La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Aritmetica e geometria
Aritmetica e geometria
Tra il 500 e il 1100 ca., ossia nel periodo che precedette la traduzione di testi dall'arabo, due furono i fattori che lasciarono un'impronta decisiva sull'aritmetica e sulla geometria dell'Occidente: l'atteggiamento del mondo cristiano nei confronti della matematica tramandata dal mondo antico e le esigenze matematiche che in modo particolare la vita nel chiostro poneva. La cultura pagana, cui apparteneva anche la matematica, era generalmente considerata con diffidenza; per questo motivo i benedettini, che diventarono in seguito i principali esponenti del mondo culturale, mostrarono inizialmente un interesse limitato verso gli studi profani e per la scienza. I testi di questo genere erano studiati non per il loro valore intrinseco ma soltanto perché potevano servire a una più chiara comprensione della dottrina cristiana; da questo punto di vista, le nozioni matematiche servivano per comprendere meglio la Bibbia, tanto più che in essa troviamo scritto che Dio ordinò il mondo con misura, numero e peso (Sapienza, 11, 20).
Sorge spontanea la domanda di quali fossero le fonti matematiche disponibili agli inizi del Medioevo in Occidente. Poiché intorno al 500 nell'Impero d'Occidente erano pochi quelli in grado di leggere testi in greco, le opere lette erano quelle in lingua latina; di conseguenza, erano sconosciuti i principali contributi matematici dei Greci, perché i loro più importanti scritti sull'argomento non erano stati tradotti in latino, a eccezione degli Elementi di Euclide e dell'Arithmetica di Nicomaco di Gerasa, disponibili nella traduzione di Boezio (Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius, 480 ca.-525 o, secondo la tradizione, 524). Notoriamente, i Romani avevano scarso interesse per la matematica teorica e la coltivarono soprattutto in vista delle sue possibili applicazioni nel campo della geodesia e quale parte della cultura generale di ogni 'libero cittadino'. Solamente in tal senso le conoscenze di base della matematica erano inserite nella manualistica enciclopedica; così l'opera Disciplinarum libri IX di Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), assunta a modello dalle raccolte più tarde, trattava di medicina, di architettura e delle sette discipline successivamente designate artes liberales, comprendenti accanto alle discipline matematiche del 'quadrivio' ‒ aritmetica, geometria, musica (cioè studio dell'armonia) e astronomia ‒ quelle del 'trivio', ossia grammatica, dialettica e retorica.
All'interno di questa tradizione il testo più significativo per la matematica medievale fu il già ricordato De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella (prima metà del V sec.), che trattava delle sette arti liberali in veste allegorica. I Libri VI e VII sono dedicati alla geometria e all'aritmetica. La parte principale del Libro VI è occupata da descrizioni geografiche, mentre alla geometria propriamente detta è dedicato soltanto un breve capitolo conclusivo, ove sono contenute le definizioni di linee, figure e corpi secondo la tradizione euclidea, nonché (seguendo la terminologia greca) le tredici forme principali delle quantità irrazionali; alla fine del libro è posto il problema della costruzione di un triangolo equilatero a partire da un segmento dato (Euclide, Elementi, I, prop. 1). Il Libro VII contiene materiali basati sull'aritmetica pitagorica, ossia nozioni elementari di teoria dei numeri, ma anche riflessioni speculative e mistiche sui numeri. L'opera di Marziano Capella fu molto letta e commentata in epoca medievale; i commenti più significativi, per l'effetto che storicamente produssero, furono quelli di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 ca.) e di Remigio di Auxerre (841-908 ca.).
L'impulso decisivo allo studio dei testi matematici dei pagani si deve a Cassiodoro (490 ca.-580 ca.), il quale, grazie soprattutto alla fondazione nel 555 del monastero di Vivarium, contribuì alla conservazione dei testi latini tramandati. Egli richiamò l'attenzione sulla necessità di studiare anche la letteratura classica e si dedicò soprattutto ai problemi dell'istruzione cristiana. La sua opera più importante in tal senso, che continuò a esercitare una notevole influenza per tutto il Medioevo, rappresentata dalle Institutiones divinarum et humanarum litterarum. Nella seconda parte, dedicata agli studi profani, Cassiodoro sottolineava l'importanza delle sette arti liberali, le quali erano infatti presentate come un indispensabile completamento della teologia. Tramite Cassiodoro, queste sette discipline divennero obbligatorie per l'insegnamento laico all'interno dei monasteri; erano insegnate nelle scuole monastiche medievali e, a partire dal XII sec., anche nelle università. I testi di matematica occuparono in tal modo una posizione salda, sebbene contenuta, nel canone della cultura medievale cristiana.
Tra gli autori delle cui opere Cassiodoro raccomandava lo studio vi era anche Boezio, che apparteneva alla tradizione greco-romana e conosceva ancora bene la lingua greca. Boezio si era riproposto di tradurre in latino le opere scientifiche dei Greci, preservandole in tal modo dall'oblio, e cercò di realizzare questo grande progetto nonostante le circostanze storiche ostili, in un'epoca che vide dissolversi il mondo romano. Malgrado la morte violenta e prematura, che non gli consentì di portare a compimento il suo progetto, riuscì comunque a tradurre in latino importanti testi greci di logica e di scienze naturali: le Categoriae di Aristotele, con relativi commenti e compendi, nonché importanti opere concernenti le discipline matematiche delle arti liberali (aritmetica, geometria, astronomia, musica); fu egli stesso a coniare per queste ultime la denominazione di 'quadrivio' (nel senso di punto d'incrocio delle quattro branche in cui si articola la scienza matematica), denominazione che, sotto l'influsso dei suoi scritti, divenne patrimonio comune di tutto il Medioevo.
L'opera astronomica di Boezio è andata perduta; di quella dedicata alla geometria, che, secondo una testimonianza di Cassiodoro, sarebbe stata una traduzione degli Elementi di Euclide, sono sopravvissute solamente alcune parti in diverse redazioni (v. oltre). Il suo trattato De institutione musica si collocava all'interno della tradizione pitagorica e concerneva in gran parte i diversi tipi di proporzioni che sono impiegati nella teoria dell'armonia. Anche il De institutione arithmetica si rifaceva all'eredità culturale dei pitagorici; libera traduzione dell'Arithmetica di Nicomaco, affrontava questioni di teoria elementare dei numeri: la derivazione dei numeri (naturali) a partire dall'unità, la loro suddivisione in pari e dispari, i numeri primi, i numeri composti e i numeri primi relativi, e i numeri perfetti; seguiva quindi una classificazione delle proporzioni matematiche, così come erano applicate anche nella teoria musicale, e ancora la suddivisione dei numeri dal punto di vista geometrico ‒ i cosiddetti 'numeri figurati' ‒ in numeri poligonali (cioè numeri che possono essere rappresentati nella forma di triangoli, quadrati, pentagoni, ecc.) e numeri poliedrici (cioè numeri che in modo analogo possono essere rappresentati nello spazio) con le relative caratteristiche; comparivano infine i tre tipi di media (aritmetica, geometrica, armonica) che si potevano determinare a partire da numeri dati.
Come si può evincere anche dai molti manoscritti pervenuti (oltre 200), il De institutione arithmetica di Boezio fu uno dei testi matematici più diffusi nel Medioevo. Studiata sia nelle scuole monastiche sia, più tardi, nelle università, quest'opera diede spunto a ulteriori scritti (tra cui quelli di Tommaso Bradwardine e Simon Bredon) e alla creazione di un gioco matematico basato su di essa, vale a dire la ritmomachia (v. oltre). Il significato attribuito all'aritmetica è chiaro fin dalle prime battute dell'opera: "Tutto ciò che è stato costruito a partire dall'originaria natura delle cose, è stato chiaramente formato sulla base della proporzione numerica. Questa fu infatti il modello principale presente nell'animo dell'artefice" (De institutione arithmetica, I, 2, p. 12). Questo pensiero era conforme alla concezione cristiana della scienza e concordava in pieno con la già citata massima biblica tratta dal libro della Sapienza.
L'ultimo autore significativo da annoverare tra i maestri nel campo della matematica altomedievale è Isidoro di Siviglia (560-636 ca.). Nella sua qualità di vescovo di Siviglia, egli s'interessò dell'istruzione del clero e della corte reale visigota; scrisse estratti di opere antiche e cristiane, diventando così un importante intermediario del sapere scientifico per i popoli dell'Alto Medioevo. Nella sua opera principale, le Etimologie, Isidoro trattava, in linea con la tradizione di Cassiodoro e Marziano Capella, anche delle discipline del quadrivio, sottolineando l'importanza dell'aritmetica per una corretta comprensione dei 'segreti' delle Sacre Scritture. Analogamente a Boezio, ma in maniera molto più superficiale, anche Isidoro parlava della classificazione dei numeri in pari e dispari, nonché delle loro diverse suddivisioni all'interno di questi due gruppi. La sua opera presenta una miscellanea di definizioni pitagoriche; vi si tratta dei numeri eccedenti, imperfetti e perfetti, come pure dei numeri figurati e dei cinque tipi di proporzioni; in sostanza, è una disorganica raccolta di definizioni di poca utilità, integrata da alcuni esempi. Ancor più carente della trattazione dell'aritmetica è quella della geometria; inizia con una singolare suddivisione di questa materia in quattro branche e termina con le definizioni di nozioni geometriche basilari (punto, linea, cerchio, quadrilatero, quadrato, cubo, cono, sfera), affiancate da curiose delucidazioni, come quella in cui si spiega che un cubo è "una particolare figura spaziale, che presenta una lunghezza, una larghezza e un'altezza" (Etymologiae, III, 12, 3).
A Isidoro è attribuito anche il trattato Liber numerorum qui in Sanctis Scripturis occurrunt in cui i contenuti matematici, introdotti alla maniera di Boezio, sono correlati a indicazioni concernenti il significato dei numeri nella Bibbia. Questo testo rientra in un genere letterario molto apprezzato durante tutto il Medioevo, nel quale gli elementi della teoria numerica di Boezio erano uniti a una simbologia che attribuiva ai numeri un significato allegorico. Concetti come mysteria numerorum o numeri sacrati indicano la misteriosa segretezza e sacralità del loro senso. Se infatti il numero fosse stato interpretato come segno allegorico rendendo in questo modo visibili i suoi risvolti sacrali, il suo significato più recondito sarebbe stato svelato. Così, il numero 6 (in base alla teoria numerica pitagorica) è designato come 'perfetto', perché uguale alla somma dei suoi divisori (1, 2 e 3). Anche altri numeri, per i quali ciò non accade, sono altrettanto 'perfetti', come ci suggerisce la loro utilizzazione nella Bibbia. I numeri e l'aritmetica erano dunque funzionali all'interpretazione della Sacra Scrittura. Questo disinvolto accostamento di asserti matematici e simbologia numerica, che appare oggi difficilmente comprensibile, fu considerato invece assolutamente normale nel corso di tutto il Medioevo, come dimostra il gran numero di scritti in proposito pervenuti fino a noi.
Con le opere di Isidoro e degli altri enciclopedisti fu raggiunto il punto più basso della conoscenza aritmetica del Medioevo occidentale; di lì a poco ebbe inizio una graduale risalita, percepibile già all'epoca di Beda, ma soprattutto nel periodo carolingio.
Già intorno al 600, o poco più tardi, nascevano con Luxeuil in Borgogna e Bobbio in Italia settentrionale, i monasteri che sarebbero diventati i principali centri culturali nell'epoca precarolingia. Nei monasteri irlandesi e scozzesi di Clonard, Bangor e Iona, esisteva già un trivio e lo stadio iniziale di un quadrivio; nel tardo VII sec., nei nuovi monasteri inglesi di Wearmouth e Jarrow, nonché nella Scuola vescovile di York, ebbe inizio l'insegnamento di materie scientifiche, organizzate all'interno di un quadrivio completo.
Beda il Venerabile nacque ai confini con la Scozia. Gli insegnamenti ricevuti nelle Scuole monastiche di Wearmouth e Jarrow gli consentirono, più tardi, di scrivere tre testi (De temporibus, De temporum ratione, De ratione computi), che trattavano tutte le questioni importanti relative al computo. A Beda è anche attribuito (forse erroneamente) un altro testo di matematica dal titolo De arithmeticis propositionibus, consistente in quattro problemi: nei primi tre bisognava indovinare un numero pensato da una persona, facendo ricorso a procedimenti particolari, mentre nel quarto problema, di estremo interesse, si presentavano ‒ per la prima volta nell'Europa occidentale ‒ le regole per il calcolo con numeri negativi. Il testo mostrava chiaramente come le grandezze negative non fossero più considerate sottraendi di un'espressione a più termini, ma già elementi autonomi. Dapprima, era presentata l'addizione; poi, con l'ausilio di svariati esempi, si spiegava in modo dettagliato come si potessero sommare numeri positivi e negativi di diversa quantità; non erano invece fornite indicazioni su come si potessero sottrarre, moltiplicare o dividere tali grandezze. Benché i numeri negativi fossero trattati anche nelle fonti cinesi e indiane, è tuttavia quanto mai dubbio che vi possa essere stata una relazione tra queste e l'opera attribuita a Beda, che costituì piuttosto un contributo presumibilmente autonomo, non ispirato a un modello specifico.
Le Propositiones di Alcuino
Con gli sforzi compiuti da Carlo Magno per innalzare il livello culturale, nel Medioevo in Occidente si aprì una nuova fase della tradizione dei testi. Particolare impegno fu dedicato ai testi scritti, in quanto molti di essi erano corrotti a causa della scarsa esperienza dei copisti; con la rinascita carolingia si arrestò il processo di imbarbarimento della scrittura. La 'minuscola carolina' sostituì le scritture locali e divenne la scrittura standard, e furono allestiti numerosi scriptoria. Gli stimoli più significativi provenivano dalla Schola palatina di Aquisgrana, il cui direttore fu per molti anni, a partire dal 781, Alcuino di York (735-804). Questi aveva studiato nella sua città natale con insegnanti vicini a Beda; non stupisce quindi il fatto che fosse profondamente interessato anche ad argomenti relativi alle scienze naturali, e per questo si preoccupasse che le arti liberali, e dunque le discipline matematiche, occupassero un posto stabile nell'insegnamento di Aquisgrana, come pure nella Scuola monastica di S. Martino a Tours, da lui stesso diretta negli ultimi anni di vita.
Numerosi indizi portano ad attribuire ad Alcuino anche le Propositiones ad acuendos iuvenes, la più antica raccolta di problemi matematici in lingua latina che ci sia pervenuta. Le formulazioni dei problemi tradivano il rapporto con il mondo monastico; si trattava infatti, nei diversi casi, di come rivestire di pietre il pavimento di una basilica, di come un vescovo potesse dividere i pani fra i membri del suo clerus o un abate distribuire uova ai suoi monaci. L'artigianato e il commercio rivestivano un ruolo secondario, mentre prevalevano temi tratti dalla vita rurale. I problemi erano di cinque tipi:
a) problemi lineari a un'incognita, per 13 esercizi; la maggior parte di questi era costituita dai cosiddetti calcoli hau, denominazione risalente ai problemi egizi del papiro Rhind, volti a calcolare la quantità di un gruppo o l'età di una persona; essi conducevano sempre a un'equazione lineare nx+p=100, in cui n era di solito la somma di numeri razionali e p un numero naturale oppure zero;
b) problemi lineari a più incognite, per 9 esercizi, otto dei quali appartenevano alla categoria dei cosiddetti esercizi di conteggio, per esempio come distribuire a un determinato numero di persone un numero pari di oggetti, tenendo conto della dignità, oppure come ripartire il costo di 100 solidi tra 100 animali, ognuno di diverso valore; in ciascun caso si cercavano soluzioni con numeri interi in un sistema di equazioni con due equazioni e tre incognite;
c) problemi con successioni e progressioni, per 3 esercizi, due dei quali trattavano di progressioni geometriche e il terzo trattava di progressioni aritmetiche;
d) problemi di ordine nel senso più ampio, per 11 esercizi; tra questi, quelli relativi ai problemi di trasporto (4) divennero famosi soprattutto con il caso del lupo, della capra e del cavolo da traghettare al di là di un fiume con una sola barca; in altri due comparivano bottiglie o botti di vino piene, riempite a metà e vuote da dividere fra 3 o 4 persone; in un caso si trattava di un'eredità di gemelli, in un altro di merci da vendere allo stesso prezzo pagato per comprarle in modo tale da ricavarvi comunque un guadagno;
e) problemi di calcolo geometrico, per 12 esercizi, nei quali si trattava di misurare superfici o trasformarle in altre: questi esercizi, in realtà, non rientravano nell'ambito della matematica ricreativa, bensì avevano il compito di chiarire formule geometriche per mezzo di esempi.
Vi erano anche alcuni problemi che non riguardavano la matematica, tre dei quali erano dei veri e propri scherzi, e altri tre che invece trattavano casi di complicate parentele. Tutti i problemi della raccolta erano presentati in una veste molto gradevole. Il procedimento che portava alla soluzione era accennato unicamente per i problemi di geometria e per due problemi di aritmetica; in tutti gli altri casi ci si limitava a indicare le soluzioni e a mostrare, grazie all'aiuto di una prova, che esse erano corrette.
Le Propositiones si ricollegavano a una lunga tradizione di problemi di matematica ricreativa, genere già attestato intorno al 1800 a.C. presso Egizi e Babilonesi, comparso in seguito nella cerchia culturale greca e romana, ma esistito anche in Cina e in India. È possibile che problemi di questo tipo siano stati introdotti in Occidente da ambascerie bizantine; oltre agli influssi orientali, tuttavia, sono riconoscibili nelle Propositiones soprattutto legami con la tradizione romana, specialmente nei problemi di geometria. Infine, sembra che in questa raccolta comparissero per la prima volta alcuni problemi che in certi casi sono sopravvissuti fino ai giorni nostri. Le Propositiones furono generalmente molto utilizzate nelle epoche successive e i problemi da esse desunti entrarono a far parte delle raccolte di esercizi dei monasteri. Insieme con altri problemi di tradizione araba, essi si ritrovano all'inizio del XIII sec. nell'opera di Leonardo Fibonacci, per il tramite della quale passarono poi ai maestri d'abaco italiani e ai maestri di aritmetica tedeschi del Tardo Medioevo e del Rinascimento. Nel XVIII sec. alcuni di essi furono nuovamente presi in considerazione da Euler e sottoposti ad approfondite elaborazioni matematiche. Questo testo rappresenta dunque l'anello di congiunzione tra le conoscenze matematiche dell'Antichità, sia occidentali che orientali, e la matematica occidentale medievale e moderna. Esso inoltre prova chiaramente come la matematica non fosse soltanto praticata in quanto scienza logico-deduttiva; essa doveva anche procurare diletto e l'elemento ludico rivestiva un ruolo importante.
L'abaco di Gerberto
L'apice di questa prima fase della scienza medievale occidentale fu raggiunto con Gerberto (940/950-1003), nato ad Aurillac e istruitosi nel monastero di Saint-Géraud. In qualità di accompagnatore del conte Borel di Barcellona, nell'anno 967 Gerberto si recò in Catalogna per approfondi-re le sue conoscenze presso il vescovo Atto di Vich e forse anche nel vicino monastero di Ripoll, luoghi che offrivano la possibilità di entrare in contatto con la scienza araba, e anche con le cifre indo-arabe. Negli anni 970-971 Gerberto accompagnò il vescovo Atto a Roma; fu in quella occasione che egli richiamò su di sé l'attenzione dell'imperatore Ottone I; con la sua autorizzazione, Gerberto continuò gli studi nella Scuola cattedrale di Reims, della quale divenne ben presto direttore. Tra il 981 e il 983 fu abate del monastero di S. Colombano a Bobbio e successivamente ritornò a Reims; su iniziativa dell'imperatore Ottone III nel 998 divenne arcivescovo di Ravenna e dal 999 al 1003 fu papa con il nome di Silvestro II.
Gerberto non s'interessò soltanto di questioni teologiche, ma si occupò anche delle discipline del quadrivio.
Nel campo dell'aritmetica, egli era conosciuto soprattutto per l'abaco che utilizzava nelle sue lezioni. Questo abaco era sostanzialmente diverso dagli abachi romani e tardo-medievali, in quanto prevedeva l'impiego di nove tipi diversi di pietre, sul cui lato superiore era segnato il valore numerico rappresentato e che dovevano essere opportunamente inserite in una serie di colonne parallele; mentre nei modelli precedenti di abaco si dovevano ogni volta inserire fino a nove pietre uguali (non segnate) in una colonna, ora bastava mettere una sola pietra segnata per colonna. Lo zero era superfluo, in questo caso la colonna rimaneva vuota; vi era tuttavia una pietra con un segno che ricorda uno zero, ma si trattava di un segno puramente tecnico, perché serviva a marcare un posto nella colonna dove, in quel momento, era eseguito un calcolo.
Da Richerio di Reims, biografo di Gerberto, sappiamo che il suo abaco comprendeva 27 colonne e che i sassolini contrassegnati per il calcolo erano di corno; essi erano denominati, come i segni su di loro apposti, apices. Alcune illustrazioni di questo abaco conservate nei manoscritti mostrano le colonne, da destra verso sinistra, con le relative intestazioni, M (monas, 'uno'), D (decem, 'dieci'), C (centum, 'cento') per le potenze con base dieci. Ogni gruppo di tre colonne era sovrastato da un arco, designato con la locuzione 'arco di Pitagora'.
Sappiamo che già intorno al 980 ‒ quindi agli inizi dell'attività didattica di Gerberto ‒ era conosciuto un abaco con sassolini contrassegnati, di solito, con opportune cifre in lettere greche. È possibile che anche i sassolini di Gerberto fossero segnati in questo modo, e tuttavia le raffigurazioni dell'abaco conservatesi non mostrano caratteri greci, ma cifre indo-arabe nella cosiddetta forma arabo-occidentale. È altamente probabile che i sassolini di Gerberto non fossero allora contrassegnati con lettere greche, ma con le cifre originarie dell'India e introdotte in Spagna dagli Arabi che Gerberto ebbe modo di conoscere in occasione del suo soggiorno nella Marca di Spagna. La forma di queste cifre ci è nota grazie ai numerosi scritti sull'abaco dell'XI e XII sec., appartenenti alla tradizione di Gerberto. È evidente la somiglianza con le cifre in uso al giorno d'oggi; i modi differenti in cui esse erano riportate nei manoscritti devono sostanzialmente attribuirsi al fatto che le cifre erano segnate su pietre di forma circolare, che potevano assumere posizioni variabili nell'abaco. Quello che più conta, in ogni modo, è che ormai nelle colonne non era più inserita una quantità di sassolini corrispondente a un numero, ma un solo sassolino contrassegnato da una cifra.
Intorno al 980 Gerberto compilò un trattato sul calcolo con il suo abaco, dal titolo Regulae de numerorum abaci rationibus, in cui si esponevano le regole per la moltiplicazione e per la divisione. Il problema principale consisteva nella determinazione della colonna in cui doveva essere collocato il sassolino che rappresentava il risultato parziale, e inoltre era necessario conoscere la moltiplicazione semplice. Per quanto riguarda la divisione, era insegnata la cosiddetta 'divisione ferrea', nella quale non si divideva seguendo la posizione corrispondente del divisore, ma quella delle decine immediatamente superiori; il margine di errore era quindi corretto con una successiva addizione: per esempio, nell'operazione 109/8, non si divideva per il divisore 8, ma per 10, e quindi al resto si aggiungeva il doppio del quoziente parziale, e in questo modo il calcolo diventava più lungo.
Nel corso dell'XI sec. e all'inizio del XII nelle scuole monastiche s'insegnava a calcolare mediante l'abaco di Gerberto. Di numerosi autori ci sono pervenuti testi relativi a questo, anche se, nella maggior parte di casi, in un numero ridotto di copie (Abbone di Fleury, Heriger di Lobbes, Bernelino, Ermanno di Reichenau, anche detto Ermanno lo Storpio o Ermanno il Contratto, Turchillus, Gerlando di Besançon, Adelardo di Bath, Rodolfo di Laon); a questi si devono aggiungere diversi commenti all'opera di Gerberto e altri scritti anonimi risalenti all'XI sec. o agli inizi del XII. Con una certa frequenza, in tali testi, le nuove cifre erano indicate con denominazioni che talvolta tradivano l'origine araba (1=igin; 2=andras; 3=ormis; 4=arbas; 5=quinas; 6=cal[c]tis; 7=zenis; 8=temenias; 9=celentis); il sassolino marcato che somigliava allo zero era denominato sipos (dal greco psẽphos, 'sassolino').
Dopo la prima metà del XII sec. l'abaco di Gerberto e il relativo procedimento di calcolo caddero nell'oblio; soprattutto, sembra che l'abaco fosse poco conosciuto al di fuori delle scuole monastiche; esso non era adatto all'uso pratico per il semplice fatto che il calcolo, basato sulla continua sostituzione dei sassolini durante il procedimento, risultava notevolmente scomodo. Dunque, la principale innovazione del pallottoliere di Gerberto, ossia la sostituzione di sassolini indistinti con un solo apex, non portò ad alcun progresso nella tecnica di calcolo. L'attività degli abacisti contribuì comunque in una certa misura alla conoscenza della scrittura numerica indiana, in special modo delle nuove cifre. La definitiva irruzione delle cifre indo-arabe in Occidente avvenne, tuttavia, a partire dall'attività di traduzione dall'arabo del XII sec., con cui vennero resi noti anche gli scritti arabi sul calcolo secondo il sistema decimale indiano.
La trasmissione di Euclide e il Corpus agrimensorum
Le più importanti opere di geometria disponibili nell'Alto Medioevo, sebbene parte dei loro contenuti potesse avere applicazione pratica, erano essenzialmente utilizzate nell'insegnamento del quadrivio. Ciò non stupisce qualora si consideri che esse erano compilate o copiate nei monasteri. Questi testi, tuttavia, racchiudevano anche conoscenze indispensabili a chi svolgeva attività pratiche, vale a dire agli agrimensori, per esempio per determinare le aree di superfici di terreno e per convertire le misure. In base alle opere conservatesi, non è possibile stabilire quali altri materiali avessero a disposizione i geometri che svolgevano attività pratica.
Il più importante testo greco sulla geometria teorica è costituito dagli Elementi di Euclide, di cui non sono state tramandate traduzioni in latino anteriori all'epoca tardo-antica. Se ne sono conservati soltanto pochi brani di cui non è possibile stabilire con certezza la derivazione dal testo euclideo o da altra opera di geometria; tali passi ‒ nella maggior parte dei casi si tratta di definizioni ‒ sono menzionati, per esempio, in Balbo (110 ca.), Gellio (130 ca.-dopo il 180), Censorino (attivo nel 238), Calcidio (IV-V sec.), Macrobio (IV-V sec.) e nel già citato Marziano Capella. Anche Agostino (354-430), nel De quantitate animae, si occupò delle proprietà e dei pregi del punto, della linea e delle figure; nel suo tentativo di stabilire un ordine gerarchico del mondo sulla base di figure geometriche, è possibile riconoscere elementi pitagorici. I capitoli dedicati alla matematica miravano a chiarire il rapporto esistente tra l'anima e il corpo, nonché a stabilire che l'ordine risultava dall'incontro di elementi irregolari.
La più antica traduzione latina di Euclide, la cui esistenza è stata accertata attraverso varie testimonianze (in primo luogo quella di Cassiodoro) e della quale si conservano alcune parti, è dovuta a Boezio e risale a poco dopo il 500 (però non si sa se Boezio abbia tradotto tutti i tredici libri di Euclide). Frammenti di questa traduzione si sono conservati in quattro gruppi di manoscritti (Folkerts 1970) che, nel complesso, ci hanno tramandato le definizioni dei Libri I-V, i postulati e gli assiomi del Libro I, la maggior parte delle proposizioni dei Libri I-IV e le dimostrazioni soltanto delle prime tre proposizioni del Libro I. A ciò si aggiungono frammenti dei Libri XI-XIII, conservati in un palinsesto di Verona della fine del V sec., che potrebbero appartenere alla traduzione di Boezio. Per tutto il periodo che arriva fino alle traduzioni dall'arabo del XII sec., i testi appartenenti alla traduzione di Boezio costituirono le fonti principali per la conoscenza di Euclide nell'Europa occidentale; una trasmissione così incompleta dell'opera, però, ovviamente non poteva restituire la struttura logica originaria delle dimostrazioni così come comparivano nel testo greco.
Nel Medioevo conobbero una certa diffusione i testi degli agrimensori romani. Questi non trattavano soltanto dei metodi di misurazione del terreno, ma anche di diritto fondiario, norme legali, controversie, misure e pesi, nonché di forme e concetti geometrici. I più importanti testi matematici erano la Balbi ad Celsum expositio et ratio omnium formarum di Balbo, l'anonimo Liber podismi e un'opera attribuita a Epafrodito e Vitruvio Rufo. Il testo di Balbo si occupava delle misure di lunghezza, superficie e spazio, delle forme delle linee di confine e delle diverse figure piane, in special modo triangoli, quadrilateri e cerchio; presentava inoltre alcune definizioni evidentemente utili a chiarire concetti indispensabili all'agrimensore. La vasta opera di Epafrodito e Vitruvio Rufo insegnava, ricorrendo a esempi numerici, come calcolare le misure di diversi tipi di triangoli, quadrilateri, poligoni e del cerchio, tenendo conto, oltre che dell'area e del perimetro, anche dell'altezza e di suoi eventuali segmenti; le soluzioni erano esposte in forma simile a una ricetta. Determinazioni analoghe di superfici erano contenute anche nel Liber podismi.
Già intorno al 450 i testi degli agrimensori furono riuniti in un corpus; il testo più antico (nonché uno dei più antichi manoscritti latini) era il Codex Arcerianus del VI sec., attualmente conservato a Wolfenbüttel. La geometria esposta nel Corpus agrimensorum aveva alle spalle una lunga tradizione; molti dei procedimenti geometrici presenti nei testi degli agrimensori erano testimoniati già in Erone (65 d.C. ca.); alcuni, tra cui la formula approssimata per determinare l'area F di un quadrilatero irregolare generico di lati a, b, c, d, cioè F=[(a+c)/2]×[(b+d)/2], e la formula, derivata da questa ponendo un lato uguale a zero, per determinare l'area di un triangolo, si incontravano già in testi egizi e babilonesi. Gli scritti di matematica del Corpus agrimensorum contenevano anche nozioni che non erano di alcuna rilevanza per l'uso pratico dei geometri; vi si ritrovava, infatti, una serie di elementi di matematica teorica dei Greci, a cominciare da definizioni che lontanamente ricordavano Euclide, proseguendo con i simboli di potenza, fino ad arrivare ai capitoli sui numeri figurati così come erano trattati in Epafrodito e Vitruvio Rufo.
Rispetto alla cultura classica greca, erano evidentemente mutate le opinioni relative alla funzione della geometria. Se Euclide negli Elementi definiva soltanto la linea, la retta, il cerchio, i diversi angoli, i triangoli e i quadrilateri, riconducendo tutte le proprietà delle figure a quelle delle rette e dei cerchi, di cui era data una definizione nei postulati, a partire da Erone si pose in primo piano la descrizione della molteplicità delle forme; ugualmente in campo matematico, con Nicomaco, cominciò ad assumere importanza la descrizione dei diversi tipi di numeri. In tal senso nel Corpus agrimensorum si dava sempre un'ordinata enumerazione e descrizione dei concetti e delle figure, e questa era considerata la parte teorica delle geometria, non più, come in Euclide, la deduzione a partire dai concetti fondamentali fatta con l'ausilio di metodi matematici. Questa nuova concezione della geometria, soprattutto nella sua parte teorica, può essere messa in relazione con il senso pratico dei Romani e con la loro naturale propensione all'ordine.
I testi di geometria degli agrimensori influenzarono notevolmente la geometria del Medioevo occidentale; formule e metodi furono utilizzati senza interruzione dall'epoca romana fino al XVI e al XVII secolo. Come risulta dall'accordo nell'esposizione dei problemi e nei procedimenti delle soluzioni, anche i problemi di geometria delle Propositiones ad acuendos iuvenes attribuite ad Alcuino, rientravano nella tradizione degli agrimensori romani. Nell'Alto Medioevo, il Corpus agrimensorum fu risistemato a diversi livelli e ampliato; in questa operazione un ruolo determinante ebbe l'abbazia di Corbie, da cui, tra l'altro, proviene la cosiddetta Geometria I attribuita a Boezio.
Nell'abbazia di Corbie, fondata nel 662, furono raccolti nell'VIII sec. testi di agrimensura e altri scritti prevalentemente dedicati alla geometria, e, a partire dal materiale a disposizione, furono compilati anche nuovi compendi (Ullman 1964). In questo modo Corbie diventò, per un certo periodo, il fulcro del mondo matematico. L'obiettivo di queste attività non era quello di mettere a disposizione materiale per la formazione dei futuri agrimensori, bensì quello di fornire i testi necessari per l'insegnamento della geometria all'interno del quadrivio. Da tale punto di vista, questi trattati si differenziavano da altri di carattere tecnico, concernenti la medicina o l'agricoltura, che erano usati nell'esperienza pratica.
Il testo euclideo destò particolare interesse a Corbie. Parti della traduzione eseguita da Boezio furono riprese in tre gruppi di testi: in una recensione delle Institutiones di Cassiodoro, in manoscritti di agrimensura appartenenti a una più recente redazione e, infine, in un compendio di geometria erroneamente attribuito a Boezio e oggi comunemente noto come Geometria I dello Pseudo-Boezio. Quest'ultimo scritto, che consta di cinque libri, fu composto a Corbie riunendo insieme parti di diverse opere; oltre ad alcuni estratti di Euclide, conteneva brani concernenti la matematica tratti dal De quantitate animae di Agostino, testi del Corpus agrimensorum e passi del De institutione arithmetica di Boezio. In epoca carolingia, e anche successivamente, la Geometria I dello Pseudo-Boezio ebbe grande diffusione, e rimase una delle più importanti fonti per la conoscenza della geometria fino a quando non furono tradotti i testi arabi.
I contributi di Gerberto
La Geometria di Gerberto costituì, fino al XII sec., uno dei più importanti testi sulla materia. Le dimensioni originarie dell'opera non sono definibili con certezza; probabilmente il testo in nostro possesso è una rielaborazione più tarda, ma esso non è stato finora oggetto di un'analisi approfondita; esso non presenta tracce di influssi arabi ed è piuttosto da ascrivere alla tradizione agrimensoria. Un manoscritto contenente testi simili era conservato anche nel monastero di S. Colombano a Bobbio e si suppone che Gerberto ne sia venuto a conoscenza durante il periodo in cui svolse in quel monastero la funzione di abate (v. sopra). Per la sua Geometria Gerberto attinse anche ad altre fonti: il commento al Timeo di Calcidio, il De quantitate animae di Agostino, il De institutione arithmetica di Boezio e il suo commento alle Categoriae di Aristotele, il commento al Somnium Scipionis di Macrobio e l'opera enciclopedica di Marziano Capella.
All'inizio del testo erano spiegati i concetti fondamentali della geometria; si passava quindi alla descrizione delle diverse misure e della loro conversione, per poi rivolgere l'attenzione ai differenti tipi di angoli, elaborando materiale euclideo; si esponevano infine procedimenti di calcolo relativi a triangoli, quadrilateri e numeri figurati, per il quale erano utilizzate le conoscenze degli agrimensori. Nel tentativo di Gerberto di fornire una descrizione chiara dei rapporti, è riconoscibile l'intento didattico; questo testo, come pure quello dedicato dallo stesso autore ai calcoli con l'abaco, non doveva evidentemente essere un manuale destinato a un uso pratico, bensì un libro di testo di geometria a uso delle scuole monastiche.
A seguito della Geometria di Gerberto, si ritrovano nei manoscritti altri testi di geometria, anche questi appartenenti alla tradizione degli agrimensori. Gli studi più recenti hanno mostrato che queste parti non risalgono originariamente a Gerberto. Lo scritto così formatosi è oggi generalmente designato come Geometria incerti auctoris, ma non è da escludere che l'autore appartenesse alla scuola di Gerberto. Capitoli sostanziali di questa geometria potrebbero risalire già al IX e al X sec.; il testo, tuttavia, non è ancora stato sottoposto a un'analisi approfondita. Oltre ai calcoli relativi a figure piane e a solidi semplici, si descrivevano anche procedimenti utili per determinare, con o senza l'ausilio di diversi strumenti, la larghezza di fiumi, l'altezza di colline o di torri e la profondità di pozzi; la maggior parte di questi procedimenti era basata su teoremi di figure simili. Nella Geometria incerti auctoris si ripresentano nella medesima sequenza i problemi di geometria contenuti nelle Propositiones attribuite ad Alcuino, e nella maggior parte dei casi i valori numerici e i procedimenti sono identici. Le due opere presentano però delle differenze; il metodo della Geometria incerti auctoris è migliore e le soluzioni più accurate; l'autore di questo testo padroneggiava bene le formule geometriche fondamentali e il calcolo con le frazioni. Al contrario, le soluzioni delle Propositiones appaiono spesso goffe oppure si rivelano errate. È probabile che entrambi i testi derivassero da un unico originale andato perduto.
La Lotaringia come centro dello studio della geometria nell'XI secolo
Nei manoscritti della Geometria attribuita a Gerberto si accennava alle discussioni sulla geometria che avevano luogo tra gli studiosi della Lotaringia agli inizi dell'XI sec.; oggetto del dibattito era la somma degli angoli di un triangolo e le definizioni di angolo interno ed esterno; talvolta l'angolo interno era identificato con quello acuto, l'angolo esterno con quello ottuso: ciò getta luce sul cattivo stato in cui versava il testo euclideo. Questa, per così dire, 'disputa sugli angoli' era presente anche nella corrispondenza intercorsa, intorno al 1025, tra un monaco di Liegi (Radolfo) e uno di Colonia (Regimboldo).
La discussione sulla natura degli angoli di un triangolo ebbe termine dopo qualche tempo con un testo, tramandatoci da un solo manoscritto, in cui si dimostravano, per così dire empiricamente, tramite ritagli e sovrapposizioni, i più importanti teoremi concernenti l'uguaglianza e la somma di angoli. Questo testo anonimo, come pure la Geometria di Gerberto, era noto a un monaco di Liegi di nome Franco, che, intorno al 1045, scrisse un trattato sulla quadratura del cerchio. Sotto il profilo matematico questo scritto conteneva poche novità, fatta eccezione per un buon procedimento di iterazione nella determinazione della radice quadrata. Il suo interesse risiede soprattutto nel fatto che esso consente di avere un'idea dei problemi geometrici di cui ci si occupava in quell'epoca in ambito monastico. Nella prima metà dell'XI sec. esisteva dunque un gruppo di studiosi lotaringi che si dedicava principalmente a problemi geometrici; predecessore illustre di questo circolo era Gerberto. Oltre ai monaci già menzionati rimane ancora da citare un altro compilatore che, dopo il 1025 ma prima della metà del secolo, redasse la cosiddetta Geometria II, anch'essa trasmessa sotto il nome di Boezio. Come nel caso della Geometria I, di cui si è parlato, tale attribuzione è infondata; in realtà il testo comparve in Lotaringia nella prima metà dell'XI sec. ed era un compendio in due libri. L'autore aveva attinto da tre fonti: il trattato di Gerberto sull'abaco (v. sopra), un manoscritto della tradizione dei testi degli agrimensori e un testo contenente passi di Euclide nella traduzione di Boezio. Può sorprendere il fatto che in un trattato di geometria si insegnasse anche il procedimento di calcolo con l'abaco, ma di fatto nell'Alto Medioevo l'abaco era considerato parte della geometria, probabilmente perché era allora designato come mensa Pythagorica e questa tavola era utilizzata anche per rappresentazioni geometriche.
Il capitolo dedicato all'abaco è la parte più interessante della Geometria II; vi si spiegano le procedure di calcolo con questo strumento, e le cosiddette cifre arabe trovano per la prima volta menzione in un testo in lingua latina. Questa parte ha destato grande interesse tra gli storici della scienza, in quanto sembrava mostrare che le cifre indo-arabe fossero note già a Boezio. Tuttavia, è stato provato che il testo in questione non è di Boezio e che il capitolo sull'abaco rientra nella tradizione degli scritti sull'abaco di Gerberto. L'ultimo capitolo della Geometria II, dedicato alle frazioni, è l'unica parte del libro che non trova analogie in altri autori; forse la paternità dell'opera va attribuita al medesimo compilatore, che, tuttavia, riformò in maniera impropria la serie delle frazioni tramandata, sostituì i tradizionali segni delle frazioni con lettere dell'alfabeto latino e introdusse una tabella. Questa però non facilitava in alcun modo il calcolo con le frazioni ma, al contrario, lo rendeva più difficoltoso a causa dell'insolito ordinamento e soprattutto del rapporto niente affatto chiaro delle frazioni tra loro. Non v'è da stupirsi dunque che gli autori più tardi non abbiano adottato la serie riformata delle frazioni e la tabella delle medesime dello Pseudo-Boezio, preferendo attenersi al calcolo frazionario tradizionale. Lo stile del testo ricorda quello di Franco; non si può escludere, ma neanche provare con certezza, che sia proprio lui il compilatore della Geometria II.
Dal punto di vista odierno sorprende constatare con quale interesse e fervore gli studiosi lotaringi dell'XI sec. discutessero i summenzionati problemi di geometria elementare. L'esiguo numero di testi di matematica dell'Antichità allora accessibili e, soprattutto, il cattivo stato in cui versava il testo di Euclide non consentivano di avere una migliore comprensione della materia; nuove conoscenze poterono essere acquisite soltanto quando, nel XII sec., un gran numero di testi greci e arabi furono tradotti dall'arabo, diventando in questo modo accessibili al mondo occidentale.
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