Sima Tan ai metodi dello yin-yang. Vi è difatti un legame molto stretto tra gli scritti Huang-Lao di Mawangdui e i manoscritti yin-yang di Yinqueshan; la differenza principale consiste nel fatto che i primi trattano questioni riguardanti la saggezza e il governo, mentre i secondi illustrano l'organizzazione della vita quotidiana sul modello del ciclo stagionale e sono più legati alle tradizioni tecniche. Malgrado il suo carattere sincretico e mal circoscritto sul piano dottrinale, la corrente Huang-Lao sembra oggi un importante vettore della cosmologizzazione delle idee politiche alla fine dell'Antichità; ciò corrisponde alla definizione del taoismo data da Sima Tan nelle Memorie di uno storico.
Nel periodo Han, a partire dal regno dell'imperatore Wu, le dottrine dello yin-yang e delle Cinque fasi sono assimilate ai fondamenti canonici e istituzionali dell'ortodossia che prende forma sotto l'egida del confucianesimo. Tra la Profusione di rugiada sulle 'Primavere e autunni' (Chunqiu fanlu), compilazione piuttosto eclettica di scritti attribuiti a Dong Zhongshu, e gli Ampi dibattiti del padiglione della tigre bianca (Baihu tongyi) di Ban Gu (32-92 d.C.), esse sono codificate ed epurate, e assurgono a regola stereotipata di esplicazione del mondo, con una influenza notevole sull'evoluzione della filosofia e delle scienze.
Anche le tradizioni tecniche sono soggette a importanti mutamenti; le sintesi sono frequenti e gli scritti che caratterizzano questo periodo, come il trattato astro-calendariale delle Memorie di uno storico, quello della Storia della dinastia Han [anteriore] dovuto a Liu Xin, e il Canone interno dell'Imperatore Giallo (Huangdi neijing) per la medicina, fissano i modelli descrittivi e interpretativi della realtà fisica nelle scienze tradizionali. Quanto al Classico dei mutamenti, la filosofia simbolica del mutamento iniziata dal 'Grande commento' sarà notevolmente sviluppata nei sistemi di Jing Fang (77-37 a.C.) e di Yang Xiong (53 a.C.-18 d.C.).
Mentre le dottrine cosmologiche nelle loro diverse manifestazioni naturaliste, correlative e simboliche continuano a sopravvivere e a perpetuarsi, la scuola dei cosmologi ‒ così come l'hanno immaginata i bibliografi degli Han in opposizione alle pratiche superstiziose dei tecnici dell'Antichità ‒ scompare. La scienza dello yin-yang, con i suoi specialisti (yin-yang sheng) e i suoi manuali (yin-yang shu), continua dunque a esistere; tuttavia, successivamente non designerà altro che l'insieme dei sistemi di corrispondenze, interdizioni calendariali e pratiche predittive che permettono agli uomini di adattarsi al corso della Natura e degli avvenimenti.
di Jean Levi
A partire dalla metà del IV sec. a.C., a seguito di annessioni, divisioni e conquiste, alcune grandi formazioni statali si disputano la supremazia. Per consolidare il proprio potere, i signori devono sfruttare razionalmente il loro territorio; scelgono come ministri imprenditori o commercianti la cui visione mercantile dei rapporti umani contamina l'ordine tradizionale della società. Tutto diviene materia di speculazione, nella duplice accezione del termine: tanto le gemme e il foraggio quanto la sovranità o l'avvenire. Questi cambiamenti, che sconvolgono sia le mentalità sia i rapporti sociali, daranno origine alle grandi arti congetturali. Nasceranno così la diplomazia, resa necessaria dal gioco delle alleanze; la strategia, che deriva dai conflitti sempre più frequenti e cruenti tra Stati rivali; l'arte della persuasione che, introducendo l'astuzia nei discorsi, favorisce lo sviluppo dell'argomentazione sofistica.
La politica inizia a offrire la strada migliore per procurarsi gli onori a chi dispone di ambizione e di talento. È così che molti lasciano il mestiere dei padri per dedicarsi a questa carriera e conquistarsi la fama. Questo gruppo di professionisti della cosa pubblica, assimilati sotto il termine molto generale di shi, si distingue dalle classi tradizionali ‒ tanto dai nobili quanto dai contadini ‒ per la sua mobilità, sia geografica sia sociale e intellettuale. Si parla di mobilità geografica in quanto i politici migrano incessantemente da un principato all'altro per proporre i propri servigi ai funzionari, e le scuole dove i discepoli ricevono dai maestri un insegnamento (dao) sono itineranti. Si tratta però anche di una mobilità sociale in quanto, una volta trovato un principe da servire, il letterato è catapultato ai livelli più alti della società, come accade, per esempio, al mendico Yu Qing, il quale, al termine del suo secondo incontro con il re Xiaocheng di Zhao (265-245 a.C.), è elevato alla più alta dignità. Infine, e soprattutto, si tratta di una mobilità intellettuale, dal momento che l'intelligenza è definita come la capacità di anticipare gli eventi e di piegarsi all'alea delle circostanze. La conoscenza non rappresenta più l'antico sapere morale né la scienza dei precedenti, ma è l'anticipazione della porzione di tempo più lontana dal presente, elaborata a partire da tenui indizi. Ecco dunque che la démarche congetturale dei retori e dei diplomatici discende da quello stesso 'paradigma indiziario' ‒ per riprendere la terminologia di Carlo Ginzburg‒ al quale si riferiscono anche la divinazione, la medicina, l'indagine poliziesca e la ricerca storica.
Lo specialista della politica non si caratterizza solamente per la sua mobilità fisica e mentale; uomo di azione, è anche e soprattutto uomo di discorso, qualificato nei testi dell'epoca come bianzhe 'retore' o 'polemista' (l'espressione mingjia, 'scuola dei nomi', non sarà utilizzata che molto più tardi, con i dossografi Han). L'arte di fare presuppone l'arte di dire, e il verbo sofistico, modellandosi sul suo contenuto, si caratterizza per l'estrema duttilità e non ambisce ad altra verità che non sia quella dell'efficacia pratica. L'arte oratoria cinese s'interessa in primo luogo alla dimensione performativa del linguaggio, in quanto la parola del sofista è azione. Hui Shi e Gongsun Long, i due principali autori di scritti dialettici, furono incaricati entrambi di missioni importanti, e niente li distingue da diplomatici o funzionari quali Zhang Yi (attivo nel 330-280 a.C.), Su Qin (attivo nel 330-310 a.C.), Su Dai (attivo nel 320-280 a.C.) o Gan Mao (attivo nel 310-290 a.C.).
La persuasione obbedisce a una triplice necessità: è indispensabile per ottenere un incarico presso un principe, per avere la meglio nei certami di un'arte oratoria contraddittoria e, soprattutto, è necessaria nelle trattative diplomatiche per influenzare e convincere. I retori, che nessuna terra rende stabili, non parlano di un luogo 'proprio' (De Certeau 1990). Gli stessi Cinesi dell'Antichità opponevano lo ci (o bian) al li: il primo è un discorso ornato, mutevole e capzioso, che seduce per il virtuosismo retorico, mentre, per contro, il li, l''argomentazione ragionata o piuttosto ragionevole', si mostra attento alle norme immutabili delle cose. Il discorso sofista è d'ordine temporale o tattico, in quanto è un puro prodotto delle circostanze, frutto delle opportunità e dei mutamenti d'umore; il discorso ragionato è d'ordine spaziale o strategico, poiché non è legato a un tempo particolare, tuttavia possiede una validità universale e transtorica. Basandosi sulle leggi della ragione ‒ per quanto confuse dai letterati tradizionalisti con la 'Parola degli Antichi' ‒ il discorso ragionato si presenta come l'espressione di regole identiche a quelle che ordinano i moti celesti (v. il Libro del Maestro Kongcong, Kongcongzi, IV, 12, pp. 1r-3v; compilazione relativamente tarda dei discorsi e delle teorie dei letterati membri della famiglia di Confucio, la quale contiene alcuni materiali antichi).
La politica si confonde con gli stratagemmi ed è intessuta con la trama degli intrighi che si ordiscono; essa si basa interamente su due meccanismi semplici: il sacrificio e l'esca (v., per es., il Libro del Maestro Guigu, Guiguzi, trattato d'arte retorica compilato a partire da materiali diversi, posti sotto il nome del maestro dei due più celebri uomini di Stato e diplomatici degli Stati combattenti, Zhang Yi e Su Qin). Le esche principali usate nella pratica sono i gingilli, le donne, i cavalli e le terre fertili, che servono da adescamento nel discorso sofista. L'argomentazione dei retori, infatti, non vale che come strumento di manipolazione, a causa sia della preminenza accordata al tempo ‒ sotto la forma delle circostanze dell'enunciazione ‒ sia della mobilità dovuta al continuo ricorso all'analogia e alla metafora, che permettono lo slittamento da un piano all'altro del reale, esacerbando ancor più la duttilità polisemica insita nel cinese antico. Ogni discorso mira a giustificare la sua validità dimostrando di essere conforme al reale e l'eloquenza non dice il reale, ma ne contiene soltanto l'anticipazione; in questo modo deve far perdonare il nulla in cui sfocia con un sovrappiù di presenza fittizia, il quale si traduce in evocazioni preziose e ornamenti stilistici, immagini e promesse di qualcosa, alle quali il retore riesce a dar corpo mediante l'effetto che producono sull'interlocutore. Quando il millantatore avviluppa il principe nella rete della sua eloquenza, sta fornendo alla sua vittima la dimostrazione della propria competenza.
Per la maggior parte degli oratori degli Stati combattenti, il linguaggio è innanzi tutto un mezzo per commuovere l'altro, per forzarlo a uscire dal suo riserbo; ciò non significa fare appello al patetico, ma piuttosto esporre la situazione in modo tale che l'altro, spinto dall'incoercibile necessità degli eventi ‒ o piuttosto dalla loro presentazione tendenziosa ‒ si trovi costretto, pur a malincuore, ad agire come si desidera. L'argomentazione deve possedere "la forza impellente di un canale di derivazione, o di un pendio scosceso da cui ruzzolano pietre e tronchi d'albero" (Zhanguo ce, pp. 376-377). Una disputa tra sofisti si gioca come una partita a scacchi; uno scambio di buone mosse al termine del quale uno dei due avversari non trova più nulla da replicare. Mencio, considerato l'erede spirituale di Confucio, è uno dei più perfetti rappresentanti di quest'arte oratoria. Egli mira a produrre un'alterazione nel dispositivo del discorso e, mediante questo squilibrio imprevisto, a guadagnare un vantaggio; si tratta di essere nel luogo dell'altro, senza tuttavia detenerlo. Quest'arte della replica, che si avvale di deviazioni dalle associazioni fisse, è efficace solamente in quanto capace di cogliere l'occasione e di sovvertire il dispiegamento metaforico dell'avversario ‒ procedimento formalizzato da certi autori in termini di traslazione di strutture.
I complotti di tutti contro tutti e la pletora dei cavillatori conducono a una totale impotenza a gestire il corso degli avvenimenti; gradualmente, si fa strada l'idea che a una parola aleatoria vadano sostituite rigorose tecniche di controllo che renderebbero inutili la politica e la parola stessa, ma con queste ultime è la stessa conoscenza discorsiva a essere screditata. Poiché gli oggetti sono irriducibili alle parole, il solo ragionamento si rivela incapace di fornire la minima garanzia, e l'unico criterio di verità è ricondotto all'esperienza; la parola eloquente non rinvia che a sé stessa, recisa com'è dalle leggi della Natura. Sono esemplari, a questo proposito, certi sviluppi delle Primavere e autunni del Signor Lü, enciclopedia filosofica e scientifica redatta sotto il patronato di Lü Buwei (m. 235 a.C.), mercante e primo ministro del futuro imperatore della dinastia Qin. Un buon numero di dissertazioni e particolarmente le sezioni Delle apparenze [ingannevolmente] favorevoli (Sishun) e Classificare secondo categorie (Bielei), sono dedicate alla difficoltà di dar conto della complessità dei fenomeni con i soli mezzi della logica. Così, nella sezione Classificare secondo categorie si legge:
La saggezza superiore consiste nel sapere di non sapere. Il peggior errore è credere di conoscere quando non si conosce. In effetti molte cose non sono quello che sembrano […]. Ecco perché né l'induzione né l'analogia procurano una conoscenza esatta […]. Uno specialista di spade diceva: "il bianco [lo stagno] è quel che conferisce la rigidità, il giallo [il rame] la flessibilità. Quando il metallo presenta riflessi bianchi e gialli, vi è al contempo rigidità e flessibilità: sono quelle le buone spade". Un contraddittore replicò: "Il bianco è il segno del non flessibile, il giallo il sintomo del non duro. Se bianco e giallo si combinano avremo una spada che non è né solida né flessibile" […]. Le medesime caratteristiche facevano dire all'uno che la spada era buona, all'altro che era cattiva. A seconda del discorso di un retore, lo stesso oggetto diverrà la cosa peggiore ovvero la migliore. (Lüshi chunqiu, pp. 318-319)
Anche Han Fei (280-233 a.C. ca.) ‒ il filosofo legista, teorico del potere totalitario ‒ redige una requisitoria simile.
Yu Qing [che fu ministro del re Xiaocheng di Zhao verso il 260 a.C.] si era fatto costruire una casa. Dichiarò al carpentiere: "È troppo alta". "Ma ‒ replicò l'operaio ‒ è perché è nuova. La terra è ancora umida e il legno ancora verde". "Vi sbagliate! La malta umida pesa e il legno verde si piega. Dato che l'argilla umida è più pesante e le travi nuove s'imbarcano, si doveva costruirla più bassa: con il tempo, l'impasto si secca e le travi invecchiano. La terra sarà più leggera e il legno si raddrizzerà. In questo modo sarà ancora più alta". Il carpentiere restò di stucco. Ricostruì la casa conformemente alle indicazioni del padrone, talché crollò. […] Fan Shui [celebre retore che divenne primo ministro del re Zhao di Qin nel 271 a.C.] disse: "È sempre alla fine che gli archi si rompono, mai all'inizio. Gli operai li tengono in forma trenta giorni per incurvarli prima di tendere la corda e, il giorno dopo, attivare il meccanismo: ci si cura dell'inizio e si precipita la fine. In queste condizioni, come stupirsi che gli archi si rompano? Si deve procedere all'inverso: metterli in forma un sol giorno prima di tendere la corda, e liberare il meccanismo trenta giorni dopo. In questo modo si accelera l'inizio per meglio gestire la fine". L'operaio che egli aveva così redarguito non trovò niente da dire. Procedette secondo le indicazioni di Fan Shui e l'arco si spezzò. I discorsi di Fan Shui e di Yu Qing sono abili e perfettamente argomentati. Con il loro ragionamento queste persone sono capaci di trionfare su ogni interlocutore, e tuttavia le loro affermazioni sono in contraddizione con il reale. (Han Feizi, 32, pp. 203-204)
L'unificazione della Cina e l'avvento dell'amministrazione centralizzata segnano la fine del primato della parola sofistica; s'instaura un apparato statale che ha l'inflessibilità della legge naturale. Così, un sofista potrà convincere chiunque che un cavallo bianco non sia un cavallo, tranne un doganiere: se valica un passo su un cavallo bianco, sarà obbligato a pagare i diritti sul cavallo, fa notare il legista Han Fei.
Dopo il regno del Primo Imperatore, tanto i paradossi di retori come Hui Shi e Gongsun Long quanto le riflessioni dei moisti sulla logica sono inutili. Vestigia incomprensibili di un'epoca estinta durante la quale, d'altronde, erano serviti soprattutto a forbire le armi d'una retorica volta essenzialmente a fini pratici e politici. È lecito a questo punto chiedersi quale parte ebbero, nell'instaurazione dei fondamenti logici necessari all'elaborazione della scienza in Cina, individui che sembravano più occupati a mettere a segno mosse e astuzie politiche che non a costruire uno strumento di riflessione e d'analisi. Non sarebbe stato più opportuno tentare di collocare gli straordinari e scintillanti paradossi immaginati dai sofisti cinesi nel quadro dei dibattiti sul linguaggio che agitarono gli ambienti intellettuali durante il periodo preimperiale e dei quali il Canone moista offre la miglior testimonianza? L'obiezione vale soltanto condividendo il pregiudizio dell'esistenza di un legame necessario tra scienza, dimostrazione e tecnica. Tuttavia, tale modo di procedere, che implica l'adozione dei presupposti occidentali, porta a fraintendere l'oggetto e le tecniche della retorica cinese. Questa, infatti, attraverso il discorso non mira assolutamente a stabilire procedure di conoscenza e manipolazione del reale, bensì a elaborare strumenti che, facendo presa sugli uomini, permettano di controllarli. I manuali di retorica cinese insistono innanzi tutto sul controllo che la parola conferisce sull'altro; che agisca sul desiderio (ipotiposi) o sullo spirito (argomentazione ragionata e paradossi memorabili), l'arte oratoria è costruita sullo stesso modello e obbedisce alle stesse regole dell'arte della guerra, retta da un dispositivo che potremmo definire strategico. L'arte retorica cinese, che non è possibile separare da tutto un insieme di procedure e di arti del fare, sarebbe allora da considerare come una tecnica e al contempo un sapere che si proietta sul corpo sociale, fornendo una matrice di comportamenti atta a servire da modello a dispositivi di tipo sperimentale. L'argomentazione in Cina non vale che come prodotto dell'osservazione; l'intuizione basilare dei retori dell'epoca preimperiale è, infatti, che la parola, come ogni azione, è efficace unicamente se appropriata al contesto in cui s'inserisce; la sua riuscita è funzione delle circostanze e della configurazione delle forze presenti. Così l'arte dei retori s'inscrive nel quadro della razionalità divinatoria, che mira a stabilire pronostici a partire dalla decifrazione di tenui indizi, e tuttavia se ne dissocia poiché coloro che la esercitano, liberati dagli impacci del ritualismo magico, non pensano che in termini di efficacia pratica. Numerosi studiosi hanno mostrato l'impatto dei procedimenti oracolari sui grandi orientamenti del pensiero scientifico nelle diverse civilizzazioni. Non v'è alcun dubbio che i retori ‒ con la loro mobilità che favoriva i confronti d'idee e incitava a ricusare la tradizione e i saperi acquisiti, con il loro disdegno delle preoccupazioni morali, con la loro propensione a considerare l'altro come un oggetto di sperimentazione che essi sarebbero riusciti a manipolare abilmente ‒ abbiano giocato un ruolo essenziale nel processo che dalla mantica primitiva portò all'elaborazione di un pensiero scientifico in Cina.
Allo stesso modo, ha svolto un ruolo essenziale la critica legista dei sofisti che, dissociando il reale dalla sua rappresentazione, ha condotto a privilegiare la conoscenza empirica. Essa ha fornito lo zoccolo, rudimentale ma fondamentale, sul quale poté poggiare un sapere sperimentale la cui specificità principale rispetto all'Occidente fu, da una parte, di dare la precedenza alla conoscenza indiretta dei fenomeni mediante lo studio delle tracce e, dall'altra parte, d'inserire questa scienza indiziaria nel quadro cosmico e generale d'una causalità logica informata non dalle parti del discorso, ma piuttosto da una necessità retta da una dinamica d'influssi e di interazioni.
Allan 1991: Allan, Sarah, The shape of the turtle. Myth, art, and cosmos in early China, Albany (N.Y.), State University of New York Press, 1991.
Bai Shangshu 1983: Bai Shangshu, 'Jiuzhang suanshu'. Zhushi [Il 'Jiuzhang suanshu'. Edizione annotata], Beijing, Kexue chubanshe, 1983.
Chen Menglin 1983: Chen Menglin, Mojing luojixue [La logica nel 'Mojing'], Jinan, Qilu shushe, 1983.
Cheng 1997: Cheng, Anne, Histoire de la pensée chinoise, Paris, Éditions du Seuil, 1997 (trad. it.: Storia del pensiero cinese, Torino, Einaudi, 2000, 2 v.).
De Certeau 1990: De Certeau, Michel, L'invention du quotidien, Paris, Gallimard, 1990-1994, 2 v.; v. I: Arts de faire, 1990.
Graham 1978: Graham, Angus C., Later Mohist logic, ethics and science, Hong Kong, Chinese University Press, Chinese University of Hong Kong; London, School of Oriental and African Studies, University of London, 1978.
‒ 1986: Graham, Angus C., Yin-Yang and the nature of correlative thinking, Singapore, The Institute of East Asian Philosophies, National University of Singapore, 1986.
‒ 1989: Graham, Angus C., Disputers of the Tao. Philosophical argument in ancient China, La Salle (Ill.), Open Court, 1989 (trad. it.: La ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica, Vicenza, Neri Pozza, 1999).
Granet 1934: Granet, Marcel, La pensée chinoise, Paris, La Renaissance du Livre, 1934 (trad. it.: Il pensiero cinese, Milano, Adelphi, 1971).
Harper 1999: Harper, Donald J., Warring States. Natural philosophy and occult thought, in: Cambridge history of ancient China. From the origins of civilization to 221 B.C., edited by Michael Loewe and Edward L. Shaughnessy, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1999, pp. 813-884.
Henderson 1984: Henderson, John B., The development and decline of Chinese cosmology, New York, Columbia University Press, 1984.
Hong Zhenhuan 1958: Hong Zhenhuan, Mojing zhong de wuli [La fisica nel Canone moista], "Wuli tongbao", 2, 1958, pp. 73-78.
‒ 1962: Hong Zhenhuan, Mojing 'guangxue ba tiao li' shuo [Discorso sull'ottica del Canone moista], "Kexueshi jiekan", 1962.
Jin Qiupeng 1984: Jin Qiupeng, Mozi kexue sixiang tantao [Dibattito sul pensiero scientifico di Mozi], "Ziran kexueshi yanjiu", 2, 1984, pp. 97-104.
Kalinowski 1982: Kalinowski, Marc, Cosmologie et gouvernement naturel dans le Lüshi chunqiu, "Bulletin de l'École française d'Extrême-Orient", 71, 1982, pp. 169-216.
‒ 1995: Kalinowski, Marc, Mawangdui boshu 'Xingde' shitan [Primi studi sul manoscritto su seta 'Xingde' trovato a Mawangdui], "Huaxue yanjiu", 1, 1995, pp. 82-110.
Levi 1989: Levi, Jean, Les fonctionnaires divins. Politique, despotisme et mystique en Chine ancienne, Paris, Éditions du Seuil, 1989.
‒ 1992: Levi, Jean, L'art de la persuasion à l'époque des Royaumes Combattants, "Extrême-Orient, Extrême-Occident", 14, 1992, pp. 49-89.
Liang Qichao 1936: Liang Qichao, Mojing jiaoshi [Spiegazione e collazione del Canone moista], Beijing, Zhonghua shuju, 1936.
Maspéro 1951: Maspéro, Henri, Le Ming-T'ang et la crise religieuse avant les Han, "Mélanges chinois et bouddhiques", 9, 1951, pp. 1-71.
Nylan 1993: Yang Xiong, The Canon of supreme mystery. A translation with commentary of the T'ai hsüan ching, by Michael Nylan, Albany (N.Y.), State University of New York Press, 1993.
Pan Yongyang 1990: Pan Yongyang, Wulixue jianshi [Breve storia della fisica], Wuhan, Hubei jiaoyu chubanshe, 1990.
Pankenier 1995: Pankenier, David, The cosmo-political background of heaven's mandate, "Early China", 20, 1995, pp. 121-176.
Qian Baocong 1981: Qian Baocong, Zhongguo shuxue shi [Storia della matematica cinese], Beijing, Kexue chubanshe, 1981.
Qian Linzhao 1951: Qian Linzhao, Gudai Zhongguo wulixue de chengjiu [Conseguimenti in campo fisico nella Cina antica], "Wuli tongbao", 1, 1951, pp. 97-102.
Queen 1996: Queen, Sarah, From Chronicle to Canon. The hermeneutics of the Spring and Autumn, according to Tung Chung-shu, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1996.
Reding 1985: Reding, Jean-Paul, Les fondements philosophiques de la rhétorique chez les sophistes grecs et chez les sophistes chinois, Berne-New York, Lang, 1985.
Schwartz 1985: Schwartz, Benjamin I., The world of thought in ancient China, Cambridge (Mass.), Belknap Press of Harvard University Press, 1985.
Shaughnessy 1994: Shaughnessy, Edward L., A first reading of the Mawangdui Yijing manuscript, "Early China", 19, 1994, pp. 47-74.
Shen Youting 1980: Shen Youting, Mojing de luojixue [La logica nel 'Mojing'], Beijing, Zhongguo shehui kexue chubanshe, 1980.
Sivin 1995a: Sivin, Nathan, State, cosmos and body in the last three centuries B.C., "Harvard journal of Asiatic studies", 55, 1, 1995, pp. 5-37.
‒ 1995b: Sivin, Nathan, The myth of the naturalists, in: Sivin, Nathan, Medicine, philosophy and religion in ancient China. Researches and reflections, Aldershot-Brookfield (Vt.), Variorum, 1995, pp. 1-33.
Song Yiran 1936: Song Yiran, Mozi jiangu [Esegesi del Mozi], Beijing, Shijie shuju, 1936.
Tan Jiefu 1964: Tan Jiefu, Mobian fawei [Interpretazioni del 'Mojing'], Beijing, Zhonghua shuju, 1964.
Vandermeersch 1994: Vandermeersch, Léon, Études sinologiques, Paris, Presses Universitaires de France, 1994.
Yates 1994: Yates, Robin D.S., The Yin-Yang texts from Yinqueshan. An introduction and partial reconstruction, with notes on their significance in relation to Huang-Lao Daoism, "Early China", 19, 1994, pp. 75-144.
Zheng Jianjian 1991: Zheng Jianjian, Guangyu Mojing zhong 'Ti' de xinjie [Nuove interpretazioni del 'Ti' nel 'Mojing'], "Ziran kexueshi yanjiu", 1, 1991, pp. 29-34.