La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Teoria e pratica nel Medioevo
Teoria e pratica nel Medioevo
Il giudizio negativo, talvolta velato di disprezzo, espresso dal pensiero greco-latino per le attività tecniche è un dato storiografico consolidato. Studi relativamente recenti mostrano però come già nel Medioevo tale valutazione fosse sottoposta a revisione. La considerazione positiva di Platone per la meccanica, in virtù della sua parentela con la matematica, insieme alla pretesa di poter dedurre dalle opere di Agostino l'utilità delle arti pratiche per la salvezza individuale, divennero punti di forza per quei teorici medievali intenzionati a trasformare la tradizionale dicotomia tra spirito e materia in un riconciliato rapporto tra la teoria e la pratica.
Sfruttando e deformando ambiguità concettuali rilevate in alcuni passi di autori dell'Antichità, prendeva vita un diverso atteggiamento nei confronti della sfera pratica, manifestamente presente nella classificazione delle scienze e delle arti e, in maniera controversa, nei centri di cultura monastica. Ancora nel capitolo 24 del Libro II delle Etimologie, nel quadro della tradizionale suddivisione stoica della filosofia in fisica, etica e logica, erano attribuite alla physica (scienza della Natura) soltanto le quattro discipline del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia); nei Libri differentiarum dello stesso Isidoro di Siviglia, invece, pur rispettando il medesimo principio di classificazione, la fisica non comprendeva più solamente le quattro discipline del quadrivio, ma ne includeva altre tre: l'astrologia, la meccanica e la medicina (v. cap. III).
Meno chiara, si è detto, appare la valutazione del ruolo delle comunità monastiche nella riabilitazione del lavoro manuale come mezzo per migliorare la vita e redimersi. Considerando l'ozio come il grande nemico dell'anima, Benedetto da Norcia (480 ca.-540) volle che i monaci dedicassero parte del tempo ai lavori manuali, conferendo così a questi ultimi nuova dignità; anche copiare manoscritti era, del resto, un'attività manuale. Tuttavia, l'alleanza tra attività pratiche e spiritualità monastica si affermò soprattutto nel XII sec. con il movimento cistercense. In epoca carolingia fu coniata l'espressione, destinata a grande fortuna, di 'arti meccaniche'. Nelle glosse di Giovanni Scoto Eriugena alla famosa opera di Marziano Capella De nuptiis Philologiae et Mercurii, che passava in rassegna le sette arti liberali, come pure nel celebre commento di Remigio di Auxerre a questa stessa opera, Filologia non si limitava a ricevere in regalo le sette arti liberali ma offriva a sua volta a Mercurio le sette arti meccaniche. Queste non erano specificate, ma è importante tuttavia notare che fossero sette.
La locuzione artes mechanicae acquistò subito, comunque, una connotazione dispregiativa; si diceva mechanicae id est adulterinae e sembra che questa equivalenza tra i due termini sia comparsa per la prima volta in una glossa della fine del IX sec., forse di Martino di Laon. L'adulterio era qui inteso soprattutto come 'inganno'; poiché l'arte imitava la Natura, ciò che era artificiale si rivelava un inganno rispetto a ciò che era naturale. è da notare il fatto che nella parola 'macchinazione' si conservi ancora la connotazione di trappola, astuzia, del termine greco moichós, come del latino ingenium.
Nel settore privilegiato delle conoscenze scientifiche al servizio della Chiesa il computo ecclesiastico ‒ vale a dire il calcolo calendaristico delle feste religiose mobili, con la data della Pasqua in testa ‒ occupava un posto di primo piano, al pari della musica. Per Beda l'astronomia non aveva soltanto una valenza filosofica ma era alla base del computo che razionalizzava i tempi della Chiesa (v. cap. VII). Questo legame tra teoria e pratica si allentò in seguito, in epoca carolingia, quando Alcuino e Rabano Mauro ritornarono a un'astronomia destinata essenzialmente alla comprensione del potere trascendente del Creatore. Dopo Ippolito da Ostia (170-236), Vittore di Aquitania e Dionigi il Piccolo, Beda fu l'ultimo dei grandi padri fondatori del computo ecclesiastico, secondo il quale i calcoli per armonizzare i cicli prevalevano sugli aspetti propriamente astronomici. Quando, nella 'rinascita' del XII sec., si impose l'astronomia greco-araba, il computo tradizionale e la nuova astronomia seguirono un proprio autonomo cammino, in particolare per quanto riguardava il Sole e la Luna; un collegamento tra le due discipline tornò soltanto allorché, con Ruggero Bacone, divenne di attualità il problema della riforma del calendario.
La differenza tra il musicus, teorico, e il cantor, semplice esecutore, era ricorrente nella musica fin dall'Alto Medioevo. La teoria musicale poteva allora contare su una base eccellente, ossia l'opera di Boezio De institutione musica, ritrovata all'inizio del IX sec., alla quale faceva da contraltare una pratica eccelsa, quella del canto liturgico, cosiddetto gregoriano. La teoria musicale e la musica liturgica appartenevano a due mondi diversi; l'impianto teorico boeziano era pitagorico e connesso alla pratica strumentale greca, mentre il canto liturgico aveva una notazione neumatica ancora molto rudimentale ed era perciò trasmesso facendo in gran parte ricorso alla memoria. La necessità di un coordinamento si fece presto sentire, come testimoniano il trattato carolingio anonimo detto Alia musica o l'opera di Ubaldo di Saint-Amand; indicativa a tale riguardo è poi l'assimilazione dei toni ecclesiastici alle scale di trasposizione della musica greca presentate da Boezio.
Nel conciliare una teoria e una pratica che si adattavano con difficoltà l'una all'altra, ebbe un ruolo notevole il monocordo, strumento essenzialmente didattico. Stabilite secondo la teoria pitagorica delle consonanze, le graduazioni del monocordo permisero di visualizzare gli intervalli musicali e di cogliere le altezze relative dei suoni; consentirono inoltre, sul piano della teoria, una spazializzazione delle scale musicali in relazione a una notazione alfabetica e, sul piano della pratica, l'apprendimento della giusta intonazione nel canto; inoltre, le gradazioni fornirono anche una guida ai fabbricanti di strumenti musicali. Se nel monocordo era espressa perfettamente la teoria che connetteva l'armonia musicale alle proporzioni semplici, la misurazione delle canne d'organo (fistulae) poneva gravi difficoltà; di essa si occupa il De commensurabilitate fistularum et monocordi cur non conveniant, una raccolta di opinioni correnti la cui introduzione è oggi generalmente attribuita a Gerberto di Aurillac.
Un altro importante strumento didattico della stessa epoca fu l''abaco a colonne', che permetteva di effettuare calcoli con le cifre arabe segnate sugli apices. Nell'insegnamento di Gerberto di Aurillac, come testimoniava il monaco Richerio di Reims, o nella seconda geometria apocrifa attribuita a Boezio, il calcolo sull'abaco era assegnato all'ambito della geometria invece di essere connesso all'aritmetica, come ci si sarebbe potuto attendere. Tale mancata attribuzione era sintomatica delle incertezze esistenti sui rapporti tra teoria e pratica. La riconciliazione tra queste ultime trovava pieno compimento nell'opera Micrologus di Guido d'Arezzo, del 1020, nella quale si elaborava una teoria coerente della modalità, della scala e della notazione, grandi contributi del Medioevo alla civiltà occidentale.
Anche in ambito medico fin dall'Alto Medioevo si pose il problema dei rapporti tra teoria e pratica. La suddivisione della medicina in teorica e pratica, assente in Galeno, fu avanzata ad Alessandria d'Egitto nel VI sec. e la si ritrovò quasi subito nel commento in latino di Agnello Ravennate al De sectis di Galeno. Poco dopo, in un commento anonimo agli Aforismi di Ippocrate, comparve una formula ‒ che avrà in seguito molta fortuna ‒ secondo la quale la medicina era suddivisa in due rami, uno teorico e uno pratico. Date le modalità di insegnamento della disciplina nei primi secoli del Medioevo, questa distinzione non ebbe conseguenze particolari; essa si ripropose con forza però nella seconda metà dell'XI sec., quando alcuni testi arabi di medicina furono adattati da Costantino l'Africano, in particolare l'Isagoge di Ḥunayn ibn Isḥāq (Iohannitius) e il Pantegni di ῾Alī ῾Abbās (῾Alī ibn al-῾Abbās al Maǧūsī); queste opere esercitarono una notevole influenza sull'insegnamento della Scuola di Salerno nel XII secolo.
La cristianità occidentale si trovò nel XII sec. al centro di un periodo di forte sviluppo demografico, agricolo e urbano, con la crescita della popolazione europea del 140% fra il 950 ca. fino ai primi anni del XIV secolo. Si estesero le superfici coltivate, in particolare grazie al dissodamento dei terreni; aumentò il consumo di cereali nell'alimentazione; le città si svilupparono, con tutte le conseguenze che ciò comportò sul piano sociale e culturale.
Per lo studio dei rapporti tra teoria e pratica è necessaria una riflessione sul contributo delle tecniche allo sviluppo dell'Occidente nei primi tre secoli del secondo millennio. Le grandi innovazioni medievali anteriori al XIII sec. sono ormai ben note: staffe che consentirono la cavalleria da battaglia e un modo moderno di andare all'attacco, migliore sfruttamento dell'energia dei fiumi e del vento, adattamento dei mulini a diverse attività industriali, aratri con versoi e dunque aratura più efficace, avvicendamento triennale delle colture, trasformazione del telaio e della fabbricazione delle stoffe, aumento della stazza delle navi del Nord e dell'Atlantico e così via. Come sostiene Bertrand Gille (1980), il dinamismo della tecnica del XII sec. si caratterizzò essenzialmente per la messa in opera sistematica di invenzioni risalenti a epoche precedenti, fino ad allora scarsamente efficaci.
Le idee di Ugo di San Vittore (m. 1141) sull'appartenenza delle arti meccaniche alla filosofia e sui rapporti tra teoria e pratica testimoniano la progressiva assunzione di orientamenti simili a quelli che sarebbero stati determinati, di lì a poco, dall'influenza araba. Combinando la classificazione stoica con le nozioni platoniche e aristoteliche riprese da Boezio, nel suo Didascalicon ‒ una guida per l'insegnamento ‒ egli presentava infatti una classificazione delle scienze (v. cap. XV, tab. 1) il cui insieme costituiva la filosofia, e una divisione di quest'ultima in quattro grandi parti: teoretica (ricerca della verità), pratica (disciplina dei costumi), meccanica (attività utili alla vita), logica (per parlare e discutere con finezza e acume).
La pratica, come spesso accadeva nel pensiero antico, si identificava con l'etica; la fisica e la matematica (il tradizionale quadrivio nel quadro delle sette arti liberali) facevano parte della teoretica. Per Ugo di San Vittore la meccanica conservava la qualifica di 'adultera', in quanto l'opera dell'artigiano faceva propria la forma attinta dalla Natura. In analogia con le sette arti liberali, la meccanica era divisa in sette arti, a loro volta ripartite in trivio e quadrivio. Tre riguardavano l'esterno del corpo: lanificium (lavorazione della lana e degli abiti), armatura (armamento), navigatio (navigazione e commercio); quattro riguardavano l'interno del corpo: agricultura, venatio (caccia e alimentazione), medicina e theatrica (spettacoli e giochi d'azzardo). Lo studio di queste tecniche serviva evidentemente a una migliore comprensione delle Sacre Scritture, per tendere alla saggezza della contemplazione mistica volta a ristabilire il primitivo rapporto tra la natura umana e Dio. In questa posizione vi era una chiara influenza agostiniana; la regola di Agostino, che vigeva nell'abbazia di San Vittore, era infatti abbastanza favorevole al lavoro manuale. L'attività artigianale, sosteneva Ugo, cerca di imitare la Natura; la ratio delle arti meccaniche era perciò anch'essa un mezzo per comprendere la Creazione e quindi una via per avvicinarsi a Dio. Per ogni singola arte si operava poi un'importante distinzione, ossia quella tra agere de arte (trattare dell'arte) e agere per artem (agire secondo l'arte); per esempio, in agricoltura la ragione era del filosofo, l'esecuzione del contadino.
Nella Practica geometriae, Ugo di San Vittore faceva riferimento all'astrolabio e ad altri strumenti e procedimenti materiali (a eccezione del quadrante); in realtà, però, l'intenzione dell'autore era probabilmente più di natura didattica che pratica. I monaci di San Vittore non erano tanto interessati all'agrimensura, quanto piuttosto a una migliore comprensione di alcuni passi della Bibbia, come quelli relativi all'arca di Noè (per lo stesso Ugo), al tempio di Salomone o alla visione di Ezechiele (per Riccardo di San Vittore); in ogni caso, è probabile che insistendo su relazioni numeriche di valore simbolico i teologi abbiano incoraggiato alcune creazioni artistiche, in particolare opere di architettura e di struttura numerica.
Il panorama cambiò completamente con Domenico Gundisalvi e la sua traduzione dell'opera De scientiis di al-Fārābī, non priva di importanti rimaneggiamenti ispirati all'opera di Ugo di San Vittore. In tale opera le scienze si suddividevano in scienza del linguaggio, logica, matematica, scienze naturali, metafisca e politica (con diritto e teologia). All'interno di questo schema la matematica comprendeva nell'ordine: aritmetica, geometria, musica, astrologia, ottica (scientia de aspectibus), statica (scientia de ponderibus) e infine la scienza dei procedimenti ingegnosi (scientia de ingeniis). Queste scienze potevano comportare una parte teorica o speculativa e una pratica o attiva; così, all'aritmetica teorica nicomachea corrispondeva l'aritmetica pratica del calcolo e del commercio, mentre alla geometria speculativa euclidea faceva riscontro la geometria pratica della misurazione. La scienza dottrinale delle stelle si distingueva dallo studio del significato degli astri; analogamente, la musica vedeva caratterizzati in modo netto gli ambiti speculativo e pratico (v. cap. XV, tab. 4).
La distinzione tra teoria e pratica era meno chiara per quanto riguardava l'ottica e la statica, ma il caso più interessante, e anche il più delicato, era quello della scientia de ingeniis. Questa insegnava come immaginare e scoprire il modo in cui i corpi naturali potessero essere adattati, secondo il numero e per mezzo di qualche artificio, affinché ne scaturisse l'utilità desiderata. L'espressione 'secondo il numero' (secundum numerum) non deve suggerire un'intonazione troppo moderna al ruolo che la tecnologia riservava alla matematica, e in particolare all'algebra (algebra et muchabala, che in arabo significa letteralmente 'frattura e riparazione'). Nella spiegazione presente nel testo originale di al-Fārābī (Saliba 1985), conforme a una concezione derivata a grandi linee da Aristotele e probabilmente incomprensibile per Gundisalvi, la scienza dei procedimenti di ingegno mirava principalmente a realizzare principî che erano allo stato di potenzialità; in questo modo, le manipolazioni algebriche potevano far sì, per esempio, che i numeri irrazionali diventassero numeri veri e propri, ma si era in ogni caso ben lontani da una qualsivoglia relazione tra l'algebra e il lavoro dell'ingegnere.
Dopo il De scientiis, Gundisalvi ritornò sull'argomento con il De divisione philosophiae, in cui rileggeva al-Fārābī alla luce di Avicenna. Secondo un metodo che risaliva agli alessandrini, Gundisalvi tentava di analizzare ogni scienza sottoponendola a una serie di domande circa il suo oggetto, il genere, le specie, le parti in cui si divideva e così via, non sempre però differenziando bene queste nozioni. In ogni modo, egli si rivelò incapace di sottoporre a quest'analisi l'ottica, la statica e la tecnologia (de ingeniis), probabilmente perché non aveva avuto modo di consultare trattati arabi su queste discipline. Alla scientia ingeniorum ‒ comparsa, come si è detto, poco dopo il 1150 ‒ nella classificazione delle scienze di Gundisalvi era abbinato il termine ingeniator, apparso già nel 1086 nel Domesday book; è interessante notare come, ancora una volta, dinamica sociale e influenza araba procedessero nella stessa direzione. Per mezzo di macchine da guerra e di sollevamento, generalmente di legno, l'ingeniator, che era tra l'altro anche architetto, preparava la difesa e l'attacco delle piazzeforti (per questa attività esisteva il verbo ingeniare), esercitando in tal modo una funzione che acquistò tutta la sua importanza nel grande scontro tra Filippo Augusto ed Enrico II, con l'episodio spettacolare della presa di Château Gaillard.
Nel più rilevante trattato dedicato alla classificazione delle scienze composto nel XIII sec., il De ortu scientiarum, redatto verso il 1250 dal domenicano Roberto Kilwardby, la classificazione delle arti meccaniche risentiva molto dell'influenza di Ugo di San Vittore, con l'eccezione però della soppressione della theatrica (spettacoli e giochi d'azzardo) giudicata sconveniente per un cristiano. Affinché le arti meccaniche restassero comunque in numero di sette, come quelle liberali, Kilwardby sostituì la theatrica con l'architectonica, sottraendo così all'armamento tutto ciò che riguardava le costruzioni militari; naturalmente, a questa promozione dell'architettura non era estraneo il fatto che l'arte gotica conoscesse in quel periodo la sua massima fioritura. Complessivamente si manteneva la classificazione delle tecniche proposta già nel Didascalicon di Ugo di San Vittore, anche se non se ne ritenevano appropriate le denominazioni. A lanificium, che non riguardava soltanto la lana, Kilwardby preferì ars vestitiva o copertiva; a navigatio, che comprendeva il commercio, sostituì mercatura; agricultura gli sembrava limitato alla coltura dei campi, e preferì terraecultus; venatio (caccia), che riguardava l'alimentazione, cedette il posto a cibativa o nutritiva. Nel complesso, si ribadiva quindi un trivio riguardante l'interno del corpo e comprendente terraecultus, cibativa o nutritiva, medicina, e un quadrivio relativo all'esterno di esso e comprendente vestitiva o copertiva, armatura o armativa, architectonica, mercatura.
Se è vero che doveva molto ad Agostino, a Ugo di San Vittore e a Gundisalvi, Kilwardby tuttavia teneva conto anche dell'apporto aristotelico e giunse a una strutturazione della filosofia ben congegnata e piuttosto originale. Nel capitolo XLIII del De ortu scientiarum si occupava più particolarmente del confronto e dei rapporti tra scienze speculative e conoscenze meccaniche; queste ultime si limitavano a constatazioni materiali immediate, ossia al quia, mentre le scienze speculative cercavano spiegazioni più profonde, il propter quid. Nacque allora la nozione di subalternatio di una scienza a un'altra; anche se la pratica non era assente dalle discipline speculative (aritmetica, musica, ecc.) e poteva esserne il fondamento, la dipendenza sostanziale si aveva nel senso inverso, ossia dal momento teorico a quello pratico. Le varie branche della mechanica erano più o meno subalterne a due scienze speculative, cioè la fisica e la matematica (aritmetica, musica, geometria e astronomia); la medicina si richiamava all'astrologia, che a sua volta dipendeva dall'astronomia, come anche la navigazione e le pratiche agricole. Il commercio era ricondotto all'aritmetica; della geometria erano tributarie l'architettura e anche l'abbigliamento, per via del taglio delle stoffe.
Alla valutazione agostiniana che considerava le arti meccaniche come un possibile contributo alla salvezza, condivisa da Ruggero Bacone, si opponeva talvolta l'atteggiamento conservatore di tutto un settore della Scolastica universitaria, in particolare domenicana. Influenzata dalla distinzione aristotelica tra il sapere e il fare, tale Scolastica svalutava le arti meccaniche, relegate al massimo in una posizione subalternata. È il caso di Tommaso d'Aquino e anche di Alberto Magno, di cui nondimeno si conosce l'interesse per l'agricoltura e per l'attività di pescatori e minatori. Come si è visto a proposito del De ortu scientiarum, la dipendenza dalle scienze speculative offriva alle arti meccaniche la possibilità di essere illuminate dalla matematica e dalla fisica e quindi di migliorarsi. D'altra parte, lo stesso Ruggero Bacone si richiamava alla metafisica quando rifletteva sulla natura delle scienze e sulla loro suddivisione.
All'acritico atteggiamento di assimilazione delle innovazioni tecniche (che si diffusero senza che i contemporanei avessero una percezione storica della loro origine e dei loro inventori) si contrappose però nel XIII sec. la consapevolezza di scoprire verità nuove, ignote sia ai Greci che agli Arabi. Si affermò l'idea di progresso e la presa di coscienza della capacità d'innovazione; si pensi a Federico II e alla sua critica della zoologia di Aristotele, a Giordano Nemorario e a quanti dopo di lui fecero compiere alla statica passi da gigante rispetto a ṯābit ibn Qurra, alle numerose osservazioni di Alberto Magno e a Pietro di Maricourt (che fondò, con lo studio della calamita, una scienza del magnetismo, e in particolare del campo magnetico terrestre, completamente nuova). Le numerose innovazioni tecniche, poi, come la bussola magnetica, l'orologio meccanico a pesi, la polvere da sparo, l'alcol ad alta gradazione, gli acidi minerali e, ovviamente, i nuovi strumenti astronomici e le carte nautiche, potevano essere collegate più facilmente alle conoscenze scientifiche di quanto non lo fossero le tecniche del XII secolo. La coscienza del progresso si manifestò in modo particolare nel corso dei due decenni 1250-1270 e la figura che meglio la rappresenta fu senza dubbio quella di Ruggero Bacone con la sua scientia experimentalis, nella quale risaltava il duplice aspetto scientifico e tecnico dell'experimentum, già avvertito nella medicina; esso era inteso sia come esperienza che conduce alla verità sia come procedimento, o anche ricetta, che permette di ottenere un determinato risultato.
Nell'Opus maius del 1267, che proseguì l'anno seguente nell'Opus tertium, Ruggero Bacone affermava che lo studio delle lingue, la matematica, l'ottica, la scientia experimentalis e l'alchimia dovevano assumere un ruolo determinante per la riforma della cristianità. L'esperimento poteva servirsi di strumenti e ottenere precisione per mezzo della matematica. La scientia experimentalis era destinata a esercitare una sorta di predominio su molte altre scienze poiché conferiva certezza alle conclusioni delle scienze teoriche, aggiungeva nuove conoscenze alle scienze già esistenti (magnetismo, prolungamento della vita umana) e, infine, cercava di scoprire i segreti della Natura oltre i confini della scienza del tempo. La scienza sperimentale doveva prestare attenzione ai particolari delle tecniche; nel capitolo XIII dell'Opus tertium, Bacone lodava in proposito un solo uomo, Pietro di Maricourt, il "maestro degli esperimenti" (dominus experimentorum), il quale tramite essi conosceva gli eventi della Terra e del cielo, la medicina e l'alchimia. Al tempo stesso, Bacone si vergognava di ignorare ciò che era patrimonio conoscitivo del laico (laicus), della vecchia strega (vetula), del soldato e del contadino; e a tale scopo si interessava di tutto ciò che riguardava la lavorazione dei diversi metalli, la guerra, le armi, la caccia, l'agricoltura e l'agrimensura, prendendo in considerazione le ricette, i sortilegi e gli incantesimi delle streghe e dei maghi insieme ai trucchi dei giocolieri.
L'arte del calcolo, tradizionalmente opposta all'aritmetica speculativa di Nicomaco e Boezio, dopo gli adattamenti del XII sec. dell'opera di al-Ḫwārazmī prese il nome di 'algorismo' (poi algoritmo); quanto alla tecnica di scrittura, mentre i manuali, molto diffusi, di Alessandro di Villedieu e di Giovanni di Sacrobosco insegnavano a calcolare cancellando sulla sabbia o sulla polvere ‒ limitando così, mediante correzioni successive, il ricorso alla memoria ‒, Leonardo Fibonacci optava per il calcolo scritto senza cancellature. Ci si trovava all'inizio di due correnti diversamente sensibili alle implicazioni sociali del calcolo. Da una parte, vi era l'algorismo conservatore di Sacrobosco, che calcolava cancellando e si applicava a questioni (cautelae) relativamente ludiche; esso verrà poi inserito in un corpus di manuali universitari in latino orientati sull'astronomia e, quindi, sull'astrologia. Dall'altra parte, tra i seguaci di Leonardo Fibonacci si diffondeva l'aritmetica commerciale all'italiana, in volgare, che praticava un calcolo scritto senza cancellature su carta sempre meno costosa. L'insegnamento di questo tipo di aritmetica nelle scuole ‒ le 'scuole d'abaco' ‒ era correlato in Italia a un importante cambiamento di mentalità nei confronti dei dati numerici, come testimoniano vere e proprie statistiche, simili ai conti degli inventari dei magazzini. Ne fa fede, per Milano, e già dal 1288, il De magnalibus urbis Mediolani di Bonvesin de La Riva, una sorta di guida statistica delle cose notevoli ('meraviglie') e delle risorse. Non a caso la Cronica di Giovanni Villani, terminata al più tardi nel 1348, riportava, tra i molti dati su Firenze, una cifra oscillante tra 1000 e 1200 bambini i quali frequentavano sei diverse scuole d'abaco in città.
In ambito geometrico, sulla scia della Practica geometriae di Ugo di San Vittore si svilupparono una serie di manuali sullo stesso argomento, che contrastavano con la geometria teorica degli Elementi di Euclide. Le opere principali di questa corrente, che combinavano l'eredità degli agrimensori romani con l'uso geometrico dell'astrolabio e del quadrante, furono l'Artis cuiuslibet ‒ pubblicata da S.K. Victor nel 1979, più tardi attribuita da W.R. Knorr a Gherardo da Bruxelles ‒ e il trattato Geometriae duae sunt partes principales, il cui contenuto fu ripreso nello scritto sul quadrante ritenuto di Roberto Anglico o piuttosto di Giovanni di Montpellier. Sotto questa forma, la geometria pratica si trova inserita nel corpus dei manuali scientifici in uso nelle università. La Practica geometriae, composta nel 1220-1221 da Leonardo Fibonacci, si rivolgeva indistintamente agli agrimensori, secondo il costume volgare, e, mediante dimostrazioni geometriche, ai dotti che non arretravano di fronte alle estrazioni di radici e all'algebra. Dell'Artis cuiuslibet esiste una traduzione parziale, in dialetto piccardo, intitolata Pratike de geometrie, che presenta pressappoco gli stessi caratteri linguistici e quasi la stessa data della celebre raccolta (detta 'album', v. cap. XXVIII) dell'architetto Villard de Honnecourt; il confron-to fra le due opere mette in luce però un contrasto molto deciso tra la geometria pratica teorizzata nei libri e la geometria utilizzata concretamente. Mentre i trattati di geometria pratica avevano una funzione soprattutto didattica, spesso orientata verso l'astronomia, la geometria degli esperti pratici si riduceva a un insieme di indicazioni puramente visive e operative che escludevano non soltanto le dimostrazioni ma anche i calcoli; alcune costruzioni di figure approssimative potevano risultare dall'esperienza e non da un ragionamento matematico. L'opera di Villard de Honnecourt, spesso di difficile interpretazione, è l'unica esposizione di questo tipo di conoscenza nel XIII sec., e dopo di essa bisognerà aspettare due secoli per trovare, con Mathias Roriczer, un altro testo di divulgazione di questa tradizione geometrica. La parte più specificamente geometrica è stata spesso attribuita dagli studiosi a un enigmatico Magister II; l'idea che Villard ricopiasse semplicemente disegni di altri nacque dal suo disegnare a volte edifici di forma diversa da quella delle costruzioni effettivamente realizzate.
Esempio di tale geometria sono anche le squadre a bordi non paralleli, come quelle di cui l'architetto Hugues Libergier di Reims fece tracciare i contorni sulla propria tomba; una corda tesa lungo l'ipotenusa formava con i cateti interni gli stessi angoli formati dalla diagonale di un 'rettangolo aureo'. Strumenti di questo genere potevano essere stati preparati per il taglio delle chiavi di volta, mentre altri sembrano essere stati concepiti per fornire ‒ oltre, naturalmente, a quelli di 90°, 60° e 30° ‒ altri angoli particolari, come quelli di 54° e 36°, o ancora gli angoli aurei già menzionati. Ad alcune figure e proposizioni degli Elementi di Euclide furono attribuite denominazioni pittoresche, come quelle di Victoria (II, 11) e di Figura demonis (IV, 10) per la costruzione del pentagono regolare a partire dalla sezione aurea. Queste denominazioni non provenivano dalle università, e nemmeno dai cantieri delle cattedrali, come si deduce dal fatto che in alcuni manoscritti delle versioni di Euclide dette Adelardo I e II si trovino traslitterati i nomi arabi di molte di queste figure. Sfiorando un certo esoterismo, alcuni mezzi mnemotecnici grafici e verbali potevano servire per memorizzare procedimenti o proposizioni geometriche. Niente affatto marginale poi, come rivela A. Erlande-Branderburg, era la ricchezza del dialogo tra il committente ecclesiastico, quando questi aveva conoscenze di geometria, e il maestro d'opera o architetto, allorché l'uomo di chiesa gli trasmetteva quanto appreso sui libri. A volte si creavano delle difficoltà; per esempio, nel 1391, al cantiere del duomo di Milano, quando si trattò di calcolare l'altezza di un triangolo equilatero gli ingegneri (inzegnerii) dovettero far ricorso a Gabriel Stornaloco 'esperto nell'arte della geometria'; questi insegnò loro che l'altezza di un triangolo equilatero era di poco inferiore a 26/30 del lato, formula tradizionale dei trattati di geometria pratica.
Per una riflessione sui nessi esistenti tra teoria e pratica nel Medioevo, la storia della navigazione è forse ancor più rivelatrice di quella della costruzione delle cattedrali. Fino a non molto tempo fa il mestiere di pilota di nave nel XIII sec. poteva essere compreso solamente sulla base di due documenti: il Compasso da navegare, il portolano pubblicato da Motzo, che lo data intorno al 1250, e la celebre Carta Pisana, della fine del XIII sec., che presentava le caratteristiche essenziali dei portolani medievali a linee di rombi (una carta di questo genere sembra essere stata utilizzata già nel 1270 nella traversata di Luigi IX di Francia verso Tunisi, durante l'ottava Crociata). La ricostruzione è ora molto più complessa, dopo la recentissima edizione del Liber de existencia riveriarum et forma maris nostri Mediterranei, un testo scritto intorno al 1200 che descriveva minuziosamente le coste del Mediterraneo e, meno dettagliatamente, il litorale atlantico. Elaborato da un tecnico anonimo e indirizzato ai canonici di Pisa, il Liber si proponeva di dare una sorta di statuto culturale a quell'ars mechanica che era la navigazione commerciale. L'evidenza dei dati raccolti presuppone non soltanto un portolano ma anche una carta dei mari molto più sviluppati di quanto non si pensasse fino a oggi; è significativo che l'interesse per la precisione nel calcolo delle distanze si sia manifestato all'epoca e nella patria del celebre matematico Leonardo Fibonacci.
Nel XIII sec. nacque la 'navigazione quantitativa', per la quale erano necessarie ai migliori piloti non soltanto una buona capacità di calcolo, ma anche nozioni di trigonometria e di astronomia per la valutazione della distanza percorsa in funzione della velocità e del tempo impiegato; la consultazione di tavole trigonometriche semplificate, dette marteloio o martelogio, utili per riprendere la rotta normale se si era stati costretti a lasciarla; l'attenzione alla Stella Polare e alle stelle attorno a essa, non soltanto per segnare il Nord ma anche per misurare il tempo di notte, più o meno secondo il principio del notturlabio. I trattati universitari sul quadrante, come quello di Roberto Anglico o di Giovanni di Montpellier, insegnavano a determinare la latitudine geografica, ma questa coordinata non si ritrovava sulle carte a linee romboidali che venivano allora utilizzate. L'uso marittimo del quadrante serviva perciò soltanto a determinare le differenze di latitudine, non il loro valore assoluto. A una determinata latitudine si guardava alla Stella Polare ‒ che si trovava allora a più di tre gradi e mezzo dal Polo Nord ‒ considerando la posizione dell'Orsa maggiore o dell'Orsa minore rispetto a essa, e si tracciava sul quadrante la posizione del filo a piombo; poi, con osservazioni successive nelle stesse condizioni, si poteva sapere se ci si trovava effettivamente alla latitudine in questione.
Anche l'introduzione dell'alchimia araba nell'Occidente e la sua successiva diffusione (v. cap. XXIX) contribuirono a dare valore all'arte, nel senso di tecnica, e ad attribuirle possibilità che andavano al di là della semplice imitazione della Natura. La polemica sull'alchimia si sviluppò in rapporto alla posizione di Avicenna, più radicale di quella di Aristotele (Phyisica, 199a), secondo la quale le specie non erano trasformabili, i prodotti artificiali erano considerati inferiori a quelli naturali e l'azione degli artigiani limitata all'imitazione della Natura. Nel De mineralibus Alberto Magno manifestava interesse e simpatia per l'alchimia, che considerava in parallelo con la medicina, e ricorrendo alla sostituzione di una forma specifica con un'altra evitava la questione della non trasformabilità delle specie sostenuta da Avicenna. Conoscendo la Natura, l'arte ne poteva correggere gli accidenti; tuttavia, non essendosi ancora mai visto dell'oro vero ottenuto mediante l'alchimia, Alberto Magno restava dubbioso in proposito. Nel XIII sec. fu elaborata un'interessante teoria delle arti di trasformazione, formulata in particolare nella Summa perfectionis magisterii theorica et practica di Paolo di Taranto, dove le arti pratiche erano divise in due categorie: da un lato, quelle che imprimevano soltanto una forma estrinseca e superficiale, come la scultura o la pittura, e dall'altro quelle che davano una forma intrinseca e sostanziale; in quest'ultimo caso si era in presenza ‒ in agricoltura, in medicina e nell'alchimia ‒ di una vera e propria scienza applicata. Questa intellettualizzazione delle arti di trasformazione riconosceva dunque all'artigiano, alchimista, la possibilità di creare prodotti nuovi. D'altra parte, il ruolo dell'alchimia nella scientia experimentalis per Ruggero Bacone era ancora più rilevante di quello della matematica; all'oro alchemico, considerato superiore a quello naturale, era attribuita la capacità di ristabilire il corpo umano nel suo originale stato di equilibrio. Bacone e Paolo di Taranto avevano una posizione innovativa riguardo alle tecniche di trasformazione associate alle conoscenze scientifiche. Alla fine del XIII sec., tuttavia, si fece strada un atteggiamento sempre più scettico quanto all'onestà di coloro che praticavano l'alchimia. Nel XIV sec., grazie all'opera di Giovanni di Rupescissa, l'alcole, assimilato alla quinta essentia, occupò il cuore dell'alchimia. Questo nuovo orientamento, facendo appello direttamente a Dio, aveva un marcato carattere teologico. Allorché l'attività di laboratorio e la ricerca della perfezione spirituale si svolgevano su due piani paralleli ma interconnessi, si usciva però dal campo della vera relazione tra teoria e pratica.
Nel complesso, come si è detto in precedenza, nel Medioevo la dinamica di ciascuna disciplina era altamente specifica; sarebbe dunque azzardato trarre conclusioni generali sul rapporto fra teoria e pratica. Vi sono tuttavia alcuni punti fermi da evidenziare: innanzi tutto, questo rapporto fu sovente associato all'emergere dell'idea di progresso; un'altra costante fu quella sorta di frontiera socioculturale che separava la scienza universitaria dalle conoscenze pratiche extrauniversitarie, poiché le università erano a un tempo centri di irradiazione culturale e luoghi chiusi in sé stessi. è stato dimostrato magistralmente da Gille (1980) che la tecnica alessandrina non fu bloccata; essa si è fermata da sola perché non aveva più ragioni per progredire. Gli ingegneri del Rinascimento credettero di ricollegarsi direttamente ai meccanici greci; è invece dal Medioevo che ereditarono metodi di calcolo più semplici, fonti di energia rinnovate, un ambiente sociale più dinamico, la ghisa, il sistema biella-manovella e molto altro; secondo una bella formula dovuta a George Sarton, dire che la scienza medievale è stata sterile è come dire che una donna incinta è sterile.
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