La scienza bizantina e latina. Introduzione
Introduzione
Gli storici della scienza medievale che tentino d'individuare il nome del primo esponente moderno della loro disciplina rischiano di fornire una risposta falsa. Vi è un gran numero di candidati plausibili a tale riconoscimento e tra questi forse neppure due concordi tra loro nel definire i caratteri generali della scienza medievale, la relativa importanza delle diverse scienze particolari, la natura della storia stessa o il modo in cui dovrebbe essere presentata. La storia è uno strumento della filosofia o deve essere considerata una disciplina autonoma? I testi sono più 'sacri' del loro contenuto? Gli storici devono riuscire a orientarsi nel labirinto del pensiero scientifico prima di porre mano alla penna (per usare un'espressione antiquata)? E in questo caso, in quale misura sarà necessario esporre ai lettori i dettagli scientifici? Potrà mai essere considerata esauriente un'analisi basata esclusivamente sulla dimensione sociale della scienza? La storia medievale deve essere descritta con ampie pennellate o si deve ritenere che in questo campo l'arte più elevata sia quella di "confezionare accurate note a piè di pagina?". Alcuni si sforzano di non oltrepassare i confini di un periodo molto circoscritto, come se il bisogno di mettere a fuoco il 'contesto' non si estendesse anche al piano temporale. Altri, al contrario, sono decisi a dimostrare che le più importanti acquisizioni della scienza del XVII sec. affondano le loro radici nel XIV secolo. In generale, questa tesi indica una particolare inclinazione per le scienze meccaniche del Tardo Medioevo ‒ forse sin troppo considerate dagli storici del XX sec. ‒ ma in alcuni casi non è che il cri de coeur dei medievisti come reazione alla posizione degli storici della 'rivoluzione scientifica'.
Per quanto possa sembrare strano, tra i nomi di coloro ai quali si riconosce il merito di aver fondato la storia della scienza medievale spesso figurano quelli di alcuni autori poco letti, ma la cui fama si è ingigantita per conoscenza indiretta. A prescindere dalla correttezza di quest'analisi, una disciplina trattata in un così gran numero di stili storiografici non può certo essere accusata di mancare di vitalità. Se si domandasse alla quarantina di storici che hanno collaborato alla redazione di questa Sezione d'indicare il nome del vero fondatore della loro disciplina, si otterrebbero certamente delle risposte diverse. Il profilo di questa Sezione è stato definito sulla base del piano generale dell'opera, mentre il piano dettagliato delle sue parti principali è stato messo a punto grazie all'inestimabile collaborazione di Robert Halleux. In nessuna fase del lavoro redazionale si è tentato di conciliare tra loro le diverse interpretazioni del passato presentate nelle pagine che seguono. Esse saranno senza dubbio oggetto di discussione, così come il piano cronologico, culturale e scientifico generale. Non è il caso, in questa sede, di spiegare in modo esauriente questo piano ‒ è sufficientemente chiaro per tutti e il numero delle permutazioni tra le alternative possibili è effettivamente enorme ‒ tuttavia, bisognerà menzionare alcuni problemi generali relativi alla suddivisione di questo campo d'indagine storica che possono gettare una nuova luce sulla nostra concezione della natura della scienza medievale e della sua storia.
La difficoltà di stabilire quali siano le più appropriate divisioni cronologiche da adottare in quest'ambito d'indagine è a volte attribuita al fatto che i materiali fondamentali giunsero in Europa a intervalli irregolari. In altre parole, l'opera di traduzione (presumibilmente necessaria) dei testi greci, arabi, siriaci ed ebraici in un latino comprensibile fu un processo inevitabilmente lento che alimentò le differenti discipline in tempi diversi. Ciò, tuttavia, chiarisce soltanto in parte il problema, determinato in misura molto maggiore dagli atteggiamenti diversi, medievale e moderno, nei confronti del valore attribuito ai materiali scientifici in questione. Il sacerdote che nel Tardo Medioevo calcolava la ricorrenza della Pasqua e delle altre feste mobili avrebbe potuto rendersi conto delle imprecisioni delle cognizioni astronomiche su cui si basava il suo metodo e quindi nutrire dei dubbi, se non una vera e propria insoddisfazione, nei confronti dei risultati ottenuti, ma non per questo si sarebbe sentito meno legato alla scienza del computo calendaristico così com'era stata praticata da Beda molti secoli prima. Anche gli studiosi di storia naturale, che combinavano realtà e fantasia in modo relativamente poco disciplinato, mescolando tra loro il mondo degli animali e quello dei testi, erano consapevoli del loro debito con il passato. Si trattava di un debito con l'Antichità classica greco-romana, in particolare con Aristotele, Dioscuride, Plinio e l'autore anonimo del Physiologus. Questo profondo sentimento di affinità con il passato era una conseguenza dell'ininterrotto processo di 'abbellimento' a cui furono sottoposti i testi degli autori antichi ‒ nelle opere poetiche, nei libri illustrati, nei testi di storia, nei sermoni e così via ‒ che nel corso del tempo finì col rendere difficilmente distinguibili gli originali dalle integrazioni. Nella misura in cui si può parlare di senso del progresso, quest'ultimo riguardava la lenta accumulazione di nuovi dati, più che la sorprendente scoperta di nuove teorie.
Nel campo delle scienze astronomiche (non astrologiche) accadde il contrario, anche se non si tentò tanto di scoprire nuove fondamentali teorie quanto di acquisire nuove tecniche teoretiche destinate a modificare le vecchie. Ci si rese così lentamente conto del fatto che non tutte le vecchie teorie erano compatibili tra loro o avevano lo stesso valore ‒ come dimostravano i diversi approcci di Tolomeo, di al-Ḫwārazmī (al-ḫwārizmī) e degli astronomi iberici, che in Europa occidentale finirono per essere combinati tra loro. Anche nel campo delle discipline matematiche la linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo era vaga, ma per ragioni diverse. I vecchi metodi romani erano implicitamente molto apprezzati per l'importanza che accordavano all'aritmetica del computo (soprattutto all'abaco) e alla geometria di misurazione, utilizzata dagli agrimensori e dagli architetti. Le antiche tradizioni romane seguitarono a essere a lungo utilizzate anche dopo la diffusione della traduzione dell'aritmetica di al-Ḫwārazmī, eseguita nel XII sec., che introdusse un nuovo stile (non solamente di scrittura dei numeri, ma anche di tecnica del computo). Sostenere che queste tradizioni caddero in disuso quando l'élite intellettuale rimase affascinata dall''algoritmo' equivale ad affermare che dopo la scoperta del caviale nessuno ha più voluto mangiare i gamberetti; d'altra parte, per quanto ciò possa sembrare strano, nella seconda metà del XX sec. i vecchi metodi di calcolo con l'abaco erano ancora usati in alcune delle nazioni più industrializzate del mondo. Un'ulteriore complicazione con cui bisogna fare i conti quando si tenta di dividere in periodi coerenti la storia della matematica europea è rappresentata poi dall'esistenza di opere di ingegni quali, per esempio, Leonardo Fibonacci e Giordano Nemorario, opere che naturalmente mettono a dura prova ogni tentativo di classificazione.
In altre branche della scienza l'interazione tra il vecchio e il nuovo assunse aspetti ancora diversi. In un'introduzione non è il caso di entrare nei dettagli, ma dobbiamo tenere presente il fatto che la periodizzazione non è qualcosa che si possa indifferentemente sovrapporre a tutte le branche della scienza. È per questo che abbiamo preferito dividere la nostra storia in temi convenzionali, considerandoli nel corso di un lungo intervallo di tempo, invece di procedere in riferimento a un teorico schema intellettuale onnicomprensivo, suddiviso in diversi periodi. Tuttavia, non sempre è stato seguito questo criterio. Dal momento che nel Medioevo gli eruditi tendevano a dedicarsi a un'ampia gamma di discipline, in alcuni casi ci è sembrato che un punto di vista unitario rispecchiasse più fedelmente la mentalità individuale, e quindi anche quella collettiva. Sono dunque stati inseriti diversi capitoli dedicati a problematiche più ampie ‒ come l'esistenza di una continuità culturale e istituzionale, le concezioni unitarie della conoscenza e i molti presupposti teologici e filosofici che contribuirono implicitamente a conferire al sapere la sua forma ‒ nella speranza che siano letti tenendo a mente che, come dimostrano gli studi sulla tecnologia e sulla cultura popolare inclusi in questa Sezione, la scienza medievale non fu elaborata soltanto nelle scuole e nelle università: anche durante l'età della Scolastica, la vita non cessò di seguire il suo corso al di fuori delle scuole.
Nel suo studio, ormai classico, su Averroè (Abū'l-Walīd Muḥammad ibn Rušd) pubblicato negli anni Cinquanta del XIX sec., Ernest Renan (Renan 1852) sostiene che la storia della scienza e della filosofia del Medioevo è stata divisa in due distinti periodi dall'introduzione dei testi arabi nelle scuole dell'Europa occidentale. Il suo quadro è semplice ma convincente; prima di questo evento, afferma l'autore, gli studiosi occidentali disponevano solamente degli scarsi frammenti degli insegnamenti delle scuole romane contenuti nelle compilazioni di Marziano Capella, di Beda e di Isidoro di Siviglia e soltanto la vasta diffusione di questi testi assicurò la trasmissione delle conoscenze. In seguito alla riscoperta della scienza antica, attraverso i commentari arabi e, in una certa misura, anche attraverso i testi originali di scienza greca che i Romani avevano ridotto in forma sintetica, secondo Renan la cultura occidentale subì una radicale trasformazione.
È con questo genere di tesi lungimiranti che si fa la grande storia. Sulla divisione storica di Renan sono state avanzate delle riserve ‒ il grande rilievo accordato dall'autore alla Scolastica e la sua incapacità di spiegare in modo esauriente le pratiche tecniche sono sin troppo evidenti ‒ ma essa contiene indubbiamente un elemento di verità ed è per questo che abbiamo deciso di adottarla ampiamente nell'elaborazione di questa Sezione. La divisione di Renan ha il merito di rendere più maneggiabile la cronologia, ma tende ad attribuire un ruolo di secondo piano a Bisanzio, escludendo questa civiltà a noi così vicina dal quadro delle variabili, un'omissione che abbiamo tentato di evitare. Delle tre culture contigue ‒ bizantina, islamica e occidentale ‒ che nel Medioevo godettero del sostegno di forti poteri politici, la prima fu quella che esordì nel modo più brillante, anche se dal nostro limitato punto di vista la scienza bizantina subì un rapido declino a partire dall'inizio del XII sec., declino che non coinvolse forse soltanto il campo della tecnologia militare.
Nel XIV sec., lo Stato bizantino fu assoggettato dai Turchi; nel XV sec. la vita intellettuale conobbe un periodo di rinascita, ma nel 1453 ‒ una delle date più importanti della storia del mondo e che segna la fine del periodo preso in esame in questa Sezione ‒ Bisanzio fu definitivamente conquistata dagli Ottomani. La fortuna intellettuale dell'Islam era in un certo senso l'immagine speculare di quella di Bisanzio. Mentre l'Islam si diffondeva, sia a Oriente sia a Occidente, grazie a una lunga serie di conquiste militari, i suoi studiosi e i suoi scienziati si appassionavano alle risorse intellettuali della Grecia, del Vicino Oriente, della Persia e dell'India, e le assimilavano. Per un lungo periodo questo movimento non esaurì la sua vitalità, ma quando i suoi tesori intellettuali, dopo essere stati trasformati, giunsero in Europa occidentale, iniziò a sua volta a declinare. La più importante via di trasmissione passava per l'Andalusia. Dopo le fulminee conquiste dell'VIII sec., che avevano assicurato ai Musulmani il controllo della maggior parte del territorio della Penisola Iberica, gli invasori si erano accontentati delle informazioni sulla medicina, sull'astrologia, sull'antica astronomia e sulla geografia contenute nell'opera di Isidoro e di alcuni autori latini minori. Nel IX sec., tuttavia, l'introduzione in Andalusia dei materiali elaborati nelle regioni islamiche orientali produsse un radicale cambiamento, inducendo gli studiosi dell'Islam occidentale ad arricchire la loro tradizione. Nella Penisola Iberica la cultura scientifica era ancora in piena fioritura, quando gli eserciti cristiani ne iniziarono la riconquista. Seguì un periodo di logoranti conflitti e alla fine del XIII sec. i regni cristiani di Castiglia e di Aragona riacquistarono il controllo di gran parte del territorio dominato dai Musulmani; alla fine del XV sec. tutta l'Andalusia fu incorporata nel regno cristiano di Castiglia.
Durante i secoli del dominio musulmano, su quella che era inevitabilmente divenuta una popolazione multirazziale, in 'al-Andalus' vigeva una tolleranza religiosa sconosciuta nel resto dell'Europa, a eccezione forse di alcune piccole aree della Sicilia. Essa fu accompagnata da alcuni dibattiti religiosi piuttosto dotti, da molte opere letterarie e artistiche interculturali e da una vera e propria serie di imprese scientifiche condotte in collaborazione. Cessarono le persecuzioni degli Ebrei, piuttosto frequenti sotto i Visigoti, e i cristiani poterono liberamente dedicarsi al loro culto, anche se in molti casi preferirono convertirsi all'Islam. In Spagna gli Ebrei servirono fedelmente, in successivi periodi storici, sia i sovrani musulmani sia i re cristiani; per illustrare il ruolo svolto dagli studiosi ebrei andalusi nella rapida diffusione delle idee, citeremo tre grandi esempi: Mosè Maimonide, che trascorse la maggior parte della sua vita in Egitto; Abrāhām ibn ῾Ezrā, che viaggiò e operò in Italia e nella Francia meridionale; Pietro Alfonsi, che si convertì al cristianesimo e per un certo periodo lavorò al servizio del re d'Inghilterra Enrico I. La maggior parte del lavoro necessario alla preparazione delle cosiddette tavole astronomiche alfonsine ‒ vale a dire le tavole riunite alla fine del XIII sec. sotto l'egida di Alfonso X di León e Castiglia ‒ fu eseguita da studiosi ebrei. Un ruolo tutt'altro che trascurabile nel processo d'introduzione della scienza andalusa in Europa lo ebbero i traduttori ebrei che operarono nella Francia meridionale nel corso del XIII e del XIV sec., anche se il più grande traduttore dall'arabo fu senza alcun dubbio l'italiano Gherardo da Cremona, che lavorò per la maggior parte della sua vita a Toledo.
Alcune influenze culturali attraversarono i Pirenei molto prima delle vere e proprie ondate di testi tradotti del XII sec., ma è da ricordare che esse si esercitarono grazie a un piccolissimo gruppo di individui. Nei capitoli che seguono forniremo un maggior numero di dettagli sulla migrazione delle idee, ma per spiegare come anche un singolo studioso potesse alterare in modo significativo il profilo della cultura occidentale sarà sufficiente menzionare il caso di Gerberto, il futuro papa Silvestro II. Benché avesse ricevuto una solida istruzione tradizionale nella scuola monastica di Aurillac, in Francia, nel 967 Gerberto attraversò i Pirenei per studiare con il vescovo di Vich, Atto, probabilmente con l'intento di acquisire le conoscenze arabe nel campo delle scienze matematiche e astronomiche. Nei secoli precedenti, Vich era stata distrutta e poi ricostruita dai Musulmani. È molto probabile che durante il soggiorno Gerberto abbia visitato il monastero di Santa Maria di Ripoll, dove le antiche tradizioni occidentali del quadrivium erano state arricchite dalle nuove conoscenze musulmane sulle scienze esatte. Al suo ritorno‒ prima di essere eletto alla più alta carica della Chiesa romana ‒ Gerberto riorganizzò la Scuola cattedrale di Reims e ben presto quest'ultima iniziò ad attrarre studenti provenienti da tutte le regioni dell'Impero. È così che le nuove idee ‒ modeste, certo, rispetto ai criteri successivi ‒ riuscirono a diffondersi in meno di un decennio, grazie a un solo individuo, attraverso le figure chiave della cultura europea. Due secoli prima del periodo indicato da Renan, in Europa già iniziava a delinearsi dunque la demarcazione tra il vecchio terreno intellettuale e il nuovo.
Nell'Alto Medioevo, la cultura scientifica occidentale era tutt'altro che priva di valore; perché, allora, il suo sviluppo fu tanto più lento di quello della scienza bizantina e islamica? Ci auguriamo che i saggi contenuti nella prima parte di questa Sezione forniscano una serie di risposte dettagliate a questa domanda, risposte che, inevitabilmente, saranno formulate soprattutto in termini sociali. Quale ruolo svolse la Chiesa nel campo dell'istruzione e quali furono le conseguenze della scelta di usare il latino invece delle lingue volgari? Si è spesso affermato che gli antichi Greci riuscirono a conseguire risultati tanto straordinari proprio perché non avevano alcun bisogno di conoscere altre lingue; gli studiosi islamici, invece, dovettero tradurre dal greco, dal siriaco e da diverse altre lingue, ma, una volta eseguita l'opera di traduzione, la maggioranza di lingua araba poté lavorare e riflettere sui testi servendosi del linguaggio della vita di tutti i giorni. A eccezione della Spagna, nei paesi dell'Europa occidentale soltanto un ristretto numero di persone conosceva il greco o l'arabo; non bisogna inoltre sottovalutare la scarsa conoscenza del latino di molti ecclesiastici occidentali, soprattutto quelli che vivevano nelle regioni settentrionali, anche se probabilmente questa riserva non riguarda l'élite culturale.
Si osserverà che molti dei più importanti studiosi attivi nel lungo periodo qui preso in esame erano vicini alle sedi del potere politico o ecclesiastico e che in molti casi avevano ottenuto la loro posizione grazie a meriti accademici. Essi furono quindi in grado di esercitare una certa influenza sul sistema dell'istruzione, inteso nel senso più ampio dell'espressione. A questo proposito si potrebbero individuare alcune analogie tra Bisanzio e l'Islam, tuttavia le rispettive situazioni politiche erano piuttosto diverse. L'Europa non si espanse militarmente in territori ricchi di risorse intellettuali, e in passato l'importanza culturale delle Crociate è stata decisamente sopravvalutata. Nonostante un certo numero di miti convenzionali nei confronti dei quali i suoi dirigenti politici mostravano un falso rispetto e che contribuirono a ispirare un certo senso di unità, l'Europa occidentale era un'entità territoriale ‒ sempre che si possa considerarla tale ‒ in guerra con sé stessa. I più potenti sovrani europei s'impegnarono a preservare la cultura cristiana del Tardo Impero romano e, adottando l'espressione figurata che presenta l'Europa come una singola entità, si può affermare che essa tentò inizialmente di controllare le orde germaniche, celtiche e scandinave che operavano ai suoi confini e che a tempo debito si sforzò di tenere in scacco gli invasori musulmani e i Mongoli che premevano alle porte.
A prescindere dalle osservazioni che si potrebbero fare sulle numerose culture popolari europee, non vi è alcun dubbio sul fatto che fu il cristianesimo a conferire una certa unità a quest'area. Non tenteremo di trarre conclusioni significative da queste banalità; considerato il numero relativamente esiguo di individui che tennero accesa la fiaccola della scienza nel corso del periodo storico che è qui preso in esame, ci sembra più utile analizzare le loro biografie. I conflitti tra i diversi paesi europei non li privarono della tranquillità che in generale si ritiene necessaria alla cultura e allo studio? Quale genere di protezione offrivano le corti? E le chiese? E i monasteri? Spesso la regola monastica fu tutt'altro che ben disposta nei confronti della vita intellettuale, tuttavia non si può ignorare il fatto che i monasteri furono un importante fattore della vita economica europea. In ogni caso, le guerre interne seguitarono a costituire un grave problema per l'Europa anche durante i periodi di grande sviluppo scientifico.
La guerra potrebbe aver stimolato il pensiero dei tecnologi, e un certo numero di risultati importanti probabilmente si trasmise nel campo della scienza teoretica ‒ come dimostra chiaramente il caso della balistica del XVI sec. ‒, ma non fu certamente la principale nuova fonte delle idee e della vitalità della scienza in nessuna fase del Medioevo. Il momento propizio allo sviluppo della scienza europea giunse quando le condizioni economiche iniziarono rapidamente a migliorare. La vita divenne in generale più facile di quanto non lo fosse stata nei periodi precedenti, ma soprattutto questa fase fortunata fu accompagnata dall'introduzione di un nuovo sistema educativo che diede un notevole contributo allo sviluppo della scienza. Le università conferirono all'Europa un genere di unità che l'egemonia militare non fu mai in grado di fornirle.
Benché le sue origini risalgano al periodo precedente, la nuova fratellanza universitaria iniziò a diffondersi in tutti i paesi europei alla fine del XIII secolo. Le vecchie scuole monastiche avevano fatto molto per i livelli inferiori dell'istruzione, ma non esercitarono mai sulla Chiesa la stessa influenza acquisita in seguito dalle università. Uno dei principali meriti delle università fu quello di favorire lo sviluppo dei contatti internazionali, insegnando a tutti coloro che avevano studiato nelle loro aule a scambiare le proprie idee per mezzo della moneta comune del discorso scolastico ‒ e, in particolare, degli stili di discussione previsti nel programma delle arti liberali. Questi metodi diedero origine a una cultura non arida e uniforme, ma caratterizzata da un fertile scambio di idee che si basava su alcune regole fondamentali ben definite. Di frequente si sostiene, insultando l'intelligenza di coloro che vi presero parte, che le dispute delle università medievali erano fondamentalmente sterili. Naturalmente, non mancarono gli studiosi ossessionati dalla forma più che dallo spirito delle dispute, ma forse dovremmo imparare a vedere la trave nel nostro occhio più che la pagliuzza in quello altrui. L'influenza del nuovo sistema educativo emerge in riferimento alle forti tendenze scismatiche, per non dire alle eresie, che in alcuni casi furono osteggiate e in altri incoraggiate dalle università, ed è illustrata nella descrizione, offerta in altri saggi di questa Sezione, dei tentativi di controllare i maestri dell'Università di Parigi, nel XIII secolo. Un esempio di un tipo più rischioso di dibattito è quello che si svolse tra i domenicani e i catari i quali, per sostenere le loro tesi, si richiamavano entrambi alla filosofia della Natura di Aristotele.
La nascita delle università e l'influsso dei nuovi testi che tanto stimolarono il dibattito universitario coincise con l'inasprirsi delle tensioni nell'Europa cristiana. Nel corso di quasi tutto l'Alto Medioevo si continuò ad accettare, in modo più o meno convinto, l'idea secondo la quale tutti gli Europei vivevano in una collettività cristiana che trascendeva i confini nazionali e i cui capi supremi erano il papa e il sovrano del Sacro Romano Impero (naturalmente, Bisanzio e la Penisola Iberica non erano inclusi in questa ampia generalizzazione). Nel XIII sec., tuttavia, l'Impero iniziò a mostrare i primi segni di declino. Alla fine del secolo entrò in conflitto con il papato e, a partire dal 1356, con la promulgazione della cosiddetta Bolla aurea, fu costretto a riconoscere che i confini del suo dominio non oltrepassavano quelli della nazione germanica. Nel corso del lungo e logorante conflitto che oppose queste due ali della cristianità occidentale, i papi e gli imperatori riuscirono a indurre alcuni grandi studiosi di formazione universitaria a sostenere le loro opposte tesi. I contendenti affilarono le loro armi intellettuali e, in generale, osservarono le regole delle dispute universitarie; si creò una situazione analoga a quella dello scontro tra due eserciti, si combatteva tuttavia rispettando, in misura maggiore o minore, le stesse regole.
Purtroppo, i disputanti spesso aiutarono e sostennero i loro superiori ‒ sovrani e alti ecclesiastici ‒ rovinando l'esibizione con misure estreme che andavano al di là delle regole di una civile discussione. La filosofia della Natura rimase però relativamente estranea a questo dibattito, anche se i filosofi della Natura che si esprimevano su questioni di carattere morale o teologico correvano gli stessi rischi dei loro colleghi. Forse il caso più significativo della violenza culturale che caratterizzò questo periodo è quello di Jan Hus, condannato al rogo per eresia nel 1415. Naturalmente, solo con uno sguardo retrospettivo è possibile percepire come il protestantesimo iniziasse ad acquisire un grande slancio e come il movimento ussita annunciasse la fine dei metodi medievali di governo nell'Europa cristiana. Tutto ciò non aveva nulla a che fare con le scienze in quanto tali, ma era motivato dallo stile di pensiero che sarà esemplificato in ciascun capitolo di questa Sezione; ci riferiamo al metodo fondato sull'esame minuzioso dei principî primi e sulle conclusioni che da essi si potevano correttamente desumere. Questo modo di pensare si apprendeva nelle università, fu alla base del rifiorire delle scienze nell'Europa occidentale e ci aiuta a comprenderlo.
È lecito esporre le cose in questi termini, dando per scontato il successo della scienza occidentale? Non istituiamo in tal modo un implicito confronto con altre tradizioni scientifiche? Non trasformiamo la storia in una competizione sportiva, in cui una cultura è considerata in opposizione alle altre? Sappiamo che stava per emergere qualcosa di importante; è corretto presumere che le sue origini risalissero al Medioevo? Non è facile dimostrare l'importanza degli eventi successivi, ma individuare le loro segrete origini è un problema di un ordine ancora più elevato. Il valore attribuito alla tesi di Renan deriva soprattutto dalla sua capacità d'illustrare in modo esauriente la difficoltà di distinguere le diverse cause storiche. Le strutture sociali, le istituzioni, i curricula, le risorse testuali, i sistemi scientifici, le applicazioni pratiche e artistiche, le conseguenze economiche, il piacere intellettuale individuale: in quale ordine lo storico deve collocare questi fatti? Come distinguere quelli che furono solo la premessa necessaria all'emergere degli altri da quelli che possono essere considerati una causa in sé? Gli storici del Medioevo, in virtù della natura della loro professione, sono sempre immersi nella lettura dei testi; forse attribuiscono loro un'eccessiva importanza? Non possiamo fare a meno di pensare al caso di quei biologi per i quali le galline non erano che il mezzo attraverso cui le uova producevano altre uova. I filosofi della Natura non furono che il mezzo attraverso cui i testi producevano altri testi? Perché tanti di noi agiscono come se credessero nell'esistenza di un'unica chiave segreta in grado di garantire l'accesso alla corretta comprensione dell'odissea scientifica?
Una volta, ogni generazione si accontentava, in misura maggiore o minore, di un solo tipo di risposta, di un solo tipo di chiave; oggi, invece, quasi ogni mese fanno la loro comparsa nuovi stili di riduzionismo. Tra questi ricorderemo la riduzione della storia della scienza alla storia dei testi, al mecenatismo, alla conoscenza segreta e pubblica, alla retorica, all'assertività dei generi, all'autoformazione, alla cultura materiale, alle conoscenze segrete degli artigiani e al lavoro umano, tanto per citare un ristretto numero dei più recenti tentativi di colpire l'immaginazione collettiva. L'atteggiamento più corretto da tenere nei confronti di queste formule esplicative non è quello di rifiutarle, ma quello di utilizzarle nel modo e nelle occasioni giuste; si noterà così che in generale esse sono espresse in una forma che non presuppone che siano reciprocamente esclusive. Tuttavia, uno degli aspetti più singolari dei recenti stili riduzionisti menzionati nell'elenco precedente, è che essi tendono a non prendere in considerazione il contenuto del pensiero scientifico, come se agli storici della scienza fosse venuta a noia la scienza stessa.
Nel 1960, indicando nei 'cambiamenti di paradigma' il suo 'apriti Sesamo' della comprensione delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn ha lanciato uno stile d'interpretazione univoca della storia della scienza senza, tuttavia, trascurare la complessità del pensiero scientifico. Nonostante le apparenze, neppure Renan riduceva soltanto ai testi la storia della scienza; come Kuhn, egli aveva in mente una grande idea della storia che tentava di spiegare i cambiamenti intellettuali, i cambiamenti dei livelli di conoscenza. La divisione storica proposta da Renan non è neutrale, come potrebbe essere, in misura maggiore o minore, una semplice divisione cronologica per secoli, perché è imperniata sulla causa storica di quella che ‒ se il suo ideatore aveva visto giusto ‒ può essere definita la riscoperta di un sapere quiescente ed ebbe significative ripercussioni. Quest'ultima definizione è molto importante; infatti nessuno designerebbe la scoperta di un piccolo numero di testi col termine 'rinascita'. Molti dei capitoli di questa Sezione forniranno la prova di tale tipo di fenomeno, e alcuni degli studiosi che si occupano della storia precedente aiuteranno implicitamente gli autori dei saggi successivi, evidenziando le lacune dei periodi da loro presi in esame. Essi dimostreranno congiuntamente che nessuna descrizione semplice può rendere giustizia ai molti aspetti di questo periodo storico, una conclusione tutt'altro che sorprendente che più di un secolo di intense discussioni storiche sul prototipo di tutte le rinascite, il movimento umanistico (e prevalentemente letterario) che va dalla seconda generazione del XIV alla fine del XVI sec., ci ha preparato ad accettare.
In questa sede non è il caso di discutere sulla legittimità dell'uso del termine 'rinascita' in riferimento a questo fenomeno più tardo.
Due secoli sono un periodo molto lungo per una 'nascita', secondo qualsiasi tipo di criterio, ed è ancora in discussione l'esistenza in questo periodo di atteggiamenti intellettuali ben definiti e largamente condivisi che renda legittimo il riferimento a un movimento intellettuale unitario. Tale questione, tuttavia, non ci riguarda; come storici del Medioevo siamo invece interessati a evitare un errore comune tra gli storici dell'Umanesimo. Ci si riferisce all'effetto derogatorio che l'idea di 'Rinascimento' ha avuto sul modo di considerare il Medioevo. Petrarca può essere considerato il simbolo di questa tendenza, che certamente contribuì a inaugurare, sfidando i suoi contemporanei a comprendere e a onorare le opere dell'Antichità. Il poeta e i suoi seguaci spinsero i contemporanei a disprezzare i loro immediati predecessori che erano vissuti in un'età oscura, o almeno letargica, e che quindi meritavano di essere ignorati. Ancora oggi alcuni storici del Medioevo sono in una certa misura propensi a dare credito a tale idea; i testi contenuti in questa Sezione dimostreranno tuttavia la sua erroneità; dobbiamo però evitare di cadere in una trappola analoga, quella di considerare il periodo antecedente al XIII o al XII sec. come un'età oscura, priva d'importanza, che attendeva di essere rischiarata dai raggi di luce provenienti dall'Islam e dalla Grecia.
Nella misura in cui è lecito parlare di una rinascita scientifica, vale a dire di un movimento scientifico che condusse il mondo occidentale dalla prima alla seconda delle fasi storiche in cui Renan divide questo periodo, si può affermare che essa si era già in gran parte compiuta prima della nascita di Petrarca. Quale importanza ebbe questa rinascita in rapporto ad altre transizioni culturali? A prescindere dall'opportunità dell'uso del termine, ricordiamo che gli storici hanno identificato un gran numero di 'rinascite': memorabile è il caso di quella che C.H. Haskins (Haskins 1927) ha definito la 'rinascita scientifica del XII sec.', periodo in cui, attraverso alcune aree di contatto con l'Islam ‒ la Siria, la Sicilia, Costantinopoli e, soprattutto, Toledo ‒, ebbero luogo la diffusione e l'assimilazione di una serie di conoscenze, soprattutto di carattere scientifico. Nel periodo precedente si era verificata quella che gli storici hanno definito la rinascita carolingia, nella quale, tuttavia, la scienza svolse un ruolo trascurabile. Si trattava in realtà di un movimento che aveva a che fare con la riscoperta degli autori cristiani della Tarda Antichità, più che con quella delle conquiste dell'Antichità classica. Utilizzando troppo frequentemente un termine, si finisce per logorarne la forza espressiva, eccetto che non basarne l'uso su qualcosa di meno vano della retorica. Queste 'rinascite' sono increspature sulla superficie della storia. Attraggono l'attenzione più dei maremoti.
La scienza medievale non s'identificò solamente con le grandi scoperte dei testi. La scienza accademica tradizionale non era priva di valore, e i suoi meriti e le sue insufficienze saranno esposti nella prima parte di questa Sezione. La scienza popolare, tradizionale, non può essere interamente ignorata, quasi fosse costituita da semplici racconti; spesso essa presentava un carattere teoretico, anche se gli studiosi delle università si rifiutavano di riconoscerlo, che, ci piaccia o no, non può non entrare a far parte della nostra storia. Allo stesso modo, non trascureremo le conoscenze tecniche e gli studiosi che vi si sono applicati ‒ una categoria che ha indubbiamente meritato di essere presa in esame attraverso una scelta delle principali figure di ogni periodo.
Soprattutto tra il XII e l'inizio del XIV sec., vi fu una fase di grande prosperità economica e di sviluppo, nel corso della quale l'alta cultura gotica raggiunse il suo apogeo. Fu un'età caratterizzata da un crescente ottimismo, in cui s'intravedevano nuove possibilità che potevano essere sfruttate. In base a quali criteri tracciare la linea di demarcazione che divideva la scienza della comunità degli studiosi da quella dei costruttori delle cattedrali, dei carpentieri navali, di coloro che edificavano i mulini, dei fabbricanti di strumenti e di quelli che costruivano i primi orologi monumentali? S'individuano più facilmente le distinzioni sociali che dividevano queste categorie, e non vi è alcun dubbio che ‒ non diversamente da oggi ‒ queste persone spesso erano guardate dall'alto in basso, con disprezzo, da alcuni dei loro collaboratori più eruditi (spesso infatti si davano vere e proprie forme di collaborazione). La società in generale le apprezzava molto per le meraviglie che riuscivano a realizzare; mentre una dimostrazione di Archimede era una meraviglia che solo un ristretto numero di lettori poteva apprezzare, una cuspide che s'innalzava verso il cielo per decine di metri suscitava un'ammirazione diversa. Non è eccessivo parlare, nel caso degli studiosi delle scienze tecniche, di controllo razionale del mondo materiale e bisogna riconoscere che in tutti i casi summenzionati l'abilità così lentamente acquisita era in grande misura un'arte autoctona che soltanto in parte si basava sulle conoscenze recentemente importate. In breve, il ruolo svolto dalla scienza medievale occidentale fu molto più rilevante di quello delle influenze provenienti da altre aree.
Solamente un ristretto numero di coloro che praticavano l'attività presa in esame in questa Sezione sarebbe stato disposto a considerarla il principale scopo a cui dedicare la propria vita. Ciò è più o meno evidente non soltanto nel caso degli studiosi associati alle scuole cattedrali, ai conventi e alle istituzioni monastiche, centri fondati per scopi religiosi, ma anche in quello degli studiosi laici delle università. Considerando le loro origini, molto spesso pragmatiche, si può affermare che le università si proponevano esplicitamente lo scopo di formare un'élite in grado di operare al servizio sia dello Stato sia della Chiesa. La teologia era la 'regina delle scienze', anche se ciò non equivale ad affermare che fosse una scienza nel significato moderno della parola. Questa disciplina attrasse alcuni degli ingegni più brillanti del tempo e fu dotata di un ricco corredo istituzionale. Non è un caso che molti dei migliori autori di testi scientifici fossero anche dei teologi; il sistema educativo, infatti, obbligava praticamente tutti i chierici a studiare all'inizio della loro carriera l'aritmetica, la geometria, l'astronomia, la teoria della musica e la filosofia della Natura.
Naturalmente, molti ecclesiastici svilupparono una forte inclinazione per queste discipline e seguitarono a coltivarle anche dopo la fine degli studi; non bisogna tuttavia pensare che queste persone dedicassero la maggior parte delle loro energie allo studio delle scienze esatte o delle scienze naturali. Leggendo i lunghi commentari redatti da questi studiosi all'Esamerone o alle Sentenze di Pietro Lombardo si potrebbe essere tentati di astrarre i passaggi scientifici che ci interessano e di ignorare tutto il resto, anche nei casi in cui la lunghezza del 'resto' è dieci volte maggiore di quella del brano in questione. Non vi è nulla di nuovo in questo; infatti gli studi dedicati al sapere medievale sono spesso troppo incentrati su testi considerati interessanti indipendentemente dal peso e dall'influenza che esercitarono nella loro epoca. Ricorderemo l'esempio classico di Tommaso d'Aquino ‒ per citare uno dei più apprezzati studiosi medievali che, tuttavia, è più noto come teologo che come filosofo della Natura ‒ che fu tenuto in considerazione più nel XV e nel XVI sec. che nella sua epoca (XIII sec.), e che è stato studiato con un'attenzione ancora maggiore nel XIX e nel XX secolo. Non è sbagliato prendere in esame i piccoli movimenti intellettuali contrapponendoli a quelli più vasti, ma bisogna ricordare che la nostra prospettiva non coincide con la loro.
Qual era la loro prospettiva? Quale significato ha la nostra pretesa di estrapolare la 'scienza' dalla cultura medievale? Il fatto che la maggior parte degli studiosi medievali dedicasse più tempo ed energia alle questioni teologiche che a quelle scientifiche (nel significato che oggi attribuiamo a questo termine) significa che nel comporre testi di filosofia della Natura essi si limitavano ad applicarla a problemi teologici? Certamente no. Ciò equivarrebbe a paragonarli ai mutakallimūn (dall'arabo kalām 'trattazione ragionata') dell'Islam, che erano soprattutto teologi e formavano una classe ben distinta da quella dei numerosi filosofi della Natura musulmani, in cui lo stesso Aristotele avrebbe visto degli spiriti gemelli. Nel mondo cristiano, come del resto in quello islamico, impegnarsi nel campo di quella che oggi chiamiamo 'scienza' per un credente non equivaleva necessariamente a impegnarsi nel campo della teologia. Si riteneva che Dio fosse il Creatore di tutto ciò che si studiava nell'ambito della filosofia della Natura e che fosse la causa prima di tutti i fenomeni naturali (cioè non miracolosi); tuttavia, si pensava che i fenomeni naturali avessero anche varie cause secondarie e che lo studio di queste ultime non fosse compito dei teologi, ma rientrasse nel campo delle competenze dei filosofi della Natura.
Nessun dato statistico relativo alle attività universitarie potrà alterare la natura di questa divisione dei compiti, che per gli studiosi universitari era molto chiara. Era una divisione scritta sulla pietra, quando le sale di lettura erano di pietra. Lo stesso trattamento era riservato a quelle che oggi in alcuni paesi sono chiamate scienze esatte. In una pagina di matematica complessa o di teoria astronomica tratta da una fonte medievale, gli scienziati moderni riconosceranno immediatamente l'opera di uno spirito gemello; essi non accorderanno tuttavia la stessa approvazione a tutte le materie trattate in questa Sezione. Non dobbiamo giustificarci per averle incluse, ma se dicessimo che sono state inserite soltanto per dimostrare la differenza che esiste tra il presente e il passato, eviteremmo la questione più importante, relativa al fatto che esse condividono qualcosa d'importante con le loro discendenti moderne, il diritto delle quali a fregiarsi del nome di scienza non sempre è riconosciuto senza riserve.
Nessuna discussione di carattere semantico sulla parola latina scientia, che ha fornito alle lingue basate sul latino il termine di 'scienza', può dirci molto sugli specifici significati che questo vocabolo finì per assumere (anche in altre lingue, i termini usati per indicare la nozione di 'scienza' sono quasi sempre strettamente legati a quelli che designano la conoscenza in generale). L'espressione 'filosofia della Natura', philosophia naturalis, è un po' più precisa perché deriva da una linea di discendenza ben definita, e per gran parte della sua storia fu impiegata nell'accezione che Aristotele avrebbe voluto attribuirle. A suo tempo, essa fu coniata per designare un'ampia gamma di scienze particolari; se gli autori che hanno contribuito alla redazione di questa Sezione la usano in accezioni diverse, e non si soffermano a esaminare in ogni paragrafo il significato che le attribuiscono, è soltanto per riguardo verso i lettori. Ciò, tuttavia, non significa che essi si propongano di ridurre tutti gli autori medievali a un denominatore comune e tantomeno che intendano presentarli come scienziati moderni. Così come a nessuno è stata mai attribuita una carriera scientifica soltanto in virtù della definizione offerta in un dizionario, nessuno storico può iniziare a elaborare una 'storia della scienza' su queste basi.
Per valutare correttamente le scienze medievali bisogna innanzi tutto porsi a una certa distanza, allontanarsi in misura sufficiente dai dettagli, in modo da riuscire a individuare la spinta propulsiva di ogni forma di creatività scientifica. È una forza antica come l'umanità stessa, qualcosa di cui sarà data prova nella prima parte di questa Sezione, così come nella seconda. È la fondamentale consapevolezza che il progresso dell'umanità non richiede la raccolta di fatti non correlati tra loro, ma l'ordinamento sistematico di una serie di enunciati ipotetici ‒ se x, allora y. Questo ordinamento presuppone l'utilizzazione di uno schema logico, e forse anche di uno schema matematico, che non deve essere necessariamente aristotelico ‒ e non sempre lo fu. Non tutti i logici del tempo, per ricordare un esempio classico, erano soddisfatti della logica aristotelica, e da Anselmo ai terministi del Tardo Medioevo introdussero sottili innovazioni che in molti casi sono state pienamente apprezzate solamente nel XX secolo. Allo stesso modo, gli averroisti, i custodi delle dottrine aristoteliche, entrarono in conflitto su molte questioni con gli autori dei testi sulla nuova dinamica del XIV secolo. Qualsiasi genere di razionalità scientifica presuppone una struttura logica di cui i suoi praticanti sono consapevoli e che sono in grado di comunicare ad altri, ma questo non è che un requisito minimo. Un'attività basata sulla connessione di enunciati ipotetici relativi al mondo empirico è una scienza nel senso proprio del termine, anche nei casi in cui è praticata in forme che oggi non siamo propensi ad accettare ‒ invocando fattori sovrannaturali, per esempio, o appellandosi a principî che gli artigiani apprendevano attraverso la pratica e che non erano in grado di enunciare in forma verbale.
Affrontando la scienza medievale nel suo insieme, scopriamo che non tutti i suoi aspetti possono essere chiaramente identificati attraverso le familiari categorie dell'attuale filosofia della scienza. Delusi da questa circostanza, in passato alcuni storici hanno tentato di trovare una compensazione concentrandosi soltanto sugli aspetti chiaramente identificabili. Questo atteggiamento può indurre a esibirsi in straordinari esercizi di ginnastica concettuale, se non di casistica, ma esercizi di questo genere non sono del tutto privi di valore se ci permettono di apprezzare più a fondo la mentalità dell'epoca in opposizione alla nostra. Per esempio, in passato sono stati intrapresi numerosi tentativi d'individuare il concetto di legge scientifica nel pensiero antico e medievale, giungendo a identificarlo col concetto greco di forma, con le nozioni platoniche e neoplatoniche di uso e consuetudine, o con i riferimenti di Aristotele ai principî (come, per es., nel De caelo). Nel caso della nozione di legge, tuttavia, ci troviamo in presenza di un'idea che era già chiara prima di ricevere un nome. Non c'è bisogno di citare il caso degli stoici ‒ che si ritiene avessero derivato l'idea di legge naturale da quella di legge divina ‒ o quello dei tardi filosofi cristiani che ne seguirono l'esempio, per scoprire qualcosa che stiamo cercando ancora oggi, vale a dire quell'attività fondamentale consistente nel determinare gli algoritmi necessari a stabilire il corso del futuro o ciò che è accaduto nel passato. Naturalmente, le parole che abbiamo utilizzato sono legate a significati che dovrebbero essere esaminati più attentamente, ma in definitiva questo caso ricorda molto quello dell'arte di camminare su due gambe, nel senso che quasi tutti sono in grado di farlo, ma quelli che sanno spiegare esattamente come si fa non sono molti. Gli uomini del Medioevo conoscevano già il concetto di legge scientifica, così come si può parlare di una scienza medievale nel significato moderno e più ampio del termine.
Ogni età ha le sue debolezze filosofiche, anche nel campo della filosofia della scienza, ma la maggior parte di noi insisterà sul fatto che una 'scienza', per essere degna di questo nome, dovrebbe offrire delle 'spiegazioni' e che queste ultime dovrebbero soddisfare almeno coloro che le propongono. Ci aspettiamo che la scienza sia sottoposta a diversi tipi di verifiche e che, nel caso in cui non le superi, sia rifiutata o modificata in modo conseguente. Una delle più importanti verifiche a cui può essere sottoposta una scienza empirica è quella volta all'accertamento delle sue capacità di eseguire accurate predizioni, ma una scienza empirica deve anche soddisfare i requisiti richiesti dalla logica. Inoltre, diamo per scontato che essa sia in consonanza con le altre scienze che condividono il suo campo di indagine e che, per esempio, un autore di testi di cinematica e un autore di testi dedicati alla scienza dei pesi affrontando il tema della caduta dei corpi non si contraddicano a vicenda. Inoltre, a corollario di questa esigenza, ci aspettiamo ‒ o piuttosto speriamo ‒ che gli scienziati saranno in grado di ricondurre il più gran numero possibile di fenomeni simili a un solo e unico schema esplicativo. Anche dalle scienze deduttive, in un mondo ideale, ci si aspetterebbe lo stesso genere di coerenza logica e lo stesso senso dell'economia ‒ la capacità, cioè, di spiegare il maggior numero possibile di fatti con un minimo di sovrastruttura teoretica.
Questi criteri non erano sconosciuti agli scrittori medievali che, tuttavia, li interpretavano e li valutavano in modo diverso. Le scienze della classificazione zoologica, per esempio, non accordavano molta importanza alla predizione. Gli astrologi eseguivano predizioni, ma la loro scienza presentava tante vie di fuga che soltanto raramente si trovò in serio imbarazzo quando le predizioni erano smentite dai fatti. In alcune menti vi era una vaga percezione della linea di demarcazione che separava le predizioni dalle profezie; vi erano studiosi che eseguivano pronostici su presunte basi scientifiche, utilizzando l'astrologia o alcune delle più equivoche arti divinatorie, che non avrebbero sostenuto di procedere per ispirazione divina, ma che non lo avrebbero neppure negato. Non è facile individuare la nozione di 'esperimento cruciale' nei testi medievali. Naturalmente, esistevano alcune scienze che si proponevano il conseguimento di risultati pratici ‒ come la produzione dell'oro alchemico, il raggiungimento del porto in cui s'intendeva approdare, la cura di una malattia, la tempra dell'acciaio e così via. Persino uno studioso 'scientifico' come Ruggero Bacone, tuttavia, parlando di esperienza o esperimento, experientia o experimentum, si riferiva abitualmente non a un esperimento critico che potesse confermare o smentire una teoria, ma all'esperienza comune e alla concordanza tra quest'ultima e la scienza (opinione basata su alcuni validi precedenti aristotelici).
La coerenza logica era molto apprezzata, almeno in via di principio; spesso era stimata più di qualsiasi altra cosa. La cinematica medievale, per esempio, era caratterizzata dal fatto che gli studiosi sembravano più preoccupati di elaborare dal punto di vista logico schemi astratti che di scoprirne un'effettiva applicazione al mondo reale. Come persuadere questi autori di testi di cinematica che i loro schemi non rispondevano ai requisiti richiesti dalle scienze empiriche? Abbiamo motivo di credere che i migliori di loro, persuasi con gentilezza, si sarebbero allineati al nostro punto di vista per la semplice ragione che esso vanta un'antica ascendenza; la maggior parte di questi studiosi, tuttavia, si sarebbe rifiutata di riconoscere all'esperimento nel campo delle scienze empiriche un così grande valore.
Una delle principali caratteristiche delle scienze è quella di esercitare un'azione unificatrice che, com'è stato accennato, oltrepassa l'attività di unificare i fenomeni attraverso leggi. Il principio secondo cui le scienze devono proporsi di unificare schemi secondari, le cosiddette 'scienze minori', non è abitualmente associato al Medioevo; in questo periodo, tuttavia, tale ideale non era sconosciuto ed è interessante osservare il suo modus operandi. Esso assunse forme diverse in differenti periodi. Nel IV sec., mentre iniziavano a interrompersi i contatti tra l'Occidente latino e il mondo greco, gli enciclopedisti intrapresero la loro opera di codificazione che nei successivi sette secoli avrebbe fornito al mondo latino gran parte delle conoscenze scientifiche greche e romane allora conosciute. L'idea di unificazione emersa da questo movimento, molto importante dal punto di vista storico, era assai vaga: a grandi linee, si può affermare che i diversi materiali furono riuniti tra loro esclusivamente in base a criteri letterari. Non dobbiamo criticare gli uomini del Medioevo per non aver fatto quello che è stato compiuto dai loro successori, ma non è irragionevole criticarli per il loro sfrenato eclettismo, dal momento che in generale erano consapevoli dell'importanza della coerenza che l'eclettismo tende invece inevitabilmente a violare. È deplorevole ‒ come alcuni storici hanno già riconosciuto ‒ che spesso gli autori si accingessero a comporre nuovi trattati utilizzando dimostrazioni geometriche tratte da autori più antichi in cui, per esempio, le figure erano corredate da sequenze di lettere prive di senso, e che gli astronomi riunissero collezioni di tavole elaborate in base a parametri incoerenti (questa condotta, tuttavia, è più comprensibile perché non era facile ricavare i parametri dalle tavole basate su di essi).
Da questo quadro si desume che non tutti quelli che utilizzavano un testo lo comprendevano. A volte gli autori medievali estrapolavano brani isolati di un testo scientifico e li riproducevano senza considerarne la posizione originaria in uno schema razionale del discorso. È fin troppo facile per noi ‒ nei casi in cui si conosca lo schema in questione ‒ limitarsi a constatare la presenza del brano e presumere che l'autore l'avesse compreso. Uno degli aspetti più scoraggianti della lettura degli antichi testi scientifici è quello di scoprire che gli autori spesso manipolavano materiali scientifici che conoscevano soltanto in modo molto superficiale. A volte le ragioni dell'incomprensione si riducevano a semplici problemi di vocabolario ‒ che, tuttavia, non erano tanto semplici se portarono uno scrittore del Nord a confondere una pianta medicamentosa tipica delle regioni mediterranee con una pianta velenosa locale ‒ ma spesso riguardavano l'incapacità di condividere le motivazioni scientifiche che avevano ispirato l'opera in origine. Quando ci troviamo in presenza di questi casi, possiamo dire di avere imparato qualcosa di importante sulla mentalità degli individui di cui c'interessiamo.
Con il passare del tempo, s'iniziò a valutare più correttamente l'importanza della coerenza e quindi a sentire con più forza il bisogno di unificare tra loro le scienze. Nessun autore contribuì più di Aristotele a impostare questo cambiamento di prospettiva. La sua duplice presentazione della scienza come attività razionale e ampiamente deduttiva, offerta negli Analitici secondi e nella Fisica, rendeva inevitabile l'aprirsi di un periodo in cui l''economia' perseguita dai geometri, costruttori questi di sistemi par excellence, sarebbe stata copiata dai fisici. Secondo Aristotele, la scienza s'identifica col tentativo di ricondurre la discordanza caotica delle nostre esperienze sensoriali a un sistema di pensiero logico e organico. L'unificazione dei diversi campi dell'attività scientifica non è altro che la naturale estensione della tendenza universalizzante della scienza nel suo insieme, una tendenza che ne è una delle principali caratteristiche.
Uno dei più importanti cambiamenti della scienza del Tardo Medioevo fu determinato dalla consapevolezza del fatto che le scienze si rafforzavano attraverso la matematizzazione e dalla convinzione che le matematiche rappresentassero il principio unificatore supremo. La prova più evidente del potere delle matematiche era rappresentata dai successi dell'astronomia, che affondava le sue radici nelle tradizioni mesopotamiche e greche così come in alcune più tarde; ma, anche in questo caso, nella misura in cui venne coinvolta la propaganda filosofica, fu Aristotele ad aprire la strada. Bisogna ricordare che se Platone aveva presentato le matematiche come una preparazione alla dialettica ‒ l'analisi delle credenze e delle espressioni 'dei molti e del saggio' ‒ Aristotele non concordava con questa tesi. Egli ebbe la fortuna di vivere tra i matematici che elaborarono il genere di assiomatizzazione oggi conosciuto soprattutto attraverso l'opera più tarda di Euclide (gli Elementi), e non è quindi sorprendente che vedesse in qualche modo nelle matematiche il modello di ogni scienza esauriente. Non è un caso che la maggior parte delle sue spiegazioni del metodo delle scienze ‒ che includono la teologia e la filosofia della Natura ‒ fosse tratta dalle matematiche.
Nel XIII sec. e nel periodo successivo, Grossatesta, Bacone e molti altri si richiamarono a questa concezione, ma dal punto di vista dell'unificazione delle scienze non tutto era così semplice. Nel campo delle matematiche l'unificazione si poteva conseguire attraverso l'elaborazione di strutture deduttive che poggiavano le une sulle altre, ma nelle scienze fisiche i seguaci di Aristotele incontrarono molte difficoltà, probabilmente causate dalla diversità dei campi d'indagine. Si pensi al modo in cui nel XIX sec. le teorie del magnetismo e dell'elettricità furono unificate come aspetti di un unico fenomeno per il quale fu elaborata una teoria specifica, quella dell'elettromagnetismo. Gli aristotelici medievali tendevano a interpretare in modo rigido la concezione di Aristotele relativa alla distinzione dei campi d'indagine e quindi avrebbero scartato questo genere di soluzione. Esisteva, tuttavia, una strada per eludere queste difficoltà, quella dell'analogia. Le analogie unificavano 'implicitamente' perché sembravano dotare di una struttura comune due soggetti diversi. Il metodo analogico fu molto utilizzato nel Medioevo come, del resto, succede sempre quando una scienza particolare muove i primi passi. L'Universo stesso era spesso discusso attraverso il ricorso a metafore organiche e in particolare al rapporto analogico che legava il microcosmo al macrocosmo. L'alchimia si basava soprattutto sulle analogie individuate tra i processi chimici e la vita umana, e persino su quelle astrologiche o relative ad altre scienze del Cosmo, ma non per questo si trasformò in un'estensione di queste scienze, mentre le analogie individuate nel XIX sec. da William Thomson tra elettricità e magnetismo favorirono la creazione del campo d'indagine unitario summenzionato.
Nel Medioevo esistevano almeno tre strade attraverso le quali si giungeva all'unificazione delle scienze (di cui, tuttavia, non si parlava in questi termini). In primo luogo, come abbiamo già spiegato, benché distinguessero le scienze in base alla diversità dei loro campi d'indagine, gli studiosi spesso constatavano tra essi l'esistenza di alcune analogie. In secondo luogo, benché le scienze fossero distinte in base alla differenza dei loro principî fondamentali ‒ i loro assiomi, diremmo oggi ‒ spesso si scopriva che questi principî potevano essere trasposti da un soggetto all'altro (si usava, per es., un linguaggio molto simile per descrivere la quantificazione delle qualità nella medicina, nella farmacologia, nella cinematica e persino in alcune questioni teologiche); ogni scoperta matematica relativa a una di queste applicazioni (per es., il teorema della velocità media di Merton) era automaticamente applicata, almeno in via di principio, alle altre. In terzo luogo, benché si operasse una distinzione tra i diversi modi in cui Aristotele aveva considerato il rapporto tra causa ed effetto nelle diverse scienze ‒ parlando, per esempio, di teleologia in un campo e di causa efficiente in un altro ‒ si riteneva che ogni tipo di causalità fosse applicabile a un vasto campo di argomenti. In breve, le scienze condividevano gran parte dei loro metodi e nei capitoli che seguono si vedranno più volte all'opera questi modi di unificazione.
Il Medioevo aveva un grande debito con Aristotele; ciò, tuttavia, non significa che 'il Filosofo' fosse al di sopra di ogni critica; i dettagli delle sue idee sulla fisica furono spesso modificati, ma i metodi scientifici generali esposti nelle sue opere dimostrarono una grande capacità di resistenza. C'era un'area, tuttavia, in cui persino gli 'aristotelici' non erano concordi tra loro nel determinare la misura dell'accettabilità della sua dottrina, ed era la teologia. Come abbiamo già osservato, il mondo accademico era profondamente influenzato dalla teologia, pur senza essere esclusivamente dedito a essa. I suoi membri non ignoravano l'ostilità mostrata dagli antichi Padri della Chiesa nei confronti della filosofia greca: "Che cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme?" si chiedeva Tertulliano. Le prime risposte a questa domanda retorica, che mostrarono una certa comprensione nei confronti della scienze, furono fornite da autori che elogiavano Platone. La sua descrizione della Creazione nel Timeo non era riconducibile a un cristianesimo ante litteram? I primi secoli successivi all'affermazione del cristianesimo avevano visto l'emergere di forti tendenze antintellettuali, che alla fine furono fortunatamente contrastate da Agostino attraverso l'efficace argomento secondo cui la filosofia ‒ la ricerca della sapienza ‒ è accettabile nella misura in cui riconosce che la vera sapienza è ottenibile soltanto grazie alla conoscenza e all'amore di Dio. Questa concezione fu ampiamente adottata nei circoli eruditi e certamente sopravvisse alla grande diffusione delle idee aristoteliche che finì di compiersi verso la metà del XIII sec.; a questo punto, tuttavia, la scena filosofica aveva ormai subito notevoli cambiamenti.
Gli studiosi cristiani di questo periodo, infatti, pur riconoscendo la necessità di riscoprire la vera eredità greco-romana, non erano ossessionati da questa idea in quanto erano attratti anche da molte altre concezioni, derivanti da fonti arabe ed ebraiche. Gli atteggiamenti teologici verso queste fonti non potevano che essere ambivalenti, poiché pur non essendo opere cristiane, esse erano decisamente stimolanti. Naturalmente, c'era una scala di pericoli spirituali; così, pochi opponevano obiezioni di carattere dottrinale all'aritmetica islamica, ma una teoria astrologica islamica che si riteneva potesse mettere in discussione il principio del libero arbitrio veniva considerata più problematica e quando, attraverso l'Islam, giunsero in Occidente materiali aristotelici che si pensava fossero in contraddizione con i dogmi cristiani ‒ come, per esempio, le dottrine di Averroè sull'immortalità dell'anima ‒ alcuni optarono per la soluzione più semplice e tentarono di impedire l'accesso ai testi 'offensivi', ma, fortunatamente, non tutti erano disposti a metterli al bando.
Alcuni dei più ingegnosi studiosi latini, infatti, si accingevano a elaborare una scienza apologetica che fosse in via di principio accettabile per le tre religioni, e si dedicarono a questo compito basandosi sul metodo della dimostrazione razionale, senza appellarsi al concetto di rivelazione. I diversi tentativi di conseguire questo ambizioso obiettivo non furono privi di conseguenze per i rapporti tra la scienza e la Chiesa, anche se ciò non equivale a dire che si riuscì facilmente a raggiungere un completo accordo. Sarà utile in proposito prendere in considerazione due soluzioni molto diverse tra loro, entrambe elaborate da studiosi che si richiamavano esplicitamente ad Aristotele. La prima è quella proposta da un insigne teologo molto attratto dai testi greci ai suoi tempi recentemente pervenuti in Occidente, Roberto Grossatesta, scelto in questa sede non perché considerato un esempio tipico ‒ anche se egli fu probabilmente il più grande studioso del suo tempo ‒ ma per la sua determinazione a riconciliare la scienza con la teologia cristiana, oltre che con la tradizionale filosofia agostiniana e neoplatonica che sembrava accordarsi tanto alla biblica Genesi.
Le idee speculative di Grossatesta sulla metafisica della luce (la teoria secondo cui la luce è in un certo senso la forma prima di ogni realtà corporea) concordavano alla perfezione con i risultati dei suoi studi sull'ottica, una disciplina a cui diede un grande contributo. Tuttavia, la sua passione sempre più accesa per Aristotele, entrando in contrasto con la concezione in base alla quale ogni opera intellettuale richiede l'illuminazione divina, finì per mettere in crisi la sua teologia. Grossatesta fu uno dei primi ad affrontare seriamente quelle che erano considerate le contraddizioni tra la Bibbia e il nuovo Aristotele; alla fine, egli giunse all'elaborazione di una filosofia che proponeva un aristotelismo modificato. Nel suo sistema le matematiche occupavano una posizione di primo piano ‒ non solo nel campo della spiegazione dei fenomeni fisici, ma anche in quello delle sensazioni animali ‒ ed egli fu in grado di accettare, e di persuadere altri ad accettare, l'idea secondo cui bisognava concedere alle scienze una collocazione all'interno di un quadro del sapere abbastanza vasto da includere anche l'etica e la teologia. In breve, Grossatesta riuscì a ricondurre Aristotele alla Chiesa cristiana, così come mille anni prima altri avevano fatto con Platone.
I tentativi di riconciliare tra loro teologia e scienze empiriche non furono però sempre coronati dal successo e, strano a dirsi, nella seconda soluzione che prenderemo in esame, quella di Tommaso d'Aquino, attivo negli anni immediatamente successivi dello stesso secolo, il fallimento fu determinato proprio dal rispetto nei confronti di Aristotele, che in altre occasioni aveva giocato a favore della scienza. Per capire le modalità di questo fallimento, bisogna ricordare che vi era un'apparente contraddizione tra i principî astronomici enunciati da Aristotele e quelli formulati cinque secoli più tardi da Tolomeo, e che il profilo della cosmologia medievale fu tracciato a grandi linee sulla base di una versione spuria dello schema planetario di Aristotele.
Affrontando la questione delle opposte pretese della rivelazione e della dimostrazione, Tommaso d'Aquino tentò di conciliare i due mondi, affermando che Dio aveva rivelato non soltanto verità sovrannaturali, ma anche verità filosoficamente dimostrabili. Si trattava di un modo un po' semplicistico di accordare tra loro la teologia e le scienze della Natura, ma egli sapeva dove voleva arrivare, dal momento che aveva già scoperto un valido sostegno per la sua teologia nel corso della lettura della Metafisica di Aristotele. Sviluppando i principî rinvenuti in questo testo, Tommaso poteva dimostrare ‒ almeno per la propria soddisfazione ‒ alcune tesi cruciali come, per esempio, quelle dell'esistenza, dell'onnipotenza e dell'infinità di Dio. Non intendeva a nessun costo sacrificare questo tesoro, e quando venne a conoscenza del fatto che, secondo gli astronomi, nel campo della predizione degli eventi celesti (cioè del 'salvare i fenomeni'), i principî di Tolomeo erano superiori a quelli di Aristotele, fece ricorso a quella che oggi definiremmo la tattica del razionalismo. Replicò, infatti, sostenendo che la teoria fisica di Aristotele era stata derivata da principî metafisici necessari e certi e che, benché riuscissero a salvare i fenomeni, le ipotesi (suppositiones) di Tolomeo non erano necessariamente vere perché potevano esistere altre ipotesi, ancora sconosciute all'umanità, in grado di conseguire lo stesso obiettivo. Si trattava di un argomento classico che aveva dietro di sé un lunga storia; in questa circostanza particolare fu usato però in modo decisamente improprio, evitando di affrontare la questione dell'inferiorità delle predizioni eseguite sulla base dei principî 'assolutamente certi' di Aristotele (dei quali, a quel tempo, molti riconobbero l'inferiorità). Era un argomento filosofico e non teologico, ma i suoi scopi erano più vicini a quelli di una guerra psicologica; esso, infatti, era invocato non per salvare i fenomeni, ma con il serio intento di salvare 'il Filosofo', di cui l'Aquinate doveva difendere i principî se voleva difendere la sua teologia.
Dal punto di vista delle scienze empiriche, tuttavia, gli effetti di questo argomento erano potenzialmente nocivi; esso, infatti, tendeva a disincentivare la scoperta delle verità empiriche su cui si basa la scienza. Forse Aristotele stesso aveva involontariamente contribuito a favorire questa interpretazione. Il suo metodo basato sull'analisi rigorosa della conoscenza comune e del linguaggio comune ebbe un grande valore come tattica filosofica di cui non si possono negare i meriti e l'influenza, ma condusse l'Aquinate fuori strada, perché dissimulava il genuino desiderio di Aristotele di scoprire nuove conoscenze empiriche. Probabilmente non è sbagliato affermare che, sottolineando la tendenza di Aristotele a offrire formulazioni deduttive delle scienze perfette, Tommaso contribuì alla diffusione dell'idea secondo cui le scienze empiriche erano un'attività che non aveva nulla a che fare con l'esperienza diretta.
Non tutti adottarono questo atteggiamento, ma se domandassimo a cento storici della scienza d'indicare i venti risultati più significativi della scienza medievale, la grande maggioranza degli interrogati probabilmente risponderebbe menzionando opere di autori che esploravano mondi logicamente possibili, concetti e sistemi di pensiero considerati accettabili soprattutto in base al criterio della coerenza. Queste risposte avrebbero almeno il merito di rispecchiare la principale ambizione della scienza tardo-medievale, l'aspirazione alla matematizzazione. L'atteggiamento di coloro che s'interessano solamente ai mondi possibili è contrario ai principî di un sano empirismo, che, tuttavia, può sempre essere introdotto in una fase successiva. Ricorderemo un esempio classico, quello degli autori di testi di cinematica mertoniani e parigini che analizzarono alcune delle conseguenze formali del moto uniformemente accelerato, senza sottoporre a una verifica le ipotesi relative alla costanza dell'accelerazione della caduta libera dei corpi nel mondo reale. Potremmo, tuttavia, menzionare molti altri casi di questo genere di insuccessi ed è interessante osservare che la loro frequenza cresce in prossimità della tradizione aristotelica della filosofia della Natura. Per quanto possa sembrare strano, l'astronomia, che, seguendo le indicazioni di Aristotele, non prendeva affatto in considerazione il mondo fisico sublunare, per gran parte della sua storia fu più vicina per quanto riguarda il metodo a quelli che definiremmo i principî di una scienza empirica, come, del resto, anche se per diverse ragioni, la medicina e la filosofia della Natura. Il razionalismo ‒ spesso decisamente irrazionale ‒ si manifestò in forma degradata in discipline come l'alchimia speculativa e l'astrologia, anche se in entrambi i campi d'indagine operavano studiosi che concepivano in modo molto pragmatico la loro scienza.
I due esempi menzionati per illustrare le diverse risposte teologiche occidentali ad Aristotele ebbero indubbiamen-te degli equivalenti nella Chiesa orientale, che tuttavia, a quanto sembra, non ebbero ripercussioni analoghe. Se le differenze tra i Latini e i Greci non si fossero a poco a poco approfondite fino a condurre allo scisma tra le due Chiese, i contatti intellettuali tra le due aree sarebbero stati più fertili. Tra il 1054 e il 1439 si registrarono non meno di trenta tentativi di sanare questa frattura, che s'intensificarono con il peggioramento della situazione politica di Bisanzio; anche in questo periodo, tuttavia, non s'interruppe lo scambio delle idee in entrambe le direzioni. È interessante osservare, per esempio, che le opere dell'Aquinate furono tradotte in greco verso la metà del XIV secolo.
Per le ragioni già spiegate, la teologia si limitò a fornire un contesto alla scienza, ma non un'alternativa. Questa disciplina offrì indubbiamente ad alcuni una motivazione per indagare più a fondo nell'opera del Creatore, senza però proporre un metodo che potesse condurre agli stessi tipi di inferenza. Vi era un altro stile di pensiero, tuttavia, che era diviso dalle scienze da una linea di demarcazione più problematica; alcuni dei suoi seguaci ritenevano che esso presentasse dei punti di contatto da un lato con la religione e dall'altro con le scienze empiriche; si trattava della magia, le cui imprese richiamarono l'attenzione di tutta la società. Forse per prendere in esame quest'arte è meglio dividerla in una vasta gamma di pratiche, ai cui estremi troviamo da un lato la magia popolare e dall'altro lato la magia naturale, difficilmente distinguibile dalle arti che si proponevano di produrre effetti sorprendenti attraverso l'applicazione dei principî della filosofia della Natura. Per spiegare in modo esauriente le forme assunte dalla magia popolare in Europa è necessario ricordare che la Chiesa altomedievale si fondava sulle vestigia dei suoi predecessori pagani e che i primi esponenti cristiani importarono attivamente alcune delle vecchie pratiche magiche nelle loro concezioni religiose. Essi, del resto, potevano citare a sostegno di quest'azione strategica la stessa Bibbia, e sembra proprio che per molti ecclesiastici la fede e la devozione fossero più importanti della violazione della ragione. La magia che s'insegnava nelle università nel Basso Medioevo era, al contrario, basata nella misura del possibile sulla ragione, una ragione tuttavia non meno intricata degli argomenti che spesso doveva presentare. La caratteristica comune a tutti i sistemi della magia ‒ sia a livello popolare sia a livello delle università o delle corti ecclesiastiche ‒ era quella di suscitare con i risultati della sua pratica una forte risposta emotiva, ciò che variava, invece, era il tipo di 'forza occulta' attraverso cui si producevano i risultati.
Nella magia popolare questi ultimi erano accompagnati da una performance teatrale così contraria al buon senso che è lecito chiedersi se l'aspetto più miracoloso di tutta l'esibizione non s'identificasse con la sua origine. La magia accademica in generale non ricorreva invece a ragni dai nomi impronunziabili, a vecchie bisbetiche tenute sospese al di sopra del terreno per tre giorni, alla cera delle orecchie delle pecore, mescolata a sterco di pollame rosso e così via. Essa era tuttavia associata a un genere così serio di discussioni sui principî generali da indurre a supporre che molti ecclesiastici credessero nelle forze evocate dai maghi comuni. Erano forze occulte sovrannaturali (prodotte da Dio, dai demoni o da agenti appartenenti a mondi diversi dal nostro), naturali (forse i demoni erano naturali) o artificiali? Ruggero Bacone operò una distinzione tra la Natura e l'arte di manipolare la Natura, la quale arte presentava lo stesso carattere, in una forma però potenziata; egli riconobbe inoltre l'esistenza di agenti demonici e angelici.
Il livello di stupore raggiungibile con espedienti artificiali dipende dalle conoscenze degli spettatori, dato che lo stupore è inversamente proporzionale alla vastità delle conoscenze del pubblico; nel corso del Medioevo queste opinioni furono espresse da alcuni dei più perspicaci osservatori. Vi erano poi effetti apparentemente magici che furono in un primo tempo considerati sovrannaturali o miracolosi e di cui soltanto in un secondo momento si scoprirono le cause naturali. Infine, c'era un'area di confine tra i diversi regni, in cui gli effetti erano classificati in modo istintivo. Non è difficile assumere questo punto di vista e domandarsi se, per esempio, gli effetti dell'oppio debbano o no essere considerati naturali; anche se non sappiamo esattamente come si eserciti l'azione dell'oppio, noi oggi diremmo che è una sostanza naturale e che quindi può essere sottoposta alle indagini delle scienze naturali. In passato, le opinioni su una questione simile erano discordanti. Le nuove conoscenze possono effettivamente cambiare lo status delle credenze e di fatto lo cambiarono regolarmente nel corso del Medioevo, anche se, naturalmente, vaste aree della conoscenza rimasero inalterate.
Vi era un tipo di credenza che non poteva cambiare in questo modo, almeno per gli studiosi della Natura che accettavano le quattro cause di Aristotele; ci riferiamo agli effetti magici che si riteneva fossero causati dalle parole e dai simboli. È senza dubbio questa la ragione per la quale il tipo di magia più persistente fu quello che si basava sull'uso di questi enti incorporei e sugli armamentari che li accompagnavano (oggetti su cui erano incisi nomi magici, gemme con iscrizioni, tavole scritte e così via). Esso indusse gli studiosi ad adottare diverse strategie: Tommaso d'Aquino, per esempio, riteneva che questi effetti fossero reali e dimostrò l'esistenza di esseri immateriali, i demoni, elevando così la demonologia al rango di una scienza di secondo ordine (e questo genere di iniziative consente di valutare l'estensione del potere della magia demonica).
La magia tentò di violare i principî del grande pensiero scolastico anche attraverso l'attribuzione della funzione di talismani ai segni astrologici, operata in alcuni testi latini che risalivano almeno al X sec., nonché in un numero molto maggiore di opere arabe successivamente tradotte in latino. Il problema con questi testi, che presentavano dottrine apparentemente cogenti ‒ come, per esempio, quella dello Zodiaco cristianizzato, i cui segni in particolari circostanze esercitavano poteri magici ‒ consisteva nel fatto che spesso essi erano intessuti di principî aristotelici (relativi, per es., ai quattro o cinque elementi, ai quattro tipi di cause, al moto naturale o indotto e così via); gli studiosi meno avveduti, quindi, erano indotti a trattarli con un certo rispetto.
Siamo in presenza di un altro esempio di una caratteristica perenne della scienza; vale a dire che ogni opera d'ingegno genera una discendenza estremamente varia che in alcuni casi si limita a imitare, in altri non ha afferrato l'essenziale e in altri ancora, infine, sfrutta la fama dell'originale per i suoi funesti propositi. In questo senso la scienza non è diversa dalle altre attività umane e, ancora in questo senso, i punti di contatto tra la scienza medievale e la nostra non sono pochi.
Grant 1974: A source book in medieval science, edited by Edward Grant, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1974.
Haskins 1927: Haskins, Charles H., Studies in the history of mediaeval science, 2. ed., Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1927 (1. ed.: 1924).
Mantello 1996: Medieval Latin. An introduction and bibliographical guide, edited by Frank A.C. Mantello and A. George Rigg, Washington (D.C.), Catholic University of America Press, 1996.
Renan 1852: Renan, Ernest, Averroès et l'averroïsme. Essai historique, Paris, A. Durand, 1852 (rist.: Hildesheim, Olms, 1986).