Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La satira non è un genere letterario ben definito, poiché comprende una varietà di composizioni “serio-comiche” trasgressive rispetto ai canoni: l’attacco aggressivo e la deformazione fantastica del mondo caratterizzano l’arte satirica secentesca. Lo stile si fonda sulla fede nel potere magico della parola, nella stregoneria retorica.
Il carnevalesco della satira
La ragione della diffusione della satira nel Seicento è politico-religiosa: l’assolutismo e la Controriforma tollerano l’infrazione programmata di leggi e tabù, in modo da provocare una sorta di purificazione sociale controllata all’interno della vita normale. Si ripropongono le situazioni originarie del carnevale medievale: le gerarchie vengono infrante e sostituite da una realtà fantastica, dissacrante, oscena, scatologica; provvisoriamente gli uomini vengono livellati sul piano più basso, quello dell’esperienza degradata di se stessi e del mondo.
Francisco Quevedo
Il mondo dal di dentro
I sogni
Eravamo giunti intanto alla strada principale; e lì vidi effettivamente quella gran folla di cui il vecchio mi aveva parlato. Ci sistemammo in un punto adatto per esaminare chiunque passava di là, e vedemmo venire avanti un funerale, a questo modo: avanti a tutti, insaccati in larghi sai di molti colori, marciavano alcuni bricconi, che formavano come un mosaico di banditori; questa prima carovana passò agitando le sue campanelle come tanti incensieri. Venivan poi i ragazzini della dottrina, paggetti della morte e lacchè del feretro, strillando il De profundis e urlando le litanie. Venivano poi gli Ordini religiosi; e subito dopo i preti, che galoppando a gran carriera giù per i responsori, si facevano in quattro per sbrigarsi, abbreviando e tagliando, in modo da non far consumare troppo i ceri e da aver tempo per andare a portar via un altro morto. Li seguivano dodici gaglioffi, ipocriti della povertà, con dodici torce, schierati intorno alla bara e nascondendo quasi i confratelli della Bussola che, dondolandosi, mostravano quanto fosse pesa la defunta.
Veniva dietro al feretro una lunga processione di amici che si associavano alla tristezza ed al lutto del vedovo, il quale, affogato in un mantello di baietta nera che s’andava dipanando nello strascico, e colla faccia sperduta sotto l’ala di un gran feltro sì che gli occhi gli si potevano scorgere a malapena, il passo impacciato dal peso di quel quintale di coda che si tirava dietro, s’avanzava tardo e lento.Impietosito da questo spettacolo:
“Fortunata donna!” dissi. “Devi esser felice, se qualcuno può esserlo dopo morto, poiché hai trovato un marito che con la sua fedeltà ed il suo amore ti è accanto oltre la vita ed oltre la tomba! E fortunato vedovo, il quale ha trovato simili amici che non solo condividono il suo dolore, ma pare addirittura che soffrano più di lui! Non vedi come procedono tristi ed assorti?”
Ma il vecchio, scuotendo il capo e sorridendo, mi disse:
“Povero ingenuo che sei! Tutto ciò è l’esterno; e sembra tutto vero. Ma ora ti mostrerò il di dentro, e vedrai con quanta evidenza l’essere smentisce l’apparenza. Vedi quei lumi, quei campanelli, quei banditori e tutto quel corteo? Chi non penserebbe che gli uni non illuminino nulla, che gli altri non accompagnino nulla, e che a nulla serva tutto quel corteo pomposo? Ebbene, sappi che quel che sta dentro il feretro non è proprio nulla, che nulla era già in vita, che in morte ha smesso di essere anche quel nulla che era, e che tutto questo non gli serve a nulla; ma il fatto sta che anche i morti hanno la loro superbia e che defunti e defunte posseggono una loro vanità. Lì dentro non c’è altro che un po’ di terra, sterile ormai e più spregevole di quella che i tuoi piedi calpestano; terra che di per sé non merita onore alcuno e non è neppur degna d’essere coltivata con la zappa e l’aratro. Vedi quei vecchi che reggon le torce? Ebbene, la maggior parte di loro non perché smoccolate faccian più luce le smoccola, ma soltanto perché, smoccolate spesso, si sciolgan più presto, ed essi possan rubare più cera per vendersela poi. Costoro son quelli che nei funerali se la ridono del defunto o della defunta, in quanto, prima ancora che il morto o la morta ne abbiano qualche beneficio, ognuno di loro ha dato un morso all’eredità, strappandone un reale o due. E con tutto ciò, può sempre essere tenuto in conto di elemosina. Vedi la tristezza degli amici? Tutto perché son costretti ad andare al funerale; ma gl’invitati mandano al diavolo di tutto cuore chi ha fatto l’invito: preferirebbero andarsene a spasso o badare ai loro affari. Quello là che parla gesticolando con quell’altro gli va dicendo che invitare uno ad un funerale o ad una prima messa, dove per giunta bisogna anche fare l’offerta, non è tiro da giocare ad un amico; e che il funerale non dovrebbe avere altri invitati che la terra, perché è lei l’unica che vi abbia qualche cosa da mangiare. Il vedovo non è triste per la disgrazia e per la vedovanza, ma si rode nel pensare che, mentre avrebbe potuto seppellire sua moglie in un letamaio, senza spender nulla e senza fare inviti, gli è toccato sobbarcarsi a tutta quella baraonda e a tutto quello sciupio di confraternite e di cera. E mormora tra sé che non ha proprio motivo d’esser grato alla defunta, perché, dal momento che morire doveva, avrebbe potuto ben morire d’un accidente, senza fargli buttar via un monte di denaro in medici, cerusici e farmacisti, e senza lasciarlo indebitato a furia di sciroppi e di pozioni. Con questa, ne ha seppellite due; e ci prova tanto gusto nel restar vedovo, che già sta progettando il terzo matrimonio con una certa amichetta che si teneva; e spera, confidando nel pessimo carattere di lei e nell’indemoniata vita che ella conduce, di riporre ben piegato il mantello da lutto solo per poco tempo”.
Rimasi di sasso nel vedere che le cose stavan proprio così, e gli dissi:
“Quanto differiscono le cose del mondo, quali le vediamo, da come sono in realtà! Da oggi in poi non voglio più credere ai miei occhi; e darò credito a qualunque cosa, prima che a quel che vedrò”.
Il corteo funebre ci sfilò davanti come se non avesse dovuto ben presto rinnovarsi per noi, e quasi che la defunta non ci andasse precedendo per mostrarci la strada e non ci dicesse silenziosamente a tutti quanti: “Io vi precedo, e laggiù aspetterò voi che restate qui, facendo compagnia a tutti quegli altri dei quali guardai passare i funerali con la stessa indifferenza con cui voi guardate il mio”.
in G. Macchia, I moralisti classici. Da Macchiavelli a La Bruyère, Milano, Adelphi, 1988
Gli eroi satirici appaiono inferiori per forza o per intelligenza al lettore, il quale assiste con soddisfazione a eventi sempre virtualmente peggiori rispetto a quelli che subisce nella vita reale: in tal modo la letteratura decanta la violenza della guerra dei Trent’anni attraverso l’Avventuroso Simplicissimus di Hans Jakob Grimmelshausen; ironizza sulle ingiustizie sociali che discriminano la nobiltà, il clero e il popolo francese con Nicolas Boileau, Mathurin Régnier, Paul Scarron e Antoine Furetière; ridicolizza l’adulazione esterofila nei Paesi privi d’identità nazionale, quali Italia e Germania.
Così l’epigrammista tedesco Friedrich von Logau satireggia l’ignoranza del suo popolo, reso straniero a se stesso dalla moda francofila: “Abiti à la mode; pensieri à la mode; come ci si cambia di fuori, ci si cambia anche internamente”.
Satira e politica
Censura morale e fantasia utopistica affollano le riflessioni politiche del Seicento, più urbane e sprovincializzate rispetto ai secoli precedenti. Sempre ambientata in un contesto cittadino, la satira eredita da Aristofane il modello della libertà di parola e di pensiero – sconosciuto alla cultura romana di Orazio e Giovenale – la quale ha un effetto molto incisivo nella tradizione secentesca, soprattutto francese; una situazione analoga a quella ateniese si verifica solo in Inghilterra intorno al 1665, al tempo della Restaurazione, quando gli scrittori partecipano attivamente all’esperienza politica, con la fiducia di potere influire sulla vita pubblica attraverso la scrittura satirica.
L’esempio più illustre di satira politica inglese è l’epitaffio burlesco che John Wilmot, conte di Rochester avrebbe spudoratamente affisso alla porta della camera da letto di re Carlo II: “Qui giace il Re, Signor nostro Sovrano / Le cui parole non crede nessuno, / Mai non disse sciocchezza, / Mai praticò saggezza” (“Here lies our Sovereign Lord the King./ Whose word no man relies on./ Who never said a foolish thing / Nor ever did a wise one”).
Satira e femminilità
Nel Seicento la satira antifemminista colpisce la moda, i cosmetici, il lusso esteriore in quanto mezzi di seduzione che denunciano la scarsa moralità della donna: secondo la tradizione cristiana, vocazione carnale, fertilità, astuzia, vanità sono le caratteristiche predominanti nel “sesso debole”; dal punto di vista medico, la sifilide rappresenta lo smascheramento della realtà femminile che induce ribrezzo e orrore.
Francesco Fulvio Frugoni
Biografia di Aurelia Spinola
L’eroina intrepida
La femmina, giornaliera dello specchio, tuttoché abbia sempre negli occhi la limpidezza, non perciò l’ha nel capo impressa, come riverberata sul viso. Dupplicandosi nel vagheggiarsi, mostra che si divide collo sguardo, ed è inclinata alla coppia, quando multiplica l’originale. S’ella è bella, perché tanto specchiarsi? perché deliziando nel riflesso di se stessa, erudisce il diletto di se medesima, per renderlo specchio dell’altrui curiosità. S’ella è brutta, perché tormentarsi tanto con una veglia sì lunga, che indormisce la pazienza delle ministre assistenti, le quali non ponno convertir un’Ecuba in Elena, perché nella materia d’un vaso così fragile non iscintillano le disposizioni prossime ad una forma di elettro diafano? Laide, la famosa, ma più difamata greca, divenuta vecchia sdentata, per aver troppo fatto scialacquo, rompe lo specchio per non vedersi qual è, per non poter vedersi qual fu; ma non così fanno molte, che quanto più son deformi, tanto più si specchiano per accrescere col belletto la lor bruttezza e coll’abbiglio la lor impudenza. Fantasime di giorno, non che di notte, spaventano al rincontro; col solimato sulla corteccia del volto fan cader attossicati gli sguardi, quando si stimano d’abbattere ossequiose le voglie. Povere sparutelle, vi compatisco, perché le bertuccie s’ingannano quando si mirano in qualche fonte su cui, quanto più si tergono per pulirsi, tanto più si contrafanno per deformarsi. Così perdono col tempo la lisciatura ed acquistano coll’ignominia il deriso.
Aurelia, Aurelia si specchiò alla sfuggita, come bella ma saggia, per non consumar l’ore inutili sopra un vetro che non la potea coll’abuso render saggia né bella. Si specchiò per costume, non per difetto: per corregger lo sguardo, non per rilasciarlo; per colorirsi colla modestia, non col cinabro; per inalbarsi colla purità, non colla cerussa.
È moralmente impossibile che in un corpo venusto alligni un’anima sordida, sol se non vogliam eccettuarne quelli che son Adonotti al prospetto e cinghiali all’interiore; quelle che son Angeliche all’apparenza e Gabrine al di dentro. Anche ne’ portenti dell’Africa sotto spoglia gemmata s’appiatta scitale, de’ draghi tossicosi ’l più crudo perché il più bello. Sotto la morbidezza d’una Poppea si nascondeva una selce ruvida, non atta ad altro che a spruzzare scintille per accender un tizzo così nero come Nerone.
Quindi ha la sorgente il quesito se sieno più criminose le belle che non sono le brutte. Almeno se l’inclinazioni di quelle vengan ad essere svisate, come le fattezze di queste. O pure se le intenzioni delle seconde possano essere come le fattezze delle primiere. Questo è un Gordio, più che da scioglimento, da taglio. Socrate decise, quanto all’ultima parte, la quistione: confessò, il savio de’ filosofi, ch’all’aspetto Sileno anche all’interiore sarebbe stato satiro, se non l’avesse reso l’educazione un Apollo; poiché rapito dall’istinto a seguitar Bacco, sì diè, sforzando il passo dell’anima, a tracciar la Filosofia: quella pudica Dafni che si converte, a chi la raggiunge innamorato, in alloro, ma senza frutto mondano, che sol verdeggia.
La prima parte dell’inchiesta ha più disagevole il dilucidamento. L’apparenza è la faccia dell’occulto, e benché la figura non sia passione della sostanza ma della quantità, nulladimeno è un accidente in cui traspare più che la quantità, la qualità d’un individuo. Secondo questa regola bisognerebbe che tutte le belle fossero buone; ma non v’ha relazione di predicamento tra’l Fisico e ’l Morale, perché son termini di supposizioni diverse. Leggiamo di tante belle di corpo che furono brutte d’animo; e non saprei se potessi rinvenirne altrettante, che di corpo brutte, d’animo fossero belle. Non è mal fondato il dubbio, perché molte più furono quelle che, belle di corpo e d’animo, conservarono l’onestà, che quelle non furono che, belle di corpo e non d’animo, la violarono; sicome più furono quelle che, brutte di corpo e d’animo, la violarono, che quelle non furono che, brutte non d’animo bensì di corpo, la conservarono.
Il Quevedo, che stillò dalla penna più aceto acuto che inchiostro purgato, ebbe a scrivere che più si dannavano le brutte che le belle, condannando quelle come farnetiche ed assolvendo queste come pentite. Ma ciò è uno scherzo della satira, non una decisione dell’equità; benché il più delle volte la satira tagli giusto e bilanci colla libra della giustizia: ma in materia così pregiudiciale all’onorabile sesso femmineo bisogna pesar a scrupoli, e non a oncie.
È vero che la bellezza è una trappola in cui suol inciampare chiunque la tende, più che non fa chiunque l’incontri. Ella, come larva, ha per amiche le tenebre più che la luce: ha, come fior in erba, più vicino il taglio della messe, che lo svanimento, per non rimaner colta, sopra lo stelo. Ma in effetto, se la bellezza del corpo è temprata sotto la costellazione dell’anima, che abbia il movimento dalla pudicizia, sarà più tosto scudo d’Astolfo che lancia di Bradamante. Qual è l’Intelligenza, tal è la Stella: ah! vi son delle stelle che cadono facilmente perché prive d’intelligenza...
F.F. Frugoni, “L’eroina intrepida”, in Romanzieri del Seicento, a cura di M. Capucci, Torino, UTET, 1974
La cultura della Controriforma contribuisce notevolmente all’aggressione del vizio stigmatizzato come matta bestialità, sfrenata lascivia e ritratto attraverso attributi fisiognomici dal significato evidente: gli organi sessuali, il naso, le orecchie, la barba rappresentano emblematicamente l’inclinazione misantropica e malevola della quale trattano ironicamente Francisco Gomez de Quevedo, Alessandro Tassoni, Francesco Fulvio Frugoni, anche avvalendosi della caratterologia di Teofrasto. La centralità del corpo nella satira morale ha larga diffusione sino alle soglie del razionalismo settecentesco, quando ancora Jonathan Swift e Laurence Sterne connettono oscenità e riso.
Morfologia del riso
Elemento della satira, il riso viene studiato nel Seicento come sintomo dell’aggressività umana da Thomas Hobbes; come effetto retorico da Emanuele Tesauro, il quale approfondisce l’aspetto linguistico della facezia all’interno del pensiero metaforico: fare dello spirito significa utilizzare schemi di riferimento abitualmente incompatibili e associazioni verbali straordinarie.
Esiste pure un’analisi pseudo-scientifica del riso connessa alla “anatomia” degli umori e alla medicina con intenzioni morali, esemplificata dall’inglese Robert Burton.
Nella veste della metafora o della malinconia, la satira presenta comunque il suo aspetto duplice, irrisore e censorio: da una parte l’anima che denuncia l’incongruenza, il ridicolo, il grottesco, il doppio, e relativizza la presunta coerenza di qualsiasi realtà; d’altro canto la volontà di sanare la corruzione morale, alludendo alla saggezza indirettamente, attraverso l’esibizione degli umori corrotti.
Forme e tecniche satiriche
La satira secentesca colpisce spesso la mimica umana attraverso la ripetizione automatica del gesto, attuata ad esempio nel teatro dell’arte. Nelle arti figurative nasce la caricatura che stigmatizza un carattere in espressioni ridicole; equivalenti letterari sono la parodia, mimesi della scrittura altrui con intento riduttivo, e il romanzo picaresco e donchisciottesco. In ogni caso si presuppone una duplice capacità interpretativa: occorre riconoscere il senso nascosto oltre la maschera inquietante della rappresentazione satirica.
Dal punto di vista dello scrittore satirico, bisogna smascherare i segreti delle passioni umane, analizzate dalla filosofia cartesiana e trattate da La Bruyère e La Rochefoucauld ora con spirito bonario e gusto bozzettistico, ora in modo più amaro, duro e pessimista. La versione metastorica della descrizione fisiognomica è rappresentata dalle Favole di La Fontaine, nelle quali l’animale riproduce mimeticamente il vizio umano, prestandosi a una satira senza implicazioni politiche o ideologiche.
Apparentemente neutrale nei confronti della realtà storica risulta pure la querelle des anciens et des modernes, che divide gli intellettuali francesi tra sostenitori e avversari della modernità: di fatto, la violenza satirica delle pagine dei dotti europei (soprattutto in Italia il conflitto è sentito altrettanto intensamente che in Francia) esprime una condizione di disagio che coinvolge l’intera esistenza, non solo la letteratura.
C’è chi vorrebbe decelerare il movimento del mondo, in nome di valori immutabili e gerarchie socio-culturali arretrate e chi invece si affaccenda per promuovere nuove forme di potere, appellandosi a libertà, novità, perfettibilità. L’opposizione tra Boileau e Perrault riproduce le modalità sperimentate all’inizio del secolo da aristotelici e galileiani, protagonisti del dibattito scientifico italiano.
Jean de La Bruyère
Odiare gli uomini ma apprezzare i singoli
I caratteri
28. Non c’è nulla che possa tanto convincere uno spirito ragionevole a sopportare tranquillamente i torti che gli fanno i parenti e gli amici quanto la riflessione che egli fa sui vizi dell’umanità, e sul fatto che sia tanto penoso per gli uomini esser costanti, generosi, fedeli, tenere all’amicizia più che all’interesse. Siccome conosce le loro possibilità, non pretende né che penetrino i corpi, né che volino nell’aria, né che siano equi. Può odiare in generale gli uomini, perché sono così poco virtuosi; ma scusa i singoli, li ama persino per dei motivi più evidenti, e cerca di meritare il meno possibile una simile indulgenza.
La Bruyère, I caratteri, introduz. di B. Craveri, trad. it. a cura di F. Giani Cecchini, Milano, TEA, 1988
La sensazione di essere “nani sulle spalle di giganti” o, per dirla con La Bruyère, di giungere troppo tardi in quanto “tutto è stato detto” fornisce una seducente motivazione storica all’aggressività risentita e talora nostalgica con cui la satira si impone nel Seicento: è il tempo della decostruzione critica dei valori, la quale comporta alla fine morte, rovina, stanchezza, silenzio. Il dramma barocco sta tutto nella consapevolezza amara della perdita di centralità e onnipotenza dell’uomo: la reazione della scrittura satirica vale antropologicamente come difesa contro l’invasione del nuovo.