La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Relazioni culturali fra Est e Ovest
Relazioni culturali fra Est e Ovest
di Juan Vernet Ginés, Julio Samsó
I secoli XI e XII
Le traduzioni scientifiche dall'arabo in latino e in altre lingue iniziarono verso la fine del X sec. e si conclusero nel tardo XVIII; la collezione dei testi astronomici latini ‒ parte della quale costituita di traduzioni dall'arabo ‒ conservata nel ms. 225 dell'Abbazia di Ripoll (Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón) e la traduzione in spagnolo, per opera di J.A. Banqueri (1802), del trattato agronomico Kitāb al-filāḥa di Ibn al-῾Awwām (fine XII sec.) ‒ probabilmente l'ultimo esempio di un testo scientifico arabo composto ai fini di un'applicazione pratica ‒ ne segnano i limiti cronologici. All'interno di questi due estremi, il periodo compreso tra la seconda metà dell'XI e il XIV sec. è quello che conobbe il maggior numero di traduzioni. Nella prima metà del XII sec. dominarono l'interesse dei traduttori latini soprattutto le scienze esatte, le tecniche di divinazione e la magia, sebbene una raccolta notevole sia costituita anche dalle traduzioni latine di testi medici volute da Costantino l'Africano (1015 ca.-1087 ca.), in occasione del fiorire della Scuola di medicina salernitana. Le traduzioni di Adelardo di Bath (1070 ca.-1160), uno dei primi a cimentarsi in tale attività, entrato probabilmente in contatto con gli Arabi presenti nell'Italia meridionale, sembrano basarsi su materiali andalusi, che egli potrebbe aver conosciuto grazie all'ebreo aragonese Pietro d'Alfonso, durante il soggiorno di quest'ultimo per qualche tempo in Inghilterra come medico del re Enrico I (regnante dal 1100 al 1135).
In Spagna i primi traduttori lavorarono nella Valle dell'Ebro e probabilmente usarono l'importante biblioteca del re al-Mu᾽taman di Saragozza (al potere dal 1081 al 1085), portata a Rueda del Jalón dopo la conquista di Saragozza da parte degli Almohadi (1110); qui cadde sotto il controllo del vescovo Michele di Tarazona (1119-1151), che patrocinò le traduzioni di Ugo di Santalla. I suoi contemporanei e probabili colleghi Ermanno di Carinzia (attivo tra il 1138 e il 1143) e Roberto di Ketton (attivo tra il 1141 e il 1157), operanti a Tudela, individuarono una serie di manuali matematici e astronomici da far circolare tra gli studiosi latini come Teodorico di Chartres; le fonti da loro studiate o tradotte ‒ alcune delle quali precedentemente tradotte da Adelardo di Bath ‒ includevano gli Elementi di Euclide, l'Almagesto e il Quadripartitum di Tolomeo, le tavole astronomiche di al-Ḫwārazmī e di al-Battānī e l'Introductorium maius in astronomiam di Abū Ma῾šar. Lo stesso genere di fonti astronomiche e astrologiche fu studiato da due dotti ebrei, Abrāhām ibn Ḥiyyā (attivo a Barcellona nella prima metà del XII sec.) e Abrāhām ibn ῾Ezrā (1090 ca.-1167), che iniziarono a usare l'ebraico come lingua scientifica per divulgare tra gli Ebrei dell'Europa l'astronomia islamica di recente acquisizione. Abrāhām ibn Ḥiyyā collaborò con importanti traduttori latini (come Platone di Tivoli, attivo a Barcellona tra il 1134 e il 1145), mentre Abrāhām ibn ῾Ezrā tradusse in ebraico rilevanti opere di astronomia e di astrologia; entrambi scrissero, sia in ebraico sia in latino, lavori più o meno originali, principalmente compilazioni di materiali rinvenuti nelle fonti matematiche e astronomiche arabe.
Verso la metà del XII sec. le traduzioni dall'arabo in latino si spostarono a Toledo (conquistata da Alfonso VI di Castiglia nel 1085), probabilmente grazie al patronato dell'arcivescovo Raimondo di Salvetat (1126-1151) e del suo successore Giovanni (1152-1166), e all'esistenza di importanti biblioteche arabe; nell'XI sec. la città era stata infatti uno dei maggiori centri di ricerca astronomica. Tra il 1125 e il 1200 i più importanti traduttori di Toledo, appartenenti a due differenti generazioni, furono Avendauth (Abrāhām ben Dāwūd, 1110 ca.-1180), Giovanni di Siviglia e Limia (attivo tra il 1118 e il 1153, da distinguersi da Giovanni di Siviglia), Domenico Gundisalvi (XII sec.) e Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187). Rispetto al periodo precedente, la gamma dei testi tradotti si estese notevolmente, e a tale riguardo sono state avanzate diverse ipotesi. Richard J. Lemay (1963) ritiene determinante l'influenza di Pietro di Cluny, che aveva incaricato Roberto di Ketton ed Ermanno di Carinzia di tradurre il Qur᾽ān e altri libri relativi alla dottrina islamica; Charles Burnett (1992), invece, individua nel De scientiis di Gundisalvi, basato sulla classificazione delle scienze di al-Fārābi, l'origine del nuovo programma di traduzioni. In ogni caso, mentre Giovanni di Siviglia e Limia, come i suoi colleghi di Tarazona e Tudela, tradusse prevalentemente testi astronomici e astrologici, Avendauth, Gundisalvi e l'altro Giovanni (Giovanni di Siviglia) furono più impegnati in traduzioni filosofiche. Gherardo da Cremona, d'altro canto, coprì l'intera gamma del quadrivium, cui aggiunse la medicina, l'alchimia, l'ottica e la dinamica; giunto a Toledo nel 1144 ca. allo scopo di tradurre l'Almagesto, per terminarlo poi nel 1175, Gherardo non fu comunque il primo a misurarsi con l'opera tolemaica; sembra infatti che Ermanno di Carinzia avesse già lavorato a una traduzione dell'Almagesto arabo, mentre una traduzione diretta dal greco era stata realizzata in Sicilia nel 1160 ca. da un autore anonimo che tradusse anche Euclide e Proclo.
Il XIII secolo
Se è vero che Gherardo da Cremona tradusse Aristotele, la sua attività si concentrò però esclusivamente sulle opere di logica, cosmologia e fisica; rispetto a tale limite, il XIII sec. fu caratterizzato dall'introduzione delle opere di Aristotele in arabo, insieme ai commentari di Ibn Rušd (Averroè) e ad al-Šifā᾽ di Ibn Sīnā (Avicenna), sebbene parti di quest'ultima opera fossero già stati tradotti da Gundisalvi e da traduttori a lui vicini. Un simile rinnovato interesse per la filosofia può essere spiegato dall'ascendente che la scuola aristotelica andalusa del XII sec. esercitò sui traduttori di Toledo Michele Scoto (1175 ca.-1236) ed Ermanno il Tedesco (attivo tra il 1240 e il 1256), i quali furono anche al servizio dei sovrani siciliani Federico II (al potere dal 1198 al 1250) e suo figlio Manfredi (regnante dal 1258 al 1266), presso i cui patronati si registrò un'analoga attenzione per fonti dello stesso tipo. Altri testi aristotelici furono tradotti, alla corte di Manfredi, da Bartolomeo da Messina; uno spazio a sé occupano invece le traduzioni dal greco di Aristotele, Archimede e Proclo realizzate alla corte papale dal domenicano Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.-1286), disponibili a Toledo verso la fine del secolo, come sappiamo dal loro ritrovamento, insieme ad altre opere filosofiche, nella biblioteca dell'arcivescovo Gonzalo Pérez Gudiel, grande mecenate di traduzioni.
Nella seconda metà del XIII sec., sotto il regno di Alfonso X di Castiglia e León (al trono dal 1252 al 1284), comparvero nella Penisola Iberica le prime traduzioni dall'arabo in castigliano, eseguite da una squadra di traduttori composta da cinque ebrei (tra i quali Isḥāq ben Sīd e Yehūdah ben Mōšeh svolsero un ruolo predominante), un musulmano convertito, quattro cristiani della Penisola Iberica e quattro italiani. I testi tradotti erano ancora principalmente astronomici, astrologici e magici, e si presentavano in una raccolta che seguiva un modello consolidato. Esso conteneva un'introduzione generale costituita da un adattamento della Uranografia di al-Ṣūfī, seguita da una serie di trattati su diversi strumenti scientifici: quelli che potremmo chiamare calcolatori astronomici analogici (la sfera armillare, gli usuali astrolabi piani, quelli sferici e quelli universali), adoperati per la soluzione grafica dei più comuni problemi di matematica astrologica; gli strumenti per la determinazione dell'ora (il quadrans vetus, le meridiane, le clessidre), essenziali per formulare un oroscopo; gli equatorii e le tavole astronomiche (l'Almanacco di al-Zarqalī, le tavole di al-Battānī, le Tavole alfonsine), usate anch'esse per calcolare le posizioni planetarie per gli oroscopi. Seguiva una bibliografia di base sull'astrologia giudiziale (Quadripartitum, Libro de las cruzes, Libro complido), per spiegare come interpretare l'oroscopo, e infine una collezione di testi magici, a dimostrazione dell'interesse regale non solamente per la predizione ma anche per la modificazione degli eventi futuri. Gran parte di questa raccolta era basata su testi astronomici andalusi dell'XI sec., molti dei quali non erano stati ancora tradotti in latino. Essi furono scoperti probabilmente nelle biblioteche di Cordova e di Siviglia, conquistate dal padre di Alfonso, Ferdinando III, rispettivamente nel 1236 e nel 1248.
Il XIV secolo e le traduzioni fino al XVI secolo
Nella Penisola Iberica il regno di Alfonso X rappresentò l'ultima tappa significativa delle traduzioni dall'arabo, se si eccettuano pochi sparsi tentativi, compiuti negli Stati appartenenti alla Corona d'Aragona, di tradurre testi di carattere medico, sia in latino sia in catalano, come quelli di Arnaldo di Villanova (1240-1311 ca.) oppure, nel XIV sec., di alcuni traduttori minori sotto il patronato di Giacomo II (1260-1327) e di Pietro IV (1336-1387). Verso l'inizio dell'XI sec., con la caduta del califfato degli Omayyadi, s'interruppero le relazioni tra l'al-Andalus e l'Islam orientale con il suo forte movimento scientifico, e decadde conseguentemente la possibilità di accedere a nuove fonti. Poiché le conquiste di Maiorca (1229) e di Valencia (1238) da parte di Giacomo I d'Aragona non produssero nessuna scoperta di biblioteche importanti, comparabili con quelle di Saragozza, Toledo, Cordova e Siviglia, si venne a creare una situazione di ristagno nella quale gli sforzi congiunti dei traduttori dei secc. XII e XIII finirono per esaurire i testi scientifici in arabo disponibili in Spagna.
Le traduzioni mediche in latino proseguirono sia in Italia (Padova e Palermo) sia nella Francia meridionale (Montpellier); uno sforzo molto più rilevante fu realizzato, nei secc. XIII e XIV, per completare l'impresa iniziata da Abrāhām ibn Ḥiyyā e Abrāhām ibn ῾Ezrā di creare una letteratura scientifica ebraica. In Provenza, nella Linguadoca e nel Rossiglione tale attività si realizzò sotto forma sia di traduzioni di testi già noti in ebraico (sporadicamente anche in latino) sia di opere del tutto originali, che rivelano un'evidente origine andalusa e ispanica, come si deduce dalla provenienza da Granada della famiglia Tibbōn (il più importante gruppo di traduttori della Francia meridionale nel XIII sec.) e dalla presenza di vari altri traduttori del XIII e del XIV sec. nelle città di entrambi i versanti dei Pirenei. Durante questo periodo, le traduzioni dall'arabo in ebraico comprendevano le opere greche e arabe di astronomia, medicina e filosofia reperibili in Spagna, così come quelle di autori latini, quali Ermanno di Reichenau (1013-1054), Giovanni di Sacrobosco (attivo nel 1230), Arnaldo da Villanova, Giovanni di Gmunden (1383-1442) e Georg von Purbach (1423-1461). Inoltre, furono tradotti in latino anche alcuni lavori originali di autori ebrei, come la grande opera astronomica di Lēwī ben Gēršōn (1280-1344).
I testi arabi prodotti dopo il X sec. non raggiunsero mai l'Italia meridionale e la Spagna, a parte naturalmente le opere di Avicenna. Alcuni testi però furono misteriosamente trasmessi nell'Europa occidentale; si considerino a tale riguardo la descrizione della circolazione polmonare fatta da Ibn al-Nafīs (m. 1288), ripresa più tardi da Serveto (1553) e da Realdo Colombo (1559), o quella dei modelli planetari precopernicani sviluppati dalla cosiddetta Scuola di Marāghā e dai suoi seguaci nei secc. XIII-XV. La trasmissione dell'opera di Ibn al-Nafīs è di solito spiegata mediante gli scritti del medico italiano Andrea Alpago (m. 1521), che visse per trent'anni nel Vicino Oriente e tradusse, tra gli altri testi medici, una parte del commento di Ibn al-Nafīs al Qānūn di Avicenna. Probabilmente, il passaggio si effettuò attraverso traduzioni bizantine, come del resto ciò avvenne per gli stessi modelli planetari precopernicani; nei testi bizantini sono infatti documentati materiali astronomici dell'XI sec. comprendenti fonti mai conosciute nell'Europa occidentale, come lo al-Zīǧ al-Īlḫānī del fondatore della Scuola di Marāghā, Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, base della Sintassi persiana di Giorgio Crisococce (1347), o ancora il manoscritto greco bizantino giunto alla Biblioteca Vaticana nel 1453 ‒ qualche tempo dopo la caduta di Costantinopoli ‒ contenente elementi relativi alla nuova astronomia planetaria, che divennero così accessibili a Copernico, il quale soggiornò per vari anni in Italia.
Verso una tipologia delle traduzioni
È difficile stabilire una classificazione delle traduzioni scientifiche medievali, data la mancanza di sufficienti edizioni critiche e di studi comparativi delle fonti e delle traduzioni arabe. Si può tuttavia sopperire a tale deficienza adottando un criterio che, tenendo conto del modo o della tecnica delle traduzioni, le distingua in letterali, libere, interpolate, fino agli adattamenti, alle compilazioni e ai lavori originali veri e propri basati su fonti arabe. Questi ultimi compaiono sin dall'inizio della storia delle traduzioni; grandi traduttori, come Adelardo di Bath, Ermanno di Carinzia, Gherardo da Cremona, Michele Scoto e i collaboratori alfonsini, s'impegnarono seriamente in questa direzione attraverso lavori che costituirono un importante contributo alla genesi della scienza europea. Per quel che concerne invece le traduzioni letterali (che includono la traslitterazione di intere proposizioni arabe seguite dalle proposizioni latine equivalenti) e le rielaborazioni in un latino più elegante, esse appaiono già nella collezione Ripoll.
In effetti queste tipologie furono alquanto comuni, come dimostrano le tre versioni latine degli Elementi di Euclide, tradizionalmente attribuite ad Adelardo di Bath: Adelardo I e II sembrano essere due traduzioni indipendenti dall'arabo, a diversi gradi di resa letterale, mentre Adelardo III è soprattutto un commento, probabilmente basato su Adelardo II. Le traduzioni letterali sono tipiche del lavoro di Adelardo, che nella sua traduzione dell'Introductorium maius in astronomiam di Abū Ma῾šar adottò molti termini tecnici arabi non necessari, al pari di Giovanni di Siviglia; ciò spiegherebbe perché Gherardo da Cremona, essendo un traduttore letterale, sentì la necessità di riscrivere alcune delle traduzioni di Giovanni (come pure di altri), sforzandosi di essere più fedele alla fonte originale e usando un latino più corretto.
La fedeltà di Gherardo da Cremona alla fonte araba si manifesta chiaramente nelle traduzioni dell'Almagesto, del Liber canonis totius medicinae di Avicenna e del De gradibus di al-Kindī, mentre il suo stile diventa più libero nella versione del Liber Almansoris di al-Rāzī, forse per un'evoluzione interna al suo modo di tradurre o semplicemente per l'intervento di un collaboratore. Altri traduttori, come per esempio Michele Scoto, pure fedeli ai testi originali, applicarono tuttavia una certa censura religiosa; nella sua versione del Libro d'astronomia di al-Biṭrūǧī (Alpetragio), Michele Scoto omise le citazioni del Corano e tradusse Allā᾽h come Gesù Cristo, e non col termine Dio, probabilmente ritenuto troppo ambiguo. Nel caso dei traduttori alfonsini, invece, di tanto in tanto qualche passaggio è talmente letterale da poter essere compreso solamente ritraducendolo in arabo.
Ugo di Santalla, Ermanno di Carinzia e Roberto di Ketton furono favorevoli a uno stile più libero nelle traduzioni e tendenzialmente usarono un latino elegante; nel caso di Ermanno, la sua educazione alla Scuola di Chartres e il conseguente amore per la re torica latina probabilmente giustificarono questa sua scelta. Il Proemium alla traduzione di Ermanno dell'Introductorium maius in astronomiam di Abū Ma῾šar testimonia di una discussione tra Ermanno e Roberto di Ketton a proposito del modo di tradurre; mentre quest'ultimo si dichiarava incline a seguire le regole di traduzione stabilite da Boezio (la fedeltà alla fonte originale e al contempo la possibilità d'introdurre piccole spiegazioni interpolate a chiarificazione del testo), Ermanno interpretava le regole di Boezio molto liberamente, riassumendo il testo di Abū Ma῾šar laddove vi percepiva ripetizioni e svolgimenti superflui e interpolandovi sviluppi suoi propri ‒ comprese le citazioni da altre fonti ‒ ove lo considerasse opportuno.
Questo tipo di traduzioni interpolate comparve molto presto; le superstiti Sententiae astrolabii del manoscritto Ripoll includono esempi numerici che implicano una latitudine di 42°, e interpolazioni sono frequenti anche nelle traduzioni alfonsine; la versione latina del Picatrix modificò la fonte araba per aggiornarla rispetto alla teoria della trepidazione, e ancora l'interesse per le materie astrologiche dimostrato da re Alfonso indusse i suoi collaboratori ad aggiungere capitoli originali alla traduzione del trattato sulla sfera celeste di Qusṭā ibn Lūqā. Accanto alle interpolazioni si incontrano poi esempi di vere e proprie risistemazioni di materiale ricavato da una o più fonti arabe; Ugo di Santalla compilò il Liber trium iudicum facendo uso di estratti ricavati dai libri degli Iudicia di tre astrologi islamici, che strutturò secondo l'ordine dei dodici 'luoghi' dell'eclittica; un'opera analoga, il Liber novum iudicum circolò nel XIII sec. alla corte di Federico II in Sicilia, sebbene in quest'ultimo caso il testo latino potrebbe rappresentare la traduzione di una precedente compilazione araba dello stesso genere. La fonte araba poteva anche essere unica, come nella traduzione latina alfonsina della Maqāla fī hay᾽at al-῾ālam di Ibn al-Hayṯam, in cui il traduttore (Abrāhām Hebraeus) ha scomposto i quindici capitoli di Ibn al-Hayṯam in quarantotto capitoli più brevi, alterando l'ordine dell'esposizione e introducendo numerose ripetizioni; inoltre, mentre Ibn al-Hayṯam dedicava un capitolo ai tre pianeti superiori e un altro ai due inferiori, nella versione di Abrāhām si ha un capitolo per pianeta, con la ripetizione di un testo identico per Saturno, Giove e Marte da un lato, Venere e Mercurio dall'altro.
Nelle traduzioni alfonsine vi sono poi due notevoli casi di adattamento; uno è il trattato sulla costruzione della lámina universal di ῾Alī ibn Ḫalaf, un astrolabio universale che usa lo stesso sistema di proiezione stereografica dell'analogo strumento di al-Zarqalī (açafeha); l'altro è il libro sull'uso dell'astrolabio sferico. Nel primo, Isḥāq ben Sīd, non avendo a disposizione un trattato arabo da tradurre sulla costruzione della lámina universal, vi adattò il trattato di al-Zarqalī sulla costruzione della açafeha; nel secondo i collaboratori alfonsini, non riuscendo a trovare una fonte araba sull'astrolabio sferico, modificarono il trattato sull'uso dell'astrolabio planisferico di Ibn al-Samḥ (m. 1035); dei 135 capitoli, in cui è suddiviso il libro alfonsino, soltanto 30 sono indipendenti dal testo di Ibn al-Samḥ.
Riguardo infine alle compilazioni, va notato che il trattato sulla costruzione e l'uso dell'astrolabio più popolare nel Tardo Medioevo latino (Tractatus astrolabii) circolava sotto il nome dell'astrologo ebreo Māšā᾽Allāh (m. 815 ca.) ‒ o Messehalla, come fu conosciuto nell'Occidente latino ‒ sebbene sia stato ormai dimostrato che l'opera non aveva nulla a che fare con lui; la seconda parte dello scritto sull'uso dello strumento (De astrolabii operatione) è sostanzialmente il risultato di un adattamento della traduzione di Giovanni di Siviglia del trattato sullo stesso tema di Ibn al-Ṣaffār (m. 1035). Il De astrolabii compositione, cioè la prima parte del testo, è invece una compilazione duecentesca di varie fonti, tra le quali troviamo un prologo tradotto da un trattato attribuito ad al-Zarqalī e un insieme di dieci capitoli tecnici sulla proiezione stereografica, parte dei quali derivati dalle note di Maslama al-Maǧrīṭī sul Planisfero di Tolomeo, tradotto in latino da Ermanno di Carinzia.
Un ultimo esempio di compilazione ‒ alquanto peculiare, a causa dell'uso di criteri ascientifici ‒ è il libro alfonsino sulle stelle fisse, tradizionalmente considerato una traduzione dell'Uranografia di al-Ṣūfī, che in effetti ne è la fonte principale, se non l'unica. L'opera è divisa in quattro libri; i libri dal primo al terzo, preparati da un gruppo di collaboratori, contengono la descrizione delle costellazioni, mentre il quarto, scritto indipendentemente da un secondo gruppo, si occupa sia di materie statistiche sia dell'identificazione dei nomi delle stelle nella tradizione popolare araba. Il catalogo stellare di al-Ṣūfī compare, costellazione per costellazione, in una ruota tracciata sul recto di ogni foglio del Codice reale Villamil 156, mentre le descrizioni corrispondenti sono segnate sul verso del foglio precedente, fronteggiando così la ruota. L'impianto estetico in base al quale fu concepito il codice determinò la lunghezza dei testi delle descrizioni; i materiali di al-Ṣūfī furono drasticamente decurtati nel caso di costellazioni con un numero elevato di stelle e, invece, integrati con materiali di altre fonti non identificate quando il numero di stelle era esiguo e l'autore aveva uno spazio vuoto da riempire.
di Juan Vernet Ginés, Julio Samsó
La diffusione dell'astronomia araba in Occidente
Accessibile ai lettori latini non prima del X sec. (v. cap. precedente), la scienza araba mostra una delle sue prime influenze nel Mathematica Alhandrei summi astrologi o Liber Alchandrei, compilazione di tecniche divinatorie, astrologiche e di altro genere ‒ anche con retaggi ebraici ‒ datata alla fine del X secolo. Tale testo raccoglie i nomi arabi delle ventotto mansioni lunari e disegni rappresentanti i simboli di ciascuna costellazione, simili a quelli che compaiono nei manoscritti del Calendario di Cordoba e in altre opere analoghe; tuttavia, non trattandosi di una vera traduzione, l'origine di questo testo rimane oscura.
Vere traduzioni dall'arabo in latino ‒ realizzate ancora nel corso del X sec. in Catalogna ‒ sono invece i testi astronomici conservati nel ms. 225 dell'Abbazia di Ripoll, ora negli Archivi della Corona d'Aragona (Barcellona) e in altri manoscritti correlati. Riguardo a questi, J.M. Millás Vallicrosa (1931) ha ipotizzato una datazione precoce (X sec.), e in effetti ricerche recenti hanno dimostrato che queste traduzioni sono sicuramente precedenti al 995. Il codice contiene una compilazione di trattati ‒ la maggior parte dei quali di origine araba, diretta o indiretta ‒ concernenti la costruzione e l'utilizzazione di una serie di strumenti astronomici il cui uso richiedeva una notevole competenza teorica. Questi scritti testimoniano la comparsa in Catalogna di una nuova astronomia, più avanzata rispetto a quella nota dalle fonti astronomiche latine (come il De temporum ratione di Beda, l'anonimo Computus Graecorum sive Latinorum, o il De nuptiis di Marziano Capella) conservate nei manoscritti delle biblioteche monastiche catalane.
L'importanza del ms. 225 fu evidenziata da Millás Vallicrosa (1931) nel periodo in cui gli studiosi J.W. Thomson (1929), M.C. Welborn (1931) e A. van de Vyver (1931, 1936) discutevano sull'introduzione dei materiali astronomici arabi in Occidente. Thomson e Welborn ritenevano che questi materiali fossero giunti in Lorena in seguito all'ambasciata di Giovanni di Gorze a Cordova nel 953, sotto il regno di Ottone il Grande (912-973). Durante il suo soggiorno a Cordova, durato tre anni, Giovanni di Gorze incontrò diversi studiosi, tra i quali il vescovo Recemundus e il medico ebreo Ḥasday ibn Šaprūt, ed è quindi probabile che, quando fece rientro in Lorena, egli avesse portato con sé una collezione di manoscritti arabi responsabile della rinascita scientifica di questa regione, alla fine del X secolo. Da qui, secondo Thomson e Welborn, la scienza araba si sarebbe diffusa verso sud-est, e questo spiegherebbe la composizione di trattati sull'astrolabio ‒ basati su fonti arabe ‒ da parte di Asselino d'Asburgo e del suo discepolo Ermanno di Reichenau.
Della medesima questione Millás Vallicrosa e van de Vyver hanno fornito però una spiegazione assai più semplice e forse più logica, secondo la quale le prime traduzioni dall'arabo sarebbero state realizzate nella Marca Spagnola e il primo traduttore conosciuto sarebbe un certo Lupitus Barchinonensis (di Barcellona), identificato con Seniofredus (chiamato anche Lobetus), arcidiacono della cattedrale di Barcellona dal 975 al 995, data della sua morte. Della sua attività in questo campo siamo a conoscenza grazie a una lettera inviatagli nel 984 da Gerberto di Aurillac (940/950-1003), con la richiesta da parte del futuro papa Silvestro II di una copia di un libro sull'astrologia da lui tradotto (Itaque librum de astrologia translatum a te mihi petenti dirige…), che è stato identificato con uno dei più antichi testi superstiti sull'uso dell'astrolabio (Quicumque astronomice peritiam discipline…), un frammento del quale appare in un manoscritto della collezione Ripoll, spesso impropriamente attribuito allo stesso Gerberto. Quest'ultimo, attivo in gioventù (967-970) nella Marca Spagnola (a Vic, forse anche a Ripoll e altrove), può essere stato tra i primi a leggere traduzioni di opere arabe e a introdurre l'astronomia araba al di là dei Pirenei.
La lettera a Lupitus non è la sola che qui ci interessi; ancora nel 984 Gerberto scrisse al vescovo Miró Bonfill di Gerona chiedendogli di fornire ad Adalberone, arcivescovo di Reims, una copia del libro De multiplicatione et divisione numerorum a Joseph Hispano editum; tale richiesta potrebbe forse ricollegarsi al fatto che il più antico testo matematico maġribī esistente, la Maqāla fī 'l-darb wa-'l-qisma, fu scritto a Kairouan da Abū ᾽l-Maǧīd ibn ῾Aṭiyya al-Kātib (attivo verso la fine del X sec.). È possibile che questo trattato sull'aritmetica, tradotto da un misterioso Joseph Hispanus, sia stato uno dei canali attraverso i quali i numeri hindi (comunemente chiamati 'numeri arabi') furono introdotti nella Penisola Iberica e in Europa. Gerberto usò queste cifre negli apices del suo abacus e le varie forme usate per i numeri arabi occidentali (ġubār) sono state interpretate come il risultato della rotazione degli apices di Gerberto (Beaujouan 1991). In realtà la più antica documentazione di tali cifre compare nel ms. detto Vigilanus (Escorial d I-2, f. 12v), scritto nel 976 da un monaco di nome Vigila nel monastero di Albelda e oggi conservato all'Escorial, Biblioteca del Real Monasterio de S. Lorenzo; la ricezione dei numeri arabi ad Albelda è forse indipendente dall'introduzione di materiali scientifici attraverso la Catalogna, data la presenza nel X sec., in quel monastero, di monaci e persino abati mozarabici. Tra Albelda e Ripoll esistevano certamente contatti; nel 977, un anno dopo il completamento del Vigilanus, Vigila presenziò infatti alla cerimonia di dedicazione della chiesa del monastero di Ripoll.
Il ruolo di Gerberto nella trasmissione dei testi astronomici del ms. 225 di Ripoll resta comunque poco chiaro; le opere generalmente considerate autentiche non mostrano alcuna traccia di influenza araba ed è ipotizzabile che, se pure Gerberto accedette a queste prime traduzioni, esse gli si resero disponili quando aveva già lasciato la Marca Spagnola. Tale è il caso, per esempio, del De mensura astrolabii, nel quale è contenuta una tavola stellare collegata a quella realizzata dall'astronomo andaluso Maslama al-Maǧrīṭī nel 978; questa datazione rende inverosimile la consultazione da parte di Gerberto tra il 967 e il 970.
Sebbene ci sia noto il nome di almeno uno dei primi traduttori dall'arabo in latino (Lupitus di Barcellona), ignoriamo se Lupitus/Seniofredus conoscesse la lingua araba tanto da poterla tradurre senza alcun aiuto; l'ipotesi più ragionevole sembra essere che abbiano collaborato con lui alcuni monaci mozarabici, gli stessi che introdussero gli originali arabi e due manoscritti latini della biblioteca di Ripoll (uno dei quali ‒ il ms. 168 ‒ è una copia dell'Arithmetica di Boezio) con note a margine scritte in arabo. Costoro probabilmente provenivano dalla Spagna orientale, a sud della Catalogna, come testimonia l'uso del termine latino carnarius per indicare il segno zodiacale dell'Ariete, parola del tutto insolita nelle fonti latine catalane. Questi testi presentano inoltre alcune caratteristiche tipiche, almeno nel XIII sec., del dialetto arabo parlato nell'al-Andalus orientale.
Il ms. di Ripoll, così come una serie di altri manoscritti latini a esso correlati di diverse biblioteche europee ‒ molti dei quali sono stati curati da Bubnov (1899) o Millás Vallicrosa (1931) ‒, testimonia l'iniziale diffusione in Europa di vecchi e nuovi strumenti astronomici. Alcuni di essi in realtà seguivano una tradizione latina più antica, come la descrizione della clessidra con un dispositivo galleggiante e una suoneria o una particolare meridiana orizzontale, che sembra il risultato della deformazione di un quadrante equatoriale. Quest'ultimo strumento è noto anche nelle fonti arabe ed è uno dei primi esempi in cui è possibile documentare una trasmissione dal latino all'arabo; la descrizione di una meridiana identica appare nel ms. 152 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, che contiene un trattato sulla meccanica applicata attribuito a un certo Ibn Ḫalaf al-Murādī (attivo a Toledo nell'XI sec.).
La maggior parte dei rimanenti materiali sembra avere un'origine araba; il De horologio secundum alkoram id est speram rotundam ‒ non presente nel codice Ripoll ‒ descrive apparentemente una sfera celeste, strumento dimostrativo di estrema utilità nell'insegnamento dell'astronomia elementare. Questo tipo di strumento era certamente noto a Gerberto, anche se non è possibile accertare se la sua conoscenza derivasse dalla tradizione latina o dalle nuove informazioni acquisite dalle fonti arabe. Nel ms. di Ripoll troviamo (Incipiunt regule de quarta parte astrolabii) la descrizione del quadrante denominato da Millás Vallicrosa (1949) quadrans vetustissimus per distinguerlo dal quadrans vetus standard, erroneamente attribuito a Roberto Anglico; si tratta di una variante del quadrante a seni (una scala grafica di seni e coseni) con un cursore mobile. Una scala delle declinazioni solari per tutti i mesi dell'anno giuliano consentiva all'utilizzatore di ottenere, senza alcun calcolo, l'altezza meridiana del Sole (hm) in un determinato giorno. Il quadrante ha inoltre due traguardi e un filo a piombo, con cui si poteva ottenere l'altezza solare (h) per ogni ora di quel dato giorno. Lo strumento poteva essere usato per risolvere graficamente il problema di determinare l'ora (t) sulla base della regola indiana approssimativa: sent = senh/senhm.
Questo strumento sembra rappresentare la forma araba occidentale del quadrante a seni, differente dallo strumento orientale descritto da al-Ḫwārazmī (m. 847). La presenza del cursore, in cui il parametro usato era la data dell'anno solare, ricorda l'uso della scala zodiacale sul retro degli astrolabi andalusi e maghrebini; si ha l'impressione che il traduttore del testo di Ripoll usasse una fonte andalusa, forse collegata alla Scuola di Maslama al-Maǧrīṭī. Sappiamo che questo tipo di cursore si trova descritto soltanto in due 'prime' fonti arabe; l'una è orientale (IX o X sec.) e descrive un cursore (chiamato maǧarra) sia mobile sia fisso, mentre l'altra è attribuita da Abū ῾Ali al-Ḥasan al-Marrākušī (attivo al Cairo nel XIII sec.) all'astronomo di Toledo al-Zarqalī (m. 1100), che usa anche il quadrante a seni sul dorso della sua al-ṣafīḥa zarqāliyya. Il quadrante di al-Zarqalī, come i testi della tradizione di Ripoll, combina la griglia trigonometrica con il cursore, che ha qui soltanto una scala di declinazione il cui parametro è la longitudine solare e non la data dell'anno solare, come nei testi latini.
L'astrolabio
Dopo la sfera celeste e il quadrante, l'attenzione dei primi traduttori dall'arabo si focalizzò sull'astrolabio, che nel Medioevo fu senza dubbio il più popolare fra tutti gli strumenti di calcolo analogico, essendo usato per ottenere soluzioni grafiche di molti problemi di astrologia e di astronomia sferica. I più antichi trattati superstiti su di esso ‒ gran parte dei quali si è conservata nei manoscritti di Ripoll ‒ sono: un prologo a un trattato sulla costruzione e l'uso di un astrolabio, che E. Poulle (1985) attribuisce a Gerberto di Aurillac; quattro testi sulla costruzione dell'astrolabio, il De mensura astrolapsus, il De mensura astrolabii, il De astrolabii compositione e lo Iubet rex Ptolomeus bene politam fieri tabulam…; infine, altri quattro brevi trattati sull'uso dell'astrolabio, rispettivamente le Sententiae astrolabii, il De utilitatibus pseudo gerbertiano, il De divisione igitur climatum que fit per almucantarath… e il Si fuerit nobis propositum invenire quando sol quelibet…
La traduzione della maggior parte di questi trattati è stata attribuita a Lupitus di Barcellona o al suo entourage, per quanto soltanto alcuni di essi dipendano da un originale arabo (De mensura astrolapsus, Sententiae astrolabii), mentre gli altri potrebbero essere il risultato di una rielaborazione latina successiva di materiali tratti dalle prime traduzioni.
Paul Kunitzsch (1987), studiando nel dettaglio le Sententiae, ha suddiviso l'opera in tre parti: un'introduzione, che più che una traduzione dall'arabo sembra piuttosto un testo scritto dal compilatore direttamente in latino; un'analisi dettagliata dell'astrolabio fatta da qualcuno che aveva lo strumento davanti a sé, con la collaborazione di un'altra persona in grado di identificarne le singole parti e di collegarvi i rispettivi termini arabi; una descrizione dell'uso dello strumento parzialmente basata sulla traduzione (o, talvolta, un commento) di un trattato di al-Ḫwārazmī (Berlino, Staatsbibliothek, Berlin Ahlwardt 5793). I materiali orientali sono talvolta adattati alle condizioni locali; alcuni valori numerici implicano una latitudine di 42° N, che si adatta a Gerona, Vic o Ripoll. Un caso simile appare nel De mensura astrolapsus, che illustra il disegno dell'orizzonte con un riferimento esplicito a una latitudine di 42° N, corrispondente al sesto clima in qua est Spania et Roma. In questo modo s'identifica una prima fonte usata dai traduttori del X sec. e un chiaro esempio di traduzione con interpolazioni.
Millás crede nell'esistenza di una relazione diretta tra i testi di Ripoll e i due trattati latini sulla costruzione (De astrolabii compositione) e sull'uso (De astrolabii operatione) dell'astrolabio, che nell'Europa medievale divennero senza alcun dubbio i testi più popolari sull'argomento, attribuiti dalla tradizione manoscritta all'astrologo ebreo Māšā᾽Allāh (attivo a Baghdad dal 762 all'815 ca.). Kunitzsch ha dimostrato che entrambe le opere sono in realtà compilazioni di provenienza occidentale; il De astrolabii operatione fu realizzato sulla base della traduzione, eseguita da Giovanni di Siviglia, del trattato sull'astrolabio di Ibn al-Ṣaffār, discepolo di Maslama al-Maǧrīṭī, mentre il De astrolabii compositione è costituito di quattro o cinque sezioni di differente origine. Una di queste (capp. 7-16), in cui è descritto come tracciare le linee principali sulle piastre dell'astrolabio usando la proiezione stereografica, termina in alcuni manoscritti con l'indicazione: Finit opus astrolabii secundum Marcelliana (Macellama/Mascelamah), personaggio che Kunitzsch identifica con Maslama al-Maǧrīṭī. Nei capp. 9, 10 e 14 sono poi descritte alcune tecniche del tutto inusuali, presenti nelle note di Maslama al Planisfero di Tolomeo.
Se dunque esistono delle evidenti somiglianze ‒ come ha suggerito Millás Vallicrosa ‒ tra i trattati dello Pseudo-Māšā᾽Allāh e i testi di Ripoll, queste sarebbero da ricondurre all'uso che i primi traduttori dall'arabo in latino fecero di fonti collegate alla Scuola di Maslama al-Maǧrīṭī. In realtà, nel caso dei trattati riguardanti l'uso dell'astrolabio, questa dipendenza non è semplice da provare, in quanto la maggior parte delle fonti sull'argomento contiene le medesime istruzioni. Se consideriamo, per esempio, il caso delle Sententiae astrolabii, sembra chiaro che al-Ḫwārazmī non fu l'unica fonte usata dal traduttore; dove le Sententiae affrontano il problema della determinazione del grado solare per una specifica data dell'anno, il testo descrive due procedure. La prima è una regola aritmetica approssimata per calcolare la longitudine solare, che ‒ sebbene non appaia nel testo di al-Ḫwārazmī ‒ potrebbe derivare, con un adeguato adattamento al calendario giuliano in uso, da una fonte orientale. La seconda utilizza la scala zodiacale, tipica degli astrolabi andalusi e maghribi ma assente nei trattati o negli strumenti orientali fino a data piuttosto tarda; è ovvio che in questo caso il traduttore abbia usato una fonte occidentale.
La medesima incertezza caratterizza i testi riguardanti la costruzione dell'astrolabio; anche in questo caso gli elementi comuni, pur numerosi, non bastano a dimostrare la dipendenza dei testi di Ripoll dai capp. 9, 10 e 14 del De astrolabii compositione dello Pseudo-Māšā᾽Allāh, che ha un'origine maslamiana molto evidente. Unici elementi che confermerebbero questa provenienza sono il sistema descritto nel De mensura astrolabii per proiettare le stelle sulla rete, che è presente anche nel De astrolabii compositione, e una tavola delle stelle ‒ inclusa in entrambe queste opere ‒ che mostra molti punti in comune con quella contenuta nelle note di Maslama al Planisfero tolemaico (datato 978). La procedura descritta in entrambi i testi latini è delle più insolite; un chiaro riferimento a essa è presente nei due capitoli superstiti del trattato sulla costruzione dell'astrolabio di Ibn al-Samḥ, un altro allievo di Maslama.
L'ipotesi dell'influenza esercitata dalla Scuola di Maslama sui trattati astronomici contenuti nel ms. 225 sembra confermata dal fatto che proprio a questa si deve l'introduzione in Andalusia di testi di grande spessore scientifico quali l'Almagesto, la Geografia e il Planisfero di Tolomeo. Infatti, una traduzione letterale in lingua latina delle divisioni climatiche tolemaiche compare in alcuni testi di origine catalana, mentre Kunitzsch (1993) ha publicato un breve frammento di una prima traduzione latina del Planisfero che sembra essere in relazione con i testi di Ripoll. In conclusione, si può affermare che un certo numero di prove dirette e indirette dimostra come i traduttori facessero uso sia dei testi di al-Ḫwārazmī sia di alcuni scritti collegati alla Scuola di Maslama. Tuttavia, il ms. 225 di Ripoll e i testi collegati non costituiscono le uniche fonti che documentano la diffusione europea dell'astrolabio dalla Catalogna del X sec.; altre prove si desumono dall'analisi degli strumenti stessi.
Pare che già nel X sec. circolassero numerosi astrolabi arabi, che furono copiati e tradotti. Nel 1025 ca. Radolfo di Liegi scriveva a Ragimboldo di Colonia che avrebbe voluto mandargli il suo astrolabio ma, possedendone soltanto uno di quel tipo, al momento usato come modello per un altro, suggeriva a Ragimboldo di recarsi a Liegi per osservarlo sul posto. Nella sua analisi delle Sententiae astrolabii Kunitzsch (1987) ha concluso che parte del testo non è altro che la descrizione di un astrolabio fatta da qualcuno che aveva a disposizione lo strumento. Ciò si evince facilmente da un passo dell'opera (Millás Vallicrosa 1931, p. 288) in cui è descritta una figura la quale interpreta in latino le parole arabe che dovevano comparire sull'astrolabio, incluse le lettere che marcavano la graduazione della corona esterna dello strumento (Tropico del Capricorno) e delle altre due (equatore e Tropico del Cancro), il nome delle ore che appariva su ogni piastra, e così via. Queste figure, non conservate nel manoscritto di Ripoll, si trovano in altri manoscritti dell'XI sec. collegati alla stessa tradizione, come i manoscritti Reginiensis 598 (BAV; Millás Vallicrosa 1931, tavv. X-XI) ‒ con iscrizioni in latino ‒, Chartres 214 (Chartres, Bibliothèque Municipale; van de Vyver 1931) e lat. 7412 (Parigi, BN; Poulle 1964, p. 900 e tavv.; Kunitzsch 1998). Il ms. lat. 7412, che data alla metà dell'XI sec., contiene eccellenti illustrazioni ‒ con iscrizioni bilingui, in arabo e latino ‒ di un astrolabio realizzato da un certo Ḫalaf ibn al-Mu῾āḏ (attivo nel 1000 ca.), che sembra rappresentare il primo esempio noto di uno strumento andaluso di questo genere; vi troviamo i disegni di una rete (con indicatori per 27 stelle che corrispondono al tipo III di Kunitzsch 1966), il dorso di un astrolabio (con le scale dello Zodiaco e delle ombre) e sette piastre per gli inizi dei sette climi tolemaici. Questa era la procedura consueta e coincide con le descrizioni che troviamo nelle Sententiae astrolabii (Millás Vallicrosa 193, p. 279) e nel De astrolabii compositione (ibidem, p. 309) laddove i testi affermano che per fabbricare un astrolabio servivano 5 rotae, una delle quali doveva essere la rete, un'altra la mater (in cui di solito era inserita la piastra di un clima), mentre le altre tre (incise su entrambe le facce) dovevano recare le proiezioni per gli altri sei climi. Nel ms. lat. 7412 di Parigi i diagrammi delle piastre per le latitudini 16° 27′ e 48° 32′ hanno un altro elemento d'interesse: vi si osservano le proiezioni degli almucantarat a intervalli di 6°, ma nessun circolo verticale.
Questo dettaglio ci rimanda a un altro pezzo importante: il cosiddetto 'astrolabio carolingio', acquistato nel Sud della Francia da Marcel Destombes e ora nel museo dell'Institut du Monde Arabe (Parigi). Questo astrolabio, sulla cui autenticità si è molto discusso (Stevens 1995), sembra essere il più antico astrolabio latino superstite (fine del X o inizio dell'XI sec.), nonché uno strumento 'tradotto' da un altro astrolabio arabo usato come modello. È ovviamente uno strumento primitivo, realizzato da un artigiano probabilmente al suo primo tentativo di costruire un astrolabio, come dimostra il fatto che in alcuni casi ha tracciato due volte lo stesso circolo. Esso fu certamente realizzato in Catalogna; infatti le lettere coincidono perfettamente con quelle dell'epigrafia catalana del X e XI secolo. Ha piastre corrispondenti alle seguenti cinque latitudini: 36° (nella mater, inizio del IV clima); 38° 30′ (punto medio del IV clima) e 41° 30′ (nessuna relazione con un clima specifico); 45° (inizio del VI clima) e 47° (punto medio del VI clima). Tutte queste latitudini ‒ con l'eccezione di quelle per 38° 30′ e 41° 30′ ‒ hanno le proiezioni degli almucantarat a intervalli di 6° ma non i circoli verticali, come nel ms. lat. 7412, mentre le due latitudini sopra menzionate, incise su entrambe le facce della medesima piastra, hanno almucantarat e circoli verticali (a intervalli di 10°). La latitudine 38° 30′ corrisponde a Cordova (probabilmente il luogo in cui fu realizzato l'astrolabio usato come modello), mentre la latitudine 41° 30′ si adatta benissimo a Barcellona e a Roma.
L'ultima proiezione reca l'iscrizione Roma et Francia, dove Francia designa la Marca Spagnola. Questa denominazione non ha senso nel contesto latino, ma acquisisce pieno significato se si pensa a un astrolabio 'tradotto' in cui il sistema di numerazione usato fosse un adattamento latino del misto occidentale di numeri e lettere noto come 'sistema abǧad'. Qui Francia traduce Ifranǧa, che nelle fonti storiche arabe indica, tra il X e il XII sec., sia la Francia vera e propria sia i regni cristiani della parte nordorientale della Penisola Iberica, mentre la parte nordoccidentale è chiamata Ǧilliqiya (Gallecia). In sintesi, l'astrolabio carolingio sembra essere una copia tradotta di un originale arabo costruito a Cordova secondo un ordine specifico; soltanto così si giustifica il fatto che un astrolabio arabo recasse una proiezione per la latitudine di Barcellona. I traduttori dello strumento, avendo qualche difficoltà nell'individuare i nomi delle stelle rappresentate negli indicatori della rete, costruirono una rete con indicatori privi di nomi e non lasciarono alcuno spazio per inserirli.
Per quanto si sia tentato (Kunitzsch 1996) d'identificare le venti stelle della rete carolingia, di calcolare le loro coordinate e di comparare i valori ottenuti con quelli che è possibile dedurre dal catalogo delle stelle di Tolomeo, con una correzione per la precessione relativa al 980 ca., il risultato finale è esattamente quello previsto: gli indicatori delle stelle sono stati disegnati molto male. L'astrolabio 'carolingio' è, quindi, uno strumento tecnicamente scadente ma di grandissimo interesse per lo studio dell'introduzione di nuovi strumenti astronomici nell'Europa latina.
di Charles S.F. Burnett
I precursori e le traduzioni dei primi anni del XII secolo
Nel XII sec. la traduzione divenne un'attività sistematica, poiché i testi greci e arabi erano tradotti per integrare la tradizione scientifica latina o per sostituire precedenti traduzioni giudicate insoddisfacenti. Verso la metà del secolo, Ermanno di Carinzia, che eseguiva traduzioni di testi di matematica e di astronomia, firmava le sue opere col nome di Hermannus Secundus, prosecutore dell'opera di quel primo Ermanno, Ermanno di Reichenau, al quale si deve la trasmissione in Occidente della conoscenza delle tecniche e degli strumenti astronomici arabi. Ermanno di Reichenau, che aveva trascorso la maggior parte della sua vita nel monastero benedettino di Reichenau, sul lago di Costanza, si occupò di ordinare sistematicamente alcuni scritti sulla musica e sull'aritmetica e sulle altre due discipline del quadrivium (geometria e astronomia) e di raccogliere in un unico corpus diverse opere sulla scienza degli astri: il De mensura astrolabii, il De utilitatibus astrolabii e il De horologio viatorum. La prima e l'ultima sono sue composizioni originali; nel De mensura astrolabii è descritto l'astrolabio, il nuovo strumento arabo per misurare l'altezza di un corpo celeste sull'orizzonte (la cui conoscenza, come si è detto, iniziò a diffondersi in Europa verso la fine del X sec.); come il De utilitatibus astrolabii (opera di incerta paternità), questo testo utilizza espressioni arabe per designare le diverse parti dello strumento e per indicare le stelle fisse incise sulla sua parte frontale.
Nel paragrafo precedente si è già parlato delle traduzioni di opere arabe di carattere astronomico eseguite in Spagna. Questi testi sull'astrolabio, sulle tavole astronomiche e sull'astrologia circolavano in ambienti vicini al vescovo di Fleury, Abbone, e fino all'inizio del XII sec. furono molto popolari in Inghilterra e in Normandia. Essi facevano parte dell'insegnamento del quadrivium, istituito a Reims verso la fine del X sec. da Gerberto di Aurillac, e sviluppato nell'XI sec. soprattutto in Lotaringia e nella Germania meridionale. Queste opere ‒ alcune delle quali (i testi sull'astrolabio) erano attribuite a Tolomeo, altre (i testi astrologici) ad Alchandreus il filosofo ‒ integravano l'originaria tradizione latina di testi sulla scienza degli astri e il motivo dell'attribuzione degli scritti sull'astrolabio a Tolomeo è probabilmente da ricercarsi nel fatto che al traduttore (o ai traduttori) del tardo X sec. era già nota una versione araba del Planisfero di Tolomeo su cui era basata la costruzione dell'astrolabio.
Il grande sviluppo che le attività di traduzione conobbero nel corso del XII sec. dipese dal rinnovamento dei programmi educativi nelle scuole monastiche e nelle cattedrali, oltre che dall'alto livello che l'indagine scientifica aveva raggiunto nel regno islamico di Saragozza. Un programma educativo ideale fu descritto nell'Heptateuchon, opera redatta da Teodorico, cancelliere della cattedrale di Chartres, all'inizio degli anni Quaranta del secolo. Al prologo, in cui l'autore dichiarava di voler conciliare scienza e filologia (come Marziano Capella) per presentare il modello di un'educazione filosofica completa, seguiva un elenco nel quale erano indicati tutti i più importanti testi per ciascuna delle sette arti liberali (il trivium, o arti del linguaggio, e il quadrivium). Questo elenco ci consente di verificare in quale misura gli studiosi si avvalessero della tradizione latina e in quali evenienze, invece, fossero costretti a ricorrere ad altre fonti. La sezione dedicata al trivium comprendeva esclusivamente testi latini della Tarda Antichità; in quella dedicata al quadrivium, per l'aritmetica e la musica erano citati il De institutione arithmetica e il De institutione musica di Boezio, mentre per la geometria e l'astronomia Teodorico doveva ricorrere alla tradizione araba.
Fonti d'informazione di Teodorico furono il suo antico allievo, Ermanno di Carinzia, e l'inseparabile collega Roberto di Ketton, grandi conoscitori dell'astronomia araba. Ermanno dedicò a Teodorico la sua traduzione dall'arabo del Planisfero di Tolomeo, nella cui prefazione descriveva la nascita della scienza degli astri, le sue principali divisioni in matematica e fisica celeste, e i suoi testi di riferimento: l'Almagesto e il Quadripartitum di Tolomeo, il De scientia stellarum di al-Battānī ‒ tradotto da Roberto ‒ e l'Introductorium maius in astronomiam di Abū Ma῾šar. In una nota più tarda Ermanno riferisce di avere eseguito lui stesso la traduzione delle tavole astronomiche di al-Ḫwārazmī. La dedizione di Roberto allo studio della scienza degli astri risulta chiaramente da quanto egli stesso scriveva a Pietro il Venerabile, in una lettera che accompagnava la sua traduzione del Corano: "un dono celeste che racchiude in sé l'intera scienza; che rivela secondo il numero, la proporzione e la misura, tutte le orbite celesti e le loro quantità, ordini e condizioni, e, infine, tutti i diversi moti delle stelle, i loro effetti e la loro natura e ogni altra cosa di questo genere […] basato a volte su argomenti probabili, altre volte su argomenti necessari" (Burnett 1982, p. 6).
Roberto ed Ermanno operavano sulle rive dell'Ebro, e non è certamente una coincidenza che il loro programma di traduzione includesse alcune delle opere che avevano costituito le fonti dell'opera matematica redatta sotto la dinastia degli Hūdidi, che regnava sullo stato islamico nato sulle rive dell'Ebro: il regno di Saragozza. Nella prefazione alla traduzione del commento (commentum) di Ibn al-Muṯannā alle tavole astronomiche di al-Ḫwārazmī, eseguita da Ugo di Santalla, è contenuta un'importante testimonianza sulla diretta utilizzazione dei numerosi manoscritti degli Hūdidi da parte dei traduttori. Nella prefazione di Ugo si legge: "Ti invio la traduzione del commentum che il tuo insaziabile desiderio di conoscenza filosofica ebbe il merito di trovare nella collezione di libri (armarium) di Rueda, nei più segreti recessi di quella biblioteca" (Haskins 1927, p. 73). Ugo dimostrava di essere a conoscenza di un gran numero di libri, presumibilmente appartenuti alla stessa biblioteca, tra i quali menzionava i commenti di al-Kindī all'Almagesto e al Quadripartitum di Tolomeo, alcune opere dedicate al calcolo degli oroscopi di Abū Ma῾šar, Māšā᾽Allāh e Alheacib Alcufi, un testo di carattere generale sull'astrologia attribuito ad Aristotele e alcune opere attribuite invece a Ermete Trismegisto.
Degne di nota sono soprattutto due fonti citate in questo elenco: Ermete Trismegisto e al-Kindī. Sembra che Ugo considerasse Ermete Trismegisto la più importante fonte sui segreti della scienza, al punto che si applicò con impegno alla traduzione del maggior numero possibile di testi ermetici. Secondo Ugo, Ermete Trismegisto era il rappresentante ideale dell'antica saggezza concessa da Dio a pochi eletti di alta perfezione morale, chiamati a preservare tale preziosa conoscenza custodendola con cura e trasmettendola per vie segrete. Uno dei testi astrologici tradotti da Ugo sembra aver seguito questa via di trasmissione; si tratta del suo Liber Aristotelis, la traduzione latina della versione araba di un testo medio persiano zoroastriano in cui si dichiara essere racchiusa tutta la sapienza antica del periodo precedente al diluvio (di quest'opera ci è pervenuta soltanto la versione latina di Ugo). Le opere ermetiche erano abitualmente accompagna-te dai testi di filosofia, di astrologia e di scienze occulte di al-Kindī; questo autore infatti mostrò un vivo interesse per i testi ermetici, di cui era probabilmente entrato in possesso in quanto legato alla tradizione dei Sabei di Ḥarran, una setta filosofica della Mesopotamia settentrionale che praticava il culto degli astri richiamandosi all'autorità di Ermete Trismegisto e Agatodemone.
A quanto pare, le traduzioni di Ugo s'intrecciavano con quelle di Ermanno e di Roberto. Sia Roberto sia Ugo tradussero gli Iudicia di al-Kindī ed Ermanno inserì una parte della traduzione di Roberto nel suo compendio sul ritrovamento degli oggetti smarriti. Conosciamo inoltre tre manoscritti di un altro compendio composto da tre testi sui giudizi astrologici ‒ noto col titolo di Liber trium iudicum (Londra, BL, Arundel 268) ‒ che include anche una traduzione degli Iudicia di al-Kindī. Nella prefazione di ciascun manoscritto è contenuta una dedica; nei primi due essa è indirizzata al "mi karissime R." (cioè Roberto), nel terzo a Michele, il vescovo di Tarazona; poiché il traduttore degli Iudicia è Ugo di Santalla, è possibile che lui stesso abbia eseguito la traduzione dell'intero compendio, dedicando l'opera a entrambi i personaggi. La vicinanza geografica dei luoghi in cui operavano i tre traduttori, la loro evidente conoscenza degli stessi testi arabi e alcune analogie nella terminologia tecnica suggeriscono l'ipotesi di una reciproca collaborazione motivata da comuni interessi scientifici, secondo un preciso programma che, abbracciando la geometria e l'astronomia (dagli Elementi di Euclide all'Almagesto di Tolomeo), risultava utile per il calcolo delle previsioni del moto dei corpi celesti e degli oroscopi.
Diverse appaiono invece le ragioni alla base del lavoro dei tre studiosi; Roberto, uomo di chiesa, era del tutto indifferente all'astrologia e interessato a promuovere la scienza dei cieli soprattutto allo scopo di dimostrare la gloria di Dio; Ugo, da parte sua, riteneva che la sapienza fosse una prerogativa di pochi eletti designati da Dio; l'ideale di Ermanno, invece, era quello di spiegare il funzionamento dell'Universo basandosi su quanto lui e Roberto avevano scoperto ex intimis Arabum thesauris (De essentiis, ed. Burnett, pp. 70-71), e ne risultò il De essentiis, un'opera che si avvale di almeno sessanta fonti ‒ alcune delle quali attribuite a Ermete Trismegisto ‒ ed esplicitamente modellata sul Timeo di Platone, la più coerente ed erudita cosmologia fino ad allora accessibile in latino.
Un'altra figura che merita di essere ricordata accanto a quelle di Roberto, Ugo ed Ermanno è Abrāhām ibn ῾Ezrā (1090 ca.-1167). Roberto di Ketton è menzionato per l'ultima volta, in alcuni documenti spagnoli, come canonico di Tudela, nel 1157; a Tudela ‒ città sulle rive dell'Ebro a ven-ti chilometri da Tarazona ‒ nacque e operò Abrāhām ibn ῾Ezrā, dotto ebreo del XII secolo (v. par. 1). Dai suoi scritti in ebraico e dalle testimonianze di altri studiosi ebrei si evince che costui nacque a Tudela tra il 1089 e il 1092 e qui visse fino al 1140, allontanandosi soltanto occasionalmente per visitare altre regioni della Spagna e dell'Africa settentrionale. Nello stesso periodo in cui Roberto, Ermanno e Ugo elaboravano un curriculum scientifico in latino basato sulle opere arabe, Abrāhām ibn ῾Ezrā iniziava a svolgere la sua attività nel campo delle opere scientifiche in ebraico; gli sono attribuiti infatti sia una traduzione del commento alle tavole astronomiche di al-Ḫwārazmī (tradotto anche da Ugo di Santalla) sia molti scritti in latino sull'astrologia e l'astronomia, tradotti dall'ebraico o composti direttamente in latino.
Le tracce di una probabile collaborazione tra Abrāhām ibn ῾Ezrā e i tre traduttori latini ‒ risalente agli anni Quaranta del XII sec. ‒ ci riportano nella Valle dell'Ebro. Ermanno di Carinzia terminò il suo De essentiis a Béziers nel 1143; l'unico suo allievo di cui sia nota l'esistenza, Rodolfo di Bruges, scrisse un'opera sull'astrolabio in cui citava come esempio la data del 24 aprile 1144 e la città di Béziers; nel 1140 Abrāhām ibn ῾Ezrā lasciò la sua città natale per intraprendere un lungo viaggio durante il quale visitò le comunità ebraiche di diverse regioni europee. Alla fine degli anni Quaranta del XII sec. la sua presenza fu segnalata anche a Béziers e nei dintorni di Narbona, dove risiedevano importanti comunità ebraiche. In un manoscritto latino (Parigi, BN, lat. 16208) è contenuto un oroscopo calcolato da Abrāhām ibn ῾Ezrā per un bambino nato a Béziers nel 1136; in un altro manoscritto (Londra, BL, Cotton Vespasian A. II) sono contenute due opere latine di Abrāhām ibn ῾Ezrā, tra le quali è inserito anche il testo di Rodolfo di Bruges sull'astrolabio.
Il principale contributo di Abrāhām ibn ῾Ezrā alla scienza latina è rappresentato dalla compilazione di alcune tavole astronomiche in cui sono indicate anche le istruzioni relative all'uso dell'astrolabio. Se le differenti versioni di queste tavole indicano le diverse città dell'Occidente europeo in cui esse furono diffuse (con ogni probabilità al seguito dello stesso Abrāhām ibn ῾Ezrā), vale a dire Bordeaux, Angers, Winchester e Londra, molto più significativi sono invece il luogo e l'epoca della loro originaria composizione. Furono compilate, infatti, nel 1143 a Pisa quando questa era una delle due più importanti città mercantili (l'altra era Venezia), e possedeva fondachi in molte città mediterranee. Non sorprende quindi il fatto che tra i manufatti provenienti dall'Oriente, in questa città vi fossero anche prodotti culturali.
Il decano dei traduttori dal greco al latino è stato Burgundio di Pisa (1110 ca.-1193), vissuto per un certo periodo nel quartiere pisano di Costantinopoli, dove aveva probabilmente acquistato alcuni manoscritti greci. L'opera di traduzione di Burgundio e dei suoi colleghi pisani ‒ i fratelli Ugo Etherianus e Leo Tuscus, e Giacomo Veneto ‒, comprendente sia opere teologiche sia opere scientifiche di Aristotele e di Galeno, è ben nota; non lo è invece altrettanto l'importanza di Pisa come centro di traduzione di opere arabe. Da qui infatti partivano due correnti parallele; una rappresentava la continuazione dell'opera di traduzione di testi di medicina araba, iniziata verso la fine dell'XI sec. da Costantino l'Africano su manoscritti di cui era entrato in possesso a Kairouan (nell'attuale Tunisia), l'altra, invece, concerneva la traduzione di nuovi testi, provenienti probabilmente da Antiochia, dove i Pisani occupavano una zona della città. Una testimonianza importante al riguardo è contenuta in un'integrazione alla traduzione del Kitāb al-malikī (Pantegni) di ῾Alī ibn ῾Abbās (al-Maǧūsī), parzialmente eseguita da Costantino e da lui pubblicata a proprio nome con il titolo di Pantegni: "Costantino l'Africano […] ha tradotto fin qui questo testo. La rimanente parte del nono libro è stata tradotta da Giovanni ‒ un saraceno convertitosi alla fede cristiana ‒ e dal dottor Rusticus di Pisa, figlio di Bella (o "dal dottor Giovanni, figlio di Bella […] e da Rusticus di Pisa") al tempo della spedizione inviata all'assedio di Maiorca" (Berlino, Staatsbibliothek, Rose 898 = lat. f. 74).
Pochi anni dopo questa spedizione (1114-1115) Stefano di Pisa eseguiva ad Antiochia una traduzione completa del Kitāb al-malikī e di numerosi testi di filosofia; le tavole compilate da Abrāhām ibn ῾Ezrā a Pisa erano basate su quelle di al-Sūfī, diffuse più in Oriente che nell'Andalusia. Sia Abrāhām ibn ῾Ezrā sia Stefano di Pisa utilizzavano una forma orientale della numerazione indo-araba, che non rivela tracce di contaminazione con le forme occidentali della numerazione, divenute poi la norma nell'Occidente europeo. Queste forme grafiche orientali (definite in un manoscritto "figure indice") sono riscontrabili anche nella prima copia del già citato Liber trium iudicum, oltre che nell'opera di altri due insigni traduttori: Savasorda (o Abrāhām ibn Ḥiyyā) e Platone di Tivoli (o Tiburtino). I testi latini redatti da questi ultimi affrontano temi analoghi a quelli svolti da Ermanno, Roberto e Rodolfo, integrati con argomenti di trigonometria (il Liber embadorum) e di geomanzia (il Liber arenalis scientiae di Alfarinus). Il segno di riconoscimento della loro traduzione è un oroscopo inserito alla fine di ogni opera, indicante la data di composizione. Gli scritti in ebraico sulla scienza araba di Savasorda risultano legati anche a quelli di Abrāhām ibn ῾Ezrā; sembra infatti che quest'ultimo (o uno dei suoi allievi) abbia commentato le tavole astronomiche compilate da Savasorda.
Altro personaggio di un certo rilievo fu Pietro d'Alfonso; nato a Huesca (probabile luogo di nascita di Savasorda), dove ricevette un'educazione ebraica nel periodo in cui la città era sotto il dominio musulmano, nel 1106, dopo aver ricevuto il battesimo, si recò in Inghilterra e lì introdusse le tavole astronomiche di al-Ḫwārazmī, successivamente divulgate da Ermanno. Anche Adelardo di Bath tradusse queste tavole, usando, a quanto sembra, lo stesso manoscritto di Pietro d'Alfonso, ma aggiungendovi una breve introduzione all'astrologia, una serie di aforismi astrologici e un libro sui talismani magici. Il principale contributo di Adelardo alla scienza occidentale è rappresentato dalla traduzione degli Elementi di Euclide, che inaugura lo studio sistematico della geometria nel Medioevo latino. Il fatto che Roberto abbia riveduto la sua traduzione delle tavole astronomiche di al-Ḫwārazmī e (forse) degli Elementi di Euclide avvalora l'ipotesi che egli sia stato allievo di Adelardo.
Da quanto detto, emerge una fitta trama di relazioni fra studiosi; i cristiani erano studiosi itineranti alla ricerca di nuovi testi di matematica da acquistare o da inviare al proprio paese. Essi facevano molto affidamento sulla superiorità delle conoscenze linguistiche e scientifiche degli Ebrei, o degli Ebrei convertiti, ed erano interessati soprattutto all'acquisizione e alla trasmissione delle tecniche dell'aritmetica indo-araba, della geometria euclidea e dell'astrolabio, oltre che all'interpretazione delle tavole astronomiche e al calcolo degli oroscopi. Per questo, la traduzione delle opere arabe non doveva necessariamente essere letterale, e spesso essa risultava meno importante del lavoro di interpretazione o del sommario delle tecniche che gli studiosi cristiani abitualmente compilavano. Oltretutto, quando non usavano i numeri romani (che rappresentavano ancora la norma), essi impiegavano la forma orientale della numerazione indo-araba.
I centri in cui si svolgeva quest'attività erano le città cosmopolite della Spagna nordorientale (Tudela, Tarazona e Barcellona), della Francia meridionale (Béziers) e dell'Italia settentrionale (Pisa e Lucca). Le traduzioni e il lavoro di interpretazione erano destinati prevalentemente ai colleghi scienziati, ma potevano andare anche a eminenti studiosi e committenti, come, per esempio, Teodorico di Chartres (nel caso di Ermanno) e il più potente sovrano dell'epoca, Enrico II d'Inghilterra (nel caso di Adelardo). Il ms. Digby, conservato a Oxford presso la Bodleian Library, è un tipico esemplare dei manoscritti compilati da questi autori; esso è scritto accuratamente e contiene entrambe le opere dedicate a un misterioso personaggio chiamato Giovanni Davide (il trattato sull'astrolabio di Ibn al-Ṣaffār e l'opera sull'astrolabio di Rodolfo di Bruges), testi di Platone di Tivoli, di Roberto di Ketton (a volte confuso con Roberto di Chester) e probabilmente di Abrāhām ibn ῾Ezrā, la forma orientale della numerazione indo-araba, notazioni arabe apposte al margine e la firma di un prestatore su pegno ebreo.
Toledo
Intorno alla metà del XII sec. l'attività di traduzione conobbe una svolta importante, non soltanto perché finì per concentrarsi a Toledo, l'antica sede metropolitana spagnola, ma anche per il fatto che le traduzioni acquistarono progressivamente un carattere professionale. I primi segni di questo cambiamento sono rintracciabili nell'attività di Raimondo di Marsiglia, le cui opere si datano intorno al 1140; il più antico manoscritto con i suoi testi (Parigi, BN, lat. 16208) contiene anche la traduzione del De electionibus di al-῾Imrānī e, come detto, l'oroscopo calcolato da Abrāhām ibn ῾Ezrā per un bambino nato a Béziers. Raimondo compilò le tavole per il meridiano di Marsiglia basandosi non su quelle di al-Ḫwārazmī e neppure su quelle di Pisa, ma sulle Tavole di Toledo, compilate da al-Zarqalī (m. 1100). Nell'opera sull'astrologia giudiziaria che accompagna queste tavole, egli utilizza gli Iudicia attribuiti a Tolomeo, il più antico manoscritto dei quali era stato redatto a Lucca prima del 1160, inserendovi anche le figure indice. Si serve inoltre delle traduzioni delle introduzioni all'astrologia di al-Qabīṣī (Alchabitius) e di Ibn Bišrūn, tra le prime opere di Giovanni di Siviglia la cui attività era legata alla città di Toledo.
Giovanni di Siviglia e Limia dedicò a Raimondo di Salvetat una traduzione dell'opera di Qusṭā ibn Lūqā, De differentia animae et spiritus. Tradusse anche quattro brevi testi, dei quali il primo sull'astronomia, il secondo sull'astrologia, il terzo sui talismani e probabilmente un quarto sulla dieta, tratto dallo pseudoaristotelico Secretum secretorum; due di essi, quello sulla dieta e il De differentia animae et spiritus, raggiunsero un'ampia e rapida diffusione grazie alla loro incorporazione nella prima raccolta di testi aristotelici di filosofia naturale, il Corpus vetustius. Alcuni manoscritti segnalano che le traduzioni furono eseguite a Limia, nome che indica probabilmente l'omonima regione portoghese; oltretutto il testo sulla dieta è dedicato a Tarasia, Hispaniarum regina, personaggio identificato con Teresa, contessa di Burgundy, proclamata regina dai Portoghesi nel 1112, poi deposta e imprigionata da suo figlio nel 1128.
Oltre a queste brevi opere esiste un corpus di astrologia attribuibile, probabilmente, allo stesso Giovanni di Siviglia, che risulta imponente per dimensioni e completezza. I suoi scritti più vasti sono le traduzioni di due opere del più raffinato astrologo arabo, Abū Ma῾šar, l'Introductorium maius in astronomiam, e un testo di astrologia generale, il De magnis coniunctionibus, annorum revolutionibus ac eorum profectionibus, databili tra il 1133 e il 1145. In ogni caso, fu Giovanni di Siviglia a definire con le sue opere lo stile delle traduzioni eseguite a Toledo; caratterizzate da estrema professionalità, queste traduzioni si attenevano con fedeltà al testo originale, subordinando la personalità del traduttore a quella dell'autore e limitando gli interventi a note esplicative apposte ai margini. Il metodo adottato dai traduttori toledani era molto simile a quello prescritto da Burgundio di Pisa. Con Gherardo da Cremona e Domenico Gundisalvi lo stile toledano si perfezionò ulteriormente, al punto che questi, assieme a Giovanni di Siviglia, divennero i più significativi rappresentanti dell'attività di traduzione svolta a Toledo nella seconda metà del XII secolo.
Gherardo da Cremona e Domenico Gundisalvi
Due documenti provenienti dalla cattedrale di Toledo, risalenti rispettivamente al 1174 e al 1176, sono firmati dal canonico Girardus, dictus magister. Si tratta probabilmente di Gherardo da Cremona, definito gloria cleri in un poema encomiastico che accompagnava una breve commemorazione della sua vita e un catalogo delle opere compilato dopo la sua morte (1187) da colleghi o studenti (socii). I socii classificarono i suoi lavori in base alle discipline trattate: dialettica, geometria, astronomia, filosofia (cioè filosofia naturale e metafisica) e medicina, inserendo alla fine alcuni testi di contenuto eterogeneo. Dall'ordine di successione delle opere emerge chiaramente quanto completo e sistematico fosse il programma di traduzione operato da Gherardo; le prime tre discipline del catalogo concernono le sette arti liberali, che nella cultura latina costituivano l'ossatura dell'educazione tradizionale nelle scienze laiche, a cui Gherardo, secondo la Vita, si era dedicato fin dalla prima giovinezza. Pur essendo consapevole delle lacune dei cosiddetti Latinorum studia, egli non ritenne necessario tradurre scritti arabi né di grammatica né di retorica. Anche i tre testi indicati per la logica si riferiscono tutti agli Analytica posteriora di Aristotele (con una traduzione di questa stessa opera), considerati un testo particolarmente importante per l'argomentazione dimostrativa impiegata nel discorso scientifico. Per la geometria il catalogo dei socii si apre con il testo abitualmente indicato per questa disciplina, gli Elementi di Euclide, che Gherardo conosceva dalla redazione che unificava la traduzione parziale eseguita da Boezio nel VI sec. e la successiva traduzione dall'arabo di Adelardo di Bath; tale redazione però era stata copiata sopprimendo integralmente le dimostrazioni, o inserendovi soltanto brevi indicazioni insieme alle figure seguite dalle didascalie. La traduzione di Gherardo ‒ della quale ci è pervenuta soltanto una copia latina depurata ‒ riporta invece integralmente le dimostrazioni, non soltanto aggiungendo altri testi sulla geometria, ma anche ampliando il campo stesso di questa disciplina; vi include infatti sia l'algebra sia la prospettiva e la statica, fino ad allora del tutto sconosciute ai Latini.
All'ultima delle sette arti liberali, l'astronomia, è dedicata la successiva sezione del catalogo dei socii. Il ben noto Almagesto di Tolomeo ‒ per lo studio del quale, secondo la Vita, Gherardo si era recato a Toledo ‒ è preceduto da un'altra opera, i Rudimenta astronomica di al-Farġānī, ossia la revisione di un testo tradotto da Giovanni di Siviglia e Limia. Trattandosi di una facile introduzione agli argomenti presenti nell'Almagesto, Gherardo potrebbe aver ritenuto utile porre la traduzione di quest'opera prima di quella di Tolomeo per offrirla agli studenti come lettura propedeutica. Tra gli altri testi indicati alla voce astronomia, figurano opere di autori greci o arabi e una serie di tavole astronomiche calcolate localmente sul meridiano di Jaén.
Con la successiva categoria ‒ la filosofia ‒ si lasciano le sette arti liberali per entrare in un campo di studi completamente differente: la filosofia naturale e la metafisica di Aristotele. Il fatto stesso che il termine 'filosofia' sia stato trasferito dall'ambito delle sette arti liberali a quello della scienza naturale e della metafisica è molto significativo; infatti, diversamente dalle arti liberali, non esisteva un programma educativo in lingua latina in cui figurassero queste scienze, né tantomeno Gherardo avrebbe potuto trovare un elenco dei testi di riferimento relativi a questi temi nelle fonti latine. Tuttavia, è evidente, dalle opere che egli tradusse e dall'ordine nel quale sono elencate, che Gherardo era a conoscenza dell'ordine canonico delle opere aristoteliche di scienza naturale stabilito ad Alessandria d'Egitto alla fine del periodo classico e tramandato, assieme alle opere, sia al mondo islamico sia a quello bizantino. Da qui infatti, con ogni probabilità, Giacomo Veneto e Burgundio di Pisa trassero i testi di filosofia naturale e di metafisica che tradussero in latino (la Fisica, il De generatione et corruptione, il De anima, i Parva naturalia e la Metafisica), ma non è ancora chiaro se essi avessero l'intenzione di comporre un vero e proprio corpus latino completo della scienza naturale e della metafisica di Aristotele.
Il programma di Gherardo sembra delineato più nettamente rispetto a quello dei traduttori dal greco al latino, suoi contemporanei; ciò si deve certamente alla sua conoscenza delle divisioni della scienza operate secondo i principî aristotelici dai filosofi arabi, come Qusṭā ibn Lūqā, al-Kindī e Avicenna (Ibn Sīnā). In questo senso una fonte indispensabile per Gherardo fu la Enumerazione delle scienze di al-Fārābī (il penultimo dei testi di filosofia da lui tradotti presenti nel catalogo), in cui al-Fārābī, appunto, indicava non soltanto il modo in cui ripartire i soggetti da trattare in un corso di filosofia aristotelica, ma anche l'elenco completo dei libri di testo da impiegarvi.
La sezione dedicata alla scienza naturale è divisa in otto parti, o inchieste, e per ciascuna si indica il testo o la sezione del testo di Aristotele (o della tradizione aristotelica) in cui l'argomento specifico è analizzato. Le prime tre inchieste sono trattate rispettivamente nella Fisica, nel De caelo e nel De generatione et corruptione, e a tali opere ‒ elencate in questo stesso ordine nel catalogo redatto dai socii di Gherardo ‒ si aggiunge un testo pseudoaristotelico di argomento geografico, il De causis proprietatum elementorum, opportunamente inserito tra il De caelo e il De generatione et corruptione in quanto contenente la descrizione sia delle differenti parti della Terra sia degli elementi naturali. L'inchiesta successiva concerne i principî delle azioni e delle passioni e lo studio degli elementi; essa è trattata nei primi tre libri dei Meteorologica, l'opera che segue immediatamente nell'elenco dei socii. A questo punto, però, i socii osservano che Gherardo non tradusse il Libro IV dei Meteorologica, perché riteneva che fosse già stato tradotto, e in effetti già al tempo dei socii ne circolava a Toledo una traduzione eseguita da Enrico Aristippo in Sicilia. Tuttavia, la ragione per cui Gherardo non tradusse questo libro potrebbe essere un'altra; esso infatti è descritto da al-Fārābī come il testo di riferimento della quinta inchiesta sulla scienza naturale, alla quale in realtà l'opera di Gherardo s'interrompe, forse a causa della morte dell'autore sopraggiunta nel 1187.
Il suo programma fu ripreso, proprio dal punto in cui era stato interrotto, dal suo successore, l'inglese Alfredo di Sareshel, il quale tradusse i libri di testo per le due successive inchieste di scienza naturale di al-Fārābī: la sesta sui minerali e la settima sulle piante. Dal momento che nell'opera di Aristotele non figuravano testi sui minerali, Alfredo tradusse i capitoli dedicati ai minerali ne al-Šifā᾽ di Avicenna; alla traduzione dei primi tre libri dei Meteorologica eseguita da Gherardo aggiunse anche la traduzione di Aristippo del Libro IV, inserendo i capitoli sui minerali alla fine del testo. Ciò si evince chiaramente dal colophon dell'opera: "Il trattato dei Meteorologica di Aristotele di cui il sommo filosofo Gherardo di Lombardia tradusse tre libri dall'arabo al latino, ma di cui Enrico Aristippo tradusse il quarto dal greco al latino. Gli ultimi tre capitoli furono tradotti dall'arabo al latino da Alfredo l'Inglese di Sareshel" (Oxford, Bodl., Selden supra 24, f. 109r). Per la botanica, Alfredo di Sareshel tradusse un'opera intitolata De plantis, composta da Nicola di Damasco ma comprendente molto materiale delle opere perdute di Aristotele sulle piante, corredando di glosse sia il testo dei Meteorologica sia il De plantis.
L'ottava e ultima indagine di al-Fārābī concerne ciò che è comune alle diverse specie animali e ciò che è peculiare a ciascuna di esse; per questo argomento sono indicati tanto i testi aristotelici di scienza naturale quanto il De anima. Riguardo a quest'ultima opera, non deve meravigliare il fatto che a Toledo non ne sia stata eseguita alcuna traduzione e che la traduzione dal greco al latino di Giacomo Veneto sia citata per la prima volta soltanto dopo l'inizio del XII sec.; in realtà, proprio a Toledo era stata tradotta da Avendauth (Abrāhām ben Dāwūd) e Domenico Gundisalvi la sezione dedicata all'anima ne al-Šifā᾽ di Avicenna, che ottenne immediatamente un'enorme popolarità. Riguardo invece ai testi aristotelici sugli animali, al-Fārābī aveva in mente un testo arabo composto da diciannove libri, il De animalibus, che combinava i tre principali trattati di Aristotele su questo soggetto. Benché Alfredo di Sareshel si riferisse a quest'opera, non sembra che egli abbia intrapreso l'immane compito di tradurla; a questa impresa si dedicò invece, a Toledo, un altro inglese, Michele Scoto, il quale, divenuto canonico della cattedrale di Toledo nel 1215, terminò in questa città ‒ prima del 1220 ‒ la traduzione completa dell'opera.
Nell'elenco delle opere di Gherardo redatto dai socii le cinque opere sulla scienza naturale sono precedute da un'unica opera sulla metafisica, conosciuta nella tradizione latina con il titolo Liber de causis di Aristotele. Nell'opera Enumerazione delle scienze di al-Fārābī, Gherardo avrebbe scoperto che questo tema era trattato nella Metafisica di Aristotele, che però non era disponibile in lingua araba a Toledo. In ogni caso, egli riuscì a scovare un'altra opera sulla metafisica che circolava sotto il nome di Aristotele, il Liber de causis appunto, un testo che è in realtà una compilazione neoplatonica ampiamente basata sulla Elementatio theologica di Proclo, mai menzionata da al-Fārābī.
L'interesse per Aristotele che si diffuse tra alcuni studiosi islamici di Cordova si deve certamente all'attività di traduttore svolta da Gherardo da Cremona, mentre le più popolari opere di Avicenna (in particolare quelle riguardanti la psicologia) furono l'oggetto del lavoro di un altro traduttore, Domenico Gundisalvi. Costui era arcidiacono di Segovia ma risiedeva a Toledo; la sua firma, infatti, compare frequentemente nei documenti redatti nella cattedrale di Toledo fino al 1181, anno dopo il quale si data la sua morte. Più che un traduttore Gundisalvi era soprattutto un filosofo cristiano interessato alla scienza teoretica più che a quella pratica, e in particolare alla psicologia e alla cosmologia. Egli utilizzò le fonti arabe come materiale per i propri scritti, la cui originalità e profondità sono state a lungo sottovalutate dalla ricerca moderna. Oltre a riscrivere la traduzione dell'opera Enumerazione delle scienze di al-Fārābī eseguita da Gherardo, potrebbe aver messo mano anche alla versione tramandataci del Liber de causis. Per quanto riguarda gli altri lavori egli si avvalse della collaborazione di altri due traduttori, Avendauth e Giovanni di Spagna.
La più importante delle opere su cui lavorò Gundisalvi fu al-Šifā᾽, l'enciclopedia filosofica dell'aristotelismo di Avicenna divisa in quattro ampie parti ‒ ciascuna delle quali chiamata ǧumla o raccolta ‒ dedicate rispettivamente alla logica, alla scienza naturale, alla matematica e alla metafisica. Avicenna, come al-Fārābī, divideva la scienza naturale in otto parti, ma adottava un ordine di successione parzialmente differente; il De anima occupava la sesta parte, che precedeva quella dedicata alle piante e agli animali; all'anima e agli animali erano assegnate parti distinte, mentre le combinazioni degli elementi e i minerali erano riuniti in un'unica sezione. A ciascuna di esse egli dedicava un singolo libro della raccolta. Al-Šifā᾽ non è un commento alle opere di Aristotele, ma un'esposizione della filosofia di Avicenna sui medesimi temi trattati da Aristotele, con l'aggiunta delle scienze matematiche (sulle quali Aristotele non scrisse nulla). Al tempo della morte di Avicenna i suoi scritti avevano in gran parte sostituito quelli del filosofo greco nell'Oriente islamico e tra alcuni studiosi ebrei.
Con ogni probabilità fu proprio uno di questi studiosi ebrei a introdurre Gundisalvi alla filosofia di Avicenna, cioè Avendauth Israelita, personaggio identificato dalla ricerca più recente con Abrāhām ben Dāwūd, filosofo ebreo che abbandonò Cordova in seguito alle persecuzioni degli Ebrei da parte degli Almohadi, una setta fondamentalista proveniente dal Marocco che assunse il dominio dell'Andalusia nel 1147. Nel 1160 Avendauth si stabilì a Toledo, dove scrisse numerose opere in arabo e in ebraico sulla riconciliazione tra la filosofia e il giudaismo, sulla storia degli Ebrei in Spagna e sull'astronomia. Ci è giunta inoltre una lettera, scritta in un latino povero e indirizzata a un importante personaggio (forse l'arcivescovo di Toledo), in cui il mittente, un certo Avendeuch Israelita, annuncia la sua intenzione di tradurre al-Šifā᾽ di Avicenna. La lettera è accompagnata da un breve saggio della traduzione, preceduto da una versione della biografia araba di Avicenna e dalla prefazione dello stesso Avicenna ad al-Šifā᾽. È probabile che questo documento sia stato redatto in occasione della presentazione di Avendauth all'arcivescovo di Toledo, e segnerebbe quindi l'inizio della sua collaborazione con l'arcidiacono Gundisalvi.
Gundisalvi e Avendauth ‒ forse con la cooperazione di un terzo studioso ‒ tradussero soltanto alcune parti de al-Šifā᾽: la ǧumla sulla metafisica, una parte della logica e l'inizio della fisica, cioè il primo libro della ǧumla sulla scienza naturale (d'Alverny 1993). Che Gundisalvi possedesse in realtà l'intero testo de al-Šifā᾽ è dimostrato dal fatto che nel suo De divisione philosophiae egli citava un passaggio della logica di Avicenna (riguardante la subordinazione delle scienze), che non compare in alcun altro scritto latino. Cento anni dopo, un altro traduttore, Juan Gonsalvo di Burgos, riprese la traduzione della sezione dedicata alla fisica esattamente dallo stesso punto in cui Gundisalvi si era interrotto, traducendo anche altri libri della ǧumla sulla scienza naturale. Alfredo di Sareshel eseguì presumibilmente la traduzione dei capitoli sulla mineralogia (e con una certa probabilità di un capitolo sulle inondazioni) dal manoscritto arabo di Avendauth, mentre Michele Scoto tradusse la sezione sugli animali (l'ultimo libro della ǧumla sulla scienza naturale) dedicandola a Federico II, suo protettore in Sicilia. Per la traduzione delle altre opere arabe, tra le quali il Maqāṣid al-falāsifa di al-Ġazālī e il Fons vitae di Avencebrol (Ibn Gebīrōl), Gundisalvi si avvalse della collaborazione di Giovanni di Spagna, probabilmente lo stesso successogli nella carica di arcidiacono, tuttavia il legame con Avendauth rimase evidente. Non è improbabile infatti che queste due opere siano state sottoposte all'attenzione di Gundisalvi e dell'arcivescovo di Toledo proprio da Avendauth assieme ad al-Šifā᾽ di Avicenna e anche al Liber de causis, definito nel suo più antico manoscritto (Oxford, Bodl., Selden supra 24), come Metaphysica Avendauth.
A Toledo, tra la metà e la fine del XII sec., nell'ambito della filosofia aristotelica esisteva, dunque, una vasta offerta di testi da tradurre: da un lato, i testi originali di Aristotele e le opere di Alessandro di Afrodisia, di al-Kindī e di al-Fārābī che li accompagnavano, e, dall'altro lato, le opere di Avicenna e di al-Ġazālī, che rappresentavano le principali letture degli studiosi ebrei e arabi del tempo.
L'improvviso emergere di uno specifico interesse per le opere di Aristotele da parte di un gruppo di studiosi arabi a Cordova, alla fine del XII sec., fu invece un fenomeno isolato, che ebbe temporanee ripercussioni in Occidente ‒ attraverso le traduzioni dei commenti di Averroè e dell'astronomia aristotelica di Alpetragio (al-Biṭrūǧī) ‒ ma non intaccò il generale predominio di Avicenna tra i filosofi arabi e di al-Ġazālī tra i teologi. È difficile comprendere se questo fenomeno abbia avuto degli effetti anche a Toledo; certo è che a Toledo Gherardo poteva accedere a testi arabi che in altre città del mondo islamico non erano più letti, inclusi i trattati di al-Kindī. Tuttavia, la filosofia aristotelica non costituì il suo interesse principale e le sue traduzioni dall'arabo al latino delle opere di Aristotele non conobbero altrettanto successo, al punto che furono pian piano sostituite da traduzioni eseguite direttamente dal greco (inizialmente da quelle di Giacomo Veneto, successivamente, verso la fine del XIII sec., da quelle di Guglielmo di Moerbeke). Di contro, nell'ambito della matematica il lavoro di Gherardo ebbe un'influenza molto più duratura sugli studi occidentali, tuttavia furono soprattutto le sue traduzioni dei testi medici a raggiungere la maggiore popolarità.
Nel campo della medicina, come in quello della filosofia, l'opera di traduzione svolta a Toledo non si limitò a un esercizio casuale, ma divenne un progetto nell'autentico senso della parola. Se si esamina l'elenco dei testi tradotti da Gherardo sulla medicina, compaiono per primi nove scritti di Galeno, noto ai Latini come il più insigne dei dottori greci; in realtà, però, fino all'epoca di Gherardo solamente una minima parte delle opere di Galeno era stata tradotta in latino, in quanto esse erano ritenute troppo complicate per le esigenze dei comuni medici (essendo Galeno dottore e filosofo insieme). Costantino l'Africano, il più importante predecessore di Gherardo nella traduzione di testi medici dall'arabo al latino, era a conoscenza di un elenco di sedici opere selezionate tra la vasta produzione di Galeno, su cui si basava l'insegnamento della medicina ad Alessandria d'Egitto, ma ne tradusse soltanto una, il Megategni o Methodus medendi. Gherardo tradusse almeno altri cinque testi di quest'elenco, scelti in base al suo interesse ‒ e a quello dei suoi contemporanei ‒ per la teoria degli elementi, la complessione e i metodi terapeutici; tra le altre opere da lui tradotte che compaiono nell'elenco dei socii figurano due scritti di Isaac Israeli (Isḥāq al-Is̆rā᾽ilī) dedicati anch'essi agli aspetti filosofici della medicina ‒ il De elementis e il De descriptione rerum et definitionibus earum et de differentia inter descriptionem et definitionem ‒ e alcuni testi di medicina dei successori arabi di Galeno: Rhazes (al-Rāzī), due studiosi arabi originari dell'Andalusia, al-Zahrāwī e Ibn Wāfid, e Avicenna, il cui Canone, nella traduzione di Gherardo, divenne il principale testo di riferimento nel campo dell'educazione medica in Europa e seguitò a far parte del curriculum universitario fino all'inizio del XVIII secolo.
La sezione dell'elenco delle opere di Gherardo dedicata ai testi di contenuto eterogeneo inizia con alcune opere sull'alchimia, il cui rapporto con la scienza naturale e la medicina era sentito come cosa ovvia. A queste seguono due opere dedicate alla divinazione; nella prima, la divinazione è trattata attraverso segni naturali o artificiali sulla sabbia o sulla carta (la geomanzia), mentre la seconda si occupa della divinazione operata grazie a un sistema di domande e risposte ottenute attraverso un processo di calcolo casuale. L'ultima voce è rappresentata da un testo di carattere strettamente locale e precisamente un calendario derivato dalla combinazione di un calendario arabo, ordinato in base al sorgere e al tramontare degli anwā᾽ (o 'case lunari'), e di un calendario liturgico cristiano, destinato ai cristiani di lingua araba di Cordova.
La totale assenza di testi astrologici nell'elenco delle opere tradotte da Gherardo è degna di nota, soprattutto se si considera che l'unica testimonianza diretta in nostro possesso su Gherardo lo ritrae nell'atto di spiegare un testo astrologico. La fonte è Daniele di Morley, un inglese in visita a Toledo, che affermava di aver ascoltato Gherardo dissertare di astrologia e di aver sostenuto con lui una disputa nella quale quest'ultimo avrebbe difeso questa scienza contro le sue obiezioni. Supporre che Gherardo abbia deliberatamente ignorato l'astrologia in un periodo in cui si riteneva che essa possedesse la stessa validità scientifica della medicina è alquanto improbabile; non è neppure possibile che i socii l'abbiano esclusa dall'elenco come attività indegna per un grande maestro. Con ogni probabilità la risposta a questo quesito va cercata altrove; a Toledo vi era una netta divisione tra l'attività di traduzione di Gherardo da Cremona e quella di Domenico Gundisalvi; il primo prediligeva le opere degli autori greci e dei loro commentatori arabi, il secondo, invece, la filosofia di Avicenna e gli scritti degli studiosi ebrei contemporanei. Considerando che sia Gherardo sia Gundisalvi operavano nell'ambito della cattedrale di Toledo, è difficile credere che fossero ignari delle rispettive opere o addirittura che si osteggiassero; essi, inoltre, certamente conoscevano anche l'opera di Giovanni di Siviglia; dunque, forse Gherardo non tradusse nuovi testi di astrologia proprio perché Giovanni di Siviglia aveva già portato a termine questo compito o vi era ancora impegnato.
L'attività di traduzione svolta a Toledo fu comunque decisamente sistematica, non soltanto perché i singoli traduttori si attenevano a programmi ben determinati, ma anche perché i diversi ambiti della scienza erano trattati da studiosi differenti. Si era anche al corrente del lavoro eseguito in altri centri; Gherardo era a conoscenza del fatto che il Libro IV dei Meteorologica di Aristotele era già stato tradotto in Sicilia e Gundisalvi utilizzò nei propri scritti sia la traduzione del De differentia animae et spiritus di Giovanni di Siviglia e Limia sia le opere di Ermanno di Carinzia. È però difficile comprendere le motivazioni alla base di questa fervente attività di traduzione; diversamente dai traduttori della prima metà del XII sec., lo scopo di quelli che operarono a Toledo non sembra infatti essere stato quello di entrare in possesso di testi da riportare, o da inviare, ai centri di studio da cui provenivano. Le traduzioni eseguite a Toledo giunsero lentamente in città come Parigi, Oxford, Montpellier e Bologna; la stessa Toledo divenne quindi il centro per il quale le traduzioni erano eseguite.
Gherardo, Gundisalvi e Giovanni di Spagna erano tutti in qualche modo legati alla cattedrale, anche se non risulta che l'opera di traduzione sia stata attivamente promossa dagli arcivescovi. Solamente due traduzioni contengono una dedica: il De differentia animae et spiritus, che in una famiglia di manoscritti è dedicato all'arcivescovo Raimondo, e la sezione de al-Šifā᾽ sull'anima, che è dedicata al successore di quest'ultimo, Giovanni. Nei documenti della cattedrale non vi è traccia dell'esistenza di una scuola di traduttori ufficialmente istituita, sebbene molte testimonianze attestino la fama di cui Toledo godeva nel campo delle scienze matematiche, della magia e della negromanzia; in ragione di questa celebrità, numerosi furono gli studiosi che vollero trasferirsi a Toledo per approfondire queste materie, e più a fondo si indaga sulle opere di Gherardo, di Gundisalvi e dei loro colleghi ‒ sia sulle loro traduzioni sia sulle loro glosse e opere originali ‒, più ci si rende conto della ricchezza e della qualità del loro sapere a livello filologico e scientifico.
di Charles S.F. Burnett
Averroè e l'apice della tradizione aristotelica
Da sempre Aristotele era considerato un autore oscuro, una sfinge che necessitava di un'interpretazione; per questo Gherardo da Cremona tradusse alcuni testi di Alessandro di Afrodisia, di al-Kindī e di al-Fārābī, e Alfredo di Sareshel compose commenti ai Meteorologica e al De plantis, inserendovi glosse che si trovavano già nei manoscritti arabi. Il culmine di questo lavoro di 'esegesi aristotelica' è costituito dalle traduzioni dei commenti di Averroè alle opere di Aristotele, poi suddivisi dagli studiosi ebrei e latini del Medioevo in epitomi (parafrasi o compendia), commenti medi (che non riportavano il testo di Aristotele), e grandi commenti (in cui il testo era spiegato frase per frase). Parallelamente, Averroè compilò sommari anche per la Repubblica di Platone, l'Almagesto di Tolomeo e alcune opere di Galeno.
La questione relativa all'identità dell'autore di queste traduzioni in latino e al luogo in cui esse furono eseguite rimane ancora aperta, poiché gran parte delle opere risulta anonima. A quanto pare, non vi è prova del fatto che la traduzione dei sommari e dei commenti di Averroè (la maggior parte dei quali era stata composta a Cordova, distante appena 300 km da Toledo) abbia avuto inizio a Toledo, sebbene proprio in questa città siano state tradotte altre opere provenienti dalla corte degli Almohadi. Marco di Toledo, un canonico della cattedrale, aveva tradotto il Corano (una prima traduzione era stata promossa da Pietro di Cluny, v. par. 1) e gli scritti religiosi (῾Aqīda e due Muršida) di Ibn Tūmart, riformatore religioso (Mahdī) e ispiratore del movimento politico che portò al potere gli Almohadi. Michele Scoto aveva tradotto il Kitāb fī al-hay᾽a (De motibus caelorum) scritto a Cordova dopo il 1185 da Alpetragio.
Proprio a Toledo, dopo i primi anni del XIII sec., venne progressivamente meno l'interesse nei confronti della filosofia aristotelica; infatti, Marco di Toledo si dedicò a tradurre opere mediche di Galeno, mentre Salio di Padova, contemporaneo di Marco, tradusse opere di astrologia e di geomanzia. Nel 1235 un traduttore anonimo eseguì la versione latina di un'opera sulla divinazione attraverso le comete, scritta nella Spagna islamica mentre le ultime città musulmane, Siviglia e Cordova, cadevano nelle mani dei cristiani.
Queste traduzioni testimoniano il prevalere nel XIII sec. di un interesse pratico nella scelta delle opere da tradurre. Per questa ragione gli studiosi interessati a continuare l'opera d'interpretazione della filosofia aristotelica dovettero rivolgersi altrove per proseguire nei propri studi, in particolare alla Provenza e all'Italia. Le alterne vicende biografiche di Michele Scoto illustrano perfettamente questa situazione. Come a suo tempo Gherardo da Cremona, all'inizio del XIII sec. Michele Scoto era canonico della cattedrale di Toledo, nel periodo cioè in cui Rodrigo Jimenez de Rada era arcivescovo. Proprio Rodrigo potrebbe averlo incoraggiato e appoggiato nel suo lavoro di traduzione dei testi arabi; egli stesso infatti aveva utilizzato fonti arabe per comporre l'Historia gothica e l'Historia Arabum. Nell'anno 1215 Michele accompagnò l'arcivescovo Rodrigo a Roma mentre era in corso il IV Concilio lateranense, e qui probabilmente trascorse un lungo periodo di soggiorno. Nel 1217, a Toledo, egli terminò la sua traduzione dell'opera cosmologica di Alpetragio con la collaborazione di un ebreo chiamato Abuteus e si accinse al compito di realizzare la traduzione del monumentale De animalibus, terminata nel 1220.
Quando però nel 1229 il canonicato di Michele era vacante, il legato papale, Giovanni di Abbeville, ritenne suo dovere specificare che compito del sostituto doveva essere soltanto quello di coadiuvare l'arcivescovo nelle sue cure pastorali, sottintendendo con ciò che il canonicato non doveva più essere usato come sostegno dell'attività di traduzione. Michele Scoto dovette perciò cercare altrove l'appoggio che gli consentisse di continuare il suo lavoro. Sappiamo che tra il 1224 e il 1227 il papa Onorio IV e il suo successore Gregorio IX avevano inviato una serie di lettere in Inghilterra e in Scozia per ottenere benefici in suo favore, sottolineando la sua completa dedizione al sapere e i suoi notevoli studi ebraici e arabi. Le ultime lettere di presentazione scritte dal papa risalgono all'aprile 1227; documenti posteriori a questa data testimoniano invece la protezione ormai ottenuta da Michele presso la corte dall'imperatore Federico II, al quale dedicherà la traduzione della sezione de al-Šifā᾽ di Avicenna sugli animali e una vasta enciclopedia scientifica concepita come un'introduzione all'astrologia.
Anche se il contributo di Michele alla traduzione delle opere di Averroè non è del tutto chiaro, egli certamente tradusse il grande commento al De caelo, inserendolo alla fine del Kitāb fī al-hay᾽a di Alpetragio (testi scritti in difesa della cosmologia aristotelica). L'opera fu dedicata a Stefano di Provins, che nel 1231 era entrato a far parte ‒ per volere del papa Gregorio IX ‒ della commissione composta da tre membri, cui era stato affidato il compito di depurare le opere di Aristotele. È probabile perciò che questa traduzione sia stata eseguita nel periodo in cui Michele godeva del sostegno del papa. Sono prove a sostegno della sua attività di traduzione delle opere di Averroè un'affermazione contenuta in un manoscritto, secondo la quale egli tradusse il grande commento al De anima dal greco, e l'identificazione, operata da Alberto Magno, di Michele con "Nicolaus Peripateticus", al quale alcuni manoscritti attribuiscono un brano scelto del grande commento alla Metafisica. Altra testimonianza interessante è quella di Ruggero Bacone, secondo il quale Michele avrebbe fatto la sua comparsa a Parigi nel 1230 "portando con sé alcune parti dei libri di Aristotele concernenti la scienza naturale e la metafisica, con le autentiche interpretazioni, fatto per cui la filosofia di Aristotele acquistò una grande fama tra i Latini" (Opus maius, ed. Bridges, I, p. 55).
Il trasferimento di Michele Scoto presso la curia papale e, successivamente, alla corte di Federico II rese possibile la continuità nella sua attività di traduzione; questa però non fu l'unica via attraverso la quale i testi arabi aristotelici giunsero dalla Spagna in Italia. Anche dopo il 1147, anno dell'espulsione dalla Spagna islamica, gli Ebrei residenti nella Spagna cristiana, e particolarmente a Toledo, avevano conservato intatto l'interesse, che condividevano con le comunità ebraiche di altre città del Mediterraneo, per la filosofia araba. Tuttavia, gli studiosi ebrei erano, a quanto sembra, più interessati ai sommari e alle opere originali di Averroè che ai commenti letterali tradotti da Michele Scoto. Le prime traduzioni di Averroè in ebraico furono eseguite in Provenza da Šemū᾽ēl ibn Tibbōn prima del 1239 (anno della sua morte), e riguardavano tre brevi testi sull'intelletto umano: due dello stesso Averroè e uno del figlio di quest'ultimo, Abū Muḥammad ῾Abd Allāh, che Šemū᾽ēl aveva incluso nel suo commento al libro dell'Ecclesiaste per dimostrare che l'anima dell'uomo virtuoso ascende verso l'alto.
Il genero di Šemū᾽ēl, Jacob Anatoli, intorno al 1230 si trasferì dalla Provenza a Napoli, dove tradusse alcuni commenti medi di Averroè all'Organon di Aristotele. Nello stesso periodo, a Napoli, Guglielmo di Luna aveva tradotto almeno tre (o forse cinque) testi tra i commenti medi in latino. Il manoscritto arabo utilizzato da Guglielmo per il suo commento medio al De interpretatione, l'unico testo finora dettagliatamente esaminato, appartiene alla stessa famiglia di quello usato da Anatoli. È quindi possibile ipotizzare che Anatoli abbia portato con sé a Napoli dalla Provenza ‒ dove era giunto dalla Spagna ‒ un manoscritto dei commenti medi di Averroè all'Organon (noto collettivamente in arabo come Talḫīṣ al-manṭiq). Tuttavia, il manoscritto potrebbe aver percorso anche un'altra via; Napoli era infatti la città in cui Federico II, nel 1224, aveva fondato l'università; nel colophon delle sue traduzioni, Anatoli ringraziava Dio di aver suggerito all'imperatore, amante del sapere, di sostentarlo (Zonta 1996). In un'altra opera, Anatoli raccontava che lui e Michele, in presenza dell'imperatore, avevano fornito spiegazioni filosofiche di alcuni versetti biblici contenuti nella Guida dei perplessi di Maimonide. È quindi verosimile che sia stato lo stesso imperatore a reperire il materiale arabo grazie ai suoi contatti con la corte degli Almohadi, e forse (se crediamo a quanto afferma nel 1287 Egidio Romano) direttamente dai figli di Averroè, i quali, secondo le fonti arabe, avevano servito il califfo degli Almohadi.
L'opera di traduzione dall'arabo al latino era intensamente sostenuta da Federico II, come dimostra l'attività dei filosofi ufficiali di corte. Conosciamo i nomi di due studiosi specificamente menzionati in atti e altri documenti come i filosofi dell'imperatore (philosophi ad imperatorem Fridericum): Teodoro di Antiochia e Giovanni da Palermo (Michele Scoto non raggiunse mai questa posizione ufficiale). L'attività di Teodoro per Federico II è abbastanza nota; oltre a redigere le sue lettere arabe, egli tradusse per l'imperatore un'opera sulla falconeria (che lo stesso Federico II corresse nel 1140-1141 durante l'assedio di Faenza) e scrisse per lui un testo sul regime alimentare. Degna di nota, però, è soprattutto la sua traduzione della prefazione di Averroè al suo grande commento alla Fisica di Aristotele; poiché infatti la Fisica è il primo libro del corpus aristotelico sulla scienza naturale, la prefazione di Averroè si presenta come una sorta d'introduzione agli scopi e alla metodologia dell'intera scienza naturale di Aristotele. L'importanza dell'opera di traduzione del secondo filosofo di corte, Giovanni da Palermo (che era anche uno dei notai dell'imperatore), è invece emersa solo di recente. Da lungo tempo era nota la sua traduzione di un breve testo di matematica sulle linee rette convergenti che non si incontrano mai (De duabus lineis semper approximantibus sibi invicem et numquam concurrentibus). G. Freudenthal (1988) ha sostenuto però che l'autore di questa traduzione è lo stesso che ha tradotto dall'arabo al latino la Guida dei perplessi di Maimonide, ben nota a Federico.
Il fatto che Anatoli e Guglielmo di Luna abbiano tradotto i testi di Averroè presso l'Università di Napoli, la prima fondata da un imperatore in Europa, è significativo. Federico II aveva cercato di attirarvi i migliori studenti e insegnanti, elogiando la piacevolezza dei luoghi, l'abbondanza dei beni e la compagnia di uomini eruditi. Non è casuale che uno dei suoi primi studenti sia stato Tommaso d'Aquino e che uno dei suoi più illustri insegnanti, Teodoro di Antiochia, abbia avuto come allievo lo scienziato, e futuro papa, Pietro Ispano. In effetti, a Napoli non soltanto le opere di Aristotele sulla scienza naturale e sulla metafisica potevano essere lette e studiate liberamente, mentre tale studio era proibito presso l'Università di Parigi, ma le traduzioni latine di Averroè erano ben conosciute, come dimostrano le opere sopravvissute di Pietro d'Irlanda, l'insegnante di Tommaso d'Aquino. Inoltre, le attività di ricerca erano condivise anche al di là delle frontiere, fatto testimoniato dai frequenti scambi intellettuali tra la curia papale e la corte di Federico; la traduzione di Filippo di Tripoli dello pseudoaristotelico Secretum secretorum era contemporaneamente letta presso la curia papale e presso la corte di Federico da Michele Scoto e Teodoro di Antiochia; Leonardo Fibonacci, i cui studi matematici si fondano sulla conoscenza della matematica araba acquisita durante un soggiorno in Africa, ricevette a Pisa una visita dello stesso imperatore ed è significativo che egli abbia dedicato opere a Michele Scoto, Teodoro di Antiochia e, ancora, a uno dei cardinali della curia papale.
In questo quadro non è da escludere l'ipotesi che anche le comunità accademiche delle altre università italiane abbiano in qualche modo mostrato interesse per l'attività di traduzione. Michele Scoto aggiunse alla sua traduzione del De animalibus un'osservazione di carattere medico che risale al 1220, anno in cui si trovava a Bologna; Teodoro di Antiochia tradusse la prefazione di Averroè al grande commento alla Fisica su richiesta degli studenti di Padova. Secondo molti manoscritti, lo stesso Federico II inviò una lettera ai maestri e agli studenti di Bologna, elogiando le nuove traduzioni dal greco e dall'arabo di Aristotele e di altri filosofi nel campo di tutte le discipline del trivium e del quadrivium. Secondo la ricerca più recente, questa lettera destinata ai dottori di Parigi deve essere attribuita al figlio di Federico, Manfredi, durante il cui regno l'opera di traduzione dei testi fino ad allora sconosciuti di Aristotele e dei suoi commentatori entrò nella fase conclusiva (Gauthier 1982). Questo periodo, infatti, fu caratterizzato dalle traduzioni dal greco ‒ per opera di Bartolomeo da Messina ‒ di opere oggi identificate come pseudoaristoteliche o appartenenti alla scuola di Aristotele, ma attribuite nel Medioevo ad Aristotele: la raccolta etica intitolata Magna moralia, i Problemata, il De signis e la Physiognomica. Manfredi stesso tradusse dall'ebraico un'opera di origine araba, il De pomo, un dialogo immaginario tra Aristotele e i suoi discepoli alla vigilia della sua morte, ispirato al modello platonico del Fedone. Con la sconfitta e la morte di Manfredi, avvenute nel 1266 per mano di Carlo I d'Angiò, s'arrestò però il fronte arabo-latino dell'attività di traduzione e di esegesi aristotelica; in seguito, i testi di Aristotele furono ampliati attraverso le revisioni o le nuove traduzioni dal greco eseguite da Guglielmo di Moerbeke presso la curia papale di Viterbo.
Nel frattempo, a Toledo, l'opera di traduzione degli scritti aristotelici della tradizione araba si era rianimata grazie all'attività di Ermanno il Tedesco. Costui conosceva quanto era già stato tradotto da Michele Scoto e da Guglielmo di Luna, e si trovava probabilmente a Toledo nel periodo precedente alla partenza di Michele Scoto. A partire dal 1240 Ermanno tentò di completare la traduzione del corpus della filosofia aristotelica; nella sua opera si può scorgere un interesse comune già a Roberto Grossatesta, che traduceva dal greco e i cui lavori gli erano certamente noti, ossia il desiderio di reperire e di utilizzare quanti più commenti possibili su ogni opera di Aristotele. Egli tradusse così il commento medio di Averroè all'Etica Nicomachea (1240) e un compendio arabo della stessa opera (Summa Alexandrinorum, nel 1243-1244) per integrare le traduzioni dal greco al latino dell'Etica Nicomachea e dei suoi commentatori greci eseguite da Grossatesta. Tra il 1240 e il 1246 compì la traduzione della Retorica di Aristotele (definita nel manoscritto Averroè in Rhetoricam), inserendovi brani tratti dai commentari di al-Fārābī, di Avicenna e di Averroè per spiegare il significato di alcuni passaggi oscuri del testo aristotelico; nel 1265 tradusse il commento medio alla Poetica.
Nella sua traduzione del commento medio di Averroè all'Etica, Ermanno dichiarava di aver terminato il lavoro il 3 giugno 1240 a Toledo nella cappella della Santa Trinità (in capella Sanctae Trinitatis). Ramón Gonzálvez Ruiz ha sostenuto con argomenti convincenti che l'indicazione si riferisce non alla cappella posta all'interno della cattedrale di Toledo, ma al monastero della Santa Trinità, fondato dopo il 1195 per ottenere la liberazione dei cristiani prigionieri in territorio islamico. In effetti, tra le numerose attività del monastero, l'insegnamento dell'arabo ai frati (per renderli capaci di negoziare direttamente con le autorità islamiche) fu una delle più importanti. Proprio in questo monastero pare che Ermanno abbia trovato i collaboratori che tradussero per lui l'arabo in castigliano, affinché egli lo ritraducesse in latino. È probabile che le traduzioni che Gonzalo Pérez Gudiel, il vescovo di Cuenca intimamente legato alla famiglia reale castigliana, menzionava nel compilare l'inventario dei propri libri intorno all'anno 1273 (un anno dopo la morte di Ermanno) fossero proprio le opere di Ermanno. Questo elenco infatti includeva sia una delle traduzioni castigliane intermedie (el exemplario en romanz de que fue trasladada) sia quasi tutti i commenti di Averroè, in copie originali scritte di proprio pugno dal traduttore, sia la traduzione di Michele Scoto del De animalibus di Aristotele che Ermanno certamente conosceva. Fu lo stesso Gudiel a commissionare una traduzione della Fisica e di altri libri naturali da al-Šifā᾽ di Avicenna; essa iniziava esattamente dallo stesso punto in cui, alla fine del XII sec., Gundisalvi si era arrestato. Da tutti questi elementi emerge che nel corso del XIII sec. a Toledo ci fu una certa continuità nel programma di traduzioni, interrotto (nel periodo compreso tra il 1220 e il 1240) forse a causa della mancanza di un sostegno finanziario locale.
L'attività di traduzione dall'arabo al latino era comunque destinata a rimanere un'attività secondaria in una società in cui la lingua araba aveva un ruolo di primo piano. Ciò è dimostrato, per esempio, dall'attività svolta dalle scuole di lingua (studia linguarum) istituite nel 1250 con un'ordinanza formale dei domenicani per istruire i missionari presso gli Ebrei e i Musulmani, il cui livello di conoscenza della lingua araba era molto elevato. Nel 1250 esisteva una scuola di lingua a Tunisi, ma essa fu sostituita prima da uno studium ad addiscendam linguam arabicam che aveva sede nel convento di Santa Caterina a Barcellona e, successivamente, nel 1265, da uno studium situato a Murcia. Dopo il 1275-1276 lo studio dell'ebraico e dell'arabo si svolse rispettivamente a Barcellona (studium hebraicum) e a Valencia (studium arabicum); l'ultimo istituto domenicano fu lo studium di Jativa in Aragona, fondato nel 1301 per lo studio sia dell'ebraico sia dell'arabo. Qualche anno prima, nel 1276, anche il francescano Raimondo Lullo aveva fondato uno studium arabicum a Miramar.
In realtà, le traduzioni non facevano parte del programma degli studia linguarum, in quanto nelle scuole non soltanto i testi filosofici si leggevano direttamente nell'originale arabo con notevole competenza, ma erano compilati anche glossari latino-arabi al fine di consentire ad altri la lettura del testo originale. Gli esempi al riguardo sono numerosi; così, Raimondo Lullo utilizzò la parte dedicata alla logica delle Intenzioni dei filosofi di al-Ġazālī per la sua Logica Algazelis, mentre il direttore della Scuola di Barcellona, Ramon Marti, usò, nell'originale arabo, un'ampia selezione degli scritti di Avicenna, di al-Ġazālī, di Averroè e di Rhazes nel suo Pugio fidei. Pietro Gallego, vescovo di Cartagena, a cui Alfonso I aveva chiesto di fondare lo studium di Murcia, utilizzò la traduzione araba dei Libri I e II del De partibus animalium per comporre la sua opera sugli animali, e in questo stesso studium un certo Rufino di Alessandria, aiutato dal suo insegnante arabo ‒ frate 'Dominicus Marrochinus' ‒ tradusse Le questioni mediche di Ḥunayn ibn Isḥāq (Iohannitius); infine, Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.), che aveva studiato l'ebraico con Ramon Marti, tradusse a Barcellona almeno due testi medici dall'arabo.
Pratica comune era quella di eseguire le traduzioni in due fasi; nella prima, uno studioso ebreo o mozarabo traduceva il testo arabo in una lingua volgare, e nella seconda fase un magister lo trasferiva in un buon latino (pochissimi Ebrei infatti conoscevano il latino), eliminando così la versione volgare. Quando il volgare divenne una lingua letteraria, e soprattutto in contesti in cui il livello di conoscenza del latino era basso, la versione intermedia non fu più scartata; ciò accadde, in particolare, alla corte di Alfonso X, il quale favorì l'uso del castigliano come lingua letteraria, promuovendo la composizione di storie, testi legali e opere letterarie in questa lingua. In realtà, egli non era affatto interessato né ad Aristotele né al curriculum filosofico universitario, bensì alle conoscenze di carattere pratico, come le regole del gioco degli scacchi e di altri giochi, le credenze tradizionali sulle proprietà delle pietre e sulla pratica della magia e, soprattutto, gli aspetti pratici della scienza degli astri. Proprio per compiacere i suoi interessi, le opere erano tradotte direttamente dall'arabo o si componevano ex novo impiegando modelli arabi. I suoi collaboratori erano prevalentemente ebrei; tra questi bisogna citare Yehūdah ben Mōšeh, suo collaboratore già dal 1243, nove anni prima della sua ascesa al trono, e Isḥāq ben Sīd, costruttore di molti tipi di astrolabio e di altri strumenti astrologici e di orologeria, e aiutante di Yehūdah ben Mōšeh nella compilazione delle Tavole alfonsine. Tra il 1276 e il 1280 molti dei testi separatamente composti nei primi anni del suo regno furono raccolti in tre ampie compilazioni: il Libro del saber de astronomía (o astrología), il Libro de las formas et de las ymágenes e il Libro de astromagia. Nell'ultimo periodo del suo regno la corte fu frequentata da studiosi italiani, alcuni dei quali ‒ per esempio Egidio de Tebaldi di Parma ‒ collaborarono alla traduzione delle versioni castigliane in latino. Fu in questo modo che il Picatrix (il libro di testo sulla magia nel Medioevo), le Tavole alfonsine e il Quadripartitum di Tolomeo con il commentario di ῾Alī ibn Riḍwān furono conosciuti in Europa occidentale (e nel corso del XIV sec. le Tavole alfonsine avrebbero sostituito le Tavole di Toledo, che avevano dominato incontrastate per almeno due secoli).
Le traduzioni e le scuole
Nel 1267 Ruggero Bacone elencò i quattro autori principali cui si doveva la traduzione di opere dall'arabo al latino e cioè Gherardo da Cremona, Alfredo di Sareshel, Michele Scoto ed Ermanno il Tedesco, che aveva personalmente conosciuto a Parigi, criticandoli aspramente per la loro scarsa conoscenza sia delle lingue sia dei soggetti delle opere tradotte (Opus maius, ed. Bridges, I). Queste critiche sono contenute in una perorazione al papa Clemente IV, in cui tra l'altro Ruggero sosteneva la difesa dell'insegnamento dell'arabo accanto a quello dell'ebraico e del greco, data l'importanza delle lingue per la comprensione della filosofia; proprio allora, tuttavia, l'opera di traduzione dei testi filosofici arabi, inaugurata da Gherardo da Cremona, stava giungendo al suo termine. Lo studio dell'arabo proseguì negli studia linguarum fino ai primi anni del XIV sec.; sebbene al Concilio di Vienna (1312) fosse stato decretato che l'arabo dovesse essere insegnato a Oxford, Parigi, Bologna, Salamanca e presso la curia papale, non abbiamo la certezza che questa ingiunzione sia stata effettivamente rispettata; con l'eccezione di alcuni casi isolati, lo studio della lingua araba non fu più coltivato fino alla fine del XV secolo.
Per quanto riguarda il XIII sec. si possono scorgere, con una chiarezza maggiore rispetto al secolo precedente, le relazioni che intercorrevano tra la strategia che guidava l'opera di traduzione e l'insegnamento universitario. Nelle Facoltà delle arti l'insegnamento era basato sulle sette arti liberali e sulla filosofia naturale, morale e prima (o metafisica), e i testi di riferimento dei tre ambiti filosofici erano contenuti in un canone di opere aristoteliche, in gran parte stabilito sul modello arabo indicato nell'opera Enumerazione delle scienze di al-Fārābī; tale testo aveva ispirato sia il trattato De divisione philosophiae di Gundisalvi sia lo scritto di Roberto Kilwardby De ortu scientiarum (databile intorno alla metà del XIII sec.). La prima versione di questo canone ‒ il Corpus vetustius ‒ era stata redatta nel 1215 e comprendeva opere di Aristotele, tradotte sia dal greco sia dal latino, e alcuni altri testi, come gli pseudoaristotelici Liber de causis, De plantis e De mineralibus di Avicenna, il De differentia animae et spiritus di Qusṭā ibn Lūqā e (in alcuni manoscritti) lo scritto De intellectu di al-Kindī. In quanto testi adottati nelle università (in cui si prevedeva la lettura parola per parola da parte degli auctores), essi trovavano il loro più appropriato complemento nei commenti letterali.
Alfredo di Sareshel, per esempio, redasse commenti a molte di queste opere, fino a quando furono scoperte le opere di Averroè e i suoi grandi commenti alla Fisica, al De caelo, al De anima e alla Metafisica, che divennero la principale fonte dei commenti al Corpus vetustius; successivamente, i commenti di Alfredo di Sareshel che seguitarono a essere impiegati furono quelli ai Meteorologica, al De mineralibus e al De plantis. L'interesse per l'etica aristotelica giunse a maturazione soltanto verso la metà del XIII sec., quando Roberto Grossatesta ed Ermanno il Tedesco tradussero, rispettivamente dal greco e dall'arabo, i commenti all'Etica Nicomachea, mentre i commenti alle opere aristoteliche sul linguaggio tardarono ad apparire, probabilmente a causa dei problemi legati alla diversità delle lingue. Se le traduzioni dei commenti medi di Averroè all'Organon eseguite da Guglielmo di Luna ebbero una scarsa influenza, la traduzione del commento medio di Averroè alla Poetica, malgrado la sua scarsa chiarezza, ottenne un sorprendente successo.
Questa fu l'ultima opera significativa della tradizione aristotelica a essere tradotta dall'arabo in latino; successivamente le opere furono riprese soprattutto dalle traduzioni ebraiche intermedie piuttosto che direttamente dall'arabo. La distruzione della distruzione di Averroè, per esempio, fu tradotta verso la metà del XIV sec. dall'ebraico, come del resto alcune altre traduzioni dei suoi commenti, eseguite tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo. L'approfondimento degli studi sulla cultura greca, in particolar modo presso la curia papale di Viterbo, condusse alla scelta di eseguire preferibilmente le traduzioni di autori greci direttamente dal greco, piuttosto che attraverso la via delle traduzioni o degli adattamenti arabi. Le traduzioni dall'arabo al latino che figuravano nel Corpus vetustius furono così sostituite dalle traduzioni dal greco al latino, la maggior parte delle quali fu opera di Guglielmo di Moerbeke.
Che le traduzioni rispondessero alle esigenze dell'insegnamento filosofico nelle università è un fenomeno che può essere constatato con la massima evidenza nel caso di Parigi, città alla quale si riferisce la maggior parte delle informazioni a nostra disposizione. Sappiamo con certezza che Ermanno il Tedesco e probabilmente anche Michele Scoto si recarono a Parigi; da Parigi provengono anche i più antichi manoscritti delle opere di Averroè, alcuni dei quali, però, recano una grafia italiana. Lo stesso Averroè fu ben presto introdotto a Oxford, dove prevalse la tendenza a utilizzare le sue opere per annotare ampiamente a margine il Corpus vetustius piuttosto che copiarle per intero. Gli stretti legami che univano le traduzioni alle università sono testimoniati anche da altri esempi: Ermanno il Tedesco, verso la fine della sua vita, fu invitato a rianimare l'attività dell'Università di Palencia; Gonzalo Pérez Gudiel, dopo aver riunito i manoscritti autografi di Michele Scoto e di Ermanno il Tedesco, continuò a raccogliere le ultime traduzioni dal greco di Guglielmo di Moerbeke e nel 1293, divenuto arcivescovo di Toledo, fondò lo studium di Alcalá. Non tutte le traduzioni facevano però parte di questo grande movimento legato agli scritti di Aristotele e quindi all'interesse per la filosofia; all'inizio del XIV sec. i testi astronomici, astrologici e magici, le cui traduzioni erano state promosse da Alfonso X, alimentarono fortemente lo studio della matematica, in particolare a Parigi. Sebbene le Facoltà di medicina delle università si fossero costituite generalmente più tardi rispetto alle Facoltà delle arti, e il loro curriculum non fosse ancora ben definito, anch'esse stimolarono l'opera di traduzione. A Montpellier, nel 1284, Armengaud (Armengaudus Blasius), nipote di Arnaldo da Villanova, tradusse il commento di Averroè ai Cantica di Avicenna; a Padova, quasi nello stesso periodo, Bonacosa tradusse il Colliget, grande opera medica di Averroè. Anche alla fine del XIII sec. furono tradotte grandi summae di medicina che ponevano in rilievo soprattutto l'esperienza pratica: il Continens artem medicinae di Rhazes, tradotto nel 1282 in Sicilia da Faraǧ ben Sālim, e il Theisir di Avenzoar, tradotto a Padova da Giovanni da Capua. Presso la curia papale di Viterbo, nello stesso periodo in cui Guglielmo di Moerbeke traduceva Aristotele dal greco, Simone da Genova si dedicava alla traduzione del Liber servitoris di Abulcasis (Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī) e alla compilazione di un imponente glossario multilingue di materia medica (i Synonyma o Clavis sanationis).
Non è dunque un caso che il XIII sec. abbia conosciuto sia la piena maturazione degli studi filosofici e (più tardi) di quelli medici e matematici nelle università, sia l'apice del movimento delle traduzioni; di conseguenza, la maturità intellettuale degli studiosi di lingua latina fu contemporanea a quella degli studiosi ebrei, islamici e greci. In Africa settentrionale, Leonardo Fibonacci (m. dopo il 1240) aveva raccolto alcune tradizioni arabe di aritmetica e di algebra; le discussioni filosofiche che si svolgevano a Mosul, dove Kamāl al-Dīn ben Yūnus (m. 1242) richiamava studenti da tutto l'Oriente, ebbero ripercussioni anche in Italia, dove due dei suoi studenti (Teodoro di Antiochia e al-Urmawī) fecero parte della corte di Federico II. I filosofi greci a Nicea fecero conoscere gli ultimi commenti di Aristotele a Guglielmo di Moerbeke; è inoltre possibile che informazioni astronomiche provenienti dall'osservatorio di Marāghā giungessero ai cortigiani di Alfonso X. Nel corso di questo periodo gli studiosi ebrei non soltanto stabilirono un curriculum filosofico e medico in ebraico, ma svolsero anche il ruolo di agenti intellettuali tra gli studiosi cristiani e quelli arabi. Inoltre, molte informazioni erano trasmesse per via orale e attraverso dimostrazioni di carattere pratico, soprattutto nel campo delle scienze; le traduzioni dunque mostrano solamente i risultati più ovvi di questi scambi culturali, finendo con il porre in rilievo esclusivamente gli aspetti teoretici.
di Pietro B. Rossi
Contemporaneamente alle traduzioni dall'arabo, e per una durata maggiore, il contatto diretto con la fonte greca ha permesso di acquisire testi e di andare oltre l'interpretazione degli Arabi in molti campi. Del resto, l'incontro con la sapienza e la scienza greche aveva avuto luogo già alla fine della classicità con Boezio, il quale aveva progettato di mostrare la concordanza fra i sistemi di Platone e di Aristotele, iniziando con un'impegnativa opera di traduzione che non ebbe tuttavia modo di portare a termine, se non per quel che riguarda alcuni trattati dell'Organon di Aristotele (Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Topici, Elenchi) e l'Isagoge di Porfirio. Attraverso i suoi commenti ad alcuni di questi trattati Boezio fornì ai medievali un nucleo di testi che costituì il patrimonio di dottrine logiche ed epistemologiche valide fino al XII secolo. È però opportuno ricordare che Boezio utilizzò e rielaborò elementi provenienti dalla tradizione greca e latina anche nel De institutione arithmetica e nel De institutione musica, che rimasero i testi di riferimento per le scienze del quadrivio.
Fra le opere della tarda latinità che ebbero un ruolo rilevante nello sviluppo della visione del mondo eleborata dai pensatori del XII sec., emerge la traduzione fatta da Calcidio di parte del Timeo di Platone; il monumentale commento con cui il traduttore accompagna il testo introduce al mondo neoplatonico tardo-antico e prospetta una cosmologia che i medievali cercheranno di armonizzare con la cosmogonia del libro della Genesi, favorendo pure un'indagine in qualche misura scientifica della Natura.
Il patrimonio ereditato da Roma e così integrato rimase pressoché inalterato fino alla straordinaria apertura della civiltà medievale alle altre culture allora dominanti, avvenuta in concomitanza con l'espansione dei Latini in Oriente. Alcune aree furono particolarmente attive nell'acquisizione di opere greche. Al Nord, va ricordata la corte di Carlo il Calvo, presso la quale operò Giovanni Scoto, detto Eriugena per la sua origine irlandese, traduttore del corpo delle opere dello Pseudo-Dionigi Areopagita, degli Ambigua di Massimo il Confessore e del De imagine di Gregorio di Nissa (già noto ai Latini grazie alla traduzione di Dionigi il Piccolo, del VI sec.). Al Sud, aree del Mediterraneo, quali la Sicilia e altre regioni dell'Italia meridionale, avevano mantenuto contatti e scambi con il mondo greco e le repubbliche marinare avevano già costruito la loro fortuna muovendosi verso l'Oriente. L'Italia meridionale, infatti, per le sue vicende politiche mantenne più a lungo i contatti con la cultura bizantina, che non s'interruppero neanche sotto il dominio arabo e ripresero slancio con i Normanni.
A partire dalla fine del IX sec., i Bizantini ripresero il controllo di quelle regioni e sicuramente s'intensificò anche il movimento di persone e di libri greci, tanto a Roma con Anastasio Bibliotecario (m. 879), traduttore di testi agiografici ma soprattutto di testi di diritto ecclesiastico, storici e teologici, quali gli scolii su Dionigi Areopagita dovuti a Giovanni di Scitopoli e a Massimo il Confessore, quanto anche a Napoli e, infine, ad Amalfi. Più tardi, l'arcivescovo Alfano di Salerno (m. 1085) tradusse l'opera sulla natura dell'uomo di Nemesio di Emesa con il titolo Premnon physicon (Berschin 1989).
In Sicilia, Enrico Aristippo, suddito del normanno Guglielmo I, poco dopo la metà del 1100, nell'epistola dedicatoria della sua versione del Fedone, esortava un amico inglese a noi sconosciuto a non lasciare la Sicilia per le isole britanniche, perché soltanto nella sua terra poteva trovare i Mechanica di Erone, i trattati di ottica di Euclide, gli Analitici secondi di Aristotele, i libri di Anassagora, Aristotele, Temistio, Plutarco e di altri filosofi di grande fama, documentando l'esistenza di una biblioteca filosofica e scientifica greca. Nel 1158 Aristippo fa parte di un'ambasceria a Bisanzio per conto del re normanno, e ritorna con libri greci fra i quali c'è una copia dell'Almagesto di Claudio Tolomeo, dono dell'imperatore Manuele Comneno a Guglielmo I. Avutane notizia, un anonimo il quale si occupava a Salerno di medicina, spinto dal desiderio di poter leggere quel trattato a lungo fortemente desiderato, raggiunge Aristippo che trova sull'Etna intento a osservare fenomeni naturali. Impossessatosi della lingua greca, il nostro anonimo quasi si esercita sui Data e sulla Catottrica di Euclide e sulla Elementatio physica (De motu) di Proclo, prima di affrontare il trattato intitolato Collezione matematica di Tolomeo, opera denominata meghístē ('grandissima') nella tradizione greca, meglio conosciuta col titolo Almagesto, derivato dalla tradizione araba. Fu la prima versione latina del trattato in tredici libri dedicato all'astronomia geocentrica.
Nell'opera, l'Universo è rappresentato come finito, sferico e costituito da sfere concentriche, che hanno come estremi il cielo delle stelle fisse e al centro la Terra; i pianeti ruotano intorno alla Terra, dando luogo nel loro movimento a eccentrici ed epicicli. Il modello geometrico proposto da Tolomeo e corredato da spiegazioni matematiche, fondate anche su elementi derivati dall'osservazione, costituisce uno dei vertici della scienza greca e la sua conoscenza fornì ai medievali la prima descrizione matematico-scientifica dell'Universo, che aprì la strada a un dibattito che si concluderà con Copernico e Galileo.
Come non è infrequente nelle traduzioni, la prefazione all'Almagesto, che tramanda la vicenda, ricorda anche il ruolo rilevante nella trasmissione dei testi antichi nella Sicilia del XII sec. di un altro grande uomo di cultura, Eugenio detto l'Ammiraglio, eccellente conoscitore della lingua greca come di quella araba, e non inesperto pure della latina, che fu expositor propicius per il nostro anonimo, guidandolo attraverso il difficile trattato di Tolomeo. Eugenio tradusse a sua volta, ma dall'arabo, l'Ottica che viene attribuita a Tolomeo nella tradizione araba.
Enrico Aristippo, Eugenio e lo sconosciuto traduttore di Tolomeo sono i tre personaggi che emergono nel contesto non ancora ben definito della cultura trilingue (latina, greca e araba) della Sicilia normanna; le notizie che ci hanno fatto giungere accompagnandole alle loro traduzioni sono testimonianza di un mondo di frontiera dove s'incontrano le culture dominanti del tempo. Le loro iniziative di mediazione culturale non sono paragonabili per quantità a quelle dei contemporanei traduttori attivi a Toledo e nei regni di León e di Castiglia, ma sono certamente significative e, verrebbe da dire, mirate. Oltre al Fedone, la cui versione fu iniziata sotto le mura di Benevento assediata, Enrico traduce il Menone, i soli dialoghi di Platone conosciuti dai medievali dopo la traduzione di Calcidio del Timeo; dal prologo al Menone veniamo a sapere che egli intendeva affrontare anche opere di Gregorio di Nazianzo e il De vita et moribus philosophorum di Diogene Laerzio. Di Aristotele, Enrico tradusse soltanto il Libro IV dei Meteorologica, assieme a scolii di commentatori greci.
Gli studi degli ultimi decenni sulle traduzioni greco-latine del XII sec. suggeriscono come sempre più probabile l'origine in aree con tradizioni greche di traduzioni anonime di trattati del corpus aristotelico: Analitici primi, Topici, De generatione et corruptione, Fisica (detta Vaticana), alcuni dei Parva naturalia, Metafisica (detta media), Etica (detta vetus); sembra anche da attribuire all'Italia meridionale la versione greco-latina degli Elementi di Euclide. Le traduzioni dal greco in Sicilia continuano nel XIII sec., anche se al tempo di Federico II è predominante l'apertura verso il mondo arabo. Infatti, sotto il regno di Manfredi, Bartolomeo da Messina traduce testi pseudoaristotelici, alcuni dei quali particolarmente interessanti per filosofi e medici: i Problemata, la Physionomia, il De mirabilibus auscultationibus, il De principiis (la Metafisica di Teofrasto), il De signis, i Magna moralia (De bona fortuna); a lui si deve anche una delle due versioni del De mundo, mentre l'altra è stata attribuita a Nicola Siculo 'Greco' che, nel 1237, si sa presente in Inghilterra al servizio del vescovo Roberto Grossatesta.
Protagonisti della vita civile e politica delle loro città, anche Burgundio di Pisa e Giacomo Veneto diedero un contributo di rilievo alla diffusione tra i Latini della teologia, della filosofia e, in parte, della scienza greche. Entrambi furono a Bisanzio nel 1136, presenti alla disputa teologica che vedeva il confronto tra la dottrina trinitaria latina, difesa da Anselmo di Havelberg, e quella greca sostenuta dal vescovo Niceta di Nicomedia, e sono indicati come 'uomini sapienti' assieme a Mosè da Bergamo, scelto come interprete per Greci e Latini. Burgundio (1110 ca.-1193), nato a Pisa e morto nella sua città natale, secondo quanto recita l'epitaffio conservato nella chiesa di San Paolo a Ripa d'Arno, fu giurista, diplomatico e si occupò anche di medicina nel suo lavoro di traduttore. Quasi certamente ebbe modo di perfezionare la sua conoscenza della lingua greca attraverso i viaggi compiuti a Bisanzio come membro di ambascerie per conto della sua città, in vista di ottenere vantaggi e privilegi per il commercio in Oriente. Tradusse alcuni passi greci del Digesto che, conosciuti dai giuristi bolognesi, entrarono poi nella vulgata.
Burgundio rese in latino una parte di un'opera di Giovanni Damasceno, conosciuta in Occidente col titolo di De fide orthodoxa, su richiesta del papa Eugenio III (1145-1153) e le Homiliae in Mattheum, le Homiliae in Iohannem, le Homiliae in Genesim di Giovanni Crisostomo; dedicò la nuova traduzione da lui realizzata del De natura hominis di Nemesio di Emesa all'imperatore Federico Barbarossa. Al pisano si deve anche la prima traduzione direttamente dalla fonte greca degli Aforismi di Ippocrate e di una serie di trattati di Galeno: il De sectis medicorum, il De sanitate tuenda, il De differentiis pulsuum, il De crisi, il De complexionibus, il De temperamentis, il Methodus medendi o Therapeutica methodus, alcuni dei quali tradotti contemporaneamente dall'arabo da Gherardo da Cremona. Recenti ricerche relative ad alcuni manoscritti greci della Biblioteca Medicea Laurenziana, contenenti opere tradotte da Burgundio, hanno portato al riconoscimento di note marginali autografe del dotto pisano e hanno permesso d'individuare parte della sua biblioteca (Wilson 1983).
Per quanto riguarda l'altro personaggio presente alla disputa ‒ Giacomo Veneto (Iacobus Veneticus Grecus) ‒ abbiamo pochi dati sicuri relativi alle vicende storiche, e altrettanto limitate sono le notizie sulla sua attività di traduttore (Paluello 1952). È significativa la testimonianza di Ioannes [?], che nel prologo alla sua versione dal greco degli Analitici secondi, trattava con ironia i magistri Francie che, per nascondere la loro incompetenza, fingevano di ignorare la traduzione del testo degli Analitici fatta da Giacomo Veneto. Questo dato è confermato da Giovanni di Salisbury, il quale nel Metalogicon lamenta che gli studi di logica e dell'ars demonstrandi non diano frutti nelle scuole francesi; a suo parere, il motivo va individuato nell'assenza di una tradizione di studi matematici e, soprattutto, di geometria, una disciplina "non molto coltivata da noi se non, forse, nella regione iberica o al confine con l'Africa. Quelle genti, infatti, praticano in modo particolare la geometria in funzione dell'astronomia; lo stesso accade in Egitto e presso molte popolazioni dell'Arabia" (Metalogicon, ed. Hall, p. 145).
Nonostante il limitato impatto sui maestri della metà del XII sec. prodotto dai trattati aristotelici tradotti da Giacomo Veneto, a questo colto personaggio della Repubblica veneta va il merito di aver messo a disposizione dei Latini le prime traduzioni di opere di Aristotele, che ebbero grande influsso sullo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico medievale. Egli attinse al rinato interesse per Aristotele nella Bisanzio dei primi decenni del XII sec. e riversò in alcuni commenti, per lo più superstiti in glosse, le sue conoscenze del sistema del filosofo, perché il suo lavoro di traduttore si concentrò sul corpus aristotelico. La sua traduzione degli Analitici secondi (quella boeziana non è stata ritrovata) costituì la prima trattazione sistematica della Natura, della struttura e dell'oggetto della conoscenza scientifica, con la quale si confrontarono maestri, teologi e medici nelle università medievali e poi rinascimentali, sino alla fine del XVI sec.; a lui dobbiamo anche la prima versione della Fisica, del De anima e di parte della Metafisica, nonché di alcuni dei Parva naturalia (De memoria et reminiscentia, De longitudine et brevitate vitae, De iuventute et senectute, De respiratione, De morte et vita); tradusse di nuovo ‒ dopo Boezio ‒ gli Analitici primi, i Topici e gli Elenchi sofistici. Le sue traduzioni costituirono la vulgata per tutto il Medioevo e vennero riproposte dagli stampatori della fine del Quattrocento e degli inizi del Cinquecento.
Le vie aperte verso la cultura greca furono sempre più frequentate nella prima metà del Duecento, in concomitanza con la creazione dell'Impero latino d'Oriente, che portò i Latini a spingersi per la prima volta oltre i confini conosciuti del mondo, verso l'Asia mongola, anche per mezzo delle missioni promosse dagli ordini mendicanti. È naturale, quindi, che questa apertura favorisse la circolazione di chi era interessato a recuperare il sapere degli Antichi, prima intravisto soltanto in piccola parte. Questo compito ‒ per quanto riguarda il sapere attinto direttamente alla fonte greca ‒ fu portato avanti nel XIII sec. da due eminenti figure, Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln (1168 ca.-1253), e Guglielmo di Moerbeke, domenicano fiammingo. Il primo chiamò nella sua cerchia, oltre a Nicola Siculo 'Greco', l'inglese Giovanni Basingstoke, che era stato in Oriente e conosceva il greco, quasi per costituire un gruppo di traduttori sotto la sua guida unificatrice.
L'attenzione di Grossatesta, che sembra aver iniziato a tradurre contemporaneamente alla sua nomina a vescovo, si concentrò sulle opere teologiche di Damasceno, di Ignazio d'Antiochia e di Massimo il Confessore; egli fornì una nuova versione delle opere di Dionigi l'Areopagita e di Aristotele e portò a termine, attorno agli anni 1246-1247, la prima versione integrale dell'Etica Nicomachea, per la cui interpretazione tradusse commenti di diversi autori a seconda dei libri (Aspasio, Eustrazio di Nicea, Michele di Efeso e due anonimi scoliasti del II e del XII sec.), probabilmente attingendo a raccolte che circolavano nella Bisanzio del XII secolo. A Grossatesta dobbiamo anche la versione di due opuscoli pseudoaristotelici, il De lineis indivisibilibus e il De laudabilibus bonis, e quella del De caelo, assieme al commento di Simplicio, interrotta al Libro II. Al di là della rilevante funzione avuta come traduttore, va segnalato che Grossatesta fu il primo commentatore latino della Fisica e degli Analitici secondi e che condizionò in alcuni punti l'esegesi medievale di quest'ultimo trattato aristotelico e la conseguente teoria della conoscenza scientifica; inoltre, come cultore di ottica, di astronomia e di scienze naturali fu una figura di spicco non soltanto tra i pensatori inglesi del XIII secolo.
Guglielmo di Moerbeke è senza dubbio il traduttore che ha dato il contributo più rilevante al processo di recupero e di assimilazione della filosofia e della scienza greche. Sue notizie biografiche ci sono giunte attraverso alcune sottoscrizioni alle sue traduzioni e tramite documenti che attestano la sua presenza presso la curia papale. Nel 1260 a Nicea portò a termine la traduzione del commento di Alessandro di Afrodisia ai Meteorologica e, a Tebe, quella del De partibus animalium di Aristotele; nel 1266 quella del commento di Simplicio alle Categorie. L'anno successivo completò presso la curia papale a Viterbo le versione del commento di Temistio al De anima e nel 1268 quella dell'Elementatio theologica di Proclo, del commento di Ammonio di Alessandria al De interpretatione e del commento di Giovanni Filopono al Libro III del De anima. Nel 1269 tradusse sette trattati di Archimede con due commenti di Eutocio di Ascalona. Fu ancora presente a Viterbo nel 1267, partecipò al Concilio di Lione del 1274, poi fu di nuovo a Viterbo nel 1277, dove tradusse il De virtute alimentorum di Galeno.
Nel 1278 Guglielmo fu nominato vescovo di Corinto, dove, nel 1280, tradusse i Tria opuscula di Proclo (De decem dubitationibus circa providentiam, De providentia et fato et eo quod in nobis, Liber de malorum subsistentia). Nel 1284 fu a Perugia, e la sua morte si colloca qualche tempo prima del 26 ottobre 1286, data della nomina del suo successore a vescovo di Corinto. Sappiamo anche che ebbe contatti con personaggi di rilievo del suo tempo. Witelo gli dedicò la sua Perspectiva; fu in contatto con Campano da Novara; Enrico Bate di Malines lo incontrò al Concilio di Lione e gli indirizzò il suo trattato Magistralis compositio astrolabii; una lunga tradizione, anche se ormai messa in discussione, attesta il suo legame con Tommaso d'Aquino, per il quale avrebbe tradotto alcuni testi greci. La mole di commenti e di trattati tradotti dal domenicano fiammingo è impressionante e tocca diversi ambiti del sapere. Di Platone tradusse una parte del Parmenide e alcuni passi del Timeo; del corpus aristotelico fornì una nuova traduzione di alcuni trattati (Categorie, De interpretatione, Meteorologica (I-III), Politica, Retorica, Poetica), di molti altri rivide le precedenti versioni greco-latine (Analitici secondi, Elenchi sofistici, Fisica, De caelo, De generatione et corruptione, De anima, Parva naturalia, Metafisica, Etica Nicomachea); infine, i trattati zoologici di Aristotele hanno avuto con Moerbeke la prima sistematica traduzione dal greco (Historia animalium, De progressu animalium, De motu animalium, De partibus animalium, De generatione animalium).
Alla traduzione quasi integrale del corpus aristotelico va aggiunta quella dei commentatori greci sopra menzionati. L'altro rilevante capitolo dell'attività di traduzione è costituito dai trattati di Archimede, Erone di Alessandria, Tolomeo e Galeno. L'interesse prevalente di Archimede era rivolto alla geometria, e Moerbeke tradusse sette opuscoli che hanno come oggetto principale problemi di geometria, in particolare lo studio del cerchio e della sfera; la traduzione di questi opuscoli ci è giunta autografa in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (Città del Vaticano, Ottob. lat. 1850). Nell'Archimedis circuli dimensio (De mensura circuli), un breve opuscolo, sono determinate l'area e la superficie di un cerchio, fornendo anche un'approssimazione aritmetica del valore da assegnare a π e applicando il metodo di esaustione già codificato da Euclide; questi problemi e metodi sono affrontati e applicati nella loro maggiore complessità nel Liber Archimedis de sphera et cylindro, nel Liber Archimedis de conoydalibus et spheroydalibus e nel Liber Archimedis qui dicitur de quadratura parabolae, in cui si procede talvolta dando due dimostrazioni, una che fa leva su concetti e metodi meccanici, l'altra che utilizza il procedimento e gli argomenti geometrici. A illustrazione dei teoremi affrontati da Archimede, Moerbeke tradusse il commento ad Archimede di Eutocio di Ascalona (Eutokii Ascalonite rememoratio in libros Archimedis de sphera et chylindro), mentre la traduzione del commento al Liber Archimedis de centris gravium vel de planis equerepentibus (Eutocii Ascalonite rememoratio in libros Archimedis de equerepentibus) era finalizzata alla comprensione dei problemi di statica trattati da Archimede.
Moerbeke mise a disposizione dei geometri latini anche il Liber Archimedis de quam pluribus problematicis (De figuris elicis), trattato di Archimede sulle spirali, e il trattato sui corpi galleggianti Liber Archimedis de insidentibus aque, giunto a noi interamente soltanto nella versione di Moerbeke. L'editore delle traduzioni di questi trattati (Clagett 1978) ha tracciato la fortuna dell'Archimede tradotto da Moerbeke a partire dagli inizi del XIV sec. fino alla metà del XVI, dai maestri parigini Giovanni de Muris e Nicola Oresme, per arrivare alle prime edizioni di alcuni trattati nella traduzione di Moerbeke curate da Niccolò Tartaglia (1543) e da altri. Moerbeke tradusse anche la Catoptrica o De speculis (Pseudo-Tolomeo) già nel 1269, utilizzata ampiamente da Witelo nella sua Perspectiva, il De analemmate di Tolomeo, superstite in greco soltanto in alcuni frammenti, e la Tetrabiblos o Quadripartitum (Iudicialia ad Syrum).
Con Guglielmo di Moerbeke si conclude la prima fase delle iniziative sistematiche di recupero della filosofia e della scienza greche nella storia della cultura europea. La fase successiva avrà inizio non molto tempo dopo grazie al rinato e diffuso interesse nei confronti sia della cultura classica sia della lingua greca da parte degli umanisti italiani. L'arrivo dei Greci in Italia dopo la caduta di Bisanzio darà l'impulso decisivo alla rinascita nell'Europa latina del sapere greco e degli ideali estetici e civili della classicità.
di Tzvi Langermann
A oltre cento anni dalla pubblicazione, l'opera Die hebraeischen Uebersetzungen des Mittelalters und die Juden als Dolmetscher (Le traduzioni ebraiche del Medioevo e i giudei come interpreti) di Moritz Steinschneider (1893) è ancora l'unico testo esauriente sulle traduzioni medievali in lingua ebraica. Certamente da allora sono stati identificati molti altri manoscritti, sono state scoperte alcune nuove traduzioni e, in particolare, è stata maggiore l'attenzione al contesto storico e sociale nel quale queste furono intraprese. Se la traduzione di un largo numero di testi scientifici e filosofici in arabo eseguita con l'auspicio dei califfi abbasidi è stata adeguatamente descritta da Sabra (1987) come una appropriation, e il lungo processo di assimilazione come una naturalization, le traduzioni in ebraico, di contro, non possono essere definite 'appropriazioni' nel senso indicato da Sabra. Le comunità ebraiche erano disseminate su un territorio molto vasto e non vi era alcun centro di attività di traduzione, che fosse paragonabile alla Baghdad del IX sec.; ancor più significativo è, poi, il fatto che gli Ebrei fossero sprovvisti del potere politico per 'appropriarsi' di alcunché. Il pubblico di lingua ebraica era composto in larga misura da 'consumatori' di scienza, e il lavoro di traduzione va piuttosto visto come un atto di importazione culturale. A ciò va aggiunto che, fatto di grande importanza, la traduzione di testi scientifici in ebraico rappresentava per molti Ebrei un atto di riappropriazione; essa fu intrapresa con la consapevolezza storica che in origine le scienze facevano parte dell'eredità ebraica, che era andata perduta nel corso dei secoli a causa dell'esilio e delle persecuzioni. In altre parole, le scienze erano state sottratte agli Ebrei dai conquistatori stranieri e i traduttori si sentivano impegnati a recuperare quell'eredità.
In alcune delle introduzioni a più forte intonazione 'apologetica' è possibile cogliere in qualche traduttore un vero e proprio disagio, un senso di vergogna per dover attingere a fonti straniere scienze che, in un lontano passato, erano patrimonio del popolo di Abramo. D'altro canto, fatte le debite differenze, il processo di 'naturalizzazione' descritto da Sabra si può applicare anche all'assimilazione delle scienze nel mondo ebraico; per esempio, i fondamentali concetti aristotelici di potenza e atto, conosciuti nella loro forma tibboniana (v. oltre) come bi-ko᾽ah e bi-fo᾽al, furono completamente integrati nelle discussioni legali ed esegetiche, dove sono tutt'oggi in uso.
Prospetto delle traduzioni dall'arabo e dal latino
La maggior parte degli scritti aristotelici non fu tradotta in ebraico e fu grazie alle opere di Ibn Rušd (Averroè) che i lettori di lingua ebraica poterono conoscere la filosofia aristotelica. I commentari averroisti ebbero grande popolarità e costituirono anche il principale veicolo di trasmissione per le idee di Ibn Bāǧǧa (Avempace) e Ibn Sīnā (Avicenna), le cui opere, per la maggior parte, non furono tradotte in ebraico. Naturalmente, in conseguenza di tale fatto, Averroè ebbe un grande impatto sul pensiero filosofico e scientifico ebraico. Un altro importante veicolo di trasmissione della scienza e della filosofia islamica, in gran parte avicenniana, furono le versioni in ebraico del Maqāṣid al-falāsifa (Le intenzioni dei filosofi) di al-Ġazālī. Vi è una buona dose di ironia in tutto ciò; al-Ġazālī, infatti, aveva scritto il libro, una valutazione complessiva di logica, metafisica e fisica, per preparare il terreno alla confutazione di tale filosofia, sancita nel Tahāfut al-falāsifa (L'incoerenza dei filosofi). Sebbene quest'ultimo scritto fosse stato tradotto in ebraico, come anche la replica di Averroè, Tahāfut al-tahāfut (L'incoerenza dell'incoerenza, la Destructio destructionis dei Latini), il Kawwānōt ha-fīlōsāfīm (così il Maqāṣid al-falāsifa fu conosciuto in ebraico) divenne un testo base per lo studio della filosofia e della scienza naturale, al punto che continuò a essere copiato e commentato (specialmente la prima sezione, sulla logica) fino alla prima Età moderna.
Le opere classiche della filosofia ebraica ‒ Kitāb al-amanāt wa 'l-i῾tiqādāt (Libro delle credenze e dei dogmi) di Sa῾adyāh ben Yōsēf, al-Hazarī di Yehūdā ha-Lēwū e, soprattutto, Mōrē nevūḫīm (La guida dei perplessi) di Mosè Maimonide ‒ furono scritte in giudaico-arabo e, successivamente, tradotte in ebraico. Esse contengono una notevole quantità di informazioni scientifiche e, fatto non meno significativo, contribuirono in modo rilevante a determinare l'atteggiamento degli Ebrei sia verso la scienza greca e araba, sia nei confronti dell'impresa scientifica nel suo complesso. Le più diffuse traduzioni di tali opere furono eseguite nel XII sec. da membri della famiglia di Ibn Tibbōn, fuggiti dalla Spagna in Provenza, e furono tradotte più di una volta. Il vocabolario e la dizione fissati dai Tibbonidi divennero norma per l'ebraico scientifico, e ciò è evidente non soltanto nelle numerose traduzioni eseguite dai membri di quella famiglia, ma anche negli scritti di Lēwī ben Geršon che, per la sua istruzione, si affidò interamente a traduzioni in ebraico. Tuttavia, i Tibbonidi furono criticati per l'introduzione di arabismi in ebraico e, di conseguenza, alcuni dotti originari dell'Andalusia ritradussero un certo numero di opere in quello che ritenevano un ebraico più puro.
Per ciò che riguarda la matematica, non tutti i testi furono tradotti; così, mentre Archimede era disponibile in ebraico, Apollonio non lo era; gli Elementi di Euclide e i vari trattati ellenistici sulla geometria della sfera, tutti tradotti dall'arabo, furono i testi di matematica più letti. L'identificazione precisa dei traduttori degli Elementi rimane, tuttavia, un mistero. È degno di nota il generale disinteresse per la nuova scienza dell'algebra; d'altro canto, alcuni importanti testi matematici si sono conservati soltanto in ebraico. L'Almagesto di Tolomeo era disponibile in ebraico ma, sembra, non molto studiato. Abbiamo una buona quantità di tavole astronomiche in manoscritti ebraici, che però per lo più sono opera di autori ebrei. La maggior parte delle opere di astronomia tradotte erano state composte nella Spagna musulmana o cristiana, e includono alcuni scritti di al-Zarqalī nonché le tavole redatte presso le corti di Alfonso X di Castiglia e di Pietro III di Aragona. Vi fu poi una larga diffusione anche di opere non tecniche; l'opera di al-Farġānī ebbe ampia circolazione, come anche il trattato Sulla configurazione del mondo (il Liber de mundo et coelo dei Latini) di Ibn al-Hayṯam, che conobbe almeno cinque traduzioni; la Sfera di Sacrobosco ebbe egualmente molti lettori. Nel Tardo Medioevo furono studiate le versioni ebraiche e i commenti dei Teorica di Purbach, e opere originali ebraiche dello stesso tipo, come per esempio il Ṣūrat ha-᾽āreṣ di Abrāhām ibn Ḥiyyā, raggiunsero grande popolarità. Sembra che responsabile della crescita di questa particolare produzione sia stata la filosofia maimonidea, che insisteva sulla necessità di una formazione astronomica per i veri filosofi.
L'attività di traduzione più intensa fu di gran lunga quella che si svolse nel campo della medicina, dove i trattati latini occuparono uno spazio maggiore che non in altri campi (alcune di queste traduzioni furono eseguite da Ebrei che studiavano nella Facoltà di medicina a Montpellier), tuttavia l'impatto delle opere tradotte dall'arabo fu nel complesso probabilmente maggiore, non fosse altro per il fatto che molte delle opere latine tradotte dipendevano a loro volta dagli scritti di Avicenna, al-Rāzī e altri. Nella medicina, come in altri campi, l'arabo funse da principale canale di trasmissione per l'eredità greca. Galeno fu l'autorità indiscussa, ma le sue opere, al pari di quelle di Aristotele per la filosofia e la fisica, furono conosciute per la maggior parte attraverso citazioni e commentari. I pochi trattati galenici direttamente disponibili e i cosiddetti 'sommari alessandrini' di parte del corpus galenico sopravvivono in un certo numero di manoscritti in ebraico. Per quel che riguarda Ippocrate, Maimonide racconta ‒ parlando del Nord Africa e dell'Egitto ‒ che gli Aforismi erano insegnati perfino ai bambini nelle scuole e che molti, pur non essendo medici di professione, li conoscevano a memoria; tuttavia, sembra che in ebraico gli Aforismi abbiano avuto una minor diffusione e, per lo più, fossero letti assieme al commento dello stesso Maimonide.
I libri più richiesti furono tradotti diverse volte e ci sono giunti in dozzine di copie; il primo posto spetta sicuramente al Canone di Avicenna, di cui si conoscono almeno tre traduzioni in ebraico, due delle quali ‒ di Joseph Lorki e Nātān ha-Me᾽āṭī ‒ copiate frequentemente, e all'incirca una dozzina di commenti (molti dei quali dipendono, a loro volta, da commenti latini e arabi); a queste dobbiamo aggiungere una trentina di copie dell'originale arabo, trascritto in caratteri ebraici. Il pubblico non era limitato agli studenti di medicina; in particolare, il primo libro acquisì notevole autorità come introduzione alla filosofia naturale e fu studiato e commentato da intellettuali del calibro di Yeda ῾Yah Bedarshi, che non erano, almeno da quel che sappiamo, medici di professione. Un altro libro molto letto fu il Kitāb al-ṭibb al-Manṣūrī di al-Rāzī, un trattato di anatomia che i Latini conoscevano come Tractatus ad regem Almansorem (le traduzioni in ebraico furono eseguite sia dall'originale arabo sia da un compendio latino); anche il commento di Gerard de Solo, magister all'Università di Montpellier, ebbe un'ampia diffusione (v. oltre). Lo Zād al-musāfir di Ibn al-Ǧazzār, il Lilium medicinae di Bernardo di Gordon e i trattati giudaico-arabi di Isaac Israeli e Mosè Maimonide ebbero a loro volta ampia circolazione nelle loro versioni in ebraico; oltre ai testi tradotti direttamente, molti passi sono stati poi trasmessi per mezzo di citazioni contenute in opere scritte direttamente in ebraico, in special modo nelle voluminose composizioni di Nātān Falaquera e Mosè Narboni.
Per quanto riguarda la farmacia, erano disponibili opere sistematiche come quella di Ibn Wāfid (tradotta sia dal testo originale sia da un compendio latino) e di Ibn Māsawaih; inoltre, le sezioni 'farmaceutiche' dei libri di Avicenna, al-Rāzī e altri circolavano spesso nella forma di trattati indipendenti. Tuttavia, sembra che, in questo campo più che negli altri, i copisti (che probabilmente erano medici di professione) si siano presi molte libertà con il testo, per esempio aggiungendo rimedi attinti da fonti diverse, oppure indicando spesso, sia nel testo sia a margine, nomi di sostanze medicinali in varie lingue, scritti di solito (ma non sempre) in caratteri ebraici. Uno dei compendi maggiormente popolari ‒ il più problematico dal punto di vista del testo ‒ è l'Antidotarium di Nicholaus Praepositus, del quale esistono ancora una ventina di manoscritti in ebraico e alcune copie di una traduzione araba trascritta in caratteri ebraici.
È possibile compilare una lunga lista di trattati arabi e latini di astrologia, magia e occultismo tradotti in ebraico, tuttavia nessuna delle traduzioni in questo campo ebbe un impatto degno di nota. Nell'astrologia, furono le opere di un autore ebreo, Abrāhām ibn ῾Ezrā, ad avere la maggior diffusione, come testimoniano le moltissime copie ancora esistenti che provengono da tutti i luoghi toccati dalla diaspora. In realtà, le traduzioni in latino dei suoi scritti ebbero un ruolo importante anche nella diffusione dell'astronomia nell'Europa cristiana; tuttavia, Ibn ῾Ezrā cita una notevole quantità di materiale arabo nei suoi scritti, e nei codici che contengono le sue opere era di solito inclusa la sua traduzione del breve trattato di Māšā᾽Allāh. In generale, pochissime opere di alchimia o magia furono rese disponibili in ebraico; malgrado questo, alcune delle traduzioni esistenti, come le versioni ebraiche del Picatrix e degli scritti di Abū Aflaḥ al-Saraqusṭī, non sono prive di interesse storico.
Traduzioni dal greco e multilinguismo
La stragrande maggioranza delle traduzioni fu eseguita da fonti arabe e latine, e il pubblico di lingua ebraica conobbe la scienza greca soltanto attraverso la mediazione islamica o cristiana; tuttavia, gli Ebrei residenti nell'orbita bizantina ebbero accesso diretto alle fonti greche. S̆emaryāhū (1275-1355), il cui cognome significa 'il Cretese', tradusse opere di logica. In due manoscritti ebraici è possibile trovare una traduzione di un passo del commento di Pappo all'Almagesto; ēliyyā Mizrāḥī, rabbino nella Istanbul del XVI sec., scrisse un esteso commento all'Almagesto, nel quale poneva a confronto i testi ebraici con le versioni greche e arabe. Fu tradotta anche un'importante opera persiana di medicina, il ḏakira Ḫwarizmšāhī di Zayn al-Dīn al-Ǧurǧānī, di cui esiste un unico manoscritto conservato a Parigi (BN, héb. 1169).
Il multilinguismo proprio di settori del pubblico ebraico è testimoniato dall'esistenza di numerosi manoscritti; ciò è particolarmente vero per quel che riguarda la medicina, per la quale l'arabo rimase a lungo e in molte comunità la lingua 'classica'. Le annotazioni marginali, in lingua ebraica e giudaico-spagnola, che troviamo in non pochi manoscritti giudaico-arabi di medicina indicano che i loro lettori, pur comprendendo l'arabo, si trovavano più a loro agio nel lavorare con queste lingue. Siamo in possesso di un gruppo di manoscritti giudaico-arabi di medicina che, come apprendiamo da annotazioni dei loro possessori, furono portati da profughi ebrei dalla Spagna in Sicilia e nell'Italia meridionale verso la metà del XV secolo. Il più interessante documento multinguistico è forse il ms. Ea 140, conservato a Dresda, che presenta l'originale de al-Manṣūrī di al-Rāzī, assieme al commento di Gerard de Solo nella traduzione ebraica di Toviel ben Šemū᾽ēl. Il manoscritto è di mano spagnola o provenzale del XIV-XV sec., ed è stato un tempo in possesso di Jacobus Golius, del quale reca le glosse.
Molti, se non quasi tutti gli autori ebrei, erano in grado di scrivere in più di una lingua, vale a dire in ebraico e nella propria lingua vernacolare, e la scelta dipendeva probabilmente dal pubblico cui l'opera era diretta. Accadeva, a volte, che l'autore scrivesse la sua opera in una lingua per poi tradurla personalmente in ebraico, sia perché gli era più congeniale organizzare dapprima il materiale (per es., in arabo) sia perché in un secondo tempo intuiva la possibilità di una maggiore diffusione del suo testo in ebraico. Fra tali opere troviamo due enciclopedie, lo Yesōdē ha-Tewūnā di Abrāhām ibn Ḥiyyā e il Midraš ha-Ḥoḫmā di Yehūdā ha-Kōhēn ibn Matqā; di nessuna delle due sopravvive l'originale, la versione ebraica dell'ultima ebbe la più ampia diffusione. Un libro che invece ci è giunto in entrambe le lingue ‒ e in copia unica per ciascuna lingua ‒ è il trattato di astronomia di Joseph Nahmias Nūr al-῾ālam.
Un certo numero di opere-chiave nei campi dell'astronomia, matematica, medicina e filosofia esiste invece soltanto nella versione ebraica, e quella maggiormente degna di nota è forse l'Epitome dell'Almagesto di Ibn Rušd (Lay 1996). Sappiamo da diverse fonti, molte delle quali disponibili nell'originale arabo, che Ibn Rušd nutrì un forte interesse per le questioni cosmologiche che erano di gran voga fra i dotti andalusi e quest'opera, un testo completo di astronomia matematica nel quale si faceva anche riferimento alla cosmologia, contribuisce a meglio delineare la figura di Ibn Rušd.
Un codice conservato a Oxford (Bodl., d. 4) contiene un numero di testi matematici che sono sicuramente delle traduzioni, ma dissimili da tutto quello finora scoperto in arabo (o greco); in essi sono inclusi una recensione del commento di Eutocio al trattato De sphaera et cylindro di Archimede, una nota sulle Coniche di Apollonio, una monografia di un certo Abū Sa᾽dān e un trattato sui poliedri regolari (chiaramente e strettamente collegato a un'opera pervenutaci di Muḥyī al-Dīn). Un manoscritto conservato a Parma contiene l'unica copia conosciuta di un'opera di al-Rāzī che si pone la seguente domanda: perché la gente si affida ai ciarlatani?
Di tre opere filosofiche di autori ispano-ebrei, dei quali sappiamo che scrivevano in giudaico-arabo, restano soltanto alcune versioni ebraiche: due dell'Emunah Ramah di Abrāhām ben Dāwūd, una dell'᾽Olām Qāṭān di Īsḥāq ibn Ṣādiq, mentre del dialogo filosofico del famoso poeta Šelōmō ibn Gabīrōl (Avicebron) ‒ ben noto fra i Latini con il titolo di Fons vitae ‒ restano soltanto alcuni estratti raccolti in un'antologia dall'eclettico Šēm Ṭov ibn Falaquera nel XIV secolo.
Strumenti lessicografici e introduzioni dei traduttori
Un annoso problema che i traduttori si trovarono a fronteggiare (non diversamente, del resto, dagli autori di testi ebraici) fu la creazione di un appropriato vocabolario scientifico in ebraico.
I puristi, facilitati in questo dal fatto che le lingue semitiche, data una certa radice, consentono di derivare in modo quasi automatico un'ampia gamma di termini, insistettero nell'utilizzare il corpo degli antichi scritti ebraici, in primo luogo la Bibbia. I traduttori dall'arabo avevano la possibilità di utilizzare radici arabe e di forgiare con esse termini ebraici; tale metodo fu adottato dai membri della famiglia di Ibn Tibbōn, ma valse loro delle critiche che in alcuni casi portarono alla stesura di nuove traduzioni prive di arabismi. I traduttori dal latino incontrarono maggiori difficoltà e, in alcuni casi, non poterono fare altro che trascrivere in ebraico un termine latino. Nell'introduzione alla sua traduzione del De febribus di Antonio Guaineri (Parma, Biblioteca Palatina, Parmense 2263 [De Rossi 1365]) Šelōmō ben Mōšē Šālōm aveva ben presente questo problema e giustificava l'utilizzazione di termini stranieri non avendo trovato nulla di adatto in ebraico, non perché la Lingua Sacra ne fosse sprovvista, bensì perché erano andati perduti. Alcuni termini appropriati erano trovati nel tardo-ebraico rabbinico (la lingua dei Saggi, di benedetta memoria), ma erano oltremodo strani; non diversamente, l'autore era consapevole delle differenze esistenti fra il latino e l'ebraico nella costruzione delle frasi e, pertanto, avvertiva il lettore che avrebbe adottato una resa non letterale per trasmettere in maniera corretta l'esatto significato.
Si trovano anche, a partire da un certo momento, supporti lessicografici; alcuni di questi, come la Spiegazione dei termini stranieri che Šemū᾽ēl ibn Tibbōn aggiunse alle sue traduzioni della Guida dei perplessi e di altre opere di Maimonide, sono dei veri e propri dizionari. Ibn Tibbōn, che redasse questa appendice lessicale in parte per correggere le inesattezze di Yehūdā al-Ḥarīzī, il quale aveva fatto ricorso a uno strumento simile in una delle sue traduzioni (sulla rivalità fra questi due traduttori, v. oltre), la fece precedere da un breve saggio dedicato alla chiarificazione della terminologia scientifica. In questa prefazione al lessico, Ibn Tibbōn tracciava una tipologia di neologismi utilizzati nella sua traduzione, che includevano evidenti arabismi (per es., qoter, 'diametro'), parole talmudiche (sug, 'specie'), radici ebraiche prima sconosciute (mi'ammet, 'verificare', 'provare'), e nuovi usi di termini già noti ('ish, nel senso di 'individuale', 'particolare').
Un altro esempio di questo genere di strumenti è il dizionario inserito in alcune copie della traduzione ebraica del Canone di Avicenna. Accadeva che fossero i traduttori stessi ad avvalersi dei dizionari esistenti, come per il Kitāb al-῾Ayn, un lessico arabo-ebraico menzionato da Todros Todrosi nell'introduzione alla sua traduzione del commento di Averroè alla Poetica e alla Retorica. Ai dizionari si possono poi aggiungere liste plurilingue di varia lunghezza che si trovano, a volte, nei manoscritti e nelle quali sono evidenziati i termini corrispondenti, di solito limitati a una sola scienza, in ebraico, spagnolo, italiano e altre lingue. Inoltre, in alcuni casi, per esempio nella traduzione della voluminosa produzione della Scolastica latina, un traduttore invece dell'intera opera poteva tradurne soltanto alcuni passi; Yehūdah Romano offrì ai lettori ebraici gli estratti di dozzine e dozzine di scritti di filosofi cristiani, diverse redazioni della sua antologia sono tuttora esistenti e contengono estratti di varia lunghezza presi dalle opere di Egidio Romano, Tommaso d'Aquino, Alberto Magno e altri.
Spesso il traduttore scriveva una breve prefazione, nella quale spiegava le motivazioni e altre circostanze legate al suo lavoro; temi ricorrenti erano l'ammissione della propria inadeguatezza in una o entrambe le lingue, gli appelli degli amici che lo avevano indotto a cimentarsi nell'impresa e la convinzione di poter contribuire, rendendo disponibile in ebraico un testo scientifico, al recupero dell'antico retaggio ebraico e di accrescere la stima degli Ebrei in sé stessi. Più di rado, il traduttore poteva addentrarsi nelle circostanze che lo avevano spinto a compiere la traduzione, fornendo così agli storici preziose informazioni sul contesto degli studi; gli scritti di Averroè furono tradotti in ebraico più di quelli di Aristotele, e il gran numero di manoscritti esistenti testimonia la loro duratura importanza. Le polemiche con i cristiani che, nelle loro argomentazioni, adottavano la logica aristotelica costituirono la principale motivazione della disponibilità in ebraico di questi testi.
Šemū᾽ēl ibn Tibbōn
Šemū᾽ēl ibn Tibbōn (1160 ca.-1230 ca.) fu, a quanto ne sappiamo, il primo a tradurre un testo scientifico dall'arabo in ebraico; egli tradusse anche l'opera più importante della filosofia giudaico-araba, la Guida dei perplessi di Maimonide. Figlio e padre di traduttori, nessuno ricoprì un ruolo altrettanto significativo nel trasmettere l'eredità araba e giudaico-araba alle comunità ebraiche nelle terre cristiane, e noi abbiamo la fortuna di essere piuttosto ben informati su molti aspetti della sua attività di traduttore.
La versione in lingua ebraica dei Meteorologica di Aristotele, il primo testo scientifico tradotto in quella lingua, fu completata da Ibn Tibbōn nel 1210, e più che una traduzione fu un progetto di ricerca pienamente riuscito. Ibn Tibbōn viaggiò in cerca di manoscritti, ma i due che trovò non furono sufficienti a stabilire il testo in tutte le sue parti; si avvalse poi dei commenti, tanto delle versioni arabe di commentatori come Alessandro di Afrodisia, quanto degli scritti di commentatori musulmani come Ibn Rušd (i loro commenti, assieme con le note testuali dello stesso Ibn Tibbōn, appaiono nel testo tutte le volte che Ibn Tibbōn avverte la necessità di richiamare l'attenzione su una particolare difficoltà o per suggerire significati alternativi).
Non fu per caso che Ibn Tibbōn scelse i Meteorologica per la sua prima impresa; probabilmente un invito in questo senso gli fu rivolto dall'amico Yōsēf ben Yiśrā᾽ēl. Tuttavia, le questioni affrontate da Aristotele nei Meteorologica costituivano già da tempo materia di riflessione per Ibn Tibbōn e per molti suoi correligionari provenzali. Per esempio, l'effettiva disposizione degli elementi sulla Terra, in cui sono visibili oceani e continenti, appariva opposta alla semplice immagine di una sfera di terra interamente circondata da una sfera d'acqua. Ibn Tibbōn cercò le risposte a queste domande, che erano in forte contrasto con la dottrina della creatio ex nihilo, nel testo di Aristotele; fatto ancor più significativo per la successiva storia del pensiero ebraico, credette che anche Maimonide avesse trovato nei Meteorologica la chiave del segreto della Creazione. Questa convinzione lo portò a tradurre in modo errato un termine chiave della Guida (II, 30), dove Maimonide esponeva il suo punto di vista sulla materia. In un passaggio cruciale, Maimonide dichiarava che le sue vedute concordavano con quello che è stato dimostrato ne al-᾽athar. Questo termine arabo può significare 'tradizione', e tale sembra essere la traduzione corretta; Maimonide affermava, infatti, che le sue vedute erano in accordo con un importante passo talmudico da lui appena citato. Tuttavia, in arabo i Meteorologica sono chiamati al-᾽athar al-'ulwiyya; con una buona dose di ingenuità, Ibn Tibbōn interpretò il testo di Maimonide come se sostenesse che i segreti della Creazione (o, forse, il 'segreto' della materia coeva) fossero contenuti nel testo di Aristotele.
Sembra che Ibn Tibbōn non avesse dubbi sull'esattezza della sua traduzione, e non toccava mai questo passaggio nella sua corrispondenza con Maimonide a proposito della traduzione della Guida (un documento unico nella storia delle traduzioni medievali in ebraico). Siamo in possesso soltanto della risposta di Maimonide, dalla quale apprendiamo che il traduttore inviò all'autore una lista di passi problematici e che l'autore fece del suo meglio per chiarirli, fornendo, in aggiunta, la propria traduzione ebraica del passo in questione. Ibn Tibbōn non sottolineò questo passo nemmeno nelle sue note critiche alla Guida, che non furono mai pubblicate: si possono trovare, in versioni diverse, in un discreto numero di manoscritti, di solito ai margini.
Occorre poi ricordare che Ibn Tibbōn si trovò coinvolto in un'aspra polemica con un altro traduttore della Guida; sebbene in molti casi i traduttori esprimessero insoddisfazione per il lavoro di qualche collega, non esistono episodi paragonabili a questa contesa. Il rivale di Ibn Tibbōn era il poeta e viaggiatore Yehūdā al-Ḥarīzī. Ibn Tibbōn non era nato in un territorio di lingua araba ed è molto probabile che abbia imparato tale lingua dal padre, fuggito in Provenza dalla Spagna. Egli riconosceva ad al-Ḥarīzī la totale padronanza dell'arabo, come anche la sua competenza nella traduzione di testi poetici, di cronologie e di altri scritti di chiaro sapore esoterico; il suo punto debole era la filosofia, per la quale non dimostrava comprensione alcuna. La sua pungente critica è contenuta nell'introduzione al lessico filosofico, che egli aggiunse alla seconda versione della sua traduzione. Al-Ḥarīzī aveva anch'egli arricchito la sua traduzione di un lessico filosofico (tutto sciocchezze ed errori, sostiene Ibn Tibbōn), nonché di una sinossi di ogni capitolo della Guida (ingannevole e sviante, secondo Ibn Tibbōn). In questa seconda versione egli colse anche l'occasione per apportare alcune correzioni alla prima traduzione; non si tratta semplicemente di una lista di errata, bensì di una spiegazione delle cause degli errori; apprendiamo in tal modo che aveva sempre reso l'arabo ῾ala con il termine ebraico della stessa famiglia ῾al, ma a un certo punto si rese conto che la buona dizione ebraica richiedeva in determinate circostanze l'uso di una preposizione diversa. Alcuni importanti pensatori, come Mōšeh ben Naḥmān (Nahmanides, 1194-1270), si affidarono alla versione di al-Ḥarīzī; alcuni glossatori, in special modo Šēm Ṭov ibn Falaquera, fecero riferimento all'originale giudaico-arabo, ma fu la traduzione di Ibn Tibbōn quella che ebbe la maggior diffusione e fu proprio attraverso la sua versione che la filosofia di Maimonide ebbe un maggiore impatto.
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