La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Scuole, corti e universita
Scuole, corti e università
Come tutti i periodi di risveglio intellettuale, la rinascita culturale del XII sec. fu caratterizzata da un'appassionata attività di ricerca di un sapere e di una conoscenza nuovi e più vasti in contrasto con l'atteggiamento tradizionale. L'unica autorità intellettuale del tempo, la Chiesa, guardava infatti con sospetto alla curiosità scientifica e alle richieste di una maggiore libertà di ricerca. Tentare di penetrare e comprendere il mistero divino era un'insensatezza, se non un atto di superbia. Tuttavia, questo atteggiamento negativo nei confronti della ricerca non impedì all'entusiasmo intellettuale del XII sec. di dare vita, nel campo dell'istruzione, a un dinamismo sino ad allora sconosciuto che permise la fioritura delle scuole capitolari, così come la nascita spontanea e pressoché simultanea, a Parigi, Bologna e Oxford, delle prime università. Le comunità di insegnanti e studenti furono ben presto istituzionalizzate e regolate dalle autorità, come dimostra il caso dello studium di Parigi, che ricevette i suoi primi statuti e regolamenti sin dal 1215.
Le giovani comunità universitarie si proponevano di ottenere il riconoscimento del valore autonomo del lavoro intellettuale, basato sulla ricerca della verità, condotta in piena libertà, e sulla trasmissione disinteressata dei risultati ottenuti attraverso l'insegnamento. Per poter svolgere quest'attività, le comunità universitarie avevano bisogno di risorse finanziarie e materiali che, ancora una volta, le resero dipendenti dai poteri esterni. Tuttavia, le università riuscirono soltanto in parte a conseguire questo obiettivo. Il lavoro intellettuale fu riconosciuto come una professione dotata, non diversamente da tutte le altre, dei suoi strumenti (la ragione e i libri), delle sue tecniche (la Scolastica) e delle sue corporazioni (le facoltà, i collegi e le nazioni). Esso finì inoltre per godere di un grande prestigio, tanto che le università riuscirono a monopolizzare i settori più importanti della ricerca scientifica fino al XVI secolo.
Fino alla metà dell'XI sec. le abbazie furono senza alcun dubbio i centri di cultura più attivi. Tuttavia, la curiosità scientifica e la creatività intellettuale non si conciliavano affatto con gli ideali degli agostiniani e dei benedettini, che infatti le osteggiarono, dando origine a un conflitto che svolse un ruolo di grande rilievo nel corso della rinascita del XII secolo. In seguito al vasto movimento di riforma della vita monastica, le tendenze antintellettuali finirono per prevalere nella maggior parte dei monasteri, che decisero di chiudere le loro scholae externae, frequentate da studenti che non avevano ambizioni monastiche, e di ridurre il numero delle materie insegnate nelle loro scholae internae, eliminando quelle non religiose. L'abbazia di Bec in Normandia e quella di Montecassino, con le loro antiche tradizioni e l'alto livello della loro attività didattica, possono essere considerate un'eccezione a questa regola, come, del resto, la maggior parte delle abbazie del clero regolare, come San Vittore e Santa Genoveffa a Parigi e San Felice a Bologna.
Gli ordini mendicanti occupavano un posto a parte e vennero dopo, in età 'universitaria' (XIII sec.). Nessun membro del clero regolare poteva competere con la grande erudizione dei francescani e soprattutto dei domenicani. Anche in questi ordini, però, il livello superiore di istruzione (gli studia generalia), corrispondente agli studi universitari di teologia ma privo dello ius promovendi (cioè del diritto di promuovere candidati per il conseguimento dei titoli accademici, che si potevano ottenere solamente nelle università), lasciava ben poco spazio agli argomenti non religiosi o non direttamente legati alla religione, e quindi non diede un grande contributo al progresso delle scienze esatte.
Molto diversa era invece la situazione nel campo della filosofia e della teologia. Bisogna ricordare che tutti i grandi eruditi degli ordini mendicanti furono in qualche modo legati alle università. Anche quando la guida della ricerca scientifica fu assunta da altre istituzioni, nei monasteri e nelle abbazie si seguitò a copiare e a collezionare opere scientifiche, bestiari, lapidari ed enciclopedie, come pure opere di autori classici e contemporanei. Le biblioteche delle abbazie continuarono a essere un importante strumento di progresso culturale. I loro cataloghi rivelano chiaramente quali fossero gli interessi e le preferenze degli abati; tra le più celebri raccolte di libri abbaziali occorre ricordare quella creata da Raphael de Marcatellis (1437 ca.-1508), figlio naturale del duca di Borgogna Filippo il Buono. Marcatellis dirigeva l'abbazia benedettina di San Bavone, nella zona di Gand, ed era vescovo di Rhosus. I cataloghi e i sontuosi manoscritti, un tempo appartenuti a questa biblioteca, che ci sono pervenuti dimostrano che l'abate di San Bavone era molto interessato alle opere di scienza naturale dell'Antichità classica, del mondo arabo e dell'Occidente medievale; il Rinascimento era ormai alle porte.
In effetti, l'interesse per la scienza nei monasteri era in parte collegato alla presenza, in tutte queste comunità, di un certo numero di religiosi che, prima di dedicarsi alla vita monastica, avevano studiato per anni nelle università, dove avevano alimentato i loro interessi scientifici e avevano avuto l'opportunità di studiare manoscritti di carattere scientifico. Bisogna inoltre ricordare che in tutti i monasteri operavano alcuni frati medici, che facevano fronte alle necessità interne della comunità.
Le numerose scuole capitolari ebbero sviluppi molto diversi tra loro. I grandi capitoli cattedrali nacquero infatti nell'Alto Medioevo, mentre i primi capitoli collegiati furono fondati solamente nei secc. XI e XII. Le scuole capitolari disponevano di considerevoli risorse finanziarie e materiali, che consentirono, sia ai capitoli sia ai singoli canonici, di raccogliere grandi collezioni di libri. Questa tendenza è direttamente riconducibile all'importanza che i capitoli attribuivano all'istruzione. In effetti, a partire dall'inizio del XIII sec., la maggior parte dei canonici entrati a far parte dei grandi capitoli aveva ricevuto una formazione accademica in una o in diverse facoltà. Per esempio, alla fine del XII sec. circa un quinto dei canonici appartenenti al capitolo di Nostra Signora di Tournai aveva frequentato un corso di studi; in seguito questo numero crebbe fino a raggiungere la percentuale del 67% alla fine del XII sec. e quella del 100% nel XV.
Secondo la regula canonicorum dell'816, tutti i capitoli cattedrali erano obbligati a farsi carico dell'istruzione dei bambini e degli adolescenti che desideravano dedicarsi alla vita religiosa. Il vescovo del capitolo doveva fornire gli edifici destinati all'insegnamento e scegliere un funzionario capitolare, lo scholasticus, a cui era affidato il compito di organizzare i corsi. Secondo il canone 18 del III Concilio del Laterano (1179), gli allievi indigenti dovevano essere istruiti gratuitamente. Molto probabilmente non tutti i capitoli seguirono alla lettera questa direttiva e nella maggior parte dei casi il livello dell'insegnamento risultava piuttosto basso; tuttavia, la presenza di un vescovo, di un maestro, di uno scolastico oppure di un insegnante di grande talento poteva contribuire alla fioritura di una certa scuola capitolare.
Gerberto di Aurillac (940/950-1003), per esempio, che aveva frequentato la celebre Scuola di Vich in Catalogna, modernizzò la Scuola cattedrale di Reims, che, dopo la sua partenza, seguitò a essere considerata importante, senza riuscire, tuttavia, a riacquistare la notorietà raggiunta nel periodo in cui era guidata da Gerberto. Anche la Scuola di Tournai subì una sorte molto simile. Verso il 1086, il capitolo di Tournai richiamò Odo di Orléans da Tours, affidandogli il compito di organizzare una scuola. Ben presto la Scuola capitolare di Tournai iniziò ad attrarre studenti da tutte le regioni dell'Europa cristiana. Secondo quanto si afferma nel Liber de restauratione monasterii S. Martini Tornacensis di Ermanno di Tournai (m. dopo il 1147), Odo, seduto nel cortile antistante la cattedrale, era solito spiegare il corso delle stelle e le posizioni dello Zodiaco a una moltitudine di più di duecento persone. A partire dalla fine del XII sec., però, la Scuola di Tournai non riuscì più a eguagliare la sua antica fama.
La fioritura scientifica delle scuole capitolari ebbe indubbiamente luogo nel corso dei secc. XI e XII; queste scuole furono particolarmente numerose nell'Italia settentrionale e nel territorio compreso tra la Loira e il Reno, con centri come Liegi, Laon, Reims, Orléans, Tours, Chartres e Parigi. Verso il 1200 le scuole capitolari persero la loro posizione di supremazia a favore delle università, limitandosi, a partire da questo momento, all'insegnamento preuniversitario e concentrandosi soprattutto sulle arti del trivium (grammatica, logica e retorica). Gli autori maggiormente utilizzati nello studio delle arti del quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia) furono Euclide, Boezio e Aristotele; la matematica e l'astronomia erano considerate importanti soprattutto perché erano utilizzate per calcolare il calendario liturgico (il cosiddetto 'computo'). Solamente durante il Rinascimento alcune scuole capitolari e un certo numero di scuole laiche di latino, grazie alle esortazioni degli insegnanti umanisti, fornirono per un periodo un livello più alto di insegnamento scientifico, ampliando la gamma delle materie affrontate.
La più importante scuola capitolare del periodo precedente la nascita delle università fu senza alcun dubbio la Scuola di Chartres, fondata verso il 990 da un discepolo di Gerberto, Fulberto (m. 1028); questa scuola raggiunse l'apice della sua fama nel corso del XII sec., richiamando dalle più lontane regioni d'Europa studenti che desideravano studiare sia le arti del trivium sia quelle del quadrivium. Come il suo maestro, Fulberto era molto interessato alle scienze esatte, un'inclinazione decisamente insolita a quei tempi; insegnò grammatica, aritmetica, astronomia e medicina. Un allievo di Fulberto, Berengario (m. 1088), continuò questa tradizione nella Scuola capitolare di Tours. Gli studenti erano attratti dalle lezioni di Berengario soprattutto perché insegnava loro le diverse arti senza tenere conto delle implicazioni teologiche; i corsi della Scuola di Chartres erano quindi già pervasi dallo spirito che animò le prime università. Degno di nota è il fatto che questa Scuola cattedrale non diede origine a un'università, al contrario, per esempio, della Scuola cattedrale di Notre-Dame di Parigi, dove nel XII sec. studiosi come Guglielmo di Champeaux, Abelardo, Pietro Lombardo e Pietro Cantore richiamarono un gran numero di studenti provenienti da regioni vicine e lontane. Questo gruppo di insegnanti e di studenti, insieme a quelli delle scuole pubbliche delle abbazie di Santa Genoveffa e di San Vittore, formarono il primo nucleo dell'università che verso la fine del XII sec. nacque dalla loro associazione spontanea nel Quartiere Latino della capitale francese.
Nell'Alto Medioevo le scuole laiche sopravvissero soltanto in alcune città italiane e, in particolare, a Ravenna, Roma, Bologna e Pavia. Con lo sviluppo delle città, esse assunsero una nuova importanza e iniziarono a diversificare i loro programmi di studio per soddisfare le esigenze di un pubblico composto prevalentemente da mercanti, artigiani e funzionari pubblici. Anche nell'Europa nordoccidentale, e in particolare nelle città che avevano iniziato a svilupparsi sin dalla fine dell'XI sec., furono fondate alcune scuole riservate ai laici. A partire dal XIII e soprattutto dal XIV sec., le scuole di latino delle città entrarono in competizione con le scuole capitolari. Sebbene anche in queste scuole gli insegnamenti impartiti si basassero sulle arti liberali, essi erano volti a scopi più secolari; in altre parole, nelle scuole di latino era concesso più spazio alle materie non direttamente legate alla religione. Le arti del quadrivium erano però poco considerate; soltanto in alcuni rari casi si trovava un insegnante, quasi sempre un medico, che riservava uno spazio maggiore all'insegnamento delle scienze naturali e, spesso, era impegnato personalmente nella ricerca.
In questo periodo, le scuole di latino non furono le uniche rivali delle Facoltà delle arti; le università, infatti, persero il monopolio accademico della scienza anche a favore di altre istituzioni. Tra queste si distinsero le 'accademie', o 'società erudite', che videro la luce in Italia nel corso del XV sec., e che possono essere considerate un fenomeno tipicamente rinascimentale e umanistico.
La Scuola medica di Salerno costituì un caso a parte. In questa città, sin dall'XI sec. esisteva una scuola medica aperta a studenti religiosi e laici, sia uomini sia donne; gli insegnamenti impartiti erano orali, informali e interamente basati sulla pratica. Grazie alle relazioni intellettuali che legavano ancora l'Italia meridionale al mondo arabo e greco, e soprattutto grazie alle traduzioni latine di Costantino l'Africano (1015 ca.-1087 ca.), che aveva studiato a Montecassino, e agli autori classici, bizantini e arabi, di opere mediche, la medicina salernitana acquisì una fama straordinaria per l'epoca. Questi interessi di carattere teorico e pratico diedero origine a una raccolta di opuscoli medici, intitolata Articella (v. cap. XXVI) che nel Medioevo fu utilizzata come libro di testo nelle Facoltà mediche di tutta la penisola e persino a Montpellier.
Questa combinazione di teoria e pratica esercitò un'influenza molto positiva sull'attività delle Facoltà mediche dell'Italia settentrionale, che guidarono la ricerca europea sino alla fine del XVI secolo. Nel corso della sua fioritura, tra i secc. XI e XII, la Scuola medica di Salerno non assunse una struttura formale. Al contrario di quanto si era verificato a Parigi e a Bologna, dove le Facoltà mediche erano nate da scuole specializzate e avanzate, la Scuola di Salerno acquisì lo status ufficiale di studium generale, necessario alla concessione delle lauree, solamente alla fine del XIII secolo. La Scuola medica di Montpellier conobbe un'evoluzione simile che, tuttavia, non fu coronata dallo stesso successo. Già all'inizio del XII sec., in questa città esisteva una scuola che dispensava in modo piuttosto informale insegnamenti medici. La regione di Montpellier era influenzata da diverse culture, in particolare da quella ebraica, greca e araba. Sin dal 1181, il conte Guglielmo aveva assicurato un compenso a chiunque fosse stato disposto a insegnare medicina a Montpellier. I primi statuti dell'università medica risalgono al 1220.
Non tutte le comunità di insegnanti e studenti si trasformarono in vere e proprie corporazioni o universitates. Secondo una lettera redatta verso il 1253 da papa Innocenzo IV, per fondare un'università erano necessari due elementi: in primo luogo, doveva esistere il volere comune di trasformare una comunità in un'associazione e, in secondo luogo, questa associazione doveva essere ufficialmente riconosciuta dalle autorità. Tali precisazioni suggeriscono l'esistenza di conflitti e incertezze riguardo alla natura e al riconoscimento delle corporazioni accademiche.
Come tutte le corporazioni medievali, le comunità universitarie impiegavano una loro terminologia, occupavano una precisa posizione nella pianta delle città, adottavano sigilli, armi e insegne, avevano i loro statuti e la loro contabilità interna, eleggevano i membri delle loro amministrazioni, organizzavano incontri collettivi, come pure cerimonie religiose e secolari (per es., messe, banchetti e processioni), disponevano di fondi di solidarietà e godevano di privilegi. Anche gli scopi che le corporazioni universitarie si prefiggevano non erano particolarmente originali; esse infatti si proponevano di organizzare il lavoro, di garantire la mutua assistenza e la difesa collettiva contro i nemici esterni (la popolazione urbana, i rappresentanti del potere, ecc.), e di acquisire il monopolio delle attività professionali (attraverso l'insegnamento di alcune discipline e la concessione delle lauree). Per difendere i propri interessi, le università disponevano di armi molto efficaci, vale a dire di un'ampia gamma di diritti e privilegi, come pure del favore delle più alte autorità, che non fecero mancare il loro sostegno.
Secondo la Chiesa l'istruzione superiore doveva essere volta a scopi esclusivamente religiosi, se non ecclesiastici. Lo studium generale doveva formare una classe di ecclesiastici istruiti, in grado di aiutare la Chiesa a creare e a sviluppare un apparato burocratico universale e a far fronte ai suoi doveri liturgici e pastorali. Per queste ragioni i papi non soltanto protessero e favorirono l'istruzione superiore ma, richiamandosi ai modelli istituzionali già esistenti, fondarono a loro volta nuove università il cui scopo principale era la difesa dell'ortodossia. Nel 1229, con il Trattato di Meaux, papa Gregorio IX indusse il conte di Tolosa a fondare un'università per formare funzionari ortodossi da impiegare nella lotta contro i catari, scontrandosi apertamente con l'ostinata resistenza della popolazione locale. L'Università di Tolosa, infatti, iniziò a funzionare a pieno ritmo soltanto negli anni Sessanta del XIII sec., dopo aver abbandonato i suoi propositi di proselitismo, grazie a una Facoltà giuridica frequentata dalle élites locali.
Risulta chiaro quindi che le autorità ecclesiastiche controllavano con molta attenzione le attività e le pubblicazioni delle università. Nel corso del XIII sec. i papi si mostrarono piuttosto tolleranti, in base alla convinzione che le 'modernità' elaborate dalle università potessero rivelarsi utili alla Chiesa; si riteneva infatti che il confronto tra la teologia cristiana e le scienze profane dell'Antichità classica, conosciute in Occidente grazie soprattutto alle traduzioni e ai commenti arabi, avrebbe messo ordine nell'informe massa delle conoscenze e permesso di chiarire le apparenti contraddizioni dei testi sacri. Tuttavia, dal punto di vista di Roma il coraggio intellettuale e la fiducia dichiarata dei teologi, dei filosofi e dei giuristi erano alla base di ogni sorta di dichiarazioni e asserzioni eretiche. Nell'ultimo quarto del XIII sec., dopo l'aspro conflitto tra il sacerdotium e lo studium di Parigi ‒ che vide almeno in parte soccombere l'università ‒, le autorità ecclesiastiche assunsero un atteggiamento più rigoroso e iniziarono a esercitare un maggiore controllo sul contenuto delle materie d'insegnamento e sulle produzioni scientifiche.
In seguito, le università iniziarono progressivamente a subire non tanto l'influenza della Chiesa, quanto quella delle autorità secolari; in una certa misura, esse rinunciarono alla loro autonomia in cambio della protezione politica e burocratica dei loro ex alumni. Le personalità più in vista dell'epoca, papi e vescovi, imperatori, re e principi, magistrati delle città e ricchi borghesi, iniziarono ben presto a utilizzare queste istituzioni e a disporne ai propri fini. I prodotti intellettuali e scientifici delle università erano considerati armi estremamente efficaci nella lotta per il potere; i re francesi, per esempio, si avvalsero di mezzi molto diversi da quelli utilizzati dalla Chiesa per estendere la loro influenza in campo accademico. Benché non possa essere loro attribuita la fondazione di nessuna vera università, i sovrani francesi intervennero energicamente negli affari interni delle università che si trovavano nella loro giurisdizione. Questa linea di condotta era determinata sia dalle esigenze della lotta contro il papato ‒ come dimostra, per esempio, il conflitto che verso il 1300 oppose Filippo IV il Bello a Bonifacio VIII ‒ sia dalla crescente centralizzazione e burocratizzazione del regno di Francia. In questa azione i sovrani francesi trovarono un valido sostegno negli alumni delle Facoltà giuridiche francesi, e in particolare in quelli che si erano formati presso la prestigiosa Scuola di Orléans.
A poco a poco, e non soltanto in Francia, le università persero la loro autonomia e la loro libertà accademica si trovò a essere gravemente limitata. I membri delle comunità accademiche si resero ben presto conto della gravità della situazione, ma non ebbero né la volontà né la capacità di reagire. In realtà, la perdita della libertà e dell'autonomia accademica era in parte il risultato della loro condotta.
In altri paesi i sovrani parteciparono attivamente alla fondazione degli studia generalia. Alfonso VIII, che regnò sulla Castiglia dal 1212 al 1214, invitò magistri parigini e bolognesi a insegnare presso la Scuola cattedrale di Palencia, concedendo loro un compenso fisso. Questa scuola, in realtà, non era una vera e propria università dotata di un formale atto costitutivo, e non era neppure riconosciuta dal papa come studium generale, tanto che verso il 1250 cessò la sua attività. Lo studium di Salamanca, creato da Alfonso IX di León, sembrava destinato alla stessa sorte, ma nel 1243, grazie all'intervento di Ferdinando III, re di Castiglia e León, questa istituzione ricevette un vero atto costitutivo, riconosciuto nel 1255 dal papa Alessandro VI, che le consentì di svilupparsi fino a conoscere una splendida fioritura. Molte altre università, fondate in questo periodo in Europa, conobbero la stessa evoluzione; alcuni studia generalia, nati per iniziativa dei principi secolari, ottennero successivamente la ratifica papale, che conferì loro una maggiore autorevolezza e il diritto al riconoscimento universale del valore della loro attività.
Il primo esempio di una ben definita politica accademica reale è quello rappresentato dalla fondazione dell'Università di Napoli, che può essere considerata a ragione la prima università 'statale'. Nell'atto costitutivo di questa istituzione, redatto nel 1224, l'imperatore Federico II specificò le ragioni di questa iniziativa e i suoi modi di attuazione; nel quadro della politica imperiale antiguelfa e antipapale, la nuova università avrebbe dovuto contrastare l'influenza dell'Università di Bologna, dichiaratamente guelfa e favorevole al papa. In effetti, sin dalla fine dell'XI sec. essa era stata il più importante centro europeo di formazione giuridica (diritto romano e diritto canonico), richiamando un gran numero di sudditi tedeschi e italiani di Federico II. Il sovrano intendeva fare dell'Università di Napoli il centro accademico più prestigioso del suo impero, mettendo in discussione il primato dell'Università di Bologna.
Egli era anche convinto che la conservazione del potere reale nell'Italia meridionale dipendesse dallo sviluppo di un'amministrazione strettamente legata alla persona del sovrano e fortemente centralizzata e gerarchica, che si avvalesse di funzionari competenti, leali e operosi. Per questo motivo, nell'organizzazione della nuova università, oltre ad alcuni elementi tradizionali Federico introdusse diverse innovazioni e, soprattutto, adottò un certo numero di provvedimenti per scongiurare l'insuccesso della fondazione. Così, proibì ai suoi sudditi siciliani di studiare in altre università, attraverso un complesso di atti legislativi proibitivi ‒ in seguito presi a modello da molti altri fondatori e protettori di università ‒ e reclutò un gran numero di illustri insegnanti e scienziati. In realtà, le ambizioni di Federico II non si limitavano alla creazione di un centro di formazione destinato al personale amministrativo. Egli intendeva dar vita a un grande centro intellettuale in grado di sostenere le sue aspirazioni imperiali e scientifiche con le sue risorse legali e il suo prestigio intellettuale.
Tuttavia, dopo la morte del suo fondatore, l'università incontrò gravi difficoltà, anche a causa della difficile situazione politica venutasi a creare tra i successori di Federico. Solamente con l'amministrazione angioina (1266-1435) e grazie al sostegno e all'aiuto del papa Clemente IV (1265-1268) e dei suoi successori, l'Università di Napoli riprese a svolgere un'attività regolare e, come molte altre università, divenne un piccolo centro accademico regionale destinato alla formazione delle élites locali.
Nonostante le restrizioni imposte dalle autorità ecclesiastiche e secolari, le università diventarono i centri culturali più attivi dell'epoca e consentirono agli studiosi di dedicarsi alla ricerca senza subire eccessivi controlli. Durante il XIII sec., si definì anche il profilo delle discipline insegnate nelle università europee, che nel corso del Medioevo non subì nessuna variazione e fino all'inizio dell'Età moderna registrò soltanto alcuni cambiamenti minori. La ripartizione in facoltà, direttamente riconducibile al numero predefinito delle discipline, rimase immutata fino alla fine dell'Ancien Régime, ostacolando con la sua rigidità i tentativi d'introdurre nuove discipline. Furono gli stessi insegnanti ad assumere alcune iniziative destinate ad aggirare questi ostacoli. Il canone dei testi su cui dovevano basarsi le lezioni o lectiones era rigorosamente prestabilito. Le dispute, gli esercizi e i privatissima offrivano invece una gamma piuttosto ampia di opportunità agli insegnanti che desideravano indicare nuove prospettive agli studenti. I docenti, inoltre, godevano di una maggiore libertà nella stesura delle loro pubblicazioni, che, tuttavia, non sfuggivano del tutto al controllo delle autorità.
A partire dalla fine del XIV sec. s'impose l'idea secondo cui una vera università, o studium generale, dovesse includere le quattro facoltà tradizionali: arti, teologia, legge (diritto canonico e civile talora avevano organizzazioni distinte) e medicina. L'elenco delle discipline insegnate in queste Facoltà risaliva alla classificazione del sapere definita nell'Antichità e adottata dagli autori del XII sec. attraverso la mediazione dei Padri della Chiesa. In realtà, questa classificazione si riferiva all'intera gamma del sapere definita in relazione alla cultura adatta alle persone istruite di condizione libera, le artes liberales. Al contrario, erano escluse le 'arti meccaniche', legate alla cultura dei lavoratori manuali ‒ cioè di coloro che lavoravano con le proprie mani ‒, e tutte le scienze in qualche modo connesse al guadagno economico, come, per esempio, il commercio.
Le discipline universitarie erano organizzate secondo una precisa gerarchia. Si riteneva che le meno importanti fossero le artes liberales, insegnate nella cosiddetta 'Facoltà inferiore', quella delle arti. Le sette arti liberali ‒ le tre del trivium e le quattro del quadrivium ‒ non erano considerate discipline autonome, ma insegnamenti introduttivi alle tre 'Facoltà superiori' (diritto, medicina, teologia); ciò significa che, riguardo alla forma e al contenuto, esse dovevano essere adattate alle necessità e alle esigenze dei teologi, dei giuristi e dei medici. Naturalmente, gli insegnanti delle Facoltà delle arti, che non accettavano questa concezione, trattarono e studiarono le proprie discipline come distinti campi del sapere; questo atteggiamento provocò alcune tensioni, soprattutto con la regina delle scienze, la teologia.
Con il diritto e la medicina la conflittualità si rivelò meno aspra. Nel corso del XIII sec. queste due aree del sapere riuscirono a rafforzare la loro posizione nelle università, probabilmente grazie al successo riscosso tra i giovani più ambiziosi, i quali ritenevano che lo studio del diritto e, subito dopo, quello della medicina consentissero d'intraprendere professioni molto redditizie. A ben guardare, queste due discipline non erano legate dagli stessi rapporti alla Facoltà delle arti. Molti studenti di diritto ignoravano del tutto la Facoltà delle arti o si limitavano a seguirne i corsi considerati più utili per i loro studi. Nel caso della medicina la situazione era ancora diversa. Dato che l'istruzione preuniversitaria non affrontava in modo esauriente le discipline del quadrivium, gli insegnamenti universitari impartiti nella Facoltà delle arti erano considerati fondamentali per coloro che desideravano dedicarsi allo studio della medicina; inoltre, poiché l'insegnamento medico universitario era concepito su basi teoriche, si riteneva che gli aspiranti medici non potessero fare a meno di frequentare la Facoltà delle arti, dove si studiavano a fondo la filosofia della Natura di Aristotele e la dottrina cristiana. In Italia lo stretto legame tra le arti e la medicina era istituzionalizzato, nel senso che il loro insegnamento era organizzato da un'unica università ('facoltà' era l'ambito disciplinare in cui si conseguiva il titolo). Il diritto, invece, era insegnato in un'altra universitas, come, del resto, la teologia, che fu introdotta nelle università dell'Italia settentrionale soltanto nel XIV sec.; questa disciplina, che era interamente gestita dagli ordini mendicanti, occupava una posizione a parte nell'ambito dello studium generale.
La diffusa concezione secondo cui gli studenti erano obbligati a completare il corso di studi introduttivo della Facoltà delle arti, e a divenire magistri artium prima di potersi iscrivere a una delle Facoltà superiori, non ha alcun fondamento. Gli statuti delle Facoltà superiori, infatti, si limitavano a imporre la frequenza della Facoltà delle arti ai membri del clero secolare che desideravano dedicarsi allo studio della teologia. Tuttavia, questa condizione non era applicabile ai membri del clero regolare che avevano ricevuto un'eccellente preparazione presso le scuole dei loro ordini. In effetti, negli statuti delle Facoltà di diritto non si faceva alcun riferimento all'obbligo di frequentare un corso di studi introduttivo; tutt'al più, ci si limitava a concedere ai maestri delle arti liberali il diritto a una riduzione del periodo degli studi. La situazione nelle Facoltà di medicina era in parte diversa. Qui, infatti, il diritto a una riduzione del periodo degli studi dei maestri delle arti era previsto in molti statuti; inoltre, per iscriversi a molte Facoltà di medicina era necessario aver frequentato il corso di studi della Facoltà delle arti, e furono soprattutto queste ultime a richiedere l'obbligatorietà dei loro corsi introduttivi.
In teoria, un'istituzione poteva essere definita studium generale soltanto se includeva le quattro facoltà e se concedeva lauree universalmente riconosciute; in realtà, vi era un gran numero di università 'incomplete'. Inizialmente, l'autorizzazione all'insegnamento della teologia fu concessa solamente alle Università di Parigi, Oxford e Cambridge; soltanto verso la metà del XIII sec. gli altri studia iniziarono a ospitare Facoltà di teologia. All'Università di Orléans s'insegnava unicamente diritto romano (o civile) e diritto canonico, e a Parigi il corso di diritto romano fu soppresso nel 1219. In molte piccole università dell'Europa nordoccidentale l'esistenza delle Facoltà di medicina era puramente formale, in conseguenza della scarsità di studenti e insegnanti.
La distribuzione degli studenti nelle facoltà e soprattutto lo status e l'importanza delle discipline insegnate variavano da una regione all'altra. In generale, si può affermare che le università che si trovavano a nord delle Alpi disponevano di grandi e influenti Facoltà delle arti dove si attribuiva una grande importanza alle arti del trivium, e che le università più grandi e influenti erano dominate dalle Facoltà di teologia. Negli studia francesi, invece, occupavano una posizione di primo piano il diritto romano e il diritto canonico; le università del Sacro Romano Impero, infatti, iniziarono a promuovere lo sviluppo degli studi giuridici soltanto alla fine del XV secolo. Nelle regioni mediterranee (Italia, Francia meridionale e Penisola Iberica), dominavano le Facoltà di diritto e di medicina, queste ultime particolarmente importanti nell'Italia settentrionale, a Montpellier e, in una certa misura, anche a Parigi.
Grazie agli statuti delle università e delle facoltà, e agli appunti degli studenti e degli insegnanti, siamo ben informati sui metodi di insegnamento adottati nelle università medievali (v. anche cap. XV). La metodologia e la didattica dell'istruzione universitaria erano le stesse in tutte le discipline e in tutte le istituzioni, e seguitarono a essere adottate fino alla fine dell'Ancien Régime, nonostante le esortazioni degli umanisti, i quali auspicavano un cambiamento radicale dei metodi didattici.
Gli insegnamenti, impartiti oralmente, si basavano sull'esame dei testi, che gli studenti memorizzavano apprendendo un'arte specifica (ars memorandi), i principî generali della quale, enunciati nei trattati antichi, furono ulteriormente sviluppati nel corso di tutto il Medioevo; essi si basavano sulla tecnica d'imprimere luoghi (loci) e immagini (imagines) nella memoria, ricorrendo a diversi generi di strumenti mnemotecnici. L'insegnamento era incentrato sui testi considerati sacri, la cui autorità non poteva essere messa in discussione. Per ciascuna disciplina furono scelti alcuni testi di riferimento, all'interno dei quali gli studiosi medievali individuarono alcune discordanze di opinioni nonché contraddizioni, che tentarono di risolvere attraverso il metodo scolastico dell'argomentazione favorevole o contraria.
Il più importante elemento didattico era la lectio. Le lectiones ordinariae erano lette dai magistri o professores ordinarii nel corso delle mattine dei dies legibiles. L'ordinarius leggeva e spiegava in modo sistematico i principali testi relativi a una certa materia, le cosiddette 'autorità', che in seguito erano discusse nei dettagli. Le lectiones extraordinariae erano invece tenute dai professores extraordinarii o baccalarii e avevano luogo nei pomeriggi dei dies legibiles o in altri giorni. Le lezioni straordinarie erano imperniate sui brani meno importanti dei testi e potevano assumere la forma di repetitiones. Durante una ripetizione, il contenuto di una parte del testo era spiegato dettagliatamente ed esaminato in relazione ai problemi a esso connessi.
La struttura di una lectio o lezione era rigorosamente definita. In primo luogo, era offerta una breve descrizione dell'autore e della sua opera, quindi si leggeva, un capitolo alla volta, il testo, che gli studenti dovevano memorizzare (soltanto in alcuni rari casi annotavano il contenuto delle lezioni). Tuttavia, circolavano anche versioni scritte delle lezioni e delle dispute, pubblicate dai professori o dagli studenti e basate sugli appunti presi durante le lezioni. Le glosse interlineari e marginali, come pure i modelli di divisione testuale dei manoscritti, possono essere considerati prove documentarie del modo di procedere nelle lezioni.
Durante la lezione, l'insegnante analizzava ogni genere di problema connesso al contenuto del testo preso in esame, indicava le contraddizioni delle autorità e i passaggi apparentemente illogici, sollevando così ogni sorta di quaestiones, che erano sottoposte alla discussione. Nel corso del XIII sec. le quaestiones costituirono una materia a parte. Durante le dispute si affrontavano problemi di diverso genere attraverso il metodo dell'argomentazione favorevole o contraria; le dispute costituivano quindi un'introduzione estremamente efficace al metodo scolastico, l'elemento su cui si imperniava la pedagogia scolastica, e non soltanto consentivano agli studenti di comprendere il contenuto del testo, di seguire il corso del pensiero dell'autore, ma insegnavano loro a ordinare i propri pensieri e a esprimerli oralmente. La disputa era considerata un modello ideale di ragionamento, di argomentazione e di persuasione; tuttavia, poiché molto spesso il virtuosismo dialettico prevaleva sulla discussione del contenuto, le dispute tendevano a degenerare in esercizi di pura retorica. A partire dalla metà del XIV sec., la credibilità delle dispute come metodo pedagogico declinò, fino a essere negata dagli umanisti.
Dal momento che la via di trasmissione del sapere era esclusivamente quella orale, gli esercizi di ripetizione (repetitiones) divennero indispensabili e a essi ci si dedicava durante le lezioni o in corsi privati tenuti da studenti più anziani; questa forma d'insegnamento guidato era più apprezzata dagli studenti rispetto alle lezioni impartite ex cathedra. A partire dalla fine del XV sec., le ripetizioni e le altre forme d'insegnamento privato (privatissima) seguitarono a guadagnare terreno a svantaggio delle lezioni universitarie, sempre meno frequentate, anche a causa della crescente disponibilità di versioni stampate del materiale d'insegnamento. Anche i collegi sfruttarono questo fenomeno; tali istituzioni, infatti, iniziarono a poco a poco a rilevare gran parte degli insegnamenti delle Facoltà delle arti, tanto che gli studenti finirono per recarsi all'università solamente per sostenere gli esami. Nelle Facoltà superiori, invece, l'insegnamento rimase maggiormente legato all'istituzione universitaria, sebbene anche in questi casi il fenomeno dei privatissima fosse molto diffuso.
La conduzione degli esami e la concessione delle lauree rimasero monopolio delle facoltà, o piuttosto dei collegia doctorum; la licentia (ubique) docendi, ossia l'abilitazione all'insegnamento, fu indissolubilmente legata alla nascita delle università. L'esame dei candidati che desideravano ottenere la licentia docendi era il risultato di una disposizione del papa Alessandro III che, con la Bolla del 1179, aveva prescritto di verificare l'idoneità di coloro che desideravano dedicarsi all'insegnamento. Erano previsti tre livelli di valutazione; dopo il superamento di una prova iniziale, in gran parte basata sulle conoscenze teoriche, si otteneva il baccellierato; subito dopo bisognava affrontare alcune prove relative alla teoria della materia da insegnare e offrire una dimostrazione dell'abilità di argomentazione, e ciò conduceva alla laurea. L'acquisizione dello status di maestro, o 'dottorato', si otteneva attraverso un procedimento puramente formale e soprattutto molto dispendioso. Il nuovo dottore riceveva, come insignia della sua dignità, il berretto (birretatio), l'anello e il 'testo' della facoltà (qual era l'Articella della Scuola di Salerno).
Le tasse che gli studenti dovevano pagare per sostenere l'esame variavano considerevolmente a seconda delle università, delle discipline e del livello degli esami. Gli studenti erano ben informati sui costi, che erano un fattore tutt'altro che secondario nella scelta di un diploma universitario. Naturalmente, essi conoscevano molto bene anche quali fossero le università più difficili e impegnative, quali gli studia più facili e accessibili, e quali le istituzioni socialmente più prestigiose o che godevano di una migliore reputazione accademica.
A partire dal XIV e soprattutto dal XVI sec., con l'aumento del numero delle lauree, gli studenti iniziarono a operare una distinzione tra l'università degli studi, dove seguivano le lezioni e ottenevano i certificati di frequenza, e l'università in cui si conseguivano le lauree, dove sostenevano gli esami e si laureavano. Grazie all'adozione della stessa lingua, il latino, alla sostanziale identità dei curricula e all'universale validità dei diplomi, gli studenti potevano circolare liberamente in tutta l'Europa accademica. La durata del corso di studi della Facoltà delle arti variava in modo considerevole da un'università all'altra. In origine, nelle Università di Parigi e di Oxford per questo corso di studi era prevista una durata di sette anni, in seguito ridotti a cinque o a quattro, a seconda del livello di preparazione dei nuovi iscritti. Nel XIV, nel XV e persino nel XVI sec. un nuovo iscritto (novicius), che avesse acquisito una discreta conoscenza degli elementi del latino durante i suoi studi preuniversitari, si limitava a seguire le lectiones dedicate ai problemi di logica del trivium per un periodo variabile da sei mesi a due anni.
In questo ambito i principali autori di riferimento erano Aristotele (ars vetus e ars nova), Pietro Ispano (1210-1277) e Giovanni Buridano (1290 ca.-1358 ca.). Gli studenti più giovani ‒ che potevano avere un'età compresa tra i nove e i quattordici anni ‒ non erano sufficientemente preparati ed erano quindi obbligati a seguire lezioni di grammatica latina fino a raggiungere il livello richiesto, previsto dal Doctrinale di Alessandro di Villedieu o da altri testi analoghi.
Per la determinatio ‒ un'esercitazione, prevista soltanto nel corso di studi delle arti, che bisognava affrontare prima del baccellierato ‒ lo studente doveva risolvere un certo numero di questioni filosofiche nel corso di una pubblica disputa. Dopo la determinatio aveva luogo l'inceptio, vale a dire l'ammissione dello studente nel circolo dei baccellieri. Lo stesso esame di baccellierato si svolgeva un anno dopo la determinatio e poteva essere sostenuto soltanto dagli studenti che avevano compiuto quattordici anni. Il baccalaureus poteva tenere lezioni straordinarie e per prepararsi a sostenere l'esame di laurea era obbligato a partecipare attivamente alle dispute. Egli, inoltre, doveva seguire le lezioni di filosofia della Natura e quelle relative ad alcune materie del quadrivium per due anni. Il corso che conduceva alla laurea era dominato dalle opere di Aristotele sulla filosofia della Natura. Soltanto un piccolo gruppo di autori di opere scientifiche ‒ come Euclide, Boezio, Giovanni di Sacrobosco (attivo nel 1230) e Giovanni Peckham (1240 ca.-1292) ‒ figuravano nel curriculum di tutte le università. Durante il XVI sec. molte università sostituirono gli autori medievali con autori umanisti, ma questo esempio non fu seguito da tutte le istituzioni accademiche.
L'esame di laurea non poteva essere sostenuto prima che fossero trascorsi due anni dal baccellierato. Il magisterium, o dottorato, che poteva essere affrontato solamente allo scadere dell'anno successivo alla laurea, prevedeva una cerimonia accademica durante la quale il doctorandus, dopo essere stato ammesso nel gruppo dei magistri (inceptio), doveva condurre una disputa e tenere una lezione pubblica basata su un gruppo predefinito di libri (libri formales). Dopo l'inceptio, il candidato diveniva ufficialmente un magister (doctor) artium.
Nel Tardo Medioevo, il completamento del corso di studi in medicina richiedeva all'incirca sei anni, dei quali due o tre anni per conseguire il baccellierato e altri tre o quattro per giungere alla laurea. Nelle università che si richiamavano al modello di Parigi, i nuovi iscritti alla Facoltà di medicina dovevano frequentare per tre anni prima di essere ammessi al baccellierato; questo periodo poteva ridursi a due anni per coloro che si erano già laureati presso la Facoltà delle arti. Quindi, per giungere alla laurea, il candidato doveva frequentare per altri due anni, tenere a sua volta lezioni di teoria e pratica medica, e recarsi a visitare i malati con il suo magister, dedicandosi a quella che era chiamata practica. A Parigi il conseguimento del dottorato coincideva con l'ammissione nel Collegium doctorum (inceptio) e con l'acquisizione del diritto di insegnare all'università. Non si poteva diventare dottori in medicina prima che fossero trascorsi sei mesi dalla laurea o senza essersi dedicati all'esperienza pratica per almeno due estati nella provincia o per due anni a Parigi. Per finire, il candidato doveva sostenere due solenni dispute sulla base di una tesi.
Lo studio della medicina si basava su un corpus ben definito di testi antichi, integrati e commentati dagli studiosi arabi. Le autorità più importanti di questo corpus erano Ippocrate, Galeno, Avicenna e Averroè. Nelle Facoltà di medicina italiane e in quella di Montpellier era impiegata anche l'Articella salernitana. Sin dall'inizio del XIV sec., negli studia italiani di Bologna e di Padova erano eseguite dissezioni almeno una volta l'anno, mentre a nord delle Alpi tale pratica non fu introdotta nel curriculum fino all'inizio del XVI secolo. In Italia era più avanzata anche l'istruzione clinica. Soltanto alla fine del XVI sec., e soprattutto durante il XVII, le università dell'Europa nordoccidentale riguadagnarono il tempo perduto nel campo dell'istruzione medica, grazie anche alla presenza di insegnanti che avevano studiato nelle università dell'Italia settentrionale.
Oltre alle scuole e alle università, nel Medioevo esistevano altri centri di attività accademica e di trasmissione del sapere, vale a dire le corti secolari e quelle ecclesiastiche. Esistevano corti delle più svariate forme e dimensioni: la corte papale, la corte imperiale, le diverse corti reali, le numerose corti principesche del Sacro Romano Impero e della penisola italiana, ma anche un gran numero di corti legate a cardinali, vescovi e prelati. Infatti, era consuetudine dei principi circondarsi di esperti militari, ingegneri, architetti, eruditi, politici, diplomatici, giuristi, religiosi, segretari, artisti, medici, chirurghi e servi.
Le corti iniziarono a divenire centri di attività didattiche, artistiche e intellettuali sin dall'Alto Medioevo. A partire dall'VIII sec., infatti, i concili incoraggiarono i re e i vescovi a trasformare le loro residenze in scholae destinate alla formazione di valorosi soldati di Cristo. Ciò naturalmente significava subordinare la trasmissione del sapere ai principî della fede cristiana ortodossa, secondo la convinzione che la conoscenza di questi ultimi fosse indispensabile a una società ben ordinata e giusta. In effetti, per i vescovi queste direttive non costituivano affatto un problema; molti di loro, infatti, avevano ricevuto un'eccellente istruzione e alcuni erano personalmente impegnati nella ricerca scientifica. Tra i principi laici, i primi a mostrare interessi intellettuali e scientifici furono i Carolingi (750-850) e gli Ottoniani (X sec.).
Nell'età carolingia si manifestò un forte ritorno d'interesse per i fenomeni naturali. Ben undici lettere di Alcuino sono dedicate a questioni poste da Carlo Magno relative all'aritmetica, all'astronomia e alla cosmografia. Lo stesso imperatore ordinò di disegnare mappe del Cosmo, della Terra, dei pianeti e delle stelle, e pretese esaurienti spiegazioni sulle eclissi, sulle comete, e sui più diversi fenomeni astronomici. In realtà, l'interesse per l'astronomia era in qualche maniera legato all'idea stessa di monarchia; si riteneva infatti che per governare il mondo fosse necessario penetrarne i segreti. Al contrario dei sovrani orientali, Carlo Magno non mostrò alcun interesse per l'astrologia, mentre i suoi architetti erano molto interessati alla geometria e conoscevano il De architectura di Vitruvio.
Tra il 1075 e il 1125, quando la Cristianità occidentale riacquistò il controllo delle regioni europee che avevano subito l'influenza dell'Islam, l'Occidente entrò nuovamente in contatto con le scienze greche. Poiché nelle scuole le scienze naturali erano quasi del tutto trascurate, le traduzioni dei testi scientifici greci furono studiate soprattutto da coloro che operavano al di fuori delle scuole, ai margini o all'interno delle corti dei principi e dei vescovi. Gli scopritori, i traduttori e gli autori dei nuovi testi viaggiarono attraverso tutta l'Europa, e furono reclutati per insegnare, calcolare oroscopi, fare predizioni, praticare la medicina ed eseguire nuovi calcoli matematici. In questi centri essi poterono effettuare le osservazioni necessarie alla conduzione delle loro ricerche.
L'importanza assunta da questi scienziati itineranti è riconducibile al livello di istruzione sempre più elevato raggiunto nel corso della rinascita del XII sec. dai sovrani e dai principi; non a caso, in questo secolo la massima Rex illiteratus asinus coronatus era molto diffusa, soprattutto in Inghilterra. Infatti i sovrani francesi e inglesi, così come i loro vassalli, diedero abitualmente prova di una buona conoscenza del latino, mentre il grado d'istruzione della piccola nobiltà era meno elevato. Anche nel Sacro Romano Impero i re e i principi dovevano saper leggere e scrivere, ma non sempre conoscevano il latino, mentre la piccola nobiltà sfuggiva in gran parte a questa regola; fino alla fine del XII sec. la maggior parte dei nobili tedeschi diede prova di una completa mancanza d'istruzione. Ciò non significa però che gli imperatori tedeschi fossero degli illetterati o che non fossero inclini a circondarsi di persone istruite. Verso la metà del XII sec., per esempio, l'imperatore Federico I ordinò al vescovo di Salisburgo d'inviare un canonico presso le scuole francesi per apprendere nozioni che in seguito si sarebbero rivelate molto utili alla sua corte.
Coloro che entravano a far parte di una corte acquisivano diversi vantaggi; le corti, infatti, come la Chiesa e le università, avevano le proprie giurisdizioni e i loro membri godevano di vari privilegi, in particolare dell'immunità, una sorta di status diplomatico. L'importanza culturale delle corti era considerevole; il loro ruolo civilizzatore è stato messo in luce da diversi storici, tra cui va segnalato Norbert Elias. Spesso i cortigiani operavano come arbitri delle questioni intellettuali e culturali discusse nel territorio soggetto all'influenza della corte, elaboravano nuovi modi di espressione e definivano le regole dell'etichetta e delle mode. Questi centri fornirono anche un'occupazione a molti artisti, poeti e studiosi, grazie a un complicato sistema di mecenatismo che prevedeva sia la loro partecipazione alla vita di corte sia l'acquisto di manoscritti e opere d'arte per le biblioteche, i gabinetti e le gallerie dei prìncipi.
Le corti ecclesiastiche dei papi e dei vescovi, come pure le corti delle grandi abbazie, tra cui emergeva in particolare quella di Montecassino, svolsero un ruolo di grande importanza nella diffusione della scienza greca e araba. Molti ecclesiastici, infatti, non soltanto protessero e incoraggiarono gli studiosi o crearono e organizzarono grandi biblioteche, ma spesso si distinsero, soprattutto nel corso dell'Alto Medioevo, per il loro personale impegno nel campo della ricerca scientifica. Grazie ai loro continui spostamenti e ai loro scambi epistolari, essi contribuirono tanto alla legittimazione quanto alla divulgazione delle nuove scienze. Gli esempi da citare potrebbero essere numerosi. Il vescovo di Salerno, Alfano, che dopo aver studiato presso l'abbazia di Montecassino visse a Costantinopoli, si dedicò allo studio della medicina, eseguì lui stesso diverse traduzioni di testi greci e incoraggiò l'opera di traduzione intrapresa da Costantino l'Africano a Montecassino. Gli arcivescovi di Toledo appoggiarono favorevolmente l'opera di traduzione dei testi arabi sin dalla metà del XII secolo. Tra questi bisogna menzionare l'arcivescovo Rodrigo Jiménez de Rada, un insigne erudito che aveva una buona conoscenza della lingua araba. Nella Scuola di traduzione di Toledo, che richiamò studiosi di fama internazionale, lavorarono fianco a fianco studiosi arabi, ebrei e cristiani; anche la Sicilia vide un grande sviluppo dell'arte della traduzione.
A partire dal 1340, l'atmosfera della corte papale e soprattutto l'atteggiamento dei cardinali cambiarono. L'austera atmosfera delle attività accademiche e degli studi cedette progressivamente il passo a uno stile più fastoso, che annunciava la nascita delle corti rinascimentali. I primi prìncipi eruditi ‒ tra i quali, per esempio, l'imperatore Federico II e Alfonso X il Saggio, re di Castiglia e di León ‒ operarono nelle regioni mediterranee. Federico II, uomo dotato di un notevole ingegno, chiamato anche stupor mundi, era stato educato in Sicilia, dove era entrato in contatto con persone di diverse razze, lingue e culture, e dove aveva potuto mettere a confronto tra loro religioni differenti. Furono probabilmente queste esperienze a dare origine al suo scetticismo nei confronti della Cristianità, decisamente insolito per l'epoca, e al suo atteggiamento d'indipendenza nei riguardi della Chiesa di Roma.
Federico aveva acquisito una buona conoscenza delle arti e delle scienze ed era interessato soprattutto all'astrologia, alla poesia e all'arte. Anche Alfonso X si circondò di studiosi spagnoli, ebrei e arabi, esperti in diverse aree dell'indagine scientifica. Presso la sua corte si lavorò intensamente alla traduzione di testi arabi ed ebraici in latino e in castigliano (conferendo così a questo idioma lo status di lingua nazionale), e in particolare di opere di astronomia, disciplina alla quale il sovrano era particolarmente interessato. Alfonso X, inoltre, eseguì lavori sperimentali nel campo del diritto e della legislazione e scrisse componimenti lirici in galiziano.
Anche molti dignitari di corte fondarono biblioteche e raccolsero libri, oggetti d'arte e curiosità naturali. Il duca di Berry, Jean di Valois (1340-1416), per esempio, fu un grande collezionista di manoscritti, pietre preziose, cammei, monete, medaglie e naturalia (uova di struzzo, noci di cocco, ecc.) e reclutò un certo numero di funzionari, affidando loro il compito di andare alla ricerca di questi oggetti.
Nel Sacro Romano Impero, il primo tentativo di promuovere la cultura di corte fu quello intrapreso da Ludovico IV il Bavaro (1287-1347), che decise di stabilire la sua residenza a Monaco e di trasformare questa città in un grande centro di cultura. Dopo l'incoronazione, celebrata in Italia nel 1327, Ludovico IV reclutò ‒ con l'aiuto di alcuni studiosi, tra cui Marsilio da Padova che aveva insegnato presso l'Università di Parigi ‒ un certo numero di scienziati i quali avrebbero dovuto legittimare le sue aspirazioni politiche. Tra coloro che sostennero l'imperatore nella sua lotta contro il papa, soggiornando per un certo periodo nella sua corte, bisogna menzionare Guglielmo di Ockham, che aveva insegnato nell'Università di Oxford e che, nonostante la lontananza di Monaco dai grandi centri culturali e dalle più importanti università, produsse in questo periodo numerose opere.
Come molti altri studiosi, Guglielmo sperava di vedersi assegnare una cattedra nell'università che l'imperatore aveva deciso di fondare. Le sue aspettative furono però deluse, in quanto la prima università del Sacro Romano Impero fu fondata a Praga nel 1348 dal successore di Ludovico IV, Carlo IV (1316-1378); egli scelse questa città come sua principale residenza, sede di una corte che si richiamava al modello definito da Carlo Magno ad Aquisgrana e a quello della corte francese presso la quale l'imperatore era vissuto per sette anni (durante il regno di Carlo IV il Bello di Francia e di Filippo VI) e dove era nato il suo interesse per la scienza. Carlo IV era un uomo estremamente colto. Nella sua autobiografia, redatta in latino, affermava di saper parlare cinque lingue (boemo, tedesco, francese, italiano e latino). La sua corte era composta da un numero variabile di membri, tra duecento e trecento, la maggior parte dei quali erano artisti e intellettuali. Per quanto riguarda le scienze, egli prese una serie di iniziative molto significative: la fondazione dell'Università di Praga, l'istituzione di una grande biblioteca, lo sviluppo e la promozione, attraverso la creazione di termini tecnici, della lingua ceca, e il perfezionamento delle tecniche dell'agricoltura grazie all'impiego di metodi scientifici.
Gli stessi elementi furono alla base dell'organizzazione della corte del duca di Borgogna Filippo il Buono (1396-1467). Anche se non è chiaro se si proponesse di alimentare i suoi interessi intellettuali o se volesse semplicemente accrescere la grandeur del suo casato, nella sua corte Filippo creò un'atmosfera che consentì la fioritura della scienza. Nella sua celebre biblioteca, composta da più di mille volumi, figurava un gran numero di opere mediche e astrologiche, che i famosi quaranta medici, dieci chirurghi e dieci astrologi al suo servizio potevano consultare per compilare le loro pubblicazioni. Egli infatti era particolarmente interessato alla medicina e possedeva, tra gli altri, il De regimine principum di Egidio Romano, nella traduzione francese in quanto non conosceva il latino.
Filippo incoraggiò attivamente soprattutto l'istruzione medica; in un editto del 1408, infatti, egli stabilì che la professione medica poteva essere esercitata solamente dai dottori che si erano formati nelle università. Nel 1422, oltre ad aver organizzato a Dole un'università che includeva una Facoltà di medicina, si interessò all'università fondata nel 1425 a Lovanio dal duca di Brabante. Anche il successore di Carlo, l'imperatore Massimiliano I, si mostrò estremamente interessato alla medicina. Benché non facesse molto affidamento sulla medicina insegnata nelle università e guardasse con più fiducia ai metodi di cura popolari e agli astrologi, Massimiliano ebbe al suo servizio molti medici formatisi nelle università.
Nelle corti era indubbiamente riservata una posizione di primo piano alla medicina. Già nel periodo precedente al VII sec., tutti i prìncipi e i vescovi avevano al loro servizio un medico che, a partire dal XII sec., fu in genere anche un astrologo (v. cap. XXVII, par. 4). La necessità di questa combinazione derivava dallo stretto legame che si supponeva esistesse tra il microcosmo e il macrocosmo; secondo un'opinione a quel tempo molto diffusa, infatti, anche i pianeti e le stelle erano costituiti dai quattro elementi ed erano dotati di un 'temperamento', determinato da una combinazione di 'qualità'. Poiché si riteneva che i corpi celesti influenzassero costantemente e in ogni aspetto la vita terrestre, i medici dovevano tenere conto della posizione delle stelle e dei pianeti per capire se questi ultimi entrassero, o meno, in conflitto con il temperamento del paziente. Bisognava determinare le posizioni delle stelle persino per cogliere le erbe medicinali, dal momento che le piante manifestavano i loro poteri soltanto in certi periodi.
Grazie alle traduzioni dall'arabo in latino delle opere di astrologia giudiziaria, eseguite nel corso dei secoli XII e XIII, gli astrologi acquisirono anche un ruolo politico di primo piano nelle corti occidentali, in quanto si riteneva che la nuova scienza delle stelle potesse essere molto utile a chi era interessato a prevedere eventi politici. Non a caso, nei secoli seguenti il numero degli astrologi di corte aumentò rapidamente. Le numerosissime predizioni scritte su richiesta dei sovrani che sono pervenute fino a noi ci forniscono un quadro esauriente delle loro attività. L'estensione dell'interesse per l'astrologia e dell'influenza esercitata dagli astrologi variavano a seconda dei paesi, come dimostra, per esempio, la diversa importanza attribuita all'insegnamento dell'astrologia nelle differenti università europee. In effetti questa disciplina era più apprezzata in Italia e nel Sacro Romano Impero che in Francia o in Inghilterra. Nelle università francesi e inglesi i professori di astrologia non occupavano una posizione di primo piano come invece nell'Italia settentrionale e nel Sacro Romano Impero (a Padova, Pavia, Ferrara, Lipsia e Cracovia), dove erano molto ricercati anche dalle amministrazioni cittadine e dai prìncipi.
Grazie alla figura dell'astrologo, come a quella del giurista, il mondo dell'università entrò in contatto con quello della politica. Nel corso del XVI sec. questa tradizione non soltanto seguitò a vivere, ma si diffuse ulteriormente. Molti astrologi e alchimisti lavorarono stabilmente nelle corti; attraverso le ricerche degli alchimisti si sperava di scoprire un metodo per fabbricare l'oro, l'elisir di lunga vita e la pietra filosofale. Questo interesse trovò un ulteriore sostegno nell'invenzione dell'arte della stampa e nella crescente attrazione per le scienze esoteriche emersa nelle università. Tuttavia, gli astrologi spesso predicevano ciò che i loro committenti desideravano udire e rimanevano prudentemente in silenzio nei casi in cui dovevano comunicare eventi spiacevoli. Giovanni Gerson, cancelliere dell'Università di Parigi, fu uno dei primi ad affermare di non credere affatto all'affidabilità delle predizioni, ma ciò non impedì alle università di seguitare a riservare un certo spazio all'insegnamento dell'astrologia.
Gli scienziati al servizio dei prìncipi non erano personalità di secondo piano; nella corte di Federico II a Napoli, per esempio, lavorò come astrologo Michele Scoto. Spesso gli studiosi finivano per preferire le corti alle università, come nel caso di Regiomontano (1436-1476) che, dopo aver insegnato a Vienna come successore di Purbach (1423-1461) e aver visitato l'Italia, entrò al servizio del re ungherese Mattia Corvino; in seguito, per dedicarsi con maggiore tranquillità alla ricerca scientifica, egli si trasferì a Norimberga, dove costruì un piccolo osservatorio astronomico e una pressa tipografica con cui stampò calendari e altre opere astronomiche, così come testi matematici. Anche la carriera di Copernico (1473-1543) conobbe un percorso molto simile; dopo aver abbandonato l'università e aver intrapreso un viaggio in Italia, egli si stabilì su un'isola danese, dove, grazie al sostegno del re, costruì un osservatorio, un laboratorio destinato alla fabbricazione degli strumenti, una cartiera e una pressa tipografica. Sin dalla metà del XIV sec. alla corte boema si praticavano l'astrologia e l'alchimia, e le predizioni erano eseguite attraverso lo studio dei moti delle comete e di altri corpi celesti; alla corte di Praga l'interesse per le scienze esoteriche seguitò a crescere fino al XVII secolo.
In effetti, tutti coloro che disponevano di sufficienti risorse si circondavano di medici e di astrologi, molti dei quali erano personalmente impegnati in attività scientifiche sperimentali. Tra i medici della famiglia Van Wesele che lavorarono al servizio dei duchi di Borgogna e degli Asburgo, figurava, per esempio, il celebre Vesalio (1514-1564). Nella corte papale di Avignone lavoravano due tipi ben distinti di dottori; oltre ai medici pratici, che avevano acquisito una certa reputazione grazie ai successi ottenuti nella cura degli abitanti della città o dei cardinali, la corte papale reclutava anche insigni studiosi provenienti dalle università, in particolare da quelle di Montpellier, Salerno e Bologna. Alcuni di questi dottori rimanevano al servizio del papa per molti anni, mentre altri erano consultati soltanto su questioni specifiche. Per i medici che facevano parte del clero, questo incarico poteva preludere a una brillante carriera e persino all'elezione all'episcopato.
Quando gli eserciti feudali si trasformarono in corpi professionali e la scienza della guerra assunse un carattere specialistico, le corti iniziarono a reclutare anche i matematici. Quest'area subì un'evoluzione decisiva dopo il 1500, ma già nel corso del XV sec. molte città e piccoli principati italiani dovettero rendersi conto che la loro indipendenza era legata alla qualità delle loro milizie e delle loro fortificazioni. I diversi sovrani, quindi, cercarono di richiamare nelle loro scuole di corte insigni matematici e ingegneri, ai quali in molti casi affidarono la formazione dei propri discendenti. Nella maggior parte dei casi questi scienziati furono ben contenti di lasciare i loro incarichi universitari, spesso poco prestigiosi e mal pagati, per onorevoli e ben remunerati impieghi nelle corti, salvo nei casi in cui ebbero la possibilità di dedicarsi a entrambi i generi di lavoro; spesso, tuttavia, dopo aver lavorato a lungo nelle corti, questi studiosi tornavano ad ambire a una cattedra universitaria.
Le corti non furono gli unici centri in cui gli studiosi potevano dedicarsi alla sperimentazione e allo sviluppo di nuove tecnologie; in quest'area, furono molto attive anche le corporazioni. Dal momento che nelle scuole di latino l'orientamento del livello superiore d'istruzione era decisamente teorico e classico, le corporazioni e le associazioni di artigiani organizzarono forme autonome di istruzione professionale e tecnica, ottenendo, nell'ambito delle loro specializzazioni, risultati al limite della perfezione. Tuttavia, la chiusura delle corporazioni e i loro sforzi di acquisire il monopolio delle diverse attività ostacolavano l'interazione tra le differenti categorie professionali e la diffusione delle innovazioni; di conseguenza, ben poche tecnologie trovarono una descrizione dettagliata nei libri. Inoltre, l'istruzione professionale impartita nelle scuole si limitava a coprire grandi aree e non svelava certamente i segreti delle corporazioni; la teoria e la pratica, quindi, non entrarono in rapporto tra loro e la tecnologia non poté usufruire del sostegno della scienza. La matematica insegnata ai mercanti era molto lontana da quella di Euclide, e la chirurgia praticata dai chirurghi aveva ben poco a che fare con la medicina appresa dai dottori in medicina. In definitiva, ciò impedì lo sviluppo sia della ricerca sia della tecnologia.
Gli scambi scientifici con gli Arabi, che ebbero inizio nell'XI sec. e s'intensificarono nel XII, non soltanto diedero un grande impulso allo studio del quadrivium nelle scuole e nelle università, ma arricchirono le conoscenze pratiche trasmesse nell'ambito delle corporazioni. Solamente nel corso del XVI sec. e in alcune aree specifiche la teoria e la pratica entrarono in rapporto tra loro; i teorici iniziarono a dedicarsi alla sperimentazione, gli artigiani a studiare la teoria ed entrambi questi aspetti del sapere trovarono il loro posto nell'insegnamento. Un'eccezione a questa tendenza alla separazione dell'insegnamento teorico da quello pratico fu rappresentata dalle Facoltà di medicina dell'Italia settentrionale, nelle quali sin dal XIII sec. si attribuì una grande importanza all'esperienza pratica dei medici e alla formazione teorica dei chirurghi. Fino al XV sec. i principî generali della scienza furono studiati quasi esclusivamente nelle università; i diversi tipi di scuole legate ai monasteri, alle abbazie, ai capitoli e alle città consentirono la trasmissione del sapere attraverso la trascrizione e la traduzione dei manoscritti ma, come già affermato in precedenza, diedero uno scarso contributo allo sviluppo della ricerca scientifica nell'area delle scienze naturali e della medicina.
A partire dal XII sec. un certo numero di studiosi di formazione accademica lavorò nelle corti, insegnando, redigendo trattati didattici, dedicandosi alla sperimentazione scientifica e compilando opere di carattere enciclopedico. Questi scienziati servivano le ambizioni politiche, artistiche e intellettuali dei prìncipi; in questo senso essi dipendevano dalla personalità e dagli interessi dei loro datori di lavoro e mecenati, e tendevano a scegliere le corti che offrivano loro migliori condizioni. Molti entrarono a far parte delle corti dopo aver insegnato nelle università per un certo numero di anni e in alcuni casi riuscirono a conciliare il lavoro universitario con quello di corte. I medici, gli astronomi e gli astrologi erano le figure professionali più ricercate ed erano impiegati in tutte le corti.
Le corti diedero incontestabilmente un grande contributo allo sviluppo e alla diffusione della ricerca sperimentale, soprattutto nel campo delle scienze naturali. Va precisato che nelle corti si usava abitualmente la lingua volgare, ma a partire dal XII sec., con l'introduzione della letteratura volgare, i prìncipi poterono disporre anche di traduzioni di opere scientifiche. Almeno per quanto riguarda la produzione in volgare, quindi, il monopolio della Chiesa in questo ambito declinò progressivamente. La borghesia urbana, infatti, finì per imitare l'esempio delle corti, che alla fine diedero un importante contributo alla laicizzazione della letteratura didattica. Non va dimenticato, inoltre, che la tecnica subì significativi sviluppi soprattutto nell'ambito delle corti e delle corporazioni; la rigida distinzione tra arti liberali e arti meccaniche, tuttavia, nella maggior parte dei casi non consentì all'istruzione comune e alla ricerca di mettere in rapporto tra loro la teoria e la pratica.
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