La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Agostinismo e aristotelismo
Agostinismo e aristotelismo
In Occidente, durante il Medioevo, scienza e filosofia furono spesso strettamente connesse, ma questo legame si consolidò soprattutto con la Scolastica nel XIII sec., diventando il nucleo di un processo estremamente significativo e complesso della storia delle idee. L'importanza e la complessità di tale processo riguardano in primo luogo il quadro istituzionale nel quale si svilupparono le nuove idee; infatti, si trattava raramente di attività di personaggi isolati e le figure di spicco erano soprattutto rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, così come degli ordini mendicanti (in particolare domenicani e francescani) e delle università, nuova forma di organizzazione del sapere che si consolidò e si sviluppò a partire dal 1200. Si verificò inoltre un confronto tra innovazione e tradizione esteso a tutti i campi del sapere; in un certo senso, le dottrine agostiniane e il neoplatonismo rappresentavano la tradizione, mentre il ruolo innovatore apparteneva alla filosofia aristotelica della Natura. La situazione era però, ovviamente, più complessa; da un lato, infatti, la tradizione neoplatonica non venne meno ma si trasformò e rimase viva nell'ambito della teologia, della metafisica, e anche in quella corrente filosofico-scientifica che sosteneva l'importanza della matematica nell'indagine naturale; dall'altro lato, lo stesso aristotelismo era debitore di una tradizione ricca e vasta quanto quella platonica, senza la quale sarebbe stato incomprensibile. Prima di giungere in Occidente i testi aristotelici erano stati raccolti e ordinati da Andronico di Rodi (I sec. a.C.), già commentati nell'antica Grecia ‒ tra gli altri ‒ da Alessandro di Afrodisia e da neoplatonici quali Temistio, Simplicio e Filopono, studiati poi da astronomi come Tolomeo e da medici come Galeno, e successivamente tradotti e discussi in siriaco, persiano, ebraico e arabo (Wallace 1982). Una prima grande sintesi fu quella di Avicenna (980-1037); poi, un secolo dopo, Averroè (1126-1198) realizzò una monumentale opera di commento al corpus aristotelico.
La distinzione fra le tendenze e le dottrine proprie dell'agostinismo e dell'aristotelismo, introdotta dalla storiografia della fine del XIX sec., deve essere dunque adottata con cautela; nel campo più specifico della filosofia naturale si può affermare che gli autori legati ad Agostino si concentrarono sullo studio della luce, mentre gli aristotelici si concentrarono sull'analisi del movimento.
Roberto Grossatesta (1175-1253) fu una figura centrale della filosofia naturale della prima metà del XIII secolo. Sembra che da giovane abbia studiato legge e medicina, e prima del 1220 ottenne il titolo di maestro di teologia; nel 1214 divenne primo cancelliere dell'Università di Oxford. Pur non essendo francescano insegnò per vari anni teologia a Oxford in qualità di primo lettore dell'ordine francescano, promuovendo lo studio della Bibbia, della matematica e delle scienze naturali, e l'apprendimento delle lingue (egli stesso deciderà tardivamente di imparare il greco e l'ebraico). Nel 1235 fu nominato vescovo di Lincoln, incarico che tenne fino alla morte.
La produzione intellettuale di Grossatesta è molto varia e presenta sfumature non riconducibili a un'unica tesi complessiva; la datazione delle sue opere è ancora ipotetica ed esiste inoltre una quantità non trascurabile di scritti attribuitigli falsamente, o in modo incerto. Nell'Hexaemeron e nei commenti agli scritti dello Pseudo-Dionigi, Grossatesta continuò l'opera di reinterpretazione del pensiero teologico e metafisico tradizionale basato sull'esegesi delle Sacre Scritture, su Ambrogio, Basilio e soprattutto Agostino. Egli fu inoltre tra i primi a realizzare un'opera di riflessione sui nuovi testi aristotelici, con i commenti agli Analytica posteriora e alla Fisica, con le traduzioni dell'Etica e di parte del De caelo. Senza voler costruire un sistema unitario, Grossatesta pose le basi per una sintesi tra il carattere matematico della tradizione neoplatonica-agostiniana e la nuova scienza aristotelica del movimento, aprendo così la strada ai successivi sviluppi, prodotti nella prima metà del XIV sec. da Tommaso Bradwardine (1290-1349) e Giovanni di Dumbleton (attivo tra il 1338 e il 1348) al Merton College di Oxford e da Nicola Oresme (1320 ca.-1382) a Parigi.
La luce e il Cosmo
Con l'espressione 'filosofia della luce' si suole indicare quell'insieme di idee religiose e filosofiche provenienti dalla tradizione neoplatonica medievale, rielaborate da Grossatesta nel De luce e nel De natura locorum, e presenti anche in altri scritti. Benché né Grossatesta né i suoi predecessori e successori alludessero esplicitamente a una metaphysica lucis, un tale contesto di idee esisteva e svolgeva un ruolo fondamentale, poiché il discorso relativo alla luce non si limitava allo studio dei fenomeni fisici dell'ottica. Era, questa, una disciplina di grande attrazione intellettuale, tanto che ebbe larga parte nel dibattito scientifico e filosofico del tempo, risultando ampiamente rivisitata da altri autori (v. oltre, parr. 7 e 9).
Si possono distinguere quattro gruppi tematici all'interno dei quali Grossatesta fece uso di diverse analogie e metafore relative alla filosofia della luce. In primo luogo, l'epistemologia, nella quale il processo per raggiungere la conoscenza era analizzato in analogia con la visione; quindi, la metafisica o cosmogonia, secondo la quale il mondo era considerato il risultato dell'autopropagazione della luce intesa come 'prima forma corporea'; in terzo luogo, l'eziologia o fisica, volta a rendere conto di tutti i fenomeni naturali mediante il ricorso a un'analogia con l'irradiazione della luce; infine, la teologia della luce (Lindberg 1976a).
Continuando la tradizione dell'esegesi delle Scritture, Grossatesta nel De luce riprendeva sul piano cosmologico l'ordine della Genesi: fiat lux. Per Agostino, Dio era luce incorporea infinita e fonte della luce corporea e incorporea creata. Seguendo probabilmente Basilio (329-379), egli sosteneva che la luce creata il primo giorno si era mantenuta presente e attiva nei giorni restanti della Creazione; essa si poteva intendere come materia che, secondo un processo descritto da Agostino come contractio ed emissio, conduceva alla differenziazione tra il giorno e la notte. In un passo dell'Hexaemeron (citato a sua volta da Grossatesta nel suo Hexaemeron) Basilio sosteneva che la luce non era in realtà la prima creazione divina e che essa era stata invece introdotta in un secondo momento, al fine di illuminare i cieli precedentemente creati, con un'illuminazione che avveniva per autodiffusione istantanea. A questa dottrina patristica si aggiunsero la teoria emanatista neoplatonica, esposta nel trattato pseudoaristotelico Liber de causis, insieme a elementi della tradizione araba ed ebraica relativi ai concetti di materia e di forma; ciò portò a postulare una teoria comune della corporeità (secondo Avicenna) e l'idea di diffusione di una forma universale nella materia, paragonabile a quella della luce (secondo Avicebron).
Grossatesta cominciava il De luce con lo studio del carattere dimensionale del mondo corporeo; la sua tesi era che la corporeità comprendesse materia e dimensione, ma che quest'ultima non si potesse dedurre semplicemente dalla materia, di per sé adimensionata, né dalla forma, anch'essa priva di dimensioni. Oltre al postulato secondo cui sia la materia sia la forma prese isolatamente erano adimensionate, Grossatesta supponeva che materia e forma fossero intrinsecamente unite; doveva perciò esistere un'entità capace di conferire dimensione, che si trovasse già immediatamente unita alla materia e si confondesse quasi con essa, e questa entità era la luce, da lui chiamata 'prima forma corporea', portatrice e generatrice di dimensione.
Benché Grossatesta impiegasse nel De luce i termini di lux e lumen senza definirne esattamente il significato, la lux doveva indicare, secondo quanto si deduce da altri contesti, la sorgente del lumen riflesso o irradiato. A ogni modo, la luce non era semplicemente la luce fisica percettibile quotidianamente, l'oggetto di studio dell'ottica, bensì un'entità ultrasensibile primordiale, che possedeva proprietà spirituali e generava attorno a sé la dimensione; occorreva dunque spiegare in quale modo ciò avvenisse.
Discutendo alcuni passi del De caelo di Aristotele, Grossatesta studiò le leggi matematiche dell'espansione della materia e della diffusione della luce, determinando la struttura dell'Universo generato da un punto di luce originario; per sua natura la luce si diffonde e si moltiplica in ogni direzione istantaneamente, in modo tale che un punto di luce produce immediatamente una sfera in continua espansione fino a che la sua diffusione non è ostacolata da un corpo opaco. C'è una proporzione costante tra la diffusione o la moltiplicazione della luce, corrispondente alla serie infinita dei numeri naturali, e la quantità di materia esprimibile in dimensioni cubiche, corrispondente a una qualche parte finita di quella serie. L'intensità di questa attività della luce varia direttamente con la distanza dalla sorgente primordiale e il risultato è una sfera, più densa e più opaca verso il centro, dai cui estremi confini il lumen emanato verso l'interno produce poi sfere successive, una dentro l'altra.
Geometria della luce in atto
Una delle fonti di Grossatesta fu senza dubbio il Timeo di Platone, parzialmente tradotto in latino e commentato da Calcidio alla fine del IV sec.; fra i testi scientifici egli conosceva inoltre il De speculis di Euclide, il Liber canonis di Avicenna e probabilmente anche il De visu di Euclide e il De aspectibus di al-Kindī. Poiché si proponeva di presentare il modo di propagazione e di azione della luce attraverso l'uso della matematica, la metafisica della luce si muoveva necessariamente verso una 'geometria della luce' e, come più tardi per Bacone, la propagazione della luce forniva un modello per descrivere il comportamento di tutti gli esseri dell'Universo. Questa riflessione, esposta nel De lineis, angulis et figuris si trovava a metà strada tra la cosmogonia del De luce e l'ottica di Bacone, di Witelo e di Peckham, e si potrebbe definire una 'fisica della luce'.
"L'utilità ‒ comincia il De lineis ‒ di considerare linee, angoli e figure è grandissima, perché senza di esse non si può conoscere la filosofia naturale" (Roberto Grossatesta, De lineis, angulis et figuris, I, ed. Baur, pp. 59-60); questi eventi permettono infatti di comprendere l'Universo sia nel suo insieme sia nelle sue parti, in particolare i diversi tipi di movimento e, fatto importante per Grossatesta, il modo in cui nella Natura si esplica il rapporto agente-paziente. La capacità di azione di un agente su un paziente è chiamata di volta in volta forza (vis), similitudine (similitudo) o specie (species); come la luce, l'azione o species si propaga secondo linee, angoli e figure.
Utilizzando una geometria alquanto rudimentale, Grossatesta determinò che l'azione più forte ha luogo maggiormente lungo una linea retta che non spezzata, perché la retta è più corta, e l'azione si concentra in un'unica direzione (qui 'retta' sta, come del resto in tutta la geometria antica, per 'segmento'). L'azione può poi esplicarsi secondo una linea retta con angoli uguali o disuguali (Grossatesta pensa qui a un agente in posizione laterale rispetto al corpo ricevente, in modo tale che le linee rette che uniscono l'agente con il corpo ricevente possano formare allora con la normale al corpo nel punto di incidenza un angolo sempre maggiore dalla prima all'ultima parte di questo); si possono formare angoli ottusi su una superficie sferica convessa, acuti su una concava e retti (è qui che si verifica l'azione più forte) su una piana. Una propagazione secondo linee spezzate presuppone invece una differenza di mezzo; se il mezzo ricettore è rarefatto, la species lo attraversa, mentre se è denso la species si riflette, e in quest'ultimo caso la riflessione può avvenire lungo lo stesso angolo di incidenza o lungo un altro angolo. In ogni caso Grossatesta afferma con decisione che l'angolo di incidenza è uguale all'angolo di riflessione.
Tra le figure, due appaiono particolarmente importanti: in primo luogo la sfera, in quanto qualunque agente moltiplica la propria azione sfericamente, in secondo luogo la piramide, in quanto un'azione è completa quando da ogni punto dell'agente o da tutta la sua superficie partono species verso ogni punto del ricevente, e ciò accade solamente nel caso di una figura pyramidalis.
Il metodo della scienza
Negli Analytica posteriora Aristotele aveva esposto gli argomenti principali della sua teoria della scienza, e molte delle sue riflessioni riguardavano il metodo di ricerca e i criteri di scientificità. L'interesse dei commentatori del Medioevo e del Rinascimento, fino a Galileo, fu rivolto soprattutto ai capitoli 2, 7, 12 e 13 del Libro I e ai loro legami con passi metodologici di altre opere, come, per esempio, il primo capitolo del Libro I della Fisica (Wallace 1997).
Oltre a far uso di dimostrazioni formalmente corrette, la dimostrazione scientifica deve rispettare le seguenti condizioni: (a) un punto di partenza affidabile nei dati dei sensi; (b) capacità esplicativa, cioè la capacità di giungere alle cause del fenomeno in questione. Aristotele distingueva così due tipi di dimostrazione: (1) del fatto (tò hóti, ossia quia); (2) della causa (tò dióti, ossia propter quid); pur essendo spesso necessario cominciare dalle definizioni (quia) si otteneva la vera scientificità soltanto giungendo alle cause mediante una dimostrazione (propter quid). Rispetto alla matematica l'atteggiamento di Aristotele era ambivalente, in quanto la rigorosa distinzione tra fisica e matematica e la tendenza a evitare la sovrapposizione delle discipline (per es., di geometria e aritmetica) rendevano infatti quanto meno difficile l'applicazione della matematica al campo delle scienze naturali. D'altro canto, Aristotele prendeva spesso la matematica come ideale di scienza dimostrativa e nei Meteorologica avanzava addirittura una spiegazione matematica del fenomeno dell'arcobaleno.
Nella matematica Grossatesta ravvisava invece la possibilità di determinare un sapere certo che potesse stabilire le cause di tutti i fenomeni naturali e, se il suo punto di vista matematico non poteva rivendicare completamente una paternità aristotelica, poteva tuttavia trovare il suo fondamento epistemologico proprio negli Analytica posteriora. Sul modello dei tipi di dimostrazione esposti da Aristotele, Grossatesta, particolarmente interessato al problema della gerarchia delle scienze, teorizzava infatti una distinzione tra due tipi diversi di scienza ossia la scienza "subordinante" (subalternans) che fornisce la dimostrazione (propter quid) per i fenomeni stabiliti mediante la dimostrazione (quia) nella scienza "subordinata". Così, la geometria è la scienza matematica che fornisce le cause dei fenomeni studiati nella scienza subordinata, cioè l'ottica, che a sua volta può subordinare lo studio de halo et iride, cioè dell'alone e dell'arcobaleno (Commentarius in Posteriorum analyticorum libros, capp. 12 e 13; v. l'osservazione di Aristotele, Analytica posteriora, I, 13, 79a 10-15).
Nel complesso, Roberto Grossatesta non perse mai di vista la riflessione sui problemi metodologici, pur non trascurando lo studio di alcuni fenomeni naturali esposti in piccoli trattati quali, per esempio, il De iride e il De impressionibus aëris, strettamente vincolati alla problematica dei Meteorologica di Aristotele.
La diffusione dei testi di Aristotele suscitò moltissime discussioni e categoriche prese di posizione a difesa del ruolo della teologia da una parte e dell'autonomia della filosofia dall'altra; fra le tematiche dibattute durante il XIII sec. vi erano l'eternità del mondo, l'immortalità dell'anima, il ruolo della ragione e il determinismo cosmologico. Nel processo di traduzione delle opere aristoteliche possono essere distinte tre fasi principali di assimilazione: le traduzioni di Boezio (480 ca.-524/525) di alcuni trattati di logica, nel VI sec.; la traduzione dell'intero corpus aristotelico durante i secc. XII e XIII; la revisione filologica dei testi a partire dal XV sec. (Lohr 1982). Il momento decisivo per l'introduzione della scienza aristotelica in Occidente fu senza dubbio a cavallo tra il XII e il XIII sec., quando un intero orizzonte culturale già carico di precedenti elaborazioni siriache, ebraiche e soprattutto arabe (relative a mineralogia, botanica, zoologia, medicina, farmacologia, chimica, matematica, astronomia, astrologia, meteorologia, ottica, meccanica e metodologia della ricerca scientifica) fu assorbito, filtrato e rielaborato.
Una delle vie di penetrazione dell'aristotelismo può essere identificata nell'opera di copiatura e di commento di alcuni manoscritti realizzata in Normandia attorno al 1160, per esempio da Giovanni di Salisbury, che nel Metalogicon dimostrò di conoscere la traduzione degli Analytica posteriora di Giacomo Veneto. Inoltre, un ruolo determinante nell'introduzione dei libri naturales ebbero medici e naturalisti (distinti dai filosofi) fra i quali vari maestri della Scuola di Salerno, come Mauro di Salerno (1130-1214) e Urso di Salerno (m. 1225 ca.), che già verso il 1170 non citavano più in modo indiretto i libri naturales, avendovi evidentemente avuto accesso attraverso le versioni greco-latine dei decenni immediatamente precedenti (che contribuirono poi a diffondere). In effetti, alcune delle prime importanti opere di filosofia naturale del XIII sec., come il De naturis rerum (anteriore al 1205) di Alessandro Neckam (1157-1217) e il commento (1212-1213) di Radolfo di Longchamps (1153/1160-m. dopo il 1213) all'Anticlaudianus (1182-1183) di Alano di Lilla, contengono citazioni di autori salernitani i quali, a differenza dei filosofi parigini della metà del XIII sec. ‒ le cui discussioni ruotavano attorno alle interpretazioni della Metafisica, della Fisica, del De anima e del De caelo ‒, erano più interessati ai Problemata (opera probabilmente pseudoaristotelica sulla cui traccia sarebbero addirittura parzialmente organizzate le quaestiones salernitanae).
Secondo un'ipotesi storiografica diversa, però, la tradizione medica salernitana avrebbe avuto un ruolo minore rispetto alla tradizione astrologica legata ad Abū Ma῾šar, considerato la massima autorità araba nel campo dell'astrologia. La sua opera principale, l'Introductorium maius in astronomiam, descritta a volte come un'interessante mescolanza di scienza greca, mitologia persiana e zoroastriana, astrologia caldea, egizia e indiana, fu tradotta due volte in latino prima del 1150 e favorì la diffusione di elementi fondamentali della cosmologia e della filosofia naturale di Aristotele. L'astrologia sarebbe presto diventata il punto centrale della filosofia naturale; attraverso l'idea della 'simpatia universale' (concepita come il primo effetto dell'influenza dei pianeti) essa offriva un principio unificante della Natura, considerata come un essere vivente omogeneo, composta di realtà concrete, e non come qualcosa di meramente astratto come nel caso della visione ellenistico-stoica del Cosmo; secondo questa ipotesi l'Introductorium presenta una giustificazione dell'astrologia fortemente radicata in testi di filosofia naturale aristotelica. Alano di Lilla considerava Abū Ma῾šar come la principale autorità in materia di astrologia e il suo prestigio sempre crescente indusse Alberto Magno e Guglielmo di Alvernia a considerarlo il commentatore per eccellenza della Fisica di Aristotele (Lemay 1962).
Nel 1210 il sinodo provinciale di Sens stabilì in un decreto, da applicarsi limitatamente a Parigi, che "né i libri di Aristotele sulla filosofia naturale, né i loro commenti siano letti a Parigi in pubblico o in privato, sotto pena di scomunica" (Chartularium Universitatis Parisiensis, ed. Denifle, I, p. 70). Tra i vari nomi menzionati nella condanna spiccavano quelli di Amalrico di Bene (m. 1206), del quale si conservano solamente alcune citazioni di autori a lui ostili, e Davide di Dinant (m. 1215 ca.), autore di un'opera intitolata De tomis e di altri scritti, bersaglio degli attacchi di Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e Niccolò Cusano. Davide era stato in Grecia dove aveva scoperto diversi testi scientifici aristotelici di zoologia e meteorologia; da un'analisi dei suoi scritti, condannati nel 1210, risulta una certa familiarità con i Problemata attribuiti ad Aristotele che lascia supporre una formazione medica, anche in rapporto alla Scuola salernitana. Il decreto citato obbligava tutti i possessori di scritti di Davide a consegnarli, sotto pena di eresia, al vescovo di Parigi affinché fossero bruciati. Nelle imputazioni, non esplicite nel decreto, di cui erano oggetto Amalrico di Bene e Davide di Dinant, si menzionavano esplicitamente i termini 'materialismo' e 'panteismo'; anche Alessandro di Hales, teologo allora attivo a Parigi, condannava la dottrina eretica citata già da Anselmo nel Monologion: Deus est materia omnium (Dio è la materia di tutte le cose).
Una lettura più attenta dei documenti mostrerebbe che queste accuse erano legittime per quanto riguarda Amalrico e il suo gruppo, non altrettanto per Davide di Dinant, la cui frequentazione del gruppo non è stata del tutto accertata. Tuttavia, nonostante le condanne e le accuse di 'panteismo' e di 'materialismo', si continuò a fare riferimento ai testi di filosofia naturale di Aristotele. Nel 1215, cinque anni dopo la prima condanna, Roberto di Courçon, legato pontificio, ratificò il precedente decreto rivolgendo le sanzioni contro i maestri delle arti e lasciando invece ai teologi la possibilità di continuare a utilizzare i testi di Aristotele; attenendosi all'accezione semantica del termine legere, i decreti degli anni 1210 e 1215, non proibivano di 'leggerli', quanto di servirsene per l'insegnamento.
Le prime due censure del 1210 e del 1215 non riguardano dunque direttamente le opere di Averroè, che non erano state ancora tradotte in latino; i commenti di cui si parlava nel 1210 e le summae del 1215 si riferivano probabilmente ad Avicenna o ad al-Fārābī (van Steenberghen 1955). È però ragionevole pensare che già allora l'opera di Averroè fosse giunta a Parigi; in quest'epoca si attesta infatti la sua prima diffusione in Occidente, attraverso la Penisola Iberica e il Sud dell'Italia. Michele Scoto (1175 ca.-1236) ebbe un ruolo centrale in questo processo, traducendo dall'arabo tra il 1220 e il 1235 i più importanti commenti su Metafisica, Fisica, De anima, De generatione et corruptione, De caelo, e parte dei Meteorologica. Egli rese in tal modo accessibile alle generazioni successive gran parte della filosofia aristotelica, fonte di accese discussioni a Parigi a partire dal 1260. La sua traduzione del commento sul De caelo di Averroè era dedicata al teologo Stefano di Provins, considerato una sorta di specialista di Aristotele.
A Parigi comparvero per la prima volta intorno al 1225 citazioni di testi di Averroè nell'opera di teologi come Guglielmo di Alvernia e Filippo il Cancelliere. Papa Gregorio IX intimò allora ai teologi parigini, in una lettera del 1228, di dedicarsi all'obbedienza di Cristo invece di discutere problemi di filosofia naturale (Chartularium Universitatis Parisiensis, ed. Denifle, I). Nella stessa lettera il pontefice delimitava i ruoli e i confini tra filosofia e teologia; quest'ultima era regina di tutte le scienze e la filosofia era sua ancella. Ben diversa era però la situazione fuori Parigi; a Oxford la lettura dei testi aristotelici non era proibita e l'Università di Tolosa, da poco fondata (1229), vedeva un'eccellente opportunità di entrare in competizione con Parigi nell'invitare coloro che desideravano dedicarsi allo studio della Natura ad assistere a lezioni sui libri di Aristotele.
Il 13 aprile del 1231 Gregorio IX ratificò il precedente decreto con la Bolla Parens scientiarum, considerata la magna charta dell'Università di Parigi. Dieci giorni dopo, il papa ratificò nuovamente la precedente dichiarazione sostenendo che le altre scienze dovevano servire alla conoscenza delle Scritture e che i libri sulla Natura proibiti non erano utilizzabili finché non fossero stati purificati dagli errori. Per emendare i testi aristotelici il papa disponeva che si formasse una commissione di specialisti, ovviamente non di maestri delle arti bensì di teologi, presieduta dal famoso Guglielmo di Auxerre e comprendente, tra gli altri, lo specialista di Aristotele Stefano di Provins. è impossibile però dire se questa commissione avrebbe potuto aprire la strada a una conciliazione; in quello stesso anno infatti Guglielmo di Auxerre morì e la commissione non si riunì mai.
La Bolla del 1231 restò in vigore a lungo, ma è probabile che abbia lentamente perso di valore fino a ridursi a una sorta di formalità. Anche se forse non in pubblico, Aristotele era letto a Parigi già verso il 1240 e Ruggero Bacone fu il pioniere dell'introduzione dei suoi libri naturales; negli anni tra il 1241 e il 1245 egli, nella Facoltà delle arti di Parigi, leggeva vari testi fondamentali del corpus: la Fisica, la Metafisica, il De sensu et sensibili, gli pseudoaristotelici De vegetalibus e Liber de causis, e il Secretum secretorum, particolarmente importante per il suo futuro progetto della multiplicatio specierum.
I testi aristotelici fecero il loro ingresso a Parigi nel quadro di un'organizzazione istituzionale del sapere che, trasmessa all'Università dalle antiche scuole legate alla cattedrale, nella Facoltà delle arti era strutturata secondo la vecchia divisione in trivium (grammatica, logica e retorica) e quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia). Poiché il corpus aristotelico non soltanto era portatore di una determinata visione del sapere, essa stessa oggetto di analisi, ma si poteva anche suddividere più o meno coerentemente in testi che coprivano gran parte delle suddette discipline, si comprende come nascesse la necessità di ripensare il quadro generale di organizzazione delle conoscenze. Il testo più significativo in questo senso, ma non l'unico, fu probabilmente il De ortu scientiarum di Roberto Kilwardby. Una serie di scritti di poco precedenti esprimeva una tendenza analoga e offriva alcune informazioni sui modi della diffusione della filosofia di Aristotele a Parigi; la famosa 'guida dello studente' dei primi anni Quaranta del XIII sec., conservata nel ms. Ripoll 109 (Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón), conteneva una sintesi del materiale fondamentale per la preparazione degli esami nella Facoltà delle arti di Parigi. L'autore conosceva la versione dall'arabo della Metafisica e citava il commento di Averroè; inoltre, secondo questa guida, la filosofia si divideva in naturalis (comprendente le tre scienze speculative di Aristotele: matematica, fisica e metafisica), practica sive moralis e rationalis. La fisica, definita scientia naturalis inferior, raggruppava i principali libri naturales di Aristotele e comprendeva anche lo pseudoaristotelico De plantis e il De motu cordis di Alfredo di Sareshel. L'autore dell'Accessus philosophorum VII artium liberalium (1230 ca.), invece, conosce appena Aristotele.
Quanto alla divisione delle scienze, non è da escludere che si siano confrontate, per opporle o conciliarle, le posizioni di Aristotele e di Tolomeo. Se la nuova filosofia naturale era ancora assente, la Philosophica disciplina (1245 ca.) di un anonimo maestro delle arti parigino presentava un panorama notevolmente diverso: Averroè vi era menzionato in relazione alla medicina, la suddivisione aristotelica delle scienze teoretiche (contenuta nel Libro VI della Metafisica) in fisica, matematica e metafisica era esplicitamente introdotta come una possibile alternativa, e la suddivisione della philosophia naturalis avveniva secondo i testi del corpus, ossia Physica, De caelo, De generatione et corruptione, Meteorologica, De anima, De sensu et sensibili, De vegetalibus, De plantis e De animalibus (quest'ultimo espressamente riferito alla medicina). Nella sezione astronomica l'autore menzionava l'opinione di al-Fārābī secondo la quale l'astrologia non rientrava nelle discipline naturali ma faceva parte della matematica; seguendo Tolomeo, subordinava tuttavia l'astrologia alle scienze naturali, alla matematica e alla medicina. Si operava poi una distinzione tra l'astronomia, che ha per oggetto il comportamento reale degli astri, e l'astrologia, che si occupa dei corpi celesti secundum hominem et per comparationem ad nos; nell'unico passo in cui l'autore polemizzava era promossa una difesa di Aristotele contro 'certi teologi' che gli avevano attribuito un determinismo fondato sull'influenza degli astri, mentre Aristotele aveva sostenuto soltanto che esistono certe condizioni nelle quali si esercita il libero arbitrio, ma che in ultima analisi questo dipende dal soggetto.
Il successo, anche se non definitivo, ottenuto quasi senza eccezione dai sostenitori di Aristotele nel 1255, lascia supporre che la lettura dei testi proibiti fosse sempre più diffusa e, benché nessun documento offra ancora un panorama completo della situazione, questo periodo ci appare come un momento di acquisizione 'pacifica' del nuovo materiale in confronto alle censure precedenti e successive.
Quando il 22 agosto del 1241 morì Gregorio IX, i maestri delle arti di Parigi intensificarono lo studio dei libri naturales. Il 19 marzo del 1255 fu approvato il nuovo statuto della Facoltà delle arti che comprendeva tutti i testi di Aristotele senza restrizioni; l'aristotelismo faceva il suo ingresso ufficiale nell'insegnamento universitario di Parigi. Lo statuto menzionava la difficoltà di comprensione dei testi e stabiliva il tempo minimo necessario per il loro studio; il punto di partenza era la già nota logica vetus, assieme alla quale erano letti altri testi di grammatica. Nel quadro della filosofia pratica si leggeva l'Etica Nicomachea, ma la parte principale del piano di studi riguardava la filosofia naturale, per la quale erano utilizzati principalmente la Fisica, la Metafisica, il De animalibus, il De caelo, i Libri I e IV dei Meteorologica, il De anima, il De generatione et corruptione e il De sensu et sensibili. Oltre al De differentia animae et spiritus di Qusṭā ibn Lūqā, erano inclusi vari altri testi pseudoaristotelici, in particolare il De plantis e il Liber de causis.
L'ingresso di Aristotele in Occidente era definitivo e si ricercava una conciliazione con la parte del corpus non immediatamente assimilabile al cristianesimo. Il campo di studi noto come philosophia naturalis poteva essere riorganizzato seguendo l'ordine del corpus, e cioè cominciando dallo studio dell'ente mobile in sé esposto da Aristotele nella Fisica e precisandolo gradualmente attraverso la lettura del De caelo, del De generatione et corruptione, dei Meteorologica, del De anima, dei Parva naturalia e del De animalibus, per finire con gli pseudoaristotelici De plantis e De mineralibus. La Metafisica forniva poi il sistema teorico di riferimento: il Libro I offriva una storia della filosofia, il Libro V un vero e proprio 'dizionario filosofico', il Libro XII dava invece la possibilità di stabilire un legame con la teologia cristiana, premettendo al Dio 'oggetto del desiderio', che solamente come tale muove il mondo verso di sé, la condizione che Dio è causa efficiente.
Questo carattere di globalità si estendeva anche al campo della philosophia practica, per la quale testi del corpus aristotelico come gli Oeconomica (tradotto da un anonimo nel XIII sec.) e l'Etica Nicomachea (tradotto, oltre che da un anonimo nel XIII sec., da Grossatesta verso il 1247 e probabilmente da Moerbeke intorno al 1260) permettevano un'analisi del comportamento individuale e sociale, che partiva dalle piccole strutture dell'organizzazione e dell'amministrazione familiare fino ad analizzare il potere dello Stato. Se con la scientia realis ‒ per usare una terminologia posteriore che abbracciò la filosofia naturale e la filosofia pratica ‒ Aristotele suscitava l'interesse, con la scientia rationalis, cioè la logica, lo organizzava e lo rafforzava. Infine, due opere ancora meritano di essere prese in considerazione, gli Analytica priora e gli Analytica posteriora, per il ruolo particolare avuto nell'affermazione dell'aristotelismo. Negli Analytica priora Aristotele sviluppava la teoria della deduzione sillogistica (che fino a buona parte del XIX sec. sarà considerata un modello per la ricerca sulle strutture fondamentali del pensiero logico), mentre negli Analytica posteriora si occupava di questioni di epistemologia e di filosofia della scienza (l'opera ebbe in seguito un ruolo altrettanto decisivo).
La tradizione aristotelica produceva dunque la scienza e i mezzi per valutarla; diventava giudice e parte in causa. È difficile immaginare cosa sarebbe successo senza i commenti sui fondamenti degli Analytica posteriora di Roberto Grossatesta, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino; certo non fu casuale che alla fine del Rinascimento, quando interi settori della visione aristotelica del mondo erano già sostanzialmente in crisi, si sia scatenata una violenta e accesa discussione intorno al metodo.
La prima grande sintesi dell'aristotelismo, subito dopo l'ammissione ufficiale a Parigi dei libri naturales, fu realizzata da Alberto Magno (1193 ca.-1280) e continuata da Tommaso d'Aquino, suo discepolo.
Albert di Bollstädt (Albertus Coloniensis o Albertus Teutonicus, noto anche come Alberto Magno) nacque da famiglia nobile in un villaggio svevo vicino ad Augusta, che allora dipendeva dalla Baviera. Invece d'intraprendere il mestiere delle armi cui era destinato, studiò arti liberali a Padova, dove s'interessò di filosofia della Natura. Nel 1223 entrò nell'ordine dei domenicani, fatto determinante nella sua biografia scientifica, e, dopo un periodo di formazione, fu nominato lector di teologia a Colonia (Weisheipl 1980). Nella sua prima opera, De natura boni, citava già esplicitamente gli scritti di Aristotele condannati a Parigi; ciononostante, non trovò difficoltà a confrontarsi con i nuovi insegnamenti durante il soggiorno a Parigi, dove si recò nel 1243-1244 soprattutto per seguire i corsi di teologia sulle Sententiae di Pietro Lombardo (fine XI sec.-1160). In questi anni, mentre Ruggero Bacone e Roberto Kilwardby leggevano i testi proibiti, Alberto entrò in contatto con Tommaso d'Aquino. Accompagnato da Tommaso e da altri domenicani ritornò poi a Colonia, dove continuò a occuparsi di teologia. Da quel momento assunse numerose responsabilità amministrative all'interno dell'ordine domenicano dell'area tedesca; tra il 1250 e il 1270 portò a compimento la fondamentale parafrasi dei testi aristotelici. Intorno al 1252 leggeva ai suoi allievi l'Etica di Aristotele, senza dubbio nella traduzione di Roberto Grossatesta; si trattava di una decisione coraggiosa perché il suo compito era quello di formare i suoi uditori in teologia e non d'insegnare filosofia ai futuri eruditi.
Si è molto discusso se e fino a che punto si possa parlare di una filosofia originale di Alberto Magno nell'ambito della filosofia e della teologia del XIII sec.; egli eccelleva infatti nel campo delle scienze empiriche, come la mineralogia, la chimica e l'alchimia, in parte la medicina, e soprattutto in quello delle scienze biologiche. Le sue parafrasi allo pseudoaristotelico De plantis, come pure al De animalibus, sono considerate capolavori del genere. Alla base della costruzione sistematica della scienza aristotelica stava senza dubbio la Fisica, la cui analisi del movimento fu in seguito oggetto di innumerevoli discussioni ed esposizioni; la tradizione dei commenti si mantenne invece sostanzialmente indiscussa fin quasi alla metà del XVII secolo.
La definizione del movimento secondo Alberto Magno
Per i seguaci di Aristotele, come per Aristotele stesso, la ricerca sulla Natura doveva vertere in primo luogo sullo studio del movimento e non su quello della luce, come invece accadeva nella tradizione platonico-agostiniana. Alberto aveva interesse per la matematica, come dimostra il fatto che scrisse un Commento agli Elementi di Euclide, anche se nello studio della Natura tendeva a limitarne l'uso, restringendone l'applicazione allo studio della luce. Partendo dal pensiero di Aristotele (vedi La scienza greco-romana, cap. IX) egli riconosceva che una definizione presuppone una sussunzione sotto una categoria: "diciamo inoltre come il movimento appartiene alla categoria, poiché senza questa determinazione non si può definirlo" (Alberto Magno, Physica, III, 1, 3); ragionando sul fatto che tutto ciò che esiste deve rientrare in una categoria, riteneva opportuno chiedersi a quale categoria appartenesse il movimento, se costituisse una categoria a sé o se ogni movimento fosse riconducibile alla categoria nella quale ha luogo.
Secondo Averroè la differenza tra le due concezioni del movimento, entrambe presenti nel testo di Aristotele, consisteva nel grado di importanza attribuito alla differenza tra il movimento stesso e il suo terminus ad quem; se la differenza è vista come essenziale, il movimento dovrà essere considerato distinto dalla categoria alla quale appartiene il terminus ad quem, altrimenti il movimento sarà semplicemente un'acquisizione 'parte dopo parte' della forma esistente in atto nel terminus ad quem. Alberto Magno trovava però oscuro il commento di Averroè e si proponeva di dare un nuovo ordine alle tesi esistenti, anche in considerazione del commento di Avicenna. Discuteva dunque diverse posizioni; nelle prime due, entrambe giudicate insostenibili, il movimento era ricondotto alle categorie di azione e passione (actio, passio); nella terza era collocato sotto il terminus. I sostenitori di questa tesi facevano tutti riferimento al movimento come a un fluxus entis, anche se da posizioni diverse; secondo alcuni, il movimento sarebbe una forma fluens, cioè una forma che si identifica con il terminus o perfectio verso il quale esso tende. In questa prospettiva, spiegava Alberto, il movimento qualitativo del nigrescere (diventare nero) è esso stesso una nigredo (l'essere nero) e, analogamente, il movimento secondo la quantità è una quantità ancora parziale, e il movimento secondo il luogo è un luogo da raggiungere. Ritenendo invece che il movimento debba essere inteso come un fluxus formae, esso si identificherebbe con lo 'scorrere'; il nigrescere è allora qualcosa di essenzialmente distinto dalla nigredo raggiunta alla fine del processo, per cui il movimento non si può identificare con il termine ad quem e perciò non può cadere sotto la medesima categoria.
Tommaso d'Aquino: il movimento e il vuoto
Tommaso d'Aquino (1225/1226-1274) conobbe personalmente Alberto Magno, di cui fu discepolo dal 1245 al 1252, prima a Parigi e poi a Colonia. Mentre Alberto scriveva le parafrasi ai testi aristotelici, Tommaso insegnava a Parigi (dal 1256 al 1259, e di nuovo dal 1269 al 1272); tra un periodo e l'altro insegnò in Italia in varie città.
Nel campo delle scienze empiriche Tommaso non può essere paragonato ad Alberto. Mentre Alberto fa un lavoro empirico di osservazione e di raccolta di dati, Tommaso è soprattutto un metafisico. Tuttavia, le lectiones sul problema del vuoto del Libro IV della Fisica superano di gran lunga Alberto in indipendenza e originalità. Aristotele intendeva confutare la possibilità del movimento in un ipotetico vuoto sostenendo ‒ come farà poi anche Averroè ‒ che la funzione del mezzo è fondamentale (Physica, IV, 8). Per effetto del mezzo il movimento è ritardato ed è per questo che ha luogo nel tempo; nel vuoto sarebbero impossibili velocità diverse, ossia, come diranno gli scolastici, il movimento avrebbe luogo istantaneamente. Tommaso era d'accordo sul fatto che il movimento dovesse avvenire nel tempo e pensava, come Aristotele, che il vuoto non esistesse; trovava dunque superfluo l'argomento dell'istantaneità del movimento nel vuoto. Seguendo ‒ senza nominarlo ‒ Avempace (m. 1139), i cui argomenti sono confutati da Averroè nel famoso testo 71 del Commentario al Libro IV della Fisica, Tommaso pensava che il carattere temporale del movimento non dipendesse soltanto dal mezzo materiale giacché i corpi celesti si muovono nel tempo senza che vi sia una materia a porre resistenza; inoltre, anche nel vuoto il corpo deve percorrere una distanza da un punto a un altro, e ciò avviene necessariamente nel tempo. Si tratta del cosiddetto argomento ex distantia terminorum, spesso ricorrente nei commenti del XIV sec. sulla Fisica.
Il metodo e le scientiae mediae
In vari passi dell'opera aristotelica si fa riferimento ad alcune scienze che, pur avendo per oggetto la Natura, dimostrano i loro enunciati a partire da principî matematici; tali sono, per esempio, l'ottica e l'astronomia, che traggono i loro principî dalla geometria, e la musica, che li trae dall'aritmetica. Analizzando questi passi e riprendendo alcune indicazioni del De Trinitate di Boezio, Tommaso si proponeva di determinare lo status epistemologico di queste scientiae mediae, come egli le chiamava, fra le quali rientravano anche la scientia de ponderibus, la misteriosa scientia de sphera mota, le artes mechanicae, e simili. Egli si concentrava essenzialmente su certi aspetti e, precisamente, l'oggetto della scienza, il metodo dimostrativo, la teoria della conoscenza e il grado di certezza; il filo conduttore della sua esposizione è il problema della subordinazione delle scientiae mediae a quelle da cui esse traggono i loro principî.
Non è certo che Bacone (1214 ca.-1294) abbia conosciuto tutti gli scritti di Grossatesta, tuttavia egli mostra di avere familiarità con molti dei principî della sua filosofia della luce, familiarità che, unita a una conoscenza molto più profonda dei libri naturales (sui quali aveva lavorato a Parigi durante i primi anni Quaranta del XIII sec.), contribuì notevolmente ad ampliare il programma originario di Grossatesta.
Dopo il primo soggiorno a Parigi Bacone tornò a Oxford ed entrò nell'ordine dei francescani. Qualche anno dopo, sospettato di eresia (probabilmente soltanto perché pretendeva di divulgare la sua opera senza passare per la censura), fu mandato a Parigi e posto sotto il controllo dell'ordine per dieci anni. Intorno al 1265 portò a conoscenza del cardinale Guglielmo di Foulques, per via indiretta, le sue idee filosofiche principali, e nel giugno del 1266 questi, diventato papa poco dopo, ne chiese un resoconto più dettagliato. Bacone rispose inviandogli tre delle sue opere più famose: l'Opus minus, l'Opus tertium e la versione più completa del suo programma, l'Opus maius (egli tendeva a rielaborare più volte il suo pensiero, e nuovi tentativi di sintesi compaiono nei Communia naturalia e nei Communia mathematica). Verso il 1272, nel Compendium philosophiae, lanciò una denuncia esplosiva contro francescani e domenicani; sospettato di 'innovazioni' nel 1277 fu incarcerato dal suo ordine a tempo indeterminato. La sua ultima opera a noi nota è il Compendium studii theologiae del 1292.
Il grande progetto
Il progetto generale di Bacone, sintetizzato nell'Opus maius, consisteva nel gettare le basi per l'edificazione di un sistema unico e completo delle conoscenze umane, in grado di essere convincente, suscettibile di sviluppo, e di prestarsi concretamente all'insegnamento. Rispondere a tutte queste esigenze presupponeva una riforma radicale, in vista della quale dovevano essere analizzate in primo luogo le cause dell'errore e dell'ignoranza, cioè l'autorità costituita, il costume, il giudizio del volgo e la vanità. Volendo dimostrare l'utilità per la Chiesa di Roma del nuovo ideale del sapere, il passo successivo consisteva nello stabilire l'affinità tra filosofia e teologia; Bacone confidava in una affinitas di fondo, definita addirittura dominatrix. A differenza di Alberto e di Tommaso, egli non credeva però che per trovare le basi di questa filosofia fosse sufficiente interpretare bene i testi di Aristotele e dunque non li commentò più, pur essendone debitore in numerose questioni specifiche. Per Bacone, come per Adelardo di Bath (1070 ca.-1160) e per Grossatesta, condizione indispensabile per raggiungere la conoscenza era la padronanza delle lingue, a proposito della quale egli lamentava amaramente l'incompetenza dell'uomo medio del suo tempo; un buon traduttore doveva essere padrone di entrambe le lingue (come Boezio) e conoscere la materia da tradurre (come Grossatesta).
La quarta e quinta parte dell'Opus maius esprimono una continuità di pensiero con Grossatesta, difendendo l'importanza della matematica non soltanto nella conoscenza ma anche nelle attività pratiche. Basandosi su Boezio e Tolomeo, si dimostra che tutte le discipline richiedono l'uso della matematica; perfino la grammatica e la logica ‒ sosteneva Bacone, seguendo al-Fārābī ‒ presuppongono la matematica, e tra gli argomenti avanzati in questo senso vi sono la coincidenza di notiora nobis e notiora naturae e la certezza indubitabile della matematica. Nella quinta parte dell'Opus maius si discute la perspectiva, cioè, in larga parte, l'ottica, e questa sezione circolò e fu stampata anche secoli dopo in forma indipendente. La sesta parte contiene invece la famosa scientia experimentalis, per la quale senza l'esperienza nulla può essere conosciuto in modo sufficiente; essa sola consente di verificare le conclusioni della matematica, acquisire nuove conoscenze non accessibili mediante il ragionamento deduttivo, e, infine, accedere a quei segreti della Natura che le altre scienze non possono raggiungere. La settima parte, in conclusione, estende il programma alla filosofia morale.
La moltiplicazione delle specie
Il progetto di Grossatesta riguardo alla filosofia della luce fu notevolmente sviluppato da Bacone, che disponeva di un'ottica molto più organica e su di essa intendeva basare una speculazione di portata più vasta relativa a tutti i fenomeni naturali; questo è l'obiettivo del trattato sulla moltiplicazione delle specie, De multiplicatione specierum.
Bacone cominciava col dire che il significato del termine 'specie' varia secondo il contesto; uno dei significati, già usato da Grossatesta, è quello di similitudo, per il quale affinché l'agente possa agire ci deve essere una somiglianza tra questo e il ricevente, e ciò accade tramite il primo effetto dell'agente, ovvero le specie. Come Grossatesta, Bacone pensava la specie come una forza o una capacità emanata dall'oggetto mediante la quale esso agisce intorno a sé. Questa nozione, così come buona parte delle motivazioni di tutta la teoria, traeva ispirazione non tanto dalla filosofia della luce nel suo aspetto teologico o cosmogonico, quanto piuttosto dal De radiis stellarum di al-Kindī, secondo il quale i fenomeni del mondo degli elementi si spiegano con il comportamento degli astri. Il De radiis era allora ben conosciuto e doveva aver acquisito sempre maggior importanza se Egidio Romano (1245-1316) ne annoverava la tesi nella lista degli errori stilata qualche anno prima della censura del 1277.
Le specie, proseguiva Bacone, primo effetto dell'agente, sono sempre 'univoche' (la specie della luce è luce, quella del calore, calore), ma non è necessariamente così per gli aspetti secondari (se il Sole genera luce, la luce può generare calore e il calore a sua volta putrefazione e morte). La differenza degli effetti successivi rispetto all'agente è dovuta al ricevente; le specie infatti sono prodotte dai sensi, dalle sostanze, dagli universali e dai particolari. In accordo con un principio di omogeneità, Bacone sosteneva che la specie di una sostanza è una sostanza, quella di un accidente un accidente, e che, in generale, le specie sono generate da un tipo di causalità che consiste nella realizzazione della potenzialità attiva presente nella materia del ricevente. Non si tratta della capacità di ricevere una forma (potenza passiva), bensì della predisposizione insita nella materia a sviluppare una forma particolare.
Un codice molto tardo (ms. 109, Petworth House) raggruppa il De radiis di al-Kindī e i due opuscoli De lineis e De luce di Grossatesta; in effetti è qui che si trova la base concettuale della dottrina fisica corrispondente alla filosofia della luce di Bacone. La seconda parte del De multiplicatione riprende la prospettiva di Grossatesta tendente a ricostruire il modo di moltiplicazione delle specie mediante l'ottica geometrica, e cioè secondo linee, angoli e figure, "in cui la Natura si compiace di agire" (Ruggero Bacone, Tractatus de multiplicatione specierum, ed. Lindberg, II, cap. 1, p. 90).
A differenza di Grossatesta, secondo Bacone la moltiplicazione delle specie non avviene istantaneamente, bensì nel tempo; a seconda dei diversi mezzi di moltiplicazione egli considerava quattro tipi di linee, corrispondenti rispettivamente a una moltiplicazione principale (multiplicatio principalis) ‒ e cioè la linea retta, la spezzata, la riflessa e la 'tortuosa' ‒ e a una moltiplicazione derivata (multiplicatio accidentalis), in cui la specie proviene da una specie differente. Dopo essersi soffermato su vari problemi specifici relativi alla moltiplicazione su superfici curve, Bacone affrontava la moltiplicazione sulla figura sferica e la figura pyramidalis (cono), concependo un agente che irradia la propria forza in tutte le direzioni a partire dal centro di una sfera e lungo i raggi. Una rappresentazione (figuratio) dell'azione più forte possibile si ottiene considerando un cono con l'agente nella base e un punto del ricevente nel vertice. Bacone attribuiva grande importanza a speculazioni di questo tipo, e materiale analogo si trova sparso in altre opere, le più importanti delle quali sono l'Opus tertium, i Communia naturalia e, naturalmente, l'Opus maius.
Bacone non ebbe certo la meglio nelle dispute che si fecero sempre più accese a seguito delle tesi sostenute nell'Opus maius. Nello stesso periodo, nel 1266-1267, Sigieri di Brabante (1240 ca.-1284 ca.) insegnava con successo crescente agli studenti di Parigi. All'inizio si trattava di una polemica tra due partiti opposti, da un lato i maestri delle arti ‒ che premevano per imporre una nuova visione del Cosmo attraverso lo studio dei testi di Aristotele ‒, dall'altro i rappresentanti del sapere cristiano tradizionale (il papa e i maestri di teologia) che cercavano di limitare o di bloccare uno sviluppo in questo senso. In seguito, con il trionfo dei primi nel 1255 e soprattutto a partire dal momento in cui Averroè fece il suo ingresso nel mondo culturale, si delinearono due nuovi fronti in seno all'aristotelismo. Alberto Magno e soprattutto Tommaso d'Aquino si scontravano con gli averroisti o 'aristotelici radicali', come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. Questi ultimi erano meno disposti ad adattare la dottrina aristotelica, che conoscevano attraverso i commenti di Averroè, alle verità della religione cristiana e Tommaso li voleva combattere con la ragione. Bonaventura (1217 ca.-1274), invece, seguendo la linea tradizionale dei teologi, attaccava entrambi perché volevano assegnare alla ragione un ruolo non compatibile con la dottrina cristiana.
Nella polemica ‒ le cui questioni centrali erano l'eternità del mondo e il determinismo ‒ erano coinvolte molte dottrine; alcune riguardavano la costituzione del mondo esterno, altre trattavano dell'anima (la tesi del monopsichismo, il problema dell'immortalità dell'anima, della perdita della libertà e della responsabilità individuale). Un atteggiamento di carattere generale nei confronti del ruolo della ragione, e di conseguenza di quello della teologia e della filosofia, separava Tommaso dagli averroisti e Bonaventura da entrambi. Per Aristotele il mondo era eterno, senza inizio né fine nel tempo; sull'eternità del mondo egli basava molte altre affermazioni di carattere fisico e cosmologico. Senza ulteriori specificazioni, una tale dottrina era in netta contraddizione con la dottrina cristiana della Creazione; infatti, finché la filosofia naturale di Aristotele non fu organizzata più o meno sistematicamente e non fu completata da altre tradizioni, essa ebbe un forte carattere deterministico, che poteva essere visto in contrasto con la capacità creatrice di Dio e con la possibilità dei miracoli. La conoscenza per Aristotele non era altro che la ricerca di cause, poiché una catena di cause necessarie determina i fenomeni e assicura al contempo la razionalità del processo.
La stessa cosa valeva per le idee sull'anima. In uno dei passi più problematici del De anima, quello sulla relazione tra il corpo dell'individuo e l'intelletto, in accordo con la sua tendenza empirista, Aristotele ammetteva come reale, indipendente da Dio, soltanto il 'sinolo', cioè il composto di materia e forma; ogni materia possiede una forma e, contrariamente a quanto sostenuto dal platonismo, è vero anche il contrario, ossia non è ammissibile una forma senza materia. L'applicazione all'anima di questo principio metafisico era però considerata eretica; infatti, poiché l'anima è la forma o principio vitale del corpo (correlato materiale dell'anima), in questo caso essa perirebbe con la morte di questo, come dire che non sarebbe immortale. D'altra parte, Aristotele sosteneva che l'intelletto ‒ la parte superiore dell'anima, responsabile della produzione di scienza (epistḗmē; scientia) ‒ è indipendente dal corpo (De anima, III, 4) e che la conoscenza si ottiene attraverso un processo di acquisizione di universali e di astrazione della forma a partire dai composita, particolari esistenti di fatto.
Nell'intento di comporre i vari aspetti del De anima e di trovare inoltre una soluzione soddisfacente al problema della conoscenza, Averroè introdusse la tesi del monopsichismo: se la conoscenza consiste nell'acquisizione di universali, l'intelletto non può ridursi a un'entità individuale. Al contrario, esso è privo di caratteristiche personali e individuali e costituisce un'unità comune a tutti gli uomini; ciò che resta dopo la morte del corpo non è dunque qualcosa di personale bensì di collettivo. Così, l'immortalità di ciò che è individuale ‒ un punto centrale della religione cristiana ‒ rimaneva fuori gioco.
Sigieri commentò vari testi aristotelici, come la Metafisica, la Fisica e il De anima, e nelle Quaestiones in librum tertium de anima riprese la dottrina di Averroè sull'anima. Tommaso criticò testi di questo tipo nel celebre De unitate intellectus contra Averroistas, prendendo le difese di Aristotele contro le deformazioni delle interpretazioni di Averroè e dei suoi seguaci; intimava a questi ultimi di non divulgare di nascosto fra la gioventù queste elucubrazioni. Così, in una fase successiva, a causa della censura del 1277 e forse sotto l'influenza di Tommaso d'Aquino, Sigieri mitigò le proprie posizioni.
Membro del gruppo che Tommaso per primo definì degli averroisti, Boezio di Dacia (attivo nel 1277-1283) incarnava invece l'intransigenza filosofica contro i teologi e contro quanti, come Tommaso, cercavano di conciliare la filosofia con la teologia, subordinandola a essa. Oltre ai suoi commenti a varie opere aristoteliche, l'opuscolo De summo bono contiene forse la teorizzazione più chiara dell'autonomia della filosofia che tutto il gruppo perseguiva (molte delle sue tesi furono condannate nel 1277). Come Sigieri, autore di un Tractatus de aeternitate mundi, Boezio scrisse un De aeternitate mundi, opera particolarmente importante perché in essa si distinguevano due tipi di verità (la cosiddetta 'dottrina della doppia verità', menzionata nel prologo della condanna del 1277).
Nel 1267 Bonaventura, generale dei francescani dal 1257, attaccò nelle Collationes de decem praeceptis la dottrina dell'eternità del mondo, il monopsichismo e le loro conseguenze per la dottrina della risurrezione della carne; lo stesso spirito polemico, un anno dopo, pervadeva le sue Collationes de septem donis Spiritus Sancti. Questi due testi impostavano il problema da un punto di vista teologico; nel commento ai quattro libri di Pietro Lombardo, invece, Bonaventura aveva affrontato il problema dell'eternità del mondo con argomenti filosofici; ai suoi occhi questa dottrina era allo stesso tempo contraria al sapere cristiano, irrazionale e assurda. Tra il 1269 e il 1271 l'inglese Giovanni Peckham, magister regens della Scuola francescana di Parigi, reagiva allo stesso modo con la Quaestio de aeternitate mundi; Tommaso rispondeva con il De aeternitate mundi contra murmurantes; qui egli sosteneva che, poiché l'eternità del mondo è sostenibile razionalmente, essa non è confutabile con la sola ragione e sono necessari articoli di fede.
Sempre verso il 1270 Egidio Romano diffondeva la sua lista di 95 Errores philosophorum, in cui si evidenziava il contrasto tra il pensiero di Aristotele, Averroè, Avicenna, Algazel, al-Kindī e Maimonide, e i dogmi della fede cristiana. Il 10 dicembre del 1270 un primo intervento del vescovo di Parigi, Stefano Tempier, proibì 13 tesi, tutte già note e in generale ispirate da Bonaventura. Non bastava ancora; infatti, nella Pasqua del 1273 Bonaventura tornò ad attaccare senza mezzi termini, nelle Collationes in Hexaemeron, la filosofia aristotelica, che rappresentava una minaccia apocalittica per la religione cristiana.
Witelo nacque in Slesia, studiò a Parigi e a Padova. Verso il 1270 alla corte papale di Viterbo entrò in contatto con Guglielmo di Moerbeke, al quale dedicò la Perspectiva (testo che sarà oggetto di analisi anche da parte di Kepler), opera nella quale non si occupava di metafisica o di cosmogonia neoplatonica. Seguendo Grossatesta, nella prefazione della Perspectiva Witelo affermava che la luce è la forma corporea, la prima di tutte le forme sensibili, che agisce come intermediaria tra le influenze corporee; in accordo con Bacone, egli sosteneva che la ricerca sulla mutua azione dei corpi deve prendere a modello lo studio delle entità visibili.
Giovanni Peckham (1240 ca.-1292), considerato da alcuni il vero fondatore del neoagostinismo, corrispondeva perfettamente all'immagine comune del filosofo francescano del XIII sec. interessato a neoplatonismo e agostinismo, con particolare attenzione per la luce in senso religioso, metafisico e fisico, predilezione per la matematica, accettazione entro certi limiti dell'aristotelismo e completo rigetto dell'averroismo. Peckham nacque in Inghilterra, studiò a Oxford e a Parigi e assai presto entrò nell'ordine francescano, all'interno del quale insegnò teologia, acquistando gradualmente importanza fino a diventare responsabile provinciale dell'ordine nel 1275 e poi, dal 1279, arcivescovo di Canterbury. Scrisse prima un Tractatus de perspectiva e quindi la celebre Perspectiva communis (avendo soggiornato a Viterbo nello stesso periodo di Witelo è probabile che ne sia stato influenzato).
Peckham non si considerava un autore originale e la sua Perspectiva communis perseguiva obiettivi didattici, e precisamente mostrare come nella scienza dell'ottica fosse possibile applicare la certezza delle dimostrazioni matematiche allo studio della luce, argomento al quale gli studenti di filosofia naturale sembravano particolarmente interessati. Pur non servendosi della terminologia di Tommaso d'Aquino, evidentemente Peckham considerava l'ottica una scientia media; la proposizione I, 27a, 'ogni corpo naturale, visibile o invisibile, irradia la sua virtù sugli altri', lascia infatti trasparire un legame con la fisica della filosofia della luce. Un corpo naturale esercita un'azione intorno a sé mediante la moltiplicazione della propria forma; quanto più il corpo è 'nobile' tanto più è forte la sua azione. Tale è, come ben sapeva Grossatesta, l'azione che si esercita lungo una linea retta; allo stesso modo l'azione naturale si esercita per mezzo di raggi.
Il 7 marzo del 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier (m. 1279) censurò 219 tesi filosofiche e teologiche, in accordo con papa Giovanni XXI (Pietro Ispano, già studente a Parigi e medico) e con l'approvazione di una commissione di teologi della quale faceva parte Enrico di Gand (1217 ca.- 1293). La censura, alimentata certamente dai nuovi contrasti sorti negli ultimi dodici anni, rispecchiava l'antico spirito conservatore dei maestri di teologia dell'Università di Parigi e, benché l'oggetto principale della condanna fossero gli aristotelici 'radicali' o averroisti, essa finì col coinvolgere indirettamente anche varie tesi di Tommaso d'Aquino, morto tre anni prima.
Valida in linea di principio solamente a Parigi, la censura ebbe invece immediate ripercussioni nel resto d'Europa; alcuni giorni dopo furono condannate dal vescovo di Canterbury, Roberto Kilwardby, 30 tesi, alcune delle quali riflettevano quelle di Parigi. Questa censura, valida per l'Università di Oxford, fu confermata nel 1284 e poi di nuovo parzialmente nel 1286 dal successore Giovanni Peckham.
A partire da allora si consolidò all'interno dell'ordine francescano il cosiddetto 'neoagostinismo'; uno dei rappresentanti più eminenti di questo movimento fu il discepolo di Peckham a Parigi Ruggero Marston (m. 1303). Alcuni filosofi e teologi si proclamarono seguaci di Tommaso d'Aquino, che fu poi canonizzato nel 1323 con l'appoggio dell'ordine domenicano. Particolarmente legato a Tommaso era Pietro di Alvernia (m. 1304), autore di un commento a quasi tutto il corpus aristotelico e responsabile del completamento dei commenti sul De caelo e sulla Politica che Tommaso aveva lasciato incompiuti.
Le ripercussioni che l'editto di Tempier ebbe sulla filosofia e sulla teologia furono enormi e le grandi figure del XIV sec. ‒ come Duns Scoto (1274 ca.-1308) e Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347) ‒ svilupparono gran parte delle loro idee sulla base di questo editto. Raimondo Lullo (1232 ca.-1315/1316), per esempio, chiese nel Concilio di Vienna (1311) la proibizione dell'averroismo, scrisse numerose opere contro Averroè e i suoi seguaci e intendeva insegnare il corretto uso della ragione per il bene della fede. Lullo attribuiva grande importanza all'uso della ragione, e pertanto alla sua ars logica, nella missione evangelizzatrice.
Per alcuni anni la corrente degli averroisti sembrò non esistere più; Boezio di Dacia scomparve dalla vita accademica. Poco tempo dopo, Peckham comunicò in una lettera che Sigieri di Brabante, peraltro assolto dall'accusa di eresia, era morto pugnalato dal suo segretario (clericus). Nonostante questo, l'averroismo riprese forza e vigore un quarto di secolo più tardi per opera di Giovanni di Jandun (1285/1289 ca.-1328) e si rafforzò in modo particolare in Italia con Guglielmo di Alnwick (attivo a Bologna nel 1323). Nella Divina Commedia (Paradiso, X, 133-138), Sigieri di Brabante compare assieme a Tommaso d'Aquino, Alberto Magno e altri nove saggi, tra i quali Boezio, Isidoro di Siviglia e il Venerabile Beda.
Nel complesso, l'editto del 1277 non risultò esaustivo; dopo un breve prologo, nel quale si menzionava la cosiddetta 'dottrina delle due verità', le tesi condannate erano elencate una dopo l'altra in forma poco sistematica (Hisette 1977). Alcune di esse esaltavano la pretesa autonomia della filosofia: "non esiste stato più perfetto di quello di dedicarsi alla filosofia" (art. 40); "soltanto i filosofi sono i saggi di questo mondo" (art. 154); "l'uomo non deve essere soddisfatto dell'autorità se vuole ottenere certezza in qualche questione" (art. 150); "la teologia non accresce la conoscenza" (art. 153); "le affermazioni dei teologi sono basate su favole" (art. 152). Altre proposizioni si riferivano all'eternità del mondo (per es., artt. 4, 87, 89, 98, 99, 205), all'anima e all'intelletto (artt. 7, 11, 123), a varie questioni di morale ("la felicità si ottiene in questa vita e non in altra", art. 176), e perfino alla sessualità (artt. 166, 172).
Grazie ai lavori pionieristici di Pierre Duhem databili ai primi del Novecento, la grande condanna del 1277 è diventata un argomento centrale anche nella storia della scienza, e questo perché la censura conteneva invettive inequivocabilmente rivolte contro il determinismo della filosofia naturale aristotelica. L'art. 21, per esempio, condannava l'idea che tutto avvenga de necessitate; lo spirito generale della condanna era a favore dell'onnipotenza di Dio, contro qualunque determinazione che potesse rappresentarne una limitazione. L'art. 147 condannava l'idea che "ciò che è assolutamente impossibile (impossibile simpliciter) non può essere fatto da Dio o da un altro agente. Un errore, se è 'impossibile' deve essere inteso secondo la Natura (secundum naturam)", poiché dall'applicazione di questo principio alla filosofia naturale consegue che Dio, per sua volontà e potenza, avrebbe potuto creare un Universo completamente diverso dall'attuale, cioè da quello aristotelico (quello attuale è reale ma non necessario). L'art. 34 condannava l'idea che "la causa prima non possa creare molti mondi", l'art. 49 l'idea che "non è possibile muovere il cielo di moto rettilineo, e il motivo è che si creerebbe un vuoto". Se Dio potesse creare altri mondi vi sarebbe tra essi uno spazio vuoto; se volesse, Dio potrebbe muovere il cielo di moto rettilineo e questo genererebbe un vuoto. In questo modo, l'ipotesi del vuoto, categoricamente respinta da Aristotele e da Averroè, era ammessa dalla censura del 1277.
Pierre Duhem volle vedere nell'editto di Tempier il 'certificato di nascita' della scienza moderna; si tratta certamente di una tesi troppo generale ed eccessiva che oggi troverebbe difficilmente ascolto; è arduo però respingere l'idea (Grant 1979) che un nuovo spazio si aprì per le discussioni sui concetti fondamentali della fisica e della cosmologia aristotelica tra i rappresentanti della 'nuova fisica' del XIV sec., come, per esempio, Tommaso Bradwardine e Giovanni Buridano.
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