La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Le arti meccaniche e la scienza dal VI all'XI secolo
Le arti meccaniche e la scienza dal VI all'XI secolo
L'integrazione della storia delle conoscenze tecniche nel quadro più generale della storia della scienza medievale costituisce, da molto tempo, un difficile problema di carattere storiografico. Guy Beaujouan affermava che, per quanto riguarda il Medioevo, lo storico della scienza e quello della filosofia lavorano in maniera analoga, mentre lo storico delle tecniche è molto più vicino all'archeologo e aggiungeva che, invece di rimproverare al Medioevo un'eccessiva separazione tra 'chierici' e pratici, bisognava piuttosto domandarsi se non fosse innanzi tutto necessario rilevare un difetto di interdisciplinarità tra la storia delle idee, da un lato, e quella dell'arte, delle scoperte marittime o dell'economia, dall'altro.
In effetti, la tecnica medievale è un mondo a sé, come è stato chiaramente dimostrato nella grande opera Technik im Mittelalter diretta da Uta Lindgren. I contadini e gli allevatori, i minatori, coloro che lavoravano i metalli e gli armaioli, i muratori, i carpentieri e i costruttori di navi, i ceramisti e i vetrai, i conciatori e i tintori, gli orefici, gli smaltatori e i miniatori, così come gli uomini di guerra, hanno accumulato un tesoro di conoscenze, spesso ricostruibile soltanto ipoteticamente, a partire dagli archivi e dalle fonti archeologiche.
Forse solamente nei monasteri gli uomini che si dedicavano alla scienza praticavano anche le arti e i mestieri. Anche le forme di trasmissione di questi aspetti del sapere erano molto diverse tra loro; la scienza, infatti, si trasmetteva attraverso i testi e le immagini, mentre la tecnica si tramandava attraverso i gesti e le parole, di padre in figlio e da maestro ad apprendista. Tra litterati e illitterati, tuttavia, non vi era una distinzione altrettanto rigida, dal momento che alcuni 'pratici', gli amministratori, gli architetti, gli agrimensori, gli ingeniatores, i mercanti o i praticanti dei mestieri artistici, come, per esempio, i pittori e gli orefici, sapevano leggere e scrivere.
In una sintesi dedicata alla storia delle scienze, quindi, invece di prendere in esame tutte le diverse tecniche, bisognerà analizzare le interferenze tra le conoscenze degli eruditi e quelle degli artigiani. Quale livello di conoscenza della geometria teorica era ritenuto indispensabile per costruire una cattedrale? E, all'inverso, che profitto trassero le teorie della materia dal complesso delle opere dei minatori e di coloro che lavoravano i metalli? I testi, soltanto i testi, definiscono il rapporto tra sapere scientifico e sapere artigianale; per interpretarli correttamente, tuttavia, è necessario chiarire innanzi tutto lo status delle conoscenze tecniche nella struttura del sapere e adottare le misure critiche richieste dalla tipologia delle fonti.
La definizione delle 'arti liberali' o arti degne degli uomini liberi, e la loro divisione in trivium (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica) è abitualmente attribuita all'autore del De nuptiis Philologiae et Mercurii, il maestro africano Marziano Capella (prima metà del V sec.), ma, in realtà, quest'ultimo si è limitato a riprendere un'antica tradizione ellenistica e romana.
La differenza tra scienza (scientia, epistḗmē) e tecnica o arte (ars, téchnē) era riconducibile, secondo Platone (Respublica, 477b), a quella tra il certo e il probabile (dóxa). Negli Analytica posteriora Aristotele individuava un'altra distinzione destinata a una grande fortuna, quella tra essere e divenire, vale a dire tra contemplazione e produzione: "In seguito, sulla base dell'esperienza, […] si presenta il principio dell'arte e della scienza: dell'arte, riguardo al divenire, e della scienza, riguardo a ciò che è" (Analytica posteriora, 100a 5-9). La distinzione tra perenne e transitorio si combinava quindi con quella tra essere e apparenza.
Il termine 'arti' indicava tutti i generi di attività produttive; tuttavia, a partire dall'età ellenistica, si delineò la distinzione tra arti servili e arti onorevoli o liberali, designate da Cicerone con diverse espressioni: artes, artes liberales o ingenuae, artes libero dignae, doctrina, liberales doctrinae atque ingenuae, bonarum rerum disciplinae, eruditio libero digna. Un celebre brano del De officiis, in gran parte derivato dallo stoico Panezio, riecheggiava questa distinzione:
Infine intorno alle professioni (artificiis) e ai mezzi di guadagno, a un dipresso sappiamo questo […]. Tutti gli operai (opifices) esercitano una professione degradante; il lavoro manuale (officina) non può avere alcun carattere di nobiltà (ingenuum). Minimamente poi debbono riscuotere approvazione quelle professioni destinate a soddisfare i piaceri materiali (ministrae voluptatum). […] Invece le professioni in cui si trova maggior opera d'ingegno (providentia maior) o grande vantaggio, come la medicina, l'architettura, l'insegnamento delle arti liberali, sono decorose per coloro alla cui condizione si addicono […]. Ma di tutte le occupazioni rivolte al guadagno nessuna è meglio dell'agricoltura, nessuna più redditizia e piacevole, nessuna più degna di un uomo e di un libero cittadino. (De officiis, I, 150-151)
Così, oltre alle arti liberali, solamente la medicina, il diritto, l'agronomia e l'architettura erano attività degne degli uomini liberi. L'architettura occupava una posizione ambigua; benché tentasse in ogni modo di presentare questa disciplina come una sintesi delle arti liberali, Vitruvio non riusciva a nascondere che, dal punto di vista etimologico, il termine architetto significa 'mastro carpentiere' (archi-téktōn) e designava un programma non facilmente realizzabile:
L'architettura è una scienza che deve essere accompagnata da una grande varietà di studi e di conoscenze […]. Per questo gli architetti che hanno tentato di pervenire alla perfezione della loro arte con il solo esercizio delle mani e senza l'aiuto delle lettere non hanno compiuto progressi, per quanto grande sia stato il loro lavoro, non diversamente da quelli che hanno creduto di potervi pervenire soltanto grazie alla conoscenza delle lettere e al ragionamento, perché non ne hanno mai visto che l'ombra […]. Per questo è necessario che l'architetto conosca perfettamente sia l'uno che l'altra. Egli deve quindi essere al tempo stesso ingegnoso e laborioso: lo spirito senza il lavoro, infatti, e il lavoro senza lo spirito non possono rendere perfetto nessun costruttore […]. Egli deve essere un letterato, deve saper disegnare, conoscere la geometria e non ignorare l'ottica: deve aver appreso l'aritmetica ed essersi nutrito di letture storiche, deve aver studiato a fondo la filosofia, deve conoscere la musica e aver acquisito qualche nozione di medicina, di giurisprudenza, di astrologia e del moto degli astri. (De architectura, I, 1-3)
Più avanti Vitruvio precisava che la filosofia includeva, oltre alla deontologia generale, la fisica dell'acqua e dell'aria, e che la conoscenza della musica era utile per regolare con il suono la tensione delle molle delle catapulte. Anche i Disciplinarum libri IX di Varrone descrivevano, accanto alle sette arti liberali, la medicina e l'architettura; nello stesso modo, le Artes di Celso, redatte durante il regno di Tiberio, spaziavano dalla medicina all'agricoltura e dall'arte militare alla retorica.
La medicina e l'architettura, tuttavia, nel banchetto nuziale di Mercurio e Filologia occupavano una posizione di secondo piano:
Alle quali Apollo aggiunse la Medicina e l'Architettura, affinché si associassero ai preparativi, ma poiché queste ultime sono cura ed esercizio di cose mortali e terrene, e non hanno alcuna affinità con l'etere e il mondo superiore, converrà che, quasi rifiutate con disgusto, esse tacciano nel senato celeste, dal momento che dovranno essere attentamente esplorate in avvenire dalla stessa Filologia. (Marziano Capella, De nuptiis, IX, 891)
La coscienza di questa differenza, in realtà, era profondamente radicata nella mentalità romana, secondo cui l'ozio (otium) occupava il primo posto nella scala dei valori e il lavoro si definiva come assenza di ozio (neg-otium). Questa svalutazione del lavoro, soprattutto manuale, riecheggiava nella tradizione cristiana; a causa della 'caduta' Adamo dovrà "guadagnarsi il pane con il sudore della fronte", e il celebre versetto del Vangelo "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono […] eppure il Padre vostro celeste li nutre" (Matteo, 6, 26; Luca, 12, 24) suscitò nei primi cristiani un'inclinazione alla vita inattiva contro la quale Paolo si sentì obbligato a reagire (II Tessalonicesi, 3, 10). All'inverso, i Padri greci e, in particolare Giovanni Crisostomo, elogiarono il lavoro, e i monasteri furono ‒ per riprendere un'espressione usata da Jacques Le Goff ‒ 'oasi di valorizzazione del lavoro manuale', imposto dalla Regola del Maestro e da quella di San Benedetto.
Sin dall'Antichità esisteva peraltro un'altra tradizione, che promuoveva il lavoro manuale come imitazione della Natura; Posidonio di Apamea la espose in un'opera, oggi perduta, discussa nei dettagli nella lettera (XC) di Seneca a Lucilio. Secondo Seneca, l'unico compito della filosofia era quello di scoprire la verità, tanto nelle cose divine quanto in quelle umane; egli concordava con Posidonio nel ritenere che nell'età dell'oro il governo fosse nelle mani dei saggi, e di conseguenza affermava: "Fino a questo punto sono d'accordo con Posidonio, non potrei però concedere che la filosofia abbia inventato le arti di cui ci serviamo nella vita di ogni giorno, né oserei attribuirle la gloria delle opere degli artigiani" (XC, 7). Secondo Posidonio, i saggi avevano inventato le case, l'estrazione dei metalli dal suolo, la tessitura, l'agricoltura, la macinazione dei cereali, il pane e la navigazione; Seneca invece affermava: "trovano tali cose quelli che di esse hanno cura" (XC, 12) e proseguiva paragonando Dedalo, l'inventore, a Diogene, il moralista il quale spezzava, ritenendola superflua, la sua coppa per bere nel cavo della mano. Alla tecnica come prodotto della luxuria Seneca contrapponeva la prisca simplicitas e affermava che la saggezza non poteva istruire le mani (sapientia altius sedet nec manus edocet, animorum magistra est, XC, 26).
Le idee di Posidonio furono amplificate soprattutto da Plinio. Il Libro VII della Naturalis historia è un'eurematografia di tradizione alessandrina in cui Plinio compila l'elenco dei prõtoi heuretaí (quis quid primus invenerit), dove figurano l'una accanto all'altra tutte le arti, ciascuna delle quali è nata per imitare un aspetto della Natura; così, per esempio, la metallurgia imita la fusione accidentale dei filoni metalliferi provocata dagli incendi delle foreste, la navigazione i pesci, la pittura le ombre proiettate sui muri. Il fine di ogni arte è quello di fare altrettanto bene, se non meglio, della Natura.
L'autore anonimo della Mappae clavicula affermava che arte et ingenio vinci ingenium, vale a dire che la Natura è vinta dalla Natura e dall'arte, un'espressione che corrispondeva a una formula alchemica (ē phýsis tḕn phýsin nikã). Questa esaltazione delle tecniche si ricollegava all'ammirazione dei barbari per tutte le forme di abilità manuale, dall'arte leggendaria dei fabbri fino a quella degli orefici, splendidamente rappresentati dalla figura di Eligio, orefice del re e, in seguito, dignitario della curia e vescovo.
Al crocevia di queste tradizioni, Agostino definiva la posizione occupata dalle applicazioni tecniche nella gerarchia delle attività umane; egli affermava che tutte le arti senza distinzioni erano prodotte dal terzo dei sei gradi dell'anima, quello proprio degli uomini, e quindi concludeva: Magna haec et omnino humana. Sed est adhuc ista partim doctis atque indoctis, partim bonis ac malis animis copia communis (De quantitate animae, 72, in: PL, v. XXXII, coll. 1074-1075). Peraltro, di tutte queste arti prodotte dall'ingenium umano, alcune erano necessarie, altre superflue o persino pericolose (De civitate Dei, XXII, 24; De quantitate animae, 33). Questa distinzione era riproposta nel De doctrina christiana, dove al vertice della scala delle attività umane erano collocate quelle dedicate alla conoscenza teorica, seguite da quelle relative alla conoscenza pratica (gli agilia) e alla tecnica (i factilia), che potevano imprigionare lo spirito umano nelle apparenze del mondo sensibile. Tuttavia, il buon cristiano non doveva trascurare le conoscenze utili alla vita della città, come, per esempio, la medicina e il diritto (De doctrina christiana, II, 25 [39]-26 [40]). Nel complesso, tutte le scienze profane erano poste al servizio della comprensione della Bibbia, e questa posizione favorì l'introduzione nella cultura cristiana non soltanto del tradizionale ciclo degli studi liberali, ma anche dei saperi artigianali, dal momento che la Scrittura utilizzava immagini e figure che potevano essere comprese solamente attraverso la conoscenza delle tecniche (come, per es., la costruzione del Tempio di Gerusalemme o dell'Arca dell'Alleanza: De doctrina christiana, II, 30 (47).
Questa duplice tradizione era anche alla base della struttura delle Etimologie di Isidoro di Siviglia, in cui l'enciclopedista descriveva le arti liberali (dal I al III Libro), la medicina (IV), il diritto (V), la cronologia e le scienze sacre (V B-IX A), le istituzioni (IX), poi la storia naturale, vale a dire l'uomo e gli animali (XI-XII), la materia e le meteore (XIII), la geografia (XIV), le città e le campagne (XV), i prodotti della terra (XVI), l'agricoltura e le piante (XVII), l'arte della guerra e gli spettacoli (XVIII). Il Libro XIX era specificamente dedicato alle tecniche o, per essere più precisi, al loro vocabolario; venivano elencati poi in successione la navigazione (con le corde e le reti), il forno e gli strumenti dei fabbri, la costruzione, la lavorazione del legname, quella della lana (lanificium), gli abiti, gli ornamenti, i gioielli e gli anelli.
Il Didascalicon di Ugo di San Vittore (prima metà del XII sec.) è stato spesso interpretato come espressione di un mutamento nella valutazione delle conoscenze manuali, considerate in quest'opera una parte della filosofia. In realtà, Ugo riorganizzava in base ai principî di Posidonio la tavola delle materie di Isidoro, nel senso che se Mercurio offriva come ancelle a Filologia le sette arti liberali, Filologia ricambiava il dono offrendogli a sua volta le sette arti definite dall'autore meccaniche. Il termine mechanicus, calco del greco mēchanikós, derivava dalla parola mēchané che, prima di assumere il significato di 'macchina', significava 'astuzia, espediente ingegnoso'. Mēchané poteva designare sia una trappola per conigli sia l'astuzia militare, prodotto di quella forma di intelligenza che i Greci chiamavano mẽtis. L'equivalente latino di questo termine era ingenium, che designava sia l''ingegnosità' sia il suo prodotto, lo 'strumento'. L'uso di ingeniator, 'costruttore di strumenti', e in particolare di strumenti da guerra, è attestato per la prima volta nell'XI secolo. Il vocabolo mechanicus, impiegato da Ugo, iniziò invece a essere usato già nel I sec. della nostra era per designare i costruttori di strumenti in un senso tutt'altro che spregiativo, come dimostra un brano di Isidoro: Mechanica est quaedam peritia vel doctrina ad quam subtiliter fabricas omnium rerum concurrere dicunt (Differentiarum sive de proprietate sermonum, II, 152, in: PL, v. LXXXIII, col. 94).
A partire dal commento a Marziano Capella di Giovanni Scoto Eriugena la gamma dei significati di questo termine si estese fino a comprendere il lavoro manuale; Filologia offriva in dono al suo fidanzato le sette arti meccaniche senza ulteriori specificazioni o giudizi. In compenso, in una glossa anonima mechanicus era tradotto in greco con bánausos, termine privo di accezioni spregiative con cui Platone aveva indicato il lavoro manuale nella Repubblica (522b téchnai Bánausoi). L'accezione spregiativa del termine mechanicus è probabile si sia diffusa attraverso l'associazione forzata con il vocabolo greco-latino mocchus ('adultero').
Ugo (Didascalicon, II, 1) definiva innanzi tutto, sull'esempio di Platone e Aristotele, la differenza tra disciplina e ars riconducendola a quella tra il certo e l'incerto (verisimile atque opinabile); quindi introduceva un'altra distinzione: l'arte aveva come base la materia e si sviluppava attraverso un procedimento, mentre la scienza (disciplina) era speculazione e si sviluppava attraverso il ragionamento. La filosofia era invece la disciplina che ricercava con ragionamenti persuasivi le ragioni di tutte le cose divine e umane. Così, la ratio di ogni genere di studio concerneva la filosofia e la filosofia riguardava in un certo senso tutte le cose. Secondo Ugo di San Vittore "si può chiamare arte quel sapere che ha come proprio oggetto qualche materiale corporeo e che si esplica in un modo di operare su di esso, come per esempio avviene nell'architettura; si dice invece disciplina quel sapere che si fonda sulla speculazione intellettuale e si sviluppa nel solo ragionamento, come avviene per esempio nella logica" (ibidem). In altri termini, "la filosofia è detta la disciplina che ha come proprio oggetto d'indagine tutte le cose divine e umane e che svolge tale compito con ragionamenti persuasivi; in tale accezione tutti gli studi teorici rientrano nell'ambito della filosofia, ma non ogni attività esecutiva: soltanto nel senso che è stato sopra spiegato la filosofia si estende a tutto ciò che esiste" (ibidem).
L'autore divideva quindi la filosofia in diverse parti, teorica, pratica, meccanica e logica, delle quali quella teorica era speculativa; quella pratica era attiva (vale a dire etica), quella meccanica, che si occupava delle attività umane, era adulterina (mechanica adulterina, quae circa humana officia versatur) e quella logica, discorsiva. La filosofia teorica includeva la teologia, la matematica, ossia il quadrivium, e la fisica; la filosofia pratica comprendeva l'etica, l'economia e la politica. La filosofia meccanica, invece, comprendeva sette scienze divise in due gruppi formati, sul modello del trivium e del quadrivium, da tre e quattro discipline: la tessitura (lanificium); l'armamento (armatura), in cui era inclusa l'architettura (architectonica), a sua volta suddivisa in muratura (caementaria) e carpenteria (carpentaria), e la metallurgia (fabrilis), che comprendeva la forgiatura (malleatoria) e la fusione (exclusoria); l'agricoltura, che includeva i campi seminati (arvum), le piantagioni (conseta), i pascoli (pascuum) e gli orti (floridum); la caccia (venatio), divisa in caccia agli animali (ferina) e agli uccelli (aucupium), e la pesca (piscatura) che includeva la preparazione degli alimenti e delle bevande; la medicina (medicina) e le arti sceniche (theatrica). I materiali erano ripresi da Isidoro e la loro valorizzazione s'iscriveva nella dialettica arte-Natura, come è evidente in un brano importante in cui l'autore riconosceva alle pratiche di fabbricazione dei fondamenti logici, o rationes, che la filosofia doveva portare alla luce:
Le arti tecniche sono dette meccaniche, ossia falsificatrici [adulterine], perché l'attività dell'uomo artefice si appropria della perfezione delle forme che imita la Natura. Le sette arti liberali sono così chiamate perché richiedono animi liberi, cioè non impediti e ben disposti (infatti tali arti perseguono penetranti indagini sulle cause delle cose), ossia perché nell'Antichità soltanto gli uomini liberi, cioè i nobili, si dedicavano a esse, mentre i plebei e coloro che non avevano avuto rappresentanti delle proprie famiglie nelle cariche pubbliche, si occupavano delle arti tecniche con la competenza del loro lavoro. In ciò appare il grande e diligente zelo degli antichi, che non trascurarono nessun campo dello scibile umano, ma vollero dominare ogni cosa secondo precise regole e norme. Le scienze tecniche [la meccanica] concernono tutte le produzioni del lavoro umano. (Didascalicon, II, 20)
Sin dall'Antichità alcune arti meccaniche e, in particolare, l'oreficeria, la pittura, la scultura e la miniatura, avevano posto diversi problemi di ordine morale. I loro procedimenti erano tenuti segreti, come dimostra, per esempio, la storia della formula del vetro infrangibile, offerta da un artigiano all'imperatore Tiberio. Dopo essersi assicurato che l'inventore non aveva svelato il suo segreto a nessuno, Tiberio lo fece uccidere per difendere gli interessi dell'industria del vetro (Isidoro, Etymologiae, XVI, 6, 6). I mestieri dell'arte, del resto, erano al servizio della luxuria e i moralisti antichi, così come i Padri della Chiesa, furono tutti concordi nel condannarli. Come spiega Plinio:
Parleremo ora dei metalli, che sono in sé stessi una ricchezza e insieme il prezzo delle cose. Una solerzia sollecita scruta le profondità della Terra per molteplici motivi; in un posto, infatti, si scava per le ricchezze, e gli uomini cercano oro, argento, elettro, rame; in un altro, per il lusso, cercano pietre preziose e coloranti per dipingere pareti e superfici lignee; in un altro ancora, per soddisfare una cieca stoltezza, si procurano il ferro, che è anche più apprezzato dell'oro in tempi di guerre e di stragi […]. L'avidità umana cercava l'argento; fu soddisfatta di aver scoperto, intanto, il minio, ed escogitò un uso di questa terra rossa. Ahimè, fertilità dei nostri ingegni, in quanti modi abbiamo accresciuto il prezzo delle cose! Vi si è aggiunta l'arte della pittura, e cesellandoli abbiamo resi più cari l'oro e l'argento […]. Poi tutto ciò fu ripudiato e cominciò a svilirsi e vi fu un eccesso di oro e di argento. Sempre dalla terra abbiamo estratto gli oggetti di murra e di cristallo, resi pregiati dalla loro stessa fragilità. Questa fu considerata una prova di ricchezza, questo il vero trionfo del lusso; possedere ciò che potesse andar totalmente distrutto in un attimo. E non bastò, beviamo da una moltitudine di pietre preziose e facciamo un mosaico di smeraldi sui nostri calici, ci piace inebriarci tenendo l'India tra le mani. (Naturalis historia, XXXIII, 1-4)
Secondo Agostino (De doctrina christiana, II, 25 [39]), la pittura e la scultura erano superflua, e soltanto ponendosi al servizio della gloria di Dio i mestieri del lusso potevano salvarsi dal discredito. Nel XII sec. queste idee furono poi sviluppate nei dettagli nella Diversarum artium schedula del monaco Teofilo.
Le materie che costituivano le artes romane, vale a dire la giurisprudenza, la medicina, l'agronomia, l'architettura e l'arte della guerra, non erano semplici raccolte di regole. Razionalmente costituite in disciplinae e strutturate sulla base di principî teorici, queste materie furono oggetto di diversi trattati metodici. Per quanto riguarda le ultime tre discipline, si può affermare che la tradizione manoscritta degli agronomi, degli architetti e degli strateghi latini non subì interruzioni nell'Alto Medioevo, periodo in cui questi testi furono più volte copiati non soltanto per curiosità antiquaria, ma anche per il valore delle conoscenze in essi contenute. In questo periodo si fece strada l'idea che i contemporanei non fossero che gli eredi del sapere degli antichi, in gran parte perduto, idea chiaramente espressa in un brano del De artibus et coloribus romanorum di Eraclio (fine dell'VIII sec.): Iam decus ingenii, quod plebs Romana probavit, decidit, ut periit sapientum cura senatum. Quis nunc has artes investigare valebit, quos isti artifices immensa mente potentes invenere sibi? (Lo splendore dell'ingegno dimostrato dal popolo romano è ormai decaduto, così come è scomparsa l'opera dei sapienti. Chi sarà adesso in grado di investigare le discipline che da questi furono scoperte con tanta arguzia?; I, Proemio, vv. 6-10).
A partire da questo momento emersero due questioni: il sapere degli antichi poteva essere soltanto preservato o anche sviluppato e arricchito? Era confinato nei libri e nelle biblioteche o poteva essere messo in pratica? L'esistenza delle diverse tradizioni manoscritte può essere considerata una risposta al primo interrogativo: i testi antichi, ancora vivi, furono continuamente arricchiti attraverso le più diverse integrazioni, tanto che ogni manoscritto era una copia rivista e completata del suo modello. L'attività scientifica si confondeva con la compilazione, con la ricomposizione dei membra disjecta in gran parte ereditate dall'Antichità. In alcuni di essi, la presenza di termini greci traslitterati e di numerosi controsensi induce a supporre di trovarsi di fronte a traduzioni dal greco. La seconda questione è invece più complessa, in quanto disponiamo di poche testimonianze relative alle applicazioni pratiche di queste conoscenze.
La risoluzione di questo problema si complica ulteriormente in relazione ai brevi testi delle numerose ricette in cui sono descritti i diversi procedimenti, compilate in raccolte speciali o disseminate nei risvolti, nei margini laterali e inferiori, negli spazi vuoti e negli ultimi fogli dei manoscritti. Il termine ricetta deriva dal latino recipe, 'prendi', incipit di quasi tutte le ricette, e designa una sequenza di ingredienti e di operazioni ordinate secondo un certo criterio in vista di un risultato, indicato nel titolo e alla fine del testo. In alcune occasioni si riscontra l'aggiunta di considerazioni 'estranee' al tema in questione, ma in nessun caso troviamo una teoria o una giustificazione; a quanto sembra, le ricette si proponevano scopi esclusivamente pratici.
Ritroviamo questo genere di testi nei più svariati campi (v. capp. XXVI-XXVII). Per quanto riguarda la matematica, i trattati degli agrimensori (agrimensores, gromatici) e i manuali di geometria pratica del Medioevo possono essere considerati vere e proprie raccolte di ricette. Questi procedimenti di calcolo privi di dimostrazione, che coesistettero con la geometria erudita, derivavano da una tradizione sui generis molto antica (di cui i Metrica di Erone sono un esempio), ma potevano essere costituiti anche da enunciati di teoremi privi della dimostrazione (come, per es., gli enunciati di Euclide menzionati nella Geometria dello Pseudo-Boezio) o da frammenti di geometria erudita citati al di fuori del loro contesto, di cui si stravolgeva completamente il senso (formule aritmetiche di numerosi triangoli e sommatorie di progressioni aritmetiche utilizzate per calcolare la superficie dei triangoli).
Le ricette riguardavano soprattutto i mestieri artistici, l'oreficeria, la miniatura, il mosaico, la pittura, le vetrate; i minatori, gli artigiani che lavoravano i metalli e i carpentieri non facevano uso di ricette. Alcuni di questi testi concernevano quella che è impropriamente definita magia, cioè quei procedimenti il cui successo non rientrava nell'ordine normale delle cose (come il rinvenimento di tesori o la predizione dell'avvenire) e la cui legittimità si basava sull'efficacia reale o garantita da un'autorità (expertum est). Ricordiamo, infine, le ricette alchemiche (oro, argento, pietre preziose e porpora) che combinavano la pratica alla speculazione. Questi brevi testi illustrano quindi il passaggio dalla pratica di laboratorio a un'esperienza puramente speculativa.
Le ambiguità del contenuto delle ricette sono aggravate dal rapporto tra esplicito e implicito e dalla casualità della trasmissione. Nelle Vollrezepte (ricette complete), tutti gli ingredienti e le operazioni erano minuziosamente specificati, mentre le Kurzrezepte (ricette brevi), in cui era indicato solamente l'essenziale, servivano probabilmente da promemoria. Gli aspetti più scontati e quelli che costituivano il segreto del successo erano lasciati alla trasmissione orale e all'abilità dell'operatore. I disegni senza didascalie e i taccuini di disegni di modelli possono essere considerati Kurzrezepte. La stesura di questi brevi testi presupponeva un certo distacco dalla pratica: essa evolve lentamente (la tradizione dei gesti e delle parole è per natura conservatrice), la ricetta scritta, invece, si modifica costantemente, come un testo dotato di vita propria. Così, alle corruzioni accidentali del testo nel tempo si sono aggiunti gli interventi volontari dei copisti: integrazioni e soppressioni di ingredienti e operazioni o sostituzioni con surrogati (i quid pro quo). È dunque con metodo filologico che bisogna ricostruire le serie, valutare scrupolosamente le somiglianze e le differenze, come pure riconoscere ciò che era ispirato alle pratiche in uso, soprattutto per quanto riguardava i pittori e i miniatori.
Le ricette 'migranti', da sole o in serie, potevano assumere significati diversi, a seconda dei contesti in cui erano inserite. Un esempio tipico di questo genere è il ms. 235 della Bibliothèque Municipale di Avranches, proveniente da Mont Saint-Michel: i ff. 47-53 costituiscono un tipico manoscritto di ricette, descritto al punto V del sommario iniziale come confectio colorum et de quibusdam ad organa pertinentibus. Segue un formulario per la fusione a cera (de mensura cerae), una descrizione della fabbricazione delle canne degli organi (de fistulis organicis), i capitoli dedicati da Eraclio ai colori (capp. 50-55 del De artibus et coloribus romanorum), un formulario per saggiatori indirettamente derivato da Archimede e Menelao (Quanta sui parte aurum sit densius argento), alcuni brani scelti di Palladio sul taglio della legna, un frammento sui venti, una descrizione della moltiplicazione con l'abaco, un depilatorio (psilotrum), alcuni brani parafrasati del Carmen de ponderibus e, infine, un certo numero di frammenti sull'allume.
Come ha giustamente osservato François Sigaut, l'agricultura antica e medievale non corrispondeva affatto all'agronomia moderna. Questa disciplina infatti studiava l'economia rurale, la gestione dei prodotti della campagna in senso lato, e non aveva come oggetto soltanto i lavori dei campi, ma anche le vigne e i giardini di piante alimentari, aromatiche e medicinali, i pascoli e gli allevamenti, la costruzione delle case, la gestione del personale, la medicina veterinaria e persino la medicina domestica. Una tradizione omogenea, anche se non priva di fratture, collega Catone a Olivier de Serres e alla Villa rustica di Estienne. Furono i Romani a conferire a questa disciplina la sua struttura e, allo stesso tempo, la sua dignità, con Catone, Varrone, Columella e Palladio, ma anche con le Georgiche di Virgilio. René Martin ha dimostrato che le opere di questi autori corrispondevano a contesti economici e sociali molto diversi.
Nei tre libri del De agricultura, redatti tra il 50 e il 37 a.C., Varrone adottò la forma dialogica impiegata a partire da Platone nell'insegnamento della filosofia. Il primo libro era dedicato all'economia rurale propriamente detta, vale a dire alla gestione e allo sfruttamento dei terreni, e all'agricoltura stricto sensu. Il secondo libro era consacrato all'allevamento, il terzo alla pastio villatica, all'avicoltura, all'apicoltura, alla piscicoltura e all'allevamento della selvaggina nei parchi e nelle garenne.
Nel I sec. d.C., Lucio Giunio Moderato Columella, un autore vicino a Seneca, auspicava, come Virgilio, il ritorno alla terra come attività di pubblica utilità, basato su un migliore insegnamento delle conoscenze agricole. Per tutte le arti, anche per le più frivole, esistevano scuole, professori e allievi, mentre l'agricoltura era la sola scienza priva di discepoli che apprendano e di maestri che insegnino. Il bravo agricoltore doveva costantemente dare prova di una grande erudizione. Come Vitruvio nel campo dell'architettura, Columella tentava di elevare l'agricoltura al rango di scienza e descriveva in dodici libri tutto ciò che un grande proprietario (tra 500 e 1500 ettari), che volesse sfruttare direttamente i suoi terreni, doveva sapere. Dopo aver vantato l'utilità e il fascino dell'economia rurale (Libro I), Columella discuteva dei campi e della mietitura (Libro II), delle vigne e dei frutteti (III-IV), della misurazione del tempo e degli alberi (V), dell'allevamento (VI-VIII), dell'apicoltura (IX), del giardinaggio (X, in esametri), dei doveri del fattore (XI) e delle ricette relative all'economia rurale (XII).
Nell'Alto Medioevo, però, le opere di Varrone e di Columella non ebbero molti lettori, come dimostra il piccolo numero di manoscritti carolingi sopravvissuti. In compenso, si copiò e si lesse frequentemente l'Opus agriculturae, compilata verso il 460 da Rutilio Tauro Emiliano Palladio, un alto funzionario che si divideva tra i suoi possedimenti situati in Italia e in Sardegna. Questa opera era composta da tredici volumi, a cui andavano aggiunti un De veterinaria medicina (quattordicesimo libro) e un poema sugli innesti, Carmen de insitione (quindicesimo libro). Il primo libro era dedicato ai principî generali e alla descrizione della villa rustica e delle sue parti; i libri compresi tra il secondo e il tredicesimo descrivevano i lavori agricoli da eseguire nel corso dei dodici mesi dell'anno (una formula, ispirata a Le opere e i giorni di Esiodo, che avrebbe riscosso un grande successo fino agli almanacchi agricoli dell'epoca moderna).
Palladio ricorreva a Columella, a Vitruvio, o piuttosto al suo sintetizzatore Faventinus (Gargilio Marziale), un agronomo del III sec. autore di un De hortis di cui è conservato un frammento in un palinsesto di Napoli (A. IV.8, s-VI); ricorreva, infine, anche ai testi redatti in greco da Vindanio Anatolio di Beirut (IV-V sec.), una delle fonti della compilazione bizantina intitolata Geoponica (X sec.).
Come testimoniano i 127 manoscritti sopravvissuti, cento dei quali compilati prima del XV sec. e sette di età carolingia, l'opera di Palladio riscosse un immenso successo. L'Opus agriculturae, infatti, rispondeva perfettamente alla nuova realtà dei possedimenti aristocratici e monastici in cui vigeva l'autarchia; il proprietario del V sec. viveva già come il signore feudale, circondato dalla sua famiglia e da operai specializzati, bottai, artigiani che lavoravano i metalli, fabbricanti di mattoni e così via.
Questa formula si adattava molto bene anche ai monasteri. Secondo la Regula magistri, infatti, nel monastero non doveva mancare nulla: doveva esserci un forno per il pane, gli edifici, il refrigerium (luogo di decenza). La stessa prescrizione si ritrova nella Regola di San Benedetto: "Il monastero, se è possibile, deve essere costruito in modo da poter contenere tutte le cose necessarie, vale a dire l'acqua, un mulino, un orto, un panificio e dei laboratori affinché sia possibile esercitare all'interno delle sue mura i diversi mestieri, in modo che i monaci non siano costretti a uscirne" (cap. 66). Questo progetto fu realizzato a Vivarium, nella cui biblioteca si trovavano libri sul giardinaggio, sull'agricoltura, sull'allevamento e sulla medicina (Cassiodoro, Institutiones, I, 28 e 31).
Georges Comet ha giustamente osservato che le innovazioni introdotte dalle invasioni non provocarono una grave frattura nelle pratiche agricole. Il caso dei giardini sembra confermare questa tesi. Venanzio Fortunato (Carmina, VI, 6) descriveva il giardino di un signore goto, in cui si trovavano un roseto, una vigna, degli alberi da frutto e delle arnie. Una poesia dell'Antologia latina attribuita a Salmasio, composta nel VI sec. nell'Africa vandala, era intitolata De horto domini Oageis ubi omnes herbae medicinales plantatae sunt. E in età carolingia, Alcuino evocò i prati e i giardini della sua casa di campagna (Carmina, 23, in: MGH, Poëtae Latini Medii Aevi, I, 1, pp. 243-244).
Molte fonti della stessa epoca testimoniano la riappropriazione del sapere agricolo e orticolo degli antichi e la sua fusione con le conoscenze barbare. Ci riferiamo al capitolare De villis, al poema Dei mesi di Wandalbert de Prüm, alla pianta dell'abbazia di San Gallo e al poema di Strabone, intitolato Hortulus. Il capitolare De villis vel de curtis imperialibus (MGH, Legum, I, pp. 181-187) regolava il funzionamento dei possedimenti imperiali dal punto di vista sia amministrativo sia tecnico: campi, foreste, vigne, giardini, allevamenti e vivai, materiali, mobilio, stoviglie e biancheria da letto, preparazione dei prodotti della fattoria, funzionamento dei laboratori e così via. Nel par. 70 erano enumerate le novantacinque piante che dovevano essere coltivate nelle villae, e dal momento che in questo elenco figuravano alcune piante mediterranee, A. Dopsch ha ipotizzato che il capitolare non sia stato scritto tra il 770 e l'800 da Carlo Magno, bensì tra il 794 e l'813 da suo figlio, Ludovico il Pio, per i suoi possedimenti aquitani. In alcune relazioni dei missi dominici sulle villae di Asnapium e di Treola erano censite rispettivamente 28 e 37 piante (ibidem, I, pp. 175-189). In effetti, nonostante l'uso di nomi volgari, l'elenco delle piante di questo capitolare corrispondeva più o meno a quelli contenuti nei testi derivati fondamentalmente dalla vecchia tradizione del Regime di Ippocrate, come, per esempio, il De herbis et curis e i Dynamidia. Altre prescrizioni, invece, sembrano derivare da Palladio.
Wandalbert de Prüm (n. 813) dedicò a Lotario, nell'848, il suo poema in esametri sui dodici mesi dell'anno, De mensium duodecim nominibus signis culturis aerisque qualitatibus (ibidem, I, pp. 604-616), una sorta di almanacco etimologico, astronomico, meteorologico e agricolo in versi, ispirato a Virgilio e a Palladio, in cui i riferimenti eruditi si combinavano all'indicazione delle pratiche che venivano utilizzate nella regione renana.
Verso l'820, Heito, abate di Reichenau, disegnò, incaricato da Gozbert, abate di San Gallo, la pianta di un monastero ideale, basata sui precetti della riforma di Benoit di Aniane. In questa pianta comparivano tre giardini, uno di ortaggi con diciotto piante, un frutteto adibito a cimitero con quindici alberi e un herbularium medicinale con sedici piante. I faseoli (fagiolini) si trovavano nell'orto delle piante medicinali, mentre la satureia (satureia) era presente in due giardini: quello degli ortaggi e quello delle piante medicinali. In effetti, tutte queste piante erano citate nei testi dietetici e uno di questi ultimi, il De herbis et curis di Ippocrate, fu raccomandato da Cassiodoro ai monaci di Vivarium. Nell'Hortulus o De cultura hortorum, infine, composto tra l'838 e l'849 da Strabone, monaco di Reichenau, erano descritte ventiquattro piante alimentari, aromatiche e medicinali, e le loro qualità. Strabone sosteneva di aver lavorato propriis palmis, ma non è difficile individuare i suoi modelli nei classici e, in particolare, in Virgilio, Columella e Dioscuride. Soltanto nel XII sec. questa tradizione subì alcune modifiche sotto l'influenza dell'agronomia araba, delle piante esotiche e delle nuove tecniche agricole.
Nella descrizione delle tecniche del I sec. a.C. destinata ai committenti e ai costruttori di edifici del suo tempo, Vitruvio nel De architectura accostava l'architettura alle arti liberali, annettendovi, conformemente alla tradizione alessandrina, l'idraulica (Libro VIII), l'astronomia e la gnomonica (IX), la meccanica civile e militare (I, 3, 1). Studiata da Sidonio Apollinare e da Cassiodoro, la sua opera fu oggetto di un rinnovato interesse nel corso dell'età carolingia. Sei dei più importanti manoscritti sono stati compilati sul modello di un archetipo anglosassone del VII sec., che probabilmente ha viaggiato al seguito di Alcuino: l'Harleianus 2767 (inizio del IX sec.; Londra, BL), che forse appartenne a Eginhard (H); il Gudianus 132 Epitomatus, del X sec., di Corvey (E), conservato a Wolfenbüttel nella Herzog August Bibliothek; il Sélestat 1153 bis, oggi 17, sempre del X sec., di San Gallo (S), che si trova nella Bibliothéque Municipale di Sélestat; il Gudianus 69, dell'XI sec. (G), conservato nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel; il Reginensis 1328, dell'inizio dell'XI sec. (V), e il Reginensis 2079, del XII sec. (W) entrambi conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana. L'Harleianus è, a sua volta, l'antenato di dieci manoscritti, tra cui ricordiamo il Parisinus di Corbie, l'Escorialensis di Soissons e il Leidensis (Germania).
Come ha dimostrato Stefan Schuler, l'opera di Vitruvio era utilizzata soprattutto come fonte di informazioni sulle arti liberali, come tesoro di aneddoti (ciò è testimoniato da una lettera, redatta tra l'801 e l'804, di Alcuino a Carlo Magno: MGH, Epistolae, IV, 308, p. 472, 1.13), o come ricettacolo di parole rare (come attesta una lettera di Eginhard: ibidem, V, 57, p. 138, 18.26). Nell'XI sec., Thierry de St. Trond redasse una parafrasi in versi del brano dedicato da Vitruvio alla torre dei venti e un riassunto dei capitoli sulle proporzioni del corpo umano. L'Harleianus reca la firma di Goderamnus, architetto e primo abate della chiesa abbaziale di San Michele di Hildesheim, la quale, nelle sue misure, rispetta i principî di Vitruvio. D'altra parte, C. Heinz ha individuato nell'architettura carolingia e romanica diverse tracce del trattato di Vitruvio; il complesso palatino di Aix-la-Chapelle (fine dell'VIII sec.) è costruito sulla base di un sistema modulare e l'atrium del Westbau corrispondeva originariamente alle misure vitruviane. John Conant ha inoltre messo in luce l'influenza di Vitruvio anche in Cluny III, la più grande chiesa della cristianità, costruita, a partire dal 30 settembre 1088, dall'architetto Hezelon di Liegi.
Ma l'opera di Vitruvio non fu l'unico testo antico di architettura conosciuto nel Medioevo. I manoscritti del De aquis urbis Romae di Sesto Giulio Frontino (II sec.) derivavano da un Fuldensis perduto del IX sec. e da un Cassinensis del XII sec.; la descrizione della villa rustica dell'agronomo Palladio aveva una tradizione manoscritta indipendente. Disponiamo anche di un breve trattato sul taglio della legna da costruzione intitolato Dicta Flavii illustris comitis quando ligna incidi debeant ut non putrescant; il testo più diffuso era comunque un compendio di Vitruvio redatto nel III sec. da Marcus Cetius Faventinus, intitolato Artis architectonicae privatis usibus adbreviatus liber, in cui l'autore riprendeva le sezioni dedicate da Vitruvio alle abitazioni private completandole con nuovi materiali. In alcuni casi, come, per esempio, nel manoscritto S, il testo di Faventinus era stato copiato accanto a quello di Vitruvio, in altri era stato inserito in quest'ultimo. Si trattò quindi di una tradizione estremamente mutevole, come dimostra, per esempio, uno scritto intitolato Incipit de architectura, valde utilis scientia, ex libris antiquorum qui de hoc scripserunt in parvo labore excerpta (Parigi, BN, lat. 6842 C, f. 54).
Nel corso della sua tradizione, il trattato di Vitruvio ha incorporato testi estremamente diversi che da Valentin Rose in poi si è soliti designare con il nome di Appendix Vitruviana. Una parte di questi testi era già presente nell'archetipo insulare, dal momento che è contenuta sia in H che in S, e contiene: varie ricette di rimedi e di vetri colorati; un testo sulle tecniche di fabbricazione delle canne di organi in rame (cuprum purissimum); un formulario sulla fusione a cera in cui è indicata la quantità di cera necessaria per un determinato peso di diversi metalli, quali bronzo, bronzo bianco, rame, stagno, argento, piombo e oro (de mensura cerae et metalli in operibus fusibilis); un certo numero di testi meteorologici; infine, in particolare, una singolare descrizione della saggiatura dei metalli con la bilancia idrostatica, chiaramente ispirata al matematico Menelao di Alessandria.
Nel X sec. fu inserito nel manoscritto di Sélestat un doppio foglio (ff. 352-364) decorato con motivi vegetali, disegni di capitelli, colonne e volute e con proporzioni del corpo umano che non sembrano corrispondere al testo di Vitruvio. Quest'ultimo era preceduto, nel medesimo manoscritto, da una raccolta di ricette relative ai mestieri dell'arte, che esercitarono una prodigiosa influenza nel Medioevo: le ricette della Mappae clavicula e delle analoghe Composizioni di Lucca.
Accanto alla Mappae clavicula esistevano altri trattati, quasi sempre brevi, sui mestieri dell'arte, quali, per esempio, il De clarea sulla chiara d'uovo e il suo uso nella miniatura dell'anonimo di Berna (A. 91-17, sec. XI), o la Doctrina poliendi pretiosos lapides, l'arte di lucidare le pietre preziose, le cui fonti sono sconosciute. Plinio, Vitruvio e Isidoro ispirarono il poema didattico De artibus et coloribus romanorum di Eraclio, un autore vissuto probabilmente nell'Italia nord- orientale alla fine dell'VIII secolo. Quest'opera, dedicata soprattutto alla pittura e al taglio delle pietre preziose, si iscrive nella tradizione dell'epos didattico in cui ogni genere di conoscenza era messo in versi. Nel XII sec. a questi testi si aggiunse un terzo libro in prosa, che doveva molto alla Mappae clavicula, a Faventinus e a Teofilo, in cui erano descritte le vernici per la porcellana, la fusione e la colorazione del vetro, il taglio delle pietre, la doratura, la saldatura, la saggiatura dei metalli preziosi, la preparazione per la pittura del legno e della pietra, la pittura su diversi supporti e così via.
Vitruvio era allo stesso tempo architetto e ingegnere militare, conformemente a una tradizione che, inaugurata dagli Alessandrini, non subì interruzioni fino a Leonardo da Vinci. Come attestano i titoli delle loro opere, gli ingegneri alessandrini, quali Ctesibio (270 ca.), Filone (250 ca.) ed Erone (65 ca.), erano interessati a un'ampia gamma di attività. In tempo di guerra si occupavano di stratagemmi (stratēgḗmata), della costruzione delle piazzeforti (paraskeuastiká), dell'assedio delle città (poliorkētiká) e delle armi da getto (belopoiiká). In tempo di pace si dedicavano alle misurazioni e alla geodesia (metriká), agli apparecchi di sollevamento (baroulkós), alle pompe e alle macchine pneumatiche (pneumatiká) e agli automi (automatopoiētiká). Riunite in gruppi composti da un numero variabile di elementi, queste attività erano definite 'sintassi meccanica' (mēchanikè sýntaxis). Le rare informazioni disponibili su questo insieme di attività nell'Occidente dell'Alto Medioevo, nel periodo cioè in cui seguitava a svilupparsi a Bisanzio ed era trasmesso agli Arabi, sono di difficile interpretazione.
Nelle biblioteche dell'Alto Medioevo si trovavano le opere degli autori militari latini, particolarmente Frontino e Vegezio. Sesto Giulio Frontino fu pretore nel 70, console nel 72 o nel 73, governatore della Bretagna nel periodo compreso tra il 73 e il 77, soprintendente degli acquedotti nel 97, durante il regno di Nerva, e morì verso il 103/104. I suoi Stratagemmi, ossia espedienti di guerra, era soprattutto una raccolta di racconti storici. Flavio Vegezio Renato, invece, redasse tra il 383 e il 450 un'Epitome rei militaris, divisa in quattro libri. Non era un soldato e neppure uno storico, bensì un alto funzionario dell'amministrazione imperiale; il suo trattato è considerato un'importante testimonianza sulla pratica militare romana, anche se l'autore riunì i materiali senza seguire un criterio cronologico e ignorò i progressi compiuti sotto Diocleziano e Costantino I. L'Epitome era presente in diverse biblioteche monastiche e Raterio di Verona ne raccomandava la lettura.
Meno conosciuto, ma estremamente importante per la trasmissione delle conoscenze greche nel Medioevo, il De rebus bellicis fu redatto tra il 337 e il 378, anzi, con ogni probabilità, tra il 366 e il 375, sotto Valentiniano e Valente, da un notabile locale di una regione orientale dell'Impero. Considerando la crisi in cui versava l'Impero, l'autore formulava suggerimenti per riformare l'amministrazione e le finanze e per modernizzare l'esercito attraverso la meccanizzazione. Descriveva quindi il liburno, un battello mosso dalle pale di una ruota azionata da alcuni buoi che facevano girare un cabestano; l'ascogefyrus, un ponte trasportabile che poggiava su una serie di otri; il trichodifrus, una variante della testuggine; la ballista quadrirotis e la ballista fulminalis, due armi da getto che potevano essere impiegate anche da pochi uomini; il currodrepanum, che corrisponde all'obsoleto e inefficace carro falcato; la plumbata tribulata e mamillata, vale a dire proiettili dotati di punte e di pesi. Anche questo testo conobbe un rinnovato interesse nell'età carolingia; un manoscritto di Spira, redatto verso il IX-X sec., oggi perduto, diede origine a ulteriori copie; esso fu utilizzato anche dagli ingegneri del XIV sec., tra i quali ricordiamo Conrad Kyeser, autore del Bellifortis. Comunque, è piuttosto improbabile che il ricercato genio militare dei Romani abbia profondamente influenzato i barbari, che avevano i loro espedienti tattici. Secondo lo storico Zosimo il visigoto Gainas riuscì a far attraversare l'Ellesponto al suo esercito, che non disponeva di imbarcazioni, con zattere costruite senza nessun'arte (técnē) ma con barbaro ingegno (barbarichḕ epínoia).
Una delle arti praticate in periodi di pace, la misurazione, era presa in esame nei trattati di geometria pratica, conformemente alla tradizione degli agrimensori latini (v. La scienza greco-romana, cap. XIV, par. 2). Quest'arte suscitò una vasta letteratura metrologica che andava ben oltre la conversione dei sistemi. Dimitri K. Raios ha dimostrato che il Carmen de ponderibus et mensuris di Remmius Favinus (seconda metà del IV sec.), un testo molto diffuso nell'Alto Medioevo, derivava direttamente dagli studi di Archimede e di Menelao (vissuto sotto Domiziano). L'opera trattava in particolare della saggiatura dei metalli eseguita con una bilancia idrostatica dotata di due piatti e di pesi cursori, descritta anche dagli Arabi e in un testo dell'Appendix Vitruviana, De auri pondere (hinc omne aurum purum).
Catherine Jacquemard e Alain Haire hanno rinvenuto in un manoscritto di Avranches un breve testo intitolato De profonditate maris vel fluminis probanda che si richiama sia alla tradizione di Faventinus sia a quella della geometria pratica. S'immergeva a una qualunque profondità un galleggiante dotato di una zavorra congegnata in modo da sganciarsi nel momento in cui toccava il fondo e liberare così il galleggiante che tornava in superficie; si misurava il tempo trascorso tra il momento dell'immersione e quello del ritorno in superficie e lo si raffrontava a misure precedentemente ottenute in altre profondità, giungendo così alla determinazione della profondità ricercata. In questo testo è menzionata anche la clessidra ad acqua (sinking bowl).
Le macchine idrauliche ‒ in particolare, il mulino ad acqua ‒ erano state ampiamente descritte da Vitruvio (De architectura, X, 5, 6). Le illustrazioni originali del trattato sono andate perdute, ma ci sono pervenuti i disegni della vite di Archimede, conservati in molti manoscritti (Leeuwaarden, Provinciale Bibliotheek van Friesland, ms. de Franeker BA fr. 51, compilato tra la fine del X sec. e l'inizio dell'XI; Parigi, BN, lat. 7227, f. 35, dell'XI sec.). La presenza del mulino ad acqua è segnalata nel periodo immediatamente successivo a quello di Vitruvio in Asia Minore da Strabone e dal poeta Antipatro di Tessalonica (Antologia Palatina, IX, 418). Nel 369 Ausonio descrisse nella Mosella (v. 60) il taglio del marmo con la sega idraulica. In realtà, l'apparente rarità del mulino ad acqua alla fine dell'Impero ha sorpreso gli storici. Marc Bloch ha avanzato l'ipotesi secondo cui l'esistenza degli schiavi rendeva socialmente inutile il mulino ad acqua all'epoca della sua invenzione e l'uso di questa macchina s'impose soltanto con la penuria di manodopera che caratterizzò il Basso Impero. Secondo Bloch la generalizzazione del sistema delle circoscrizioni feudali dette un contribuito decisivo alla diffusione del mulino ad acqua, come investimento di denaro e di tecnica da parte dei signori. Diverse indagini condotte recentemente in tutta l'Europa hanno dimostrato però che il mulino ad acqua si è diffuso molto presto; infatti, come testimoniano Palladio e Cassiodoro, sin dal I sec. esistevano molti piccoli mulini rurali romani e la costruzione di questo genere di edifici non subì interruzioni nel corso dell'Alto Medioevo. Secondo Procopio, l'interruzione dell'approvvigionamento dei mulini ad acqua del Gianicolo provocata nel 537 dall'arrivo dei Goti a Roma indusse la popolazione a ricorrere a mulini che poggiavano su battelli ancorati nel Tevere; il mulino carolingio di Audun le Tiche risale poi all'840 circa.
I testi di Rabano Mauro contenuti in un manoscritto di Montecassino (datato 1022-1023) sono illustrati dal disegno di una segheria di marmi, della quale Marie Claire Amouretti e Georges Comet hanno studiato minuziosamente le macine, il rapporto tra le ruote orizzontali e quelle verticali, e il tipo di raccolta dell'acqua. Le prime testimonianze dell'uso delle camme in vari meccanismi nella regione del Delfinato risalgono al 1040. La ricca tradizione degli automi dell'epoca greco-romana non morì del tutto a Bisanzio; infatti, nel suo Antapodosis (VI, 5) Liutprando di Cremona (920-972) descrisse gli automi che aveva potuto ammirare alla corte di Costantinopoli nel corso delle missioni diplomatiche compiute nel 968 e nel 971. Ma in Occidente questa tradizione si era definitivamente interrotta? Il ms. Phillipps Corning della Mappae clavicula contiene un testo enigmatico (par. 288) in cui sono elencate le didascalie di alcune figure di automi oggi perdute; tra queste si distingue una fontana intermittente, un sufflator (soffiatore), alcune figurine animate e una sospensione cardanica, congegni che si ritroveranno in Villard de Honnecourt.
Amouretti 1998: Artisanat et matériaux. La place des matériaux dans l'histoire des techniques, édité par Marie-Claire Amouretti et George Comet, Aix-en-Provence, Publications de l'Université de Provence, 1998.
Beaujouan 1957: Beaujouan, Guy, L'interdépendance entre la science scolastique et les techniques utilitaires, XIIe, XIIIe et XIVe siècles, Paris, Palais de la Découverte, 1957.
Bloch 1959: Bloch, Marc, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari, Laterza, 1959.
Comet 1992: Comet, Georges, Le paysan et son outil. Essai d'histoire technique des céréales. France, VIIIe-XVe siècle, Roma, École française de Rome, 1992.
Conant 1959: Conant, Kenneth J., Carolingian and Romanesque architecture: 800 to 1200, Harmondsworth, Penguin Books, 1959 (rist.: 1987).
Lindgren 1996: Europäische Technik im Mittelalter: 800 bis 1200; Tradition und Innovation. Ein Handbuch, hrsg. von Uta Lindgren, Berlin, Mann, 1996.
Martin 1971: Martin, René, Recherches sur les agronomes latins et leurs conceptions économiques et sociales, Paris, Les Belles Lettres, 1971.
Schuler 1999: Schuler, Stefan, Vitruv im Mittelalter. Die Rezeption von 'De architectura' von der Antike bis in die frühe Neuzeit, Köln, Böhlau, 1999.
Sigaut 1975: Sigaut, François, L'agriculture et le feu. Rôle et place du feu dans les techniques de préparation du champ de l'ancienne agriculture européenne, Paris, Mouton, 1975.