La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. L'infinito e l'eternita del mondo
L'infinito e l'eternità del mondo
La questione dell'infinito si è imposta ai pensatori del Tardo Medioevo attraverso due percorsi principali: il primo aveva origine dal Libro III della Fisica e dal Libro I del De caelo di Aristotele, nei quali si analizzano i concetti di infinito e di continuità; il secondo dalle discussioni sull'eternità del mondo. Dato che un mondo eterno avrebbe implicato un passato e un futuro infiniti, molte delle argomentazioni a sostegno o contro la tesi dell'eternità del mondo riguardavano l'infinito. Le discussioni sull'eternità del mondo si svolgevano generalmente in un contesto teologico, o nei commenti alle Sententiae o in questioni separate.
Gli scritti composti nelle Facoltà delle arti, trattando il problema dell'eternità del moto e della sua dimostrazione contenuta nel primo capitolo del Libro VIII della Fisica di Aristotele, riportano, anche se in una forma leggermente diversa, discussioni analoghe; in questo modo anche coloro che non si occupavano di teologia erano in grado di discutere la questione relativa all'eternità del mondo.
Nella filosofia greca, l'infinito (in greco ápeiron) era spesso associato con l'illimitato, l'indefinito e, quindi, l'imperfetto; ciononostante, nella seconda metà del XIII sec., si cominciò a sviluppare l'idea che l'infinità di Dio fosse un'espressione della sua perfezione e immensità (Sweeney 1992). Sin dall'inizio fu stabilito che l'infinità di Dio non riguardava il numero o l'estensione, ma piuttosto l''intensità'; vale a dire che non si trattava di un infinito 'estensivo', bensì 'intensivo' (gli autori moderni ‒ tra i quali Kant ‒ hanno etichettato quest'ultimo come 'infinito metafisico'). Benché gli autori medievali si sforzassero di tenere accuratamente distinti l'infinito intensivo e quello estensivo, facendo sempre riferimento alla 'potenza' (vigor, virtus, potestas) infinita di Dio, le due categorie finirono ugualmente per contaminarsi a vicenda.
Autori come Riccardo Fishacre o Tommaso di Wilton, per esempio, inserirono nelle loro discussioni sull'infinità divina riferimenti ad altri tipi di infinito, giungendo perfino a servirsi di esempi matematici (Davenport 1997; Jung-Palczewska 1997). Tuttavia, le discussioni sull'infinità intensiva di Dio sono rilevanti per la storia della scienza soltanto in quanto forniscono il contesto per la discussione degli aspetti estensivi dell'infinito.
La questione centrale del dibattito sull'infinito era se potesse esistere una grandezza infinita. I contributi più durevoli di Aristotele a questo riguardo sono la distinzione tra 'infinito in atto' e 'infinito in potenza', e la tesi secondo la quale l'infinito può esistere soltanto in potenza. Il caso paradigmatico di infinità potenziale è la discussione della possibilità della divisione infinita di un continuo (continuum). Secondo Aristotele, una grandezza continua di dimensione finita poteva essere divisa all'infinito in parti che, a loro volta, potevano essere ulteriormente divise; le parti risultanti da questo processo di divisione potevano essere sommate tra loro, dando così origine a una serie potenzialmente infinita di numeri, ossia alla serie dei numeri naturali (Physica, 207b 1-8). È interessante notare che il concetto aristotelico di infinito si fonda sul presupposto che ogni grandezza continua sia composta di parti divisibili, una tesi, questa, che sarà dimostrata soltanto nel Libro VI della Fisica. Nel processo di divisione di una data quantità in parti divisibili, come pure in quello di numerazione di tali parti, era possibile continuare a prendere una parte sempre nuova (ibidem, 207a 3); in altri termini, il processo di divisione o di addizione delle parti non era mai completato e in questo senso l'infinito esisteva soltanto in potenza.
Averroè spiegava il carattere potenziale dell'infinito specificando che si trattava di una potenzialità mescolata con un'attualità (actus permixtus). Una parte dell'infinito esisteva in atto, ossia quella parte la cui divisione o somma era stata portata a termine, ma rimaneva sempre una parte che poteva essere ulteriormente divisa o numerata. L'unico infinito ammissibile era un infinito in fieri, vale a dire un''infinità in divenire' che poteva essere completata soltanto successivamente. Le espressioni medievali che erano utilizzate per indicare alternativamente l'infinito in potenza e quello in atto ‒ ricalcate dalle formule impiegate nella traduzione latina della Fisica di Aristotele ‒ erano, rispettivamente, non tantum quin maius e tantum quid non maius; era cioè detto 'infinito potenziale' una quantità non così grande da non poter essere ancora maggiore, mentre l'infinito 'attuale' era definito come un valore massimo, cioè una quantità così grande da non poter essere aumentata. In modo analogo, un numero potenzialmente infinito era definito come un numero non così grande da non poter essere ulteriormente aumentato (non tot quin plures), mentre un numero attualmente infinito era un numero che rappresentava una quantità tale da non poter essere aumentata (tot quod non plures).
Nel corso del XIV sec. fu introdotta un'altra importante distinzione, quella tra l'uso categorematico e l'uso sincategorematico dei termini 'infinito' e 'infinitamente numerosi'; questa distinzione continuò a essere in uso fino alla fine del XVII secolo. Alcuni studiosi hanno ritenuto che l'infinito categorematico corrispondesse all'infinito attuale e quello sincategorematico all'infinito potenziale (Maier 1964), e che la scelta di uno dei due termini (del significato dei quali si dirà poco più avanti) fosse semplicemente una questione di terminologia. Le ricerche che sono state svolte negli ultimi venti anni del XX sec. hanno tuttavia permesso di chiarire ulteriormente il retroterra semantico di questa distinzione (Kretzmann 1982).
Secondo l'opinione attualmente prevalente, la distinzione tra infinito categorematico e infinito sincategorematico rappresenta l'elemento centrale di quella che è stata definita 'la logica dell'infinito' (Murdoch 1982a), che è parte di quel nuovo approccio alla filosofia della Natura incentrato sull'analisi proposizionale. Al fine di illustrare questo tipo di approccio ci si è serviti finora quasi esclusivamente di esempi tratti dalle opere di Guglielmo di Ockham o dei mertoniani, ma esso ebbe anche altri importanti sostenitori, come, per esempio, Giovanni Buridano e Alberto di Sassonia (Sarnowsky 1989). L'esposizione che segue è basata sulla distinzione fra categorematico e sincategorematico effettuata da Giovanni Buridano.
La distinzione è essenzialmente di natura grammaticale; i termini categorematici sono quelli che possono svolgere una funzione di soggetto o di predicato in una proposizione, ossia i sostantivi, gli aggettivi, i pronomi e i verbi; mentre sincategorematici sono tutti i termini non categorematici, cioè le congiunzioni, gli avverbi e le preposizioni. Questi ultimi termini possono, però, influire sul significato di una proposizione anche se non fanno parte del soggetto o del predicato e per questo sono stati studiati dai logici medievali. Verso la fine del XIII sec., le classi dei termini categorematici e sincategorematici divennero allo stesso tempo più ristrette e più ampie rispetto a questa classificazione grammaticale; molti termini sincategorematici furono omessi dai trattati sui sincategoremi perché non ritenuti abbastanza interessanti da essere discussi, mentre alcune parole, che dal punto di vista sintattico avrebbero dovuto essere classificate tra i categoremi, cominciarono a essere trattate come termini sincategorematici, perché sembravano influire sull'interpretazione semantica di una proposizione.
Facevano parte di quest'ultima classe termini come 'tutto' (omnis), 'interamente' (totus), 'altro' (alter) e 'infinito' (infinitus). In alcuni casi questi aggettivi, che dal punto di vista grammaticale erano categoremi, potevano assumere in una proposizione una funzione di quantificatori (signa) ed essere perciò considerati termini sincategorematici; in altre parole, alcuni termini categorematici erano classificati come termini sincategorematici in base alla funzione semantica che svolgevano all'interno di una proposizione. Questa situazione condusse probabilmente a distinguere tra uso categorematico e sincategorematico di uno stesso termine; gli autori del Tardo Medioevo erano soliti distinguere, in particolare, tra l'uso categorematico e sincategorematico del termine 'infinità' (categorematice sumpto o sincategorematice sumpto sono le formule a cui si fa generalmente ricorso per indicare questa distinzione).
Si riteneva che i termini sincategorematici, a differenza di quelli categorematici, non possedessero un significato proprio, ma modificassero il significato dei termini categorematici che li accompagnavano. Tra gli effetti dell'inserimento di un termine sincategorematico in una proposizione vi era quello di bloccare la possibilità della sua conversione (conversio), l'operazione logica che consiste nell'invertire l'ordine del soggetto e del predicato in una proposizione senza alterare il suo contenuto di verità. Le proposizioni 'ogni uomo è un animale' (omnis homo est animal) e 'ogni animale è un uomo' (omnis animal est homo) non sono affatto equivalenti; allo stesso modo, la posizione dei termini 'infinito' o 'infiniti di numero' in una proposizione influisce sul suo significato e, di conseguenza, sul suo contenuto di verità.
I logici medievali svilupparono alcune tecniche di analisi linguistica miranti a esplicitare il significato delle proposizioni ambigue. La più importante di queste tecniche era quella chiamata 'esposizione' (expositio), che consisteva nel sostituire la proposizione di significato oscuro (exposita) con una dotata di un senso più chiaro (exponens). La teoria della supposizione, che serviva ad analizzare ciò a cui i termini si riferivano, rappresentava una delle principali componenti di questa tecnica. La discussione dell'infinita divisibilità di un continuo effettuata da Giovanni Buridano costituisce un esempio particolarmente significativo di logica dell'infinito e del ruolo svolto dalla teoria della supposizione nella filosofia della Natura.
Nel Libro III, quaest. 18, del suo commento alla Fisica Buridano discuteva il problema se le parti in un continuo fossero infinite di numero. La risposta a questa domanda cambiava a seconda che il termine 'infinito' fosse usato in senso categorematico o sincategorematico; secondo l'uso categorematico, le due proposizioni 'infinite di numero sono le parti di un continuo' (infinitae secundum multitudinem sunt partes in continuo) e 'le parti di un continuo sono infinite di numero' (partes in continuo sunt infinitae secundum multitudinem) erano equivalenti e, sosteneva Buridano, entrambe false, dato che l'uso categorematico del termine 'infinito' implicava l'idea che esistesse un particolare numero x infinito. Tuttavia, né due specifiche parti di un continuo erano infinite, né tre, né quattro e così via, e quand'anche si fossero potute considerare tutte insieme le parti costitutive di un continuo (omnes simul sumptae), sarebbe stato falso affermare che tutte le parti di un continuo erano infinite di numero, poiché nessun numero di parti di un continuo costituiva 'tutte' le parti. Usato in senso categorematico, il termine 'infinito' dava luogo a una suppositio determinata, ossia si supponeva che dovesse riferirsi a un determinato oggetto infinito. Il fatto che Buridano considerasse falsa la proposizione interpretata in senso categorematico indica che egli non credeva all'esistenza di un tale referente; in altre parole, rifiutava un infinito in atto.
Buridano forniva poi due differenti definizioni della locuzione 'infiniti di numero' usata in senso sincategorematico. Secondo la prima definizione, 'infiniti di numero' si riferiva, come nella tradizione, a 'una certa quantità non così grande da non poter essere ancora maggiore' (aliquota et non tot quin plura); questa definizione era ulteriormente spiegata con l'espressione 'per ogni grandezza B, esiste una grandezza B maggiore' (omni B est B maius). Così, l'affermazione 'B sono infinitamente molti' poteva essere interpretata come 'per ogni quantità B, esiste una quantità B maggiore'. Buridano osservava che in questa proposizione il termine 'B' aveva due referenti diversi; nella prima parte della proposizione ('per ogni quantità B') possedeva una supposizione distributiva (suppositio distributiva) e significava che, dato un numero qualunque di qualsivoglia grandezza, si poteva sempre trovare un numero ancora più grande, mentre nella seconda parte della proposizione ('esiste una quantità B più grande') il termine 'B' dava luogo a una 'supposizione solamente confusa' (suppositio confusa tantum), poiché significava che non c'era un particolare numero B che fosse maggiore di qualunque numero B scelto all'inizio. Buridano affermava che secondo questa interpretazione la proposizione 'infiniti di numero sono le parti di un continuo' (infinitae secundum multitudinem sunt partes in continuo) era falsa. Infatti, dato che in ogni continuo vi erano soltanto due parti, e precisamente le due metà generate dalla prima divisione del continuo stesso, non esistevano altre parti per ogni dato numero di parti, come voleva la definizione; tutte le altre parti erano solamente il prodotto della successiva suddivisione delle due metà iniziali (Quaestiones super libros physicorum, Lib. III, quaest. 18).
Buridano forniva anche una seconda definizione dell'uso sincategorematico di 'infinito', che preferiva chiaramente alla prima. Secondo questa definizione, la proposizione 'infiniti sono i B' (infinita esse B) significava che B erano due, e tre, e cento, e così via, senza fine (et sic sine statu); così, le parti di un continuo erano infinite di numero, cioè due, tre, cento e così via (ibidem). Di conseguenza, in base a questa seconda definizione, la proposizione 'le parti in un continuo sono infinite di numero' era vera.
Gli interpreti delle teorie tardo-medievali dell'infinito hanno in genere affermato che l'uso categorematico del termine 'infinito' era equivalente a un infinito in atto e l'uso sincategorematico a un infinito in potenza. La discussione del problema effettuata da Buridano ‒ come anche quella di altri autori del XIV sec. ‒ indica tuttavia che la questione era in realtà leggermente più complessa. A seconda della sua posizione, il termine 'infinito' poteva implicare sia un infinito in atto che un infinito in potenza. È possibile anche inferire, dal contenuto di verità che un autore attribuiva a una data proposizione, quale tipo o tipi di infinito egli giudicasse ammissibili; molto dipendeva quindi da quale definizione era data di un particolare uso del termine. Nel caso di Buridano, come si è visto, si hanno due distinte definizioni dell'uso sincategorematico del termine 'infinito'; anche Tommaso Bradwardine, Gregorio da Rimini e Alberto di Sassonia affermavano che il termine 'infinito' usato in senso sincategorematico poteva essere interpretato in molti modi diversi. Gregorio da Rimini distingueva anche un gran numero di diverse definizioni di 'infinito' in senso categorematico, una delle quali si avvicinava molto alla concezione di infinito sincategorematico proposta da Buridano.
Gli autori del XIV sec. avevano opinioni diverse anche riguardo alla questione se un termine fosse usato in senso categorematico o sincategorematico; la posizione di un termine in una proposizione non forniva alcuna indicazione riguardo al suo uso. Come si è visto, Giovanni Buridano riteneva che quando un termine era usato in senso categorematico esso poteva indifferentemente precedere o seguire il termine che qualificava; inoltre, rifiutava l'idea che il termine 'infinito' potesse essere usato in senso sincategorematico soltanto quando era parte del soggetto (a parte subjecti), come avevano affermato, per esempio, Walter Burleigh e Guglielmo Heytesbury. Il termine 'infinito' era usato in senso sincategorematico rispetto al termine che modificava anche nella posizione di predicato, dal momento che fungeva da segno (signum) distributivo (ibidem).
Un altro campo di applicazione delle tecniche semantiche fu il riesame del concetto di infinito potenziale condotto dai pensatori tardo-medievali. Le osservazioni di Aristotele sull'infinito potenziale sono ancora oggi difficilmente interpretabili: la potenza implicata in un infinito potenziale si trasformerà in atto quando sarà giunto il suo tempo, come ogni altra potenzialità a cui si fa riferimento nella teoria aristotelica (Hintikka 1973)? Oppure tale potenzialità appartiene a un ordine diverso e non sarà mai portata a termine (Lear 1980)? Nelle loro ricerche i pensatori del Tardo Medioevo propendevano in genere per quest'ultima interpretazione. Un modo nuovo e particolarmente interessante di analizzare questo concetto fu introdotto da Guglielmo di Ockham e Giovanni Buridano, che concepivano l'essere potenziale dell'infinito (esse in potentia) nei termini di proposizioni che comportano predicazioni per mezzo del verbo potere (potest). Non soltanto l'infinito in potenza, ma anche la possibilità logica di un infinito in atto, portato a termine, era esaminata per mezzo di proposizioni contenenti l'operatore modale 'possibile'.
I pensatori medievali riconoscevano la validità degli argomenti di Aristotele contro la possibilità fisica di un infinito in atto, ma andavano oltre la sua posizione domandandosi se Dio, con la sua potenza assoluta, avrebbe potuto compiere alcune azioni, come quelle di creare una pietra di dimensioni infinite o di portare a termine la divisione infinita di un continuo. Un aspetto importante di queste discussioni era costituito dalla distinzione semantica tra il senso diviso (sensus divisus) di una proposizione e il suo senso composto (sensus compositus). Questa distinzione affondava le sue radici nel De sophisticis elenchis di Aristotele e il suo scopo era quello di stabilire la portata degli operatori modali 'necessario' e 'possibile' nelle proposizioni ambigue: l'operatore modale modificava il senso dell'intera proposizione in cui era presente o soltanto quello di una sua parte? Per esempio, la proposizione ambigua 'è necessario che ogni uomo sia un animale' (omnem hominem esse animal est necessarium) può essere recepita sia nel suo senso diviso, ed è allora equivalente a 'ogni uomo necessariamente è un animale' (omnis homo de necessitate est animal), sia, al contrario, nel suo senso composito, e significa in questo caso 'questo enunciato è necessario: ogni uomo è un animale' (haec est necessaria: omnis homo est animal). Entrambe le proposizioni, tuttavia, hanno contenuti di verità differenti. Ockham applicò regolarmente questa distinzione nella sua discussione sulla possibilità di una divisione infinita di un continuo.
Nella discussione di Buridano, la distinzione tra senso diviso e senso composto era sviluppata nella distinzione tra proposizioni composte e proposizioni divise (propositiones compositae/divisae). Se l'operatore modale (modus) si trova all'inizio oppure alla fine di una proposizione, vale a dire se è un soggetto oppure un predicato, allora si ha una proposizione composta e l'operatore modale ha effetto sull'intera proposizione; se invece esso interrompe ciò che è espresso dal soggetto e dal predicato, allora si ha una proposizione divisa e in questo caso l'operatore modale modifica soltanto la copula: per esempio, la proposizione 'è possibile che un uomo corra' (hominem currere est possibile) è una proposizione composta, mentre 'un uomo può correre' (hominem possibile est currere) è una proposizione divisa.
Il modo in cui questa tecnica semantica era applicata da Buridano alla discussione dell'infinito in potenza e dell'infinito possibile è esemplificato in due proposizioni che riguardano l'infinita divisibilità di un continuo. Secondo Buridano, la proposizione composta 'questo è possibile: Dio separa e separatamente conserva tutte le parti della linea B' (haec est possibilis: Deus separat et separatim conservat omnes partes lineae B) è falsa poiché la divisione in 'tutte' le sue parti proporzionali implicherebbe l'esistenza di un'ultima parte, il che non è vero. La divisione della linea B, come quella di qualunque altro continuo, non può mai essere portata a termine. Dio, tuttavia, 'può' dividere la linea B in tutte le sue parti. La proposizione divisa, strettamente connessa alla precedente, 'Dio può separare e conservare separatamente tutte le parti della linea B' (Deus potest separare et separatim conservare omnes partes lineae B) è vera.
Buridano arguiva la verità di questa proposizione sulla base delle due regole che governavano l'analisi delle proposizioni divise. La prima regola era 'ogni possibile può essere posto in essere' (omne possibile potest poni in esse), e consente di passare dalla proposizione de possibili alla (possibile) proposizione assertoria affermativa. Egli notava, tuttavia, che la proposizione universale divisa non poteva essere trasformata nella proposizione universale composta 'ciò è possibile: Dio separa e separatamente conserva tutte le parti della linea B', ma poteva, invece, essere analizzata in una pluralità di esponenti. Per ottenere la verità dalla proposizione universale divisa era sufficiente che ognuna delle singole proposizioni assertorie fosse possibile. Questo significa che la proposizione divisa 'Dio può separare e conservare separatamente tutte le parti della linea B' poteva essere esposta nelle singole proposizioni composte 'questo è possibile: Dio separa e conserva separatamente queste parti della linea B' e 'questo è possibile: Dio separa e conserva separatamente quelle parti della linea B' (ibidem).
La seconda regola che governava l'analisi delle proposizioni divise era 'il predicato chiama la sua forma' (predicatum appellat suam formam); essa stabiliva che, se proposizioni nelle quali compariva un predicato connotativo erano risolte in proposizioni equivalenti, il predicato non poteva essere cambiato, ma doveva essere preservato nella sua forma originaria. Secondo Buridano questa regola non si poteva applicare alla proposizione divisa 'Dio può separare e conservare separatamente tutte le parti della linea B'. Egli riteneva infatti che il termine 'tutte' (omnes) nell'espressione 'tutte le parti della linea B' (omnes partes lineae B) non fosse un termine connotativo; esso non significava o connotava un tempo, cioè il fatto che tutte le parti dovessero essere considerate simultaneamente, come sembra avessero insinuato alcuni dei suoi anonimi oppositori.
Secondo Buridano, il termine 'tutte' era un segno distributivo, pertanto la proposizione divisa 'Dio può separare e conservare separatamente tutte le parti della linea B' non era soggetta alla regola sui predicati connotativi. Di conseguenza, era scorretto analizzare la proposizione nel modo seguente: 'questo è possibile: Dio separa e mantiene separate tutte le parti della linea B' (che significa, in effetti, Dio separa e conserva separatamente tutte le parti di un continuo simultaneamente). Dato che 'tutte' era un segno distributivo e non un termine connotativo, la proposizione divisa doveva essere scomposta nei modi seguenti: 'questo è possibile: Dio separa e conserva separatamente queste parti della linea B' e 'questo è possibile: Dio separa e conserva separatamente quelle parti della linea B'. Queste ultime proposizioni comportavano l'idea che la divisibilità infinita di un continuo fosse realizzata in momenti successivi e non simultaneamente.
Tale analisi semantica rivelava quindi le convinzioni filosofiche di Giovanni Buridano e in particolare la sua idea che il numero delle parti di un continuo fosse potenzialmente infinito, nel senso che il progressivo processo di divisione non aveva mai termine (ibidem). L'analisi semantica delle proposizioni modali 'è possibile per qualche potenza che una grandezza sia infinita' (possibile est per aliquam potentiam esse magnitudinem infinitam) e 'una grandezza infinita può esistere, se si intende infinita in senso sincategorematico' (infinita magnitudo potest esse, capiendo 'infinita' syncathegorematice) dimostrava allo stesso modo il rifiuto da parte di Giovanni Buridano dell'esistenza in atto di una grandezza infinita (ibidem).
Un altro passo in cui Buridano specificava l'infinita divisibilità potenziale del tempo e dello spazio attraverso proposizioni modali si trova nella discussione del problema dell'infinita variazione della velocità (Murdoch 1998). La questione era stata trattata da Aristotele nel settimo capitolo del Libro VI della Fisica, dove si afferma l'impossibilità dell'esistenza di un moto finito in un tempo infinito o, al contrario, di un moto infinito in un tempo finito. Con l'espressione moti finiti e infiniti Aristotele intendeva riferirsi a mobili che percorrono rispettivamente spazi finiti e infiniti. La maggior parte degli autori del XIV sec. accettava la posizione di Aristotele nel caso dei moti uniformi, rifiutando però le argomentazioni aristoteliche sui moti non uniformi; fra di essi vi erano Walter Burleigh, Giovanni Buridano, Alberto di Sassonia, Paolo Veneto, Biagio Pelacani e Gaetano da Thiene.
La tecnica di cui tutti costoro si servivano per contestare l'opinione di Aristotele era quella di suddividere uno spazio finito, oppure un intervallo di tempo finito, in parti proporzionali. In tal modo era possibile ipotizzare, per esempio, che un mobile potesse rallentare all'infinito durante l'attraversamento delle infinite parti proporzionali ricavabili da un dato spazio. Tutti gli autori sopra menzionati sottolineavano accuratamente che l'infinita accelerazione o rallentamento di un mobile non rientravano nel campo delle potenze 'naturali', bensì in quello delle potenze 'soprannaturali', poiché Dio potrebbe, volendo, dividere uno spazio finito in un numero infinito di parti proporzionali. Buridano sembra sia stato il solo a ricorrere all'analisi delle proposizioni modali per spiegare come questi infiniti rallentamenti o accelerazioni potessero realmente verificarsi. Occorre notare, tuttavia, che il problema delle infinite variazioni di velocità relative alle parti proporzionali non portò all'adozione del metodo di addizionare una serie infinita (di cui si discuterà più avanti).
Per quanto riguarda il contesto storico nel quale fu elaborata la 'logica dell'infinito', gli studiosi hanno attribuito a diverse cause il diffondersi dell'analisi proposizionale nella filosofia della Natura (Murdoch 1981b, 1982b). Tra queste vi era il fatto che molti dei problemi trattati dalla filosofia della Natura e dalla teologia avevano dei precedenti nella tradizione logica; era dunque perfettamente naturale per filosofi e teologi applicare ad altri campi di indagine, esterni al dominio della logica, il materiale semantico che avevano imparato a dominare nel corso dei loro studi nelle Facoltà delle arti. È stato anche suggerito che, tra i fattori che favorirono il diffondersi dell'approccio metalinguistico, possa esserci stato anche il prevalere di alcune posizioni filosofiche, e in particolare la consapevolezza che gli oggetti primari della conoscenza fossero i concetti e le proposizioni mentali, piuttosto che le cose (res). Questa interpretazione sembra implicare l'idea che alcuni pensatori, e soprattutto Ockham, ritenessero di poter giungere alla comprensione della realtà attraverso lo studio del linguaggio. In ogni caso, al di là della questione se Ockham o altri fossero veramente convinti di questo, l'analisi proposizionale era praticata, a quanto sembra, anche da autori collocati su posizioni ontologiche ed epistemologiche molto distanti.
è possibile proporre, allora, un'altra motivazione per spiegare l'affermazione della metalinguistica; la filosofia della Natura era orientata principalmente verso i testi e uno dei suoi compiti più importanti (e di quelli della filosofia medievale in genere) era infatti quello di interpretare i testi degli auctores. Questa situazione potrebbe aver incoraggiato l'analisi dei concetti verbalizzati e di altre formulazioni linguistiche. L'esposizione 'rispettosa' del testo (reverenter exponere) obbligava i commentatori a riflettere sul significato preciso di espressioni e concetti ereditati dal passato, inducendoli a utilizzare a questo scopo le tecniche d'interpretazione apprese nel corso dei loro studi di logica e di semantica (Thijssen 1997).
Secondo la tradizione giudaico-cristiana, basata in particolare sulle parole iniziali della Genesi ('In principio Dio creò il cielo e la Terra'), il mondo aveva avuto un inizio; tuttavia, dal IV sec. in poi, i pensatori cristiani si erano trovati nella condizione di doversi misurare con l'esistenza di tesi di segno opposto ‒ elaborate nell'Antichità e trasmesse da autori insigni, come Agostino e Boezio ‒ secondo le quali l'Universo materiale (mundus) esisteva 'dall'eternità' (ab aeterno), ossia non vi era mai stato un inizio.
Nei primi decenni del XIII sec. la discussione sull'eternità del mondo subì importanti sviluppi. Da un lato, il IV Concilio del Laterano (1215) decretò che l'inizio temporale del mondo costituiva un articolo di fede; dall'altro, sempre a quell'epoca, le Sententiae di Pietro Lombardo, che nella prima distinzione del secondo libro includevano una dichiarazione a proposito dell'eternità del mondo, divennero libro di testo ufficiale nelle Facoltà di teologia. Inoltre, la traduzione in latino dei libri sulla filosofia della Natura di Aristotele (libri naturales), e in particolare del Libro VIII della Fisica, mise i pensatori medievali delle Facoltà delle arti in diretto e quotidiano contatto con le dimostrazioni aristoteliche dell'eternità del moto e dell'Universo (Bianchi 1984). Però, tra le proposizioni condannate dal vescovo Tempier nel 1270 e nel 1277, ve ne erano molte che riguardavano l'eternità del mondo.
La complessa dimostrazione aristotelica dell'eternità del moto era basata sul seguente ragionamento per assurdo: se il moto o il divenire avessero avuto un inizio assoluto, il primo movimento avrebbe dovuto cominciare a esistere, oppure essere eterno; Aristotele, considerate entrambe le ipotesi, concludeva che il movimento, non potendo avere avuto un inizio, doveva essere eterno. Il Medioevo recepì le posizioni di Aristotele attraverso le interpretazioni che ne avevano dato Averroè (Commento alla Fisica di Aristotele) e Maimonide (Dux dubitantium, cioè Guida dei perplessi), le cui opere erano state da poco tradotte in latino. Maimonide fu il primo a formulare l'idea, in seguito molto diffusa, che Aristotele non avesse sostenuto la tesi dell'eternità del mondo e avesse compreso che le proprie dimostrazioni dell'eternità del movimento non erano conclusive. Questa interpretazione del pensiero di Aristotele, ripresa da molti autori latini, fu però respinta da Roberto Grossatesta, che accusò i suoi sostenitori di voler trasformare Aristotele, l'eretico, in un cattolico (Dales 1990).
I nuovi sviluppi aiutarono gli studiosi a mettere meglio a fuoco la questione, che fu riformulata in questi termini: il mondo avrebbe potuto essere eterno, se Dio l'avesse voluto? In altre parole, l'inizio del mondo doveva essere accettato come un articolo di fede, oppure poteva essere dimostrato con argomenti opportuni, capaci di provare l'impossibilità di un mondo eterno? Per provare che vi era stato un inizio, infatti, occorreva trovare argomenti che dimostrassero che la possibilità dell'eternità del mondo, o della mancanza di un suo inizio, conduceva a contraddizioni o paradossi insanabili. Confutare questi argomenti, al contrario, equivaleva a dimostrare la possibilità dell'eternità del mondo. Queste confutazioni miravano a provare che le pretese dimostrazioni dei sostenitori dell'esistenza di un inizio del mondo erano di natura puramente dialettica, e quindi non consentivano di affermare che il mondo doveva necessariamente avere avuto un inizio; d'altra parte, la tesi contraria, quella della sua eternità, era logicamente possibile, anche se non si era realizzata in concreto, come insegnava la fede. Dibattiti analoghi si svolsero anche tra i pensatori medievali islamici ed ebrei (Davidson 1987).
Bonaventura appare come l'esponente paradigmatico di quanti ritenevano fosse possibile dimostrare che il mondo avesse avuto un inizio; questa posizione era condivisa da molti filosofi del XIV sec., tra cui Pietro Aureolo, Guglielmo di Alnwick, Enrico di Oyta e Marsilio di Inghen. La dimostrazione dell'inizio del mondo era imperniata su considerazioni relative alla Creazione e all'eternità, ed era strettamente connessa con il problema dell'infinito. Secondo la prospettiva cristiana, la Creazione divina implicava necessariamente una 'creazione dal nulla' (creatio ex nihilo), poiché Dio aveva creato il mondo là dove in precedenza non c'era nulla. I sostenitori della tesi dell'inizio del mondo interpretavano l'espressione 'dal nulla' (ex nihilo) come se significasse 'dopo il nulla' (post nihil). Riprendendo un ragionamento svolto in origine da Riccardo di San Vittore, affermavano che la Creazione era stata una transizione dal non essere (nihil) all'essere e dal momento che il non essere doveva necessariamente precedere l'essere, la Creazione implicava un inizio nel tempo.
La concezione temporale della Creazione sostenuta da Bonaventura fu confutata da Tommaso d'Aquino, esponente paradigmatico di quei pensatori i quali ritenevano che la tesi dell'inizio del mondo non potesse essere dimostrata. Tommaso, seguendo Avicenna, interpretava la creazione dal nulla non come creazione da qualsiasi cosa, cioè da una materia dotata di un'esistenza indipendente, ma come una relazione di dipendenza causale dell'Universo da un principio superiore, Dio (Avicenna, Metaphysica, IX, 1). Secondo questa interpretazione, la condizione di creatura non era inconciliabile con l'assenza di un inizio nel tempo; per Tommaso il concetto di Creazione implicava una priorità nell'ordine delle cose, ma non una priorità cronologica.
Molte altre prove dell'inizio del mondo erano basate su considerazioni relative all'infinito. L'opinione prevalente nel Medioevo era che Dio e l'Universo fossero eterni, ma in modo diverso. Dio era eterno in senso atemporale, mentre il mondo era eterno in senso temporale. Il concetto di eternità atemporale ‒ elaborato da Boezio (De consolatione Philosophiae, V, 6) e chiamato a volte 'eternità propria' dagli autori più tardi ‒ introduceva la nozione di atemporalità accanto a quelle di 'contemporaneità' (tota simul) e di 'vita', ed era riferito al modo di esistenza di Dio. L'eternità del mondo era concepita invece in senso temporale, come perpetuità o durata priva di un inizio e di una fine. Essa presupponeva secondo alcuni l'esistenza di una serie infinita di eventi passati e futuri. L'infinito veniva così a svolgere un ruolo centrale nelle discussioni sulla possibile eternità del mondo.
Le contraddizioni a cui si presumeva dovesse condurre l'esistenza di una molteplicità infinita erano considerate come argomenti contro la possibilità di un mondo eterno. La maggior parte di questi argomenti erano tratti dalla teoria aristotelica dell'infinito, largamente accettata, ma erano utilizzati in questo caso in un contesto diverso, per corroborare la tesi tutt'altro che aristotelica secondo cui il mondo non era eterno, ma aveva avuto un inizio nel tempo. Si riteneva, in particolare, che l'idea di un mondo privo di inizio contraddicesse le seguenti regole aristoteliche, ritenute generalmente valide: è impossibile aggiungere qualcosa all'infinito (De caelo, 283a 9-10); è impossibile concepire una serie infinita di cause (Metaphysica, 994a 1-19); l'infinito non può essere afferrato da un potere finito (ibidem, 999a 27); è impossibile l'esistenza simultanea di un numero infinito di cose (Physica, 204a 20-25; Metaphysica, 1066b 11).
Inoltre, la teoria della possibilità di un mondo eterno sembrava doversi scontrare con alcuni principî autoevidenti, come quello secondo cui tutti gli infiniti devono essere uguali. Alcune di queste presunte contraddizioni erano già state evidenziate da Giovanni Filopono (De aeternitate mundi contra Aristotelem, De aeternitate mundi contra Proclum) ed erano circolate grazie ad autori arabi come al-Ġazālī (Metafisica), prima di approdare nell'Occidente latino. Fra gli argomenti più utilizzati per confutare la possibilità dell'eternità del mondo, il primo era basato sulla tesi di Aristotele secondo la quale l'infinito non poteva essere attraversato; un mondo eterno implicava un passato eterno, che presupponeva a sua volta l'esistenza di un numero infinito di giorni e di anni trascorsi. L'attraversamento di una serie infinita di eventi era però, per ammissione dello stesso Aristotele, impossibile; di conseguenza, il momento presente non avrebbe mai potuto essere raggiunto. In breve, il principio aristotelico era utilizzato per affermare la tesi non aristotelica secondo cui l'Universo non poteva esistere dall'eternità.
Il secondo argomento era basato su un'altra tesi di Aristotele, quella che negava la possibilità dell'esistenza di una moltitudine infinita, ma era tratto in effetti dalla Metafisica di al-Ġazālī (I, 6). Essendo l'intelletto umano immortale, il presupposto di un mondo eterno implicava l'esistenza di un numero infinito di intelletti. Ma l'esistenza simultanea di un infinito in atto era impossibile e, di conseguenza, la tesi dell'eternità del mondo doveva essere respinta.
Il terzo argomento contro l'eternità del mondo, invece, non era strettamente aristotelico e si basava sul presupposto che l'infinito fosse un valore massimo, di cui non si poteva concepire nulla di più grande, e che, di conseguenza, tutti gli infiniti fossero uguali. Tuttavia, il numero infinito di giorni da cui è composto un passato eterno è maggiore del numero infinito di anni, oppure, la quantità infinita di tempo trascorsa fino a ieri è minore della quantità infinita di tempo trascorsa fino a oggi. Il paradosso costituito dall'esistenza di infiniti uguali eppure diversi portava dunque al rigetto del presupposto dell'eternità del mondo.
Le confutazioni di questi ragionamenti si basavano sulla distinzione tra i diversi generi di infinito soggiacenti all'assunto della possibilità dell'eternità del mondo. Contro l'argomento dell'attraversamento, per esempio, si affermava che il tempo infinito trascorso fino al presente in un mondo che si supponeva eterno, non sarebbe stato un infinito simultaneo, bensì un infinito potenziale o successivo. Tra l'oggi e un qualsiasi giorno del passato sarebbe trascorso sempre un tempo contenente un numero finito di giorni. Giovanni Buridano, per esempio, sosteneva che, anche se, sincategoricamente parlando, fossero trascorsi infiniti giorni e anni, sarebbe stato nondimeno un tempo finito. Analogamente, il numero di giorni contenuti in questa estensione finita di tempo sarebbe stato maggiore del numero di anni. Il risultato di queste confutazioni era che l'ipotesi di un mondo eterno non implicava il fatto che un qualunque giorno del passato fosse infinitamente distante dal presente e, di conseguenza, che la premessa di un mondo eterno non implicava una contraddizione. In questo caso, sostenitori e avversari della possibilità di un mondo eterno si rifacevano entrambi allo stesso principio aristotelico che stabiliva l'ammissibilità di un infinito in potenza, ma non di un infinito in atto; ciò che li divideva era la questione se l'eternità del mondo comportasse un'infinità attuale o potenziale.
Una posizione più radicale fu assunta da altri autori, come Enrico di Harclay, il quale concordava con i suoi avversari nel ritenere che l'ipotesi di un mondo eterno comportasse l'esistenza di un infinito in atto, ma negava che questo conducesse a conclusioni contraddittorie; giudicava, per esempio, ammissibile l'esistenza di infiniti non uguali tra loro. Seguendo una traccia suggerita a suo dire da Tommaso d'Aquino, Harclay affermava che era possibile che i diversi infiniti mantenessero tra loro rapporti di proporzionalità. In un passato infinito, le infinite rivoluzioni della Luna sarebbero state dodici volte più numerose delle infinite rivoluzioni del Sole. Un passato infinito, inoltre, poteva differire da un altro quanto alla sua conclusione nel presente: gli infiniti giorni trascorsi fino a oggi sarebbero stati più numerosi degli infiniti giorni trascorsi fino a ieri. Per dimostrare questa tesi, Harclay faceva appello all'assioma di Euclide, secondo cui la sottrazione di grandezze uguali da grandezze uguali dà come risultato grandezze uguali.
Altri sostenitori della tesi dell'infinito in atto nel XIV sec. furono Guglielmo di Ockham, Giovanni de Bassolis, Francesco di Marchia, Francesco da Meyronnes, Nicola Bonet e Gregorio da Rimini.
Analoghi tentativi di risolvere il paradosso degli infiniti uguali eppure diversi furono compiuti da Guglielmo di Ockham, Guglielmo di Alnwick e Gregorio da Rimini (Murdoch 1982a, 1982b). Tutti questi autori tentarono di delineare nuovi modi per applicare l'assioma euclideo: 'il tutto è sempre maggiore di una sua parte' e le relazioni di uguaglianza agli infiniti. Oltre a coloro i quali si servivano del paradosso degli infiniti uguali ma diversi per respingere la tesi dell'eternità del mondo, e a coloro che tentavano di risolvere questo paradosso, esisteva poi una terza tradizione, che ebbe tra i suoi rappresentanti più significativi Nicola Oresme e Alberto di Sassonia; tale tradizione sosteneva che gli infiniti fossero grandezze incomparabili. Poiché ogni tentativo di confrontare gli infiniti tra loro dava immediatamente adito al paradosso degli infiniti uguali ma diversi, questi autori affermavano che comparazioni del tipo 'uguale a', 'maggiore di' oppure 'minore di' non fossero affatto applicabili agli infiniti in atto.
Il paradosso degli infiniti che sono parti di altri infiniti ma al tempo stesso uguali a essi, è soltanto uno dei campi di applicazione della matematica all'infinito. Tra le questioni che si tentò di risolvere con mezzi matematici vi furono l'analisi delle serie infinite e la discussione geometrica dell'infinitamente piccolo. La riflessione sulle serie infinite fu sviluppata nel contesto del problema della misurazione del variare dell'intensità di una data qualità all'interno dello stesso soggetto. Riccardo Swineshead, per esempio, inserì un'analisi delle serie infinite nella sua discussione di due sofismi riguardanti la distribuzione di diversi gradi di intensità di calore in uno stesso soggetto (Liber calculationum, II).
I due sofismi ruotano intorno allo stupefacente problema secondo il quale un soggetto il cui calore aumenti progressivamente ad infinitum in ciascuna delle sue parti proporzionali ‒ in modo tale che la prima metà abbia, per esempio, la temperatura di un grado, il quarto successivo di due gradi, l'ottavo seguente di tre gradi e così via ‒ è dotato nel complesso di un calore finito. Inoltre, se determinate parti proporzionali di questo stesso soggetto non infinitamente caldo venissero sostituite con una quantità finita di calore, piccola quanto si voglia, l'intero corpo diverrebbe subito infinitamente caldo, dal momento che vi sarebbe un numero infinito di tali parti aggiunte. Per esprimerci, più chiaramente, nella terminologia della matematica moderna, i passaggi dall'infinito al finito e poi, nuovamente, al finito descritti da Riccardo Swineshead equivalgono, rispettivamente, alla sommatoria di una serie infinita convergente e a quella di una serie infinita divergente. In termini moderni, si direbbe che Swineshead ha effettuato correttamente la somma della seguente serie infinita: 1/2+2/4+3/8+4/16+…+n/2n+…=2 (Murdoch 1981c).
Lo stesso concetto di serie infinite divergenti e convergenti si ritrova anche nelle Quaestiones super geometriam Euclidis (quaest. 1) di Nicola Oresme, dove la serie armonica 1+(1/2)+(1/3)+(1/4)+…+(1/n)+(1/n+1)+… è considerata divergente. Oresme in questa opera osserva che è possibile esaurire una qualsiasi quantità sottraendo da essa parti proporzionali ad infinitum e la quantità presa in esame risulterà in questo caso equivalente alla somma delle parti proporzionali sottratte.
In termini moderni, si direbbe che Oresme ha dimostrato la convergenza della seguente serie infinita: (a/n)+(a/n) (1−1/n)+(a/n)(1−1/n)2+…+(a/n)(1−1/n)m+…=a. L'esempio dell'esaurimento di una data quantità attraverso la sottrazione successiva della metà della quantità rimanente equivale alla seguente serie infinita: (1/2)+(1/4)+(1/8)+…+(1/2)n+ +(1/2 n+1)+…=1 (Murdoch 1981c; North 1992).
La questione dell'infinitamente piccolo fu affrontata da Pietro di Ceffons nel contesto della discussione relativa alle perfezioni delle specie distinte. Nel suo commento alle Sententiae, Ceffons tentava di dimostrare che gli individui appartenenti a specie distinte (come, per es., una mosca e un angelo) erano separati da una distanza infinita, che poteva essere rappresentata attraverso l'infinita eccedenza di un angolo rettilineo rispetto a un angolo tangente (vale a dire, un angolo curvilineo). La distanza esistente tra individui appartenenti alla stessa specie poteva essere invece rappresentata con l'incremento o il decremento di questi angoli tangenti (cioè tracciando circoli più o meno ampi a partire dal punto di tangenza considerato).
Il ragionamento di Ceffons era diretto contro Roger Roseth, il quale aveva negato che le proprietà delle creature potessero essere separate da una distanza infinita. Secondo il pensiero di Roseth, questa posizione avrebbe distrutto la continuità dell'ordine naturale, all'interno del quale tutte le cose erano commensurabili. Il calcolo degli angoli, utilizzato tanto da Roseth quanto da Ceffons, risaliva a Campano da Novara, il quale aveva osservato che un angolo rettilineo era sempre maggiore di un numero infinito di angoli tangenti, cioè formati dalla tangente a una circonferenza e dall'arco circolare interessato. Tutto questo contraddiceva il principio di continuità di Euclide (Elementa, X, 1), secondo cui, data una grandezza A maggiore di una grandezza B, sottraendo successivamente parti da A era possibile raggiungere a un certo punto una grandezza minore di B. Nel suo commento agli Elementi di Euclide, Campano aveva infatti inserito figure di angoli formati da linee rette e dalla circonferenza di un cerchio al quale erano tangenti che contraddicevano il principio di Euclide ricordato sopra.
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