La Romània veneziana
Dopo la conquista di Costantinopoli, i vincitori si spartirono l'Impero bizantino seguendo i criteri che avevano stabilito ancor prima di espugnare la città. Nel marzo 1204, durante l'assedio della capitale d'Oriente, i capi delle due parti che concorrevano all'impresa, i Veneziani e i crociati, si erano infatti accordati in proposito redigendo un documento che è giunto fino a noi (1). Tra le altre cose fu deciso di dare al nuovo Impero un ordinamento feudale e di mettere a capo di questo un sovrano latino con diritto a un quarto dell'intero territorio. La parte restante sarebbe stata divisa equamente fra crociati e Veneziani in ragione di un quarto e mezzo per parte. Il patto del marzo 1204 accordò ai Veneziani una serie di vantaggi sostanziali. Venne confermata la posizione di rilievo che nel corso dei secoli Venezia aveva acquisito nell'Impero, ma che spesso era stata messa in forse dai cambiamenti di indirizzo della politica bizantina. Un paragrafo del documento prevede infatti il pieno ristabilimento degli antichi privilegi:
Voi inoltre [si scrive rivolgendosi al doge> e le genti di Venezia, liberamente e compiutamente e senza alcuna contestazione, nell'intero impero dovete avere tutti i privilegi e i possedimenti che un tempo siete stati soliti avere, sia nelle cose spirituali che in quelle temporali, e [il godimento di> tutti i diritti o le consuetudini, sia che si trovino scritti sia che non lo siano (2).
Si stabilì inoltre di attribuire le chiese bizantine al clero occidentale, per cui i Veneziani avrebbero ottenuto quelle dei territori di loro pertinenza. In più, era prevista la confisca del patrimonio della Chiesa orientale, da ripartire fra i vincitori con il meccanismo dei quarti, a eccezione di quanto necessario per il sostentamento delle chiese e del clero latino. Un altro punto dell'accordo prevedeva il divieto di ammettere nell'Impero cittadini di stati in guerra con Venezia per la durata del conflitto, cosa che vincolava fortemente la politica estera dell'erigendo Impero agli interessi veneziani. Il doge Enrico Dandolo fu infine esentato dal giuramento di fedeltà e dai servizi all'imperatore latino per i feudi o le onorificenze assegnate alla sua parte. L'obbligo di vassallaggio sarebbe stato posto soltanto per la persona o le persone dal doge preposte a tali feudi ed onorificenze, intendendosi con queste ultime le cariche che secondo l'uso feudale venivano remunerate con concessioni in terre (3).
Costantinopoli cadde il 12 aprile 1204 e, meno di un mese dopo, fu eletto imperatore latino il conte Baldovino di Fiandra. Poco più tardi si mise al lavoro una commissione mista di dodici Veneziani e altrettanti crociati per ripartire il territorio dell'Impero, così come era previsto da un'altra clausola del patto di marzo:
Si deve inoltre tener presente che dalla nostra e dalla vostra parte devono essere eletti dodici uomini o più per parte che, vincolati dal giuramento, devono distribuire i feudi e le onorificenze fra gli uomini e assegnare i servizi, che essi stessi devono fare all'imperatore e all'impero, secondo ciò che loro sembrerà bene e apparirà conveniente (4).
La commissione provvide alla spartizione dei feudi e terminò i lavori intorno alla metà di settembre dello stesso anno. Poco si conosce sulla composizione e l'attività di questa, ma possediamo il catalogo geografico delle rispettive assegnazioni territoriali, un documento noto come Partitio terrarum Imperii Romanie, che ne rappresenta la fase finale del lavoro (5). Non si tratta però di un documento completo, perché restano esclusi alcuni territori la cui assegnazione fu fatta al di fuori del lavoro della commissione. Per quanto riguarda Venezia, l'esclusione riguarda la parte di Costantinopoli e l'isola di Creta. La capitale infatti era stata già divisa fra il doge e i baroni, mentre Creta era stata acquistata da Bonifacio di Monferrato, che la reclamava come propria in quanto donatagli dall'imperatore Alessio IV Angelo. La partitio divide i territori della Romània - il nome con cui gli Occidentali chiamavano l'Impero di Bisanzio - in una pars prima corrispondente alla Tracia e una pars secunda relativa alle zone restanti, nelle quali furono concesse terre ai vincitori in base al meccanismo dei quarti. Oltre che nella capitale, i Veneziani ottennero perciò attribuzioni in Tracia, nella Grecia continentale e insulare. A Costantinopoli ebbero i tre ottavi della città, corrispondenti probabilmente a un ampliamento dell'antico quartiere lungo il Corno d'Oro, fino al palazzo delle Blacherne che fu assegnato all'imperatore. Questo quartiere, che conteneva un certo numero di chiese e monasteri, in seguito venne cinto con un muro e la difesa ne era verosimilmente assicurata da un castrum (6). In Tracia vennero assegnati ai Veneziani i territori costieri da Eraclea a Sigopotamo, nella penisola di Gallipoli e, all'interno, una sottile linea di possedimenti che dal mar di Marmara si prolungava fino ad Adrianopoli. In Grecia ebbero i territori a occidente della catena del Pindo: Albania, Acarnania ed Etolia e le isole ionie di Zacinto, Cefalonia, Leucade e Corfù. Ottennero inoltre la metà occidentale del Peloponneso, le due estremità dell'Eubea e le isole di Andro, Egina e Salamina (7).
La conquista di Costantinopoli si rivelò un buon affare per i Veneziani. Il bottino fu enorme ed essi si assicurarono una quantità considerevole di preziosi, opere d'arte e reliquie, considerate dalla pietà del tempo non meno importanti dell'oro. A ciò si aggiunsero i vantaggi derivanti dall'accordo con i crociati con in più il compenso previsto per la parte dalla quale non fosse stato scelto l'imperatore, cioè il diritto di nomina del patriarca latino di Costantinopoli e il possesso della chiesa di S. Sofia. Così era stato stabilito infatti nel marzo 1204 (8) e, subito dopo l'elezione imperiale, fu insediato in S. Sofia un capitolo di canonici, che elesse patriarca il veneziano Tommaso Morosini, monaco a Porto in prossimità di Ravenna. I risultati conseguiti con la presa di Costantinopoli vennero poi consolidati nel corso dei mesi che seguirono. L'abilità politica del doge Dandolo favorì la nomina a imperatore del conte Baldovino di Fiandra, più gradito alla sua parte di quanto non fosse il rivale Bonifacio di Monferrato. Il doge aveva già da tempo una posizione di preminenza fra i crociati e la sfruttò anche in seguito inserendosi come mediatore nella contesa che, in estate, si accese fra l'imperatore e il marchese del Monferrato per il possesso di Tessalonica. Il doge si schierò di fatto dalla parte di Bonifacio di Monferrato riuscendo a realizzare con lui un accordo vantaggioso che, tra l'altro, fruttò ai Veneziani l'ambita cessione dell'isola di Creta. La spartizione dei feudi, infine, coronò in modo coerente la linea politica seguita da Enrico Dandolo. Alla posizione di privilegio assunta nel nuovo Impero, si univa ora un dominio territoriale che, in proiezione, significava in primo luogo il controllo delle rotte commerciali da Venezia a Costantinopoli.
La spartizione dell'estate 1204 aveva tuttavia un valore in gran parte teorico, dato che era stata effettuata per lo più sulla carta. Quando infatti venne completata, l'Impero restava ancora da conquistare, a eccezione della capitale e dei territori di Macedonia e di Tracia, che l'imperatore aveva sottomesso nel corso dell'estate con una breve campagna. I crociati tuttavia passarono subito alle vie di fatto e verso la fine del 1204 iniziarono la conquista della provincia bizantina attaccando l'Asia Minore e la Grecia. La relativa facilità con cui era stata presa Costantinopoli e la campagna estiva di Baldovino, risoltasi in una passeggiata militare, dovevano far propendere per l'ottimismo in vista di una rapida acquisizione di tutto il restante Impero di Bisanzio. Si trattava di fare i conti con gli aristocratici bizantini, che in Asia Minore avevano dato vita a principati indipendenti, e che potevano essere sottomessi con le armi o ricorrendo ad accordi, tali da garantire la conservazione del dominio terriero in cambio dell'accettazione della supremazia latina. Quest'ultima prassi fu spesso attuata dai Latini, sia pure in modo discontinuo, e si rivelò in molti casi decisiva.
La conquista si svolse inizialmente sotto i migliori auspici. Le truppe di Enrico di Fiandra, fratello dell'imperatore, e del conte Luigi di Blois invasero l'Asia Minore ed ebbero facilmente ragione della resistenza dei magnati bizantini che non intendevano assoggettarsi. Bonifacio di Monferrato, al quale era stato conferito il Regno di Tessalonica, che comprendeva territori di Macedonia, Tracia e Grecia, iniziò le operazioni militari dalla sua capitale incontrando una resistenza efficace soltanto ad opera del signore bizantino di Corinto. Contemporaneamente Geoffroy de Villehardouin, nipote dello storico della crociata, sbarcò in Messenia e, con l'aiuto di un magnate greco, diede l'avvio alla conquista del Peloponneso. All'inizio del 1205 gran parte dell'opera pareva conclusa e la definitiva sottomissione della provincia bizantina sembrava soltanto questione di tempo. Ma le sorti dei Latini mutarono bruscamente a partire da febbraio allorché i Bizantini di Tracia si ribellarono alleandosi con lo zar bulgaro Kalojan. L'imperatore richiamò i contingenti dall'Asia Minore e, da Costantinopoli, si mosse contro i nemici, ma il 14 aprile venne sanguinosamente sconfitto in prossimità di Adrianopoli dalle forze bulgaro-cumane guidate da Kalojan. Nella battaglia di Adrianopoli perì il fiore della cavalleria occidentale e scomparve lo stesso imperatore che fu fatto prigioniero e sparì senza più dare notizia di sé. I superstiti raggiunsero faticosamente Costantinopoli e, in preda al panico, molti abbandonarono l'Oriente per ritornare in patria. L'Impero latino, a un anno dalla costituzione, precipitò così in una crisi che ne metteva in forse la stessa sopravvivenza. Senza più imperatore, aveva inoltre subìto un drastico ridimensionamento territoriale in Tracia e Asia Minore. Qui le forze lealiste, che fino a poco tempo prima rischiavano la distruzione, si riorganizzarono nell'Impero di Nicea sotto Teodoro Lascaris, un genero dell'imperatore Alessio III Angelo, che era fuggito da Costantinopoli raccogliendo intorno a sé un gran numero di profughi bizantini. Nello stesso tempo si andava formando il despotato di Epiro ad opera di un altro aristocratico greco, Michele Ducas Angelo Comneno, cugino degli imperatori Isacco II e Alessio III Angelo, e anche questo nuovo stato avrebbe impedito il consolidamento dell'Impero latino.
I Veneziani non parteciparono alle prime operazioni militari di conquista, ma si limitarono a prendere possesso dei loro territori in Tracia, probabilmente subito dopo l'assegnazione dei feudi che ebbe luogo il primo ottobre 1204 (9). La rivolta greca e la guerra bulgara, però, li coinvolsero direttamente. La rivolta greca iniziò a Didimotichon, feudo del conte Ugo di Saint-Pol: il presidio franco, colto di sorpresa, venne massacrato e soltanto in pochi riuscirono ad allontanarsi raggiungendo Adrianopoli dove si trovavano forze veneziane. Anche questa città tuttavia si associò alla ribellione e venne evacuata dai Latini, che ripiegarono verso Costantinopoli raggiungendo Tzouroulon, una località del quarto imperiale con un presidio agli ordini di Guillaume de Blanvel. Questi fornì aiuto ai fuggiaschi ed essi, perciò, tornarono sui propri passi occupando Arcadiopoli, città di pertinenza dei Veneziani ma che al momento fu trovata vuota. La rivolta nel frattempo si estendeva a macchia d'olio e le brutte notizie cominciarono ad arrivare a Costantinopoli all'imperatore e al doge. I Bizantini si ribellavano ovunque uccidendo tutti i Latini che trovavano. I rivoltosi attaccarono anche Arcadiopoli ma furono respinti dalle forze veneziane e crociate che, uscendo dalle porte cittadine, li misero in rotta inseguendoli per qualche tempo. Ma non di meno i difensori decisero di abbandonare la città, non osando più mantenervisi, e il giorno successivo ripiegarono nuovamente su Tzouroulon, attestandosi qui malgrado il timore di essere sopraffatti. Molti però si lasciarono vincere dalla paura e proseguirono per Costantinopoli (10).
Nel frattempo, a Costantinopoli, l'imperatore tenne consiglio con il doge e Luigi di Blois e giunse alla conclusione di richiamare tutte le forze dall'Asia Minore, che a seguito di ciò fu pressoché interamente evacuata. Baldovino spedì inoltre rinforzi a Tzouroulon al comando di Geoffroy de Villehardouin, maresciallo di Romània e di Champagne nonché storico della crociata, e di Manassier de l'Isle feudatario di Champagne. I due crociati uscirono da Costantinopoli e raggiunsero la piazza fermandovisi per quattro giorni durante i quali affluirono altri rinforzi inviati da Baldovino. Subito dopo il Villehardouin e Manassier de l'Isle proseguirono verso nord, passando per Arcadiopoli e Bulgarophygon, fino a Nikitza, in prossimità di Adrianopoli, dove decisero di attendere l'imperatore. Quando arrivarono i primi contingenti dall'Asia Minore, Baldovino uscì da Costantinopoli, il 25 marzo, muovendo alla volta di Adrianopoli nella quale si erano concentrate le forze ribelli. Il 29 raggiunse Villehardouin a Nikitza e concordò con lui di assediare la città. L'indomani mattina i Latini iniziarono le operazioni militari, ma ebbero la sgradita sorpresa di vedere sulle mura e sulle torri della città i gonfaloni dello zar bulgaro che aveva inviato rinforzi ai Greci per concorrere alla difesa. Lo stesso giorno arrivò da Costantinopoli il doge Dandolo, conducendo tutte le sue forze, equivalenti circa a quelle di Baldovino, e si attestò dinanzi a una porta della cinta. L'assedio si trascinò senza successo per alcuni giorni, finché il 13 aprile comparve inaspettato lo zar Kalojan conducendo il grosso delle sue truppe rafforzate da quattordicimila ausiliari cumani, una popolazione nomade proveniente dalle steppe russe. Si ebbe una prima scaramuccia con i Cumani, che erano abili arcieri a cavallo ma la cui destrezza e mobilità venne decisamente sottovalutata dai Latini: "Quando gli uomini dell'armata [scrive infatti il cronista Robert de Clari> videro quei Cumani vestiti di pelli, non li temettero e non si preoccuparono come se non fossero altro che una schiera di ragazzotti" (11).
Si decise pertanto di passare subito all'azione e venne fissato il piano di battaglia: l'imperatore con i suoi avrebbero attaccato, Geoffroy de Villehardouin con Manassier de l'Isle avrebbero bloccato la città e il doge sarebbe rimasto a guardia del campo. Il 14 aprile i crociati, seguendo Luigi di Blois, si lanciarono all'inseguimento dei Cumani ma la pesante cavalleria occidentale si rivelò impotente di fronte alla mobilità degli avversari, che li decimarono (12).
Il disastro non assunse tuttavia proporzioni maggiori grazie all'energia del Villehardouin e del doge, che a marce forzate riuscirono a portare in salvo i superstiti. Il Villehardouin arrestò la rotta dei crociati fronteggiando i nemici fino a sera, quando si ritirarono negli accampamenti. Chiamò quindi presso di sé il doge, "un uomo vecchio che non vedeva nulla, ma assai accorto e prode ed energico" (13), e con lui mise a punto un piano di ritirata per sfuggire alla morsa nemica: avrebbero atteso fino a notte fonda, per non essere visti partire, e quindi si sarebbero mossi con il doge e i Veneziani all'avanguardia e il Villehardouin a coprire le spalle. Quando fu il momento, partirono tutti, trasportando anche i feriti, e si diressero lentamente alla volta della città marittima di Rodosto. Durante la marcia circa venticinque cavalieri si separarono prendendo la via più diretta per Costantinopoli, dove giunsero dopo due giorni e due notti portando la notizia della disfatta. Il grosso proseguì il cammino per tutta la notte arrivando al mattino seguente in vista della città di Pamphilon. Incontrarono qui un reparto crociato venuto dall'Asia Minore che vi aveva passato la notte e anche questo si unì ai fuggiaschi disponendosi alla retroguardia della colonna, in testa alla quale passò ora il Villehardouin. Proseguirono tutti assieme in direzione sud raggiungendo Cariopoli verso mezzogiorno e vi si fermarono fino a notte, per rifocillarsi con il poco che trovarono e far riposare i cavalli. Nel frattempo arrivò lo zar Kalojan, che li aveva inseguiti per tutto il giorno, accampandosi a poca distanza. La marcia disperata, sotto l'incubo di essere raggiunti dai Bulgari, riprese a notte e l'indomani gli sconfitti giunsero finalmente a Rodosto, la cui posizione li metteva al sicuro. La ritirata era durata meno di due giorni, durante i quali era stato percorso un cammino per il quale occorrevano normalmente tre giornate (14).
A Rodosto i fuggiaschi tennero nuovamente consiglio e inviarono messi a Costantinopoli per far sapere che erano salvi. Nella capitale intanto si era sparso il panico. Quando vi giunsero i messaggeri da Rodosto, circa settemila crociati avevano preso posto su cinque navi veneziane per tornare in patria. Alcuni capi della crociata e con questi il cardinale Pietro Capuano, legato di Innocenzo III, tentarono di trattenerli facendo appello al loro onore ma essi non vollero intendere ragioni. Secondo i termini del patto del 1204, d'altronde, l'obbligo di prestare servizio militare in Romània era scaduto il 31 marzo e si sentivano evidentemente liberi da ogni vincolo e autorizzati a rimpatriare (15). Le navi salparono dal porto di Costantinopoli per giungere il giorno seguente a Rodosto, dove venne rivolta analoga preghiera ai crociati da parte del Villehardouin e di coloro che erano con lui. I fuggiaschi si impegnarono a rispondere l'indomani ma, nel corso della notte, fecero vela segretamente e si allontanarono dalla Romània. Poco più tardi giunse a Rodosto Enrico di Fiandra, che era stato richiamato dall'Asia Minore, e qui fu proclamato reggente dell'Impero in attesa di notizie sulla sorte del fratello. Da Rodosto, infine, verso fine aprile presero tutti la via di Costantinopoli, che distava tre giornate di marcia, lasciando un presidio di Veneziani nella città loro assegnata dal trattato di spartizione (16).
Le forti mura di Costantinopoli mettevano i Latini al riparo da ogni pericolo, anche se i Cumani avevano fatto un'apparizione davanti alla capitale. La Tracia, però, era perduta a eccezione di Rodosto e di Selimbria. Uguale sorte era toccata all'Asia Minore, al di fuori di un unico centro, e Teodoro Lascaris era divenuto padrone del campo. Per circa un mese, a Costantinopoli, i superstiti restarono in preda allo sconforto, e si limitarono a inviare una pressante richiesta di aiuto in Occidente. In questi stessi giorni morì il doge Dandolo, che aveva circa novant'anni, aumentando così il panico nella comunità veneziana. Subito dopo la sua morte, privi di un capo, i Veneziani elessero in tutta fretta un podestà che ne continuasse l'opera, senza neppure consultarsi con la madrepatria. La gravità della situazione, tuttavia, diminuì notevolmente a fine maggio, allorché i Cumani abbandonarono Kalojan per tornare nelle loro terre e lo zar bulgaro si mosse alla volta di Tessalonica. Bonifacio di Monferrato fu costretto a interrompere la conquista dell'Argolide per soccorrere la sua città, ma la diversione dei Bulgari consentì a Enrico di Fiandra di riprendere l'offensiva riconquistando parzialmente la Tracia nel corso dell'estate. Nell'operazione intervenne anche la flotta veneziana che attaccò lungo la costa saccheggiando Panion e Gallipoli. Quest'ultima venne riconquistata, come probabilmente anche Panion, e il dominio veneziano fu inoltre ripristinato ad Eraclea. La rappresaglia deve comunque essere stata assai pesante, a giudicare almeno da quanto afferma lo storico bizantino Niceta Coniate, secondo il quale i Veneziani "arrivati che furono a Panion e Kallipolis, fecero le cose peggiori ed estranee ai costumi cristiani" (17). Dopo aver devastato la Macedonia Kalojan riprese infine il cammino per la Bulgaria e, ai primi di ottobre, anche Enrico di Fiandra rientrò a Costantinopoli lasciando presidi nelle piazze riconquistate, fra cui un contingente veneziano ad Arcadiopoli (18).
La guerra bulgara riprese all'inizio del 1206 e a fine febbraio Kalojan invase di nuovo la Tracia con un grande esercito di Cumani, Greci e Valacchi. Le popolazioni bizantine si schierarono in maggioranza con lui e, alla notizia del suo arrivo, il presidio veneziano di Arcadiopoli abbandonò la piazza. Kalojan espugnò quindi la città di Apros, difesa congiuntamente da Greci e Latini, uccidendo o traendo in schiavitù i prigionieri e facendo distruggere l'abitato. Veniva così dato un primo terribile esempio della brutalità che avrebbe ispirato la campagna di Tracia del 1206, durante la quale lo zar bulgaro diede prova di meritare l'epiteto di romeoctono, "uccisore di Romani", con il quale amava definirsi. Voleva in questo modo ricollegarsi alla memoria storica del sovrano bizantino Basilio II, il bulgaroctono, che un paio di secoli prima aveva sottomesso la Bulgaria all'Impero, prendendosi una postuma vendetta dell'umiliazione subìta. La caduta di Apros spinse alla fuga i Veneziani della vicina Rodosto, malgrado la presenza di una consistente guarnigione rafforzata da duemila cavalieri franchi. In preda al panico, i Veneziani si misero precipitosamente in salvo con le imbarcazioni mentre i cavalieri latini si allontanarono via terra. I Greci di Rodosto si arresero a Kalojan, ma egli li fece comunque deportare in massa distruggendone la città. Kalojan proseguì quindi la sua marcia devastatrice, conquistando tra l'altro la veneziana Eraclea, difesa da un piccolo presidio, e anche in questo caso alla strage si accompagnarono la deportazione in massa degli abitanti e la rovina dell'abitato. I Bulgari si spinsero fin sotto le mura di Costantinopoli dove il reggente dell'Impero stava al sicuro senza poter in alcun modo intervenire, data la scarsità di forze a disposizione, e ne saccheggiarono selvaggiamente i dintorni (19).
Le distruzioni operate in Tracia e la ferocia dei conquistatori, indifferenti ad alleanze o patti di resa, spinsero però i Greci a cambiare partito per evitare che Kalojan si impadronisse di Adrianopoli e di Didimotichon, ancora nelle loro mani. I Bizantini che militavano nell'esercito bulgaro inviarono in segreto messi a Costantinopoli dal cesare Teodoro Branas, un aristocratico schierato dalla parte degli Occidentali che aveva sposato Agnese, sorella di Filippo di Francia e vedova dell'imperatore Andronico I Comneno. Essi gli proposero di intercedere presso Enrico di Fiandra e i Veneziani per accordarsi su un armistizio, in cambio del quale chiedevano che fosse concessa allo stesso Teodoro la signoria di Didimotichon e di Adrianopoli. Questa volta i Latini si mostrarono più duttili di quanto non fossero stati in precedenza e venne raggiunto un accordo:
Si tenne consiglio; furono spese molte parole in un senso e nell'altro, ma la fine del consiglio fu che al Vernas e all'imperatrice sua moglie, che era sorella del re Filippo di Francia, fossero ceduti Adrianopoli e il Dimot con le rispettive dipendenze e che il Vernas ne avrebbe fatto il servizio all'imperatore e all'impero. In questi termini fu fatta e conclusa la convenzione e venne conclusa la pace fra i Greci e i Franchi (20).
La cessione di Adrianopoli venne ufficialmente ratificata a Costantinopoli, probabilmente nel maggio 1206. È il primo di una serie di trattati del genere, conclusi negli anni immediatamente seguenti la conquista, con i quali Venezia rinunciava al controllo diretto mantenendo però la sovranità e garantendosi una serie di vantaggi. Adrianopoli venne concessa a Teodoro Branas perché ne fosse "signore e capitano" (dominus et capitaneus) e questi giurò di fronte al podestà veneziano obbligandosi a proteggere i Veneziani nelle persone e nei beni, a inviare in caso di guerra un contingente di cinquecento cavalieri, di cui duecento armati di corazza, a cedere i territori conquistati con l'aiuto di questi se assegnati a Venezia nella partitio e a pagare un contributo annuo di venticinque libbre di manuelati al doge. Se però fossero stati conquistati altri territori, non assegnati cioè nel trattato di spartizione, i cavalieri greci ne avrebbero ottenuto una parte in proporzione al loro numero (racionabiliter secundum quantitatem multitudinis ipsorum). Veniva infine imposto ai futuri governanti e a tutto il popolo di Adrianopoli il giuramento di fedeltà dei patti sottoscritti (21).
Dopo aver devastato la Tracia, Kalojan si mosse verso Adrianopoli e Didimotichon con l'intenzione di conquistarle, ma la defezione dei Greci gli impedì di portare a termine il progetto. I Bizantini disertarono in gran numero dalle sue file e gli abitanti delle due città rifiutarono di aprirgli le porte chiedendo aiuto a Enrico di Fiandra e a Teodoro Branas. Enrico uscì da Costantinopoli, sebbene avesse ben pochi uomini, ma non osò andare immediatamente ad affrontare il nemico. Quando però la resistenza degli assediati fu allo stremo, si risolse al confronto e il 24 giugno mosse verso i Bulgari con l'esercito in formazione di battaglia. Kalojan preferì tuttavia evitare lo scontro e ripiegò nel suo paese inseguito per alcuni giorni dalle forze latine, fra le quali un contingente veneziano condotto da Andrea Valerio. Gli inseguitori si spinsero fino al castello tracio di Stenimaka, a sud di Filippopoli, poi ripiegarono raggiungendo le forze del reggente insieme al quale rientrarono a Costantinopoli. Qui, il 20 agosto, Enrico di Fiandra fu incoronato in S. Sofia dal patriarca veneziano, dopo che era stata data ormai per certa la morte di Baldovino in prigionia. La ritirata di Kalojan, tuttavia, era stata soltanto un espediente tattico e, subito dopo l'incoronazione, egli aggredì di nuovo le due città alla cui difesa era rimasto Teodoro Branas. Questa volta prese fulmineamente Didimotichon e la distrusse facendone abbattere le mura fino a terra. Razziò quindi la Tracia, mentre gli abitanti di Adrianopoli chiesero di nuovo aiuto all'imperatore. Enrico uscì senza indugi da Costantinopoli e sei giorni più tardi raggiunse la loro città, ma ancora una volta lo zar bulgaro rifiutò il confronto e ripiegò nelle sue terre inseguito dai Latini che riuscirono anche a liberare un gran numero di prigionieri. L'imperatore guidò quindi una fortunata spedizione in Bulgaria al termine della quale rientrò a Costantinopoli ai primi di novembre (22).
Le armi tacquero fino al marzo 1207 allorché Kalojan invase per la quarta volta la Tracia assediando Adrianopoli. I Greci e i pochi crociati di presidio fecero appello all'imperatore, ma questi si trovò in difficoltà perché aveva inviato buona parte delle forze a riconquistare l'Asia Minore, approfittando dell'alleggerimento del fronte bulgaro. Come già il fratello prima di Adrianopoli, Enrico richiamò i suoi dall'Asia Minore, a motivo del pericolo immediato per Costantinopoli, e ciò diede a Teodoro Lascaris l'opportunità di assediare l'importante piazza marittima di Kivotos costringendo l'imperatore a rinviare l'inizio della campagna in Tracia. Egli organizzò in fretta e furia una spedizione di soccorso contando soprattutto sulla perizia navale di Veneziani e Pisani presenti a Costantinopoli, che apprestarono i vascelli su cui si imbarcarono i cavalieri sbloccando la piazza assediata. Kalojan intanto faceva progressi nell'assedio di Adrianopoli, ormai sul punto di cadere, ma venne nuovamente abbandonato dagli ausiliari cumani nel momento più critico e se ne andò non osando proseguire le operazioni senza il loro aiuto. L'imperatore non poté tuttavia scendere in campo perché fu di nuovo costretto a intervenire in Asia Minore. Stava infatti per recarsi ad Adrianopoli quando gli giunse notizia che i Niceni assediavano Cizico; si consigliò con i suoi e i Veneziani e decise di andarla a soccorrere insieme a questi ultimi che armarono quattordici galere sulle quali imbarcarono le forze delle due parti. La spedizione franco-veneziana sbloccò rapidamente Cizico e, poco più tardi, si giunse a una tregua con Teodoro Lascaris. In luglio l'imperatore poté finalmente raggiungere Adrianopoli e, di qui, si spinse anche in Bulgaria per un'azione di rappresaglia (23).
La guerra proseguiva dunque con azioni reciproche di logoramento, senza un risultato definitivo, ma si avviava alla fine indipendentemente dalla volontà dei protagonisti. In settembre i Bulgari ottennero un successo uccidendo in un'imboscata Bonifacio di Monferrato, con il quale scomparve l'ultimo dei tre grandi protagonisti della crociata. Subito dopo Kalojan invase la Macedonia assediando Tessalonica, ma 1'8 ottobre anch'egli cadde assassinato nella sua tenda. La morte di Kalojan provocò la ritirata degli invasori e fu seguita dalla veloce disintegrazione dello stato bulgaro, per dissensi interni al clan imperiale. Nel luglio 1208 l'imperatore ottenne a Filippopoli una vittoria schiacciante sullo zar Boris, succeduto a Kalojan, e nell'arco di altri tre anni riuscì a imporsi anche agli antagonisti di questi. Per parecchi anni, in seguito, la Bulgaria non rappresentò più un pericolo mortale per l'Impero latino, che tuttavia uscì prostrato dalla guerra. Le devastazioni incisero sui possedimenti veneziani non meno che su quelli crociati, con la distruzione di almeno tre città, Eraclea, Panion e Rodosto. A guerra finita, verosimilmente, i Veneziani ripresero possesso di tutta la loro parte. La scarsità di documentazione non consente tuttavia di affermarlo con certezza; possiamo soltanto dire che nel 1206 erano di nuovo a Gallipoli e in seguito sono attestati ad Eraclea e a Rodosto. Dovette comunque intervenire una modifica parziale rispetto alla partitio, dato che fu assegnata a Venezia la città di Lampsaco, sulla costa asiatica dell'Ellesponto, non compresa nel documento del 1204. A questa modifica si aggiungeva poi, di fatto, la cessione di Adrianopoli, anche se formalmente restava sotto il dominio veneziano (24).
Le conquiste della pars secunda vennero effettuate con spedizioni navali inviate da Venezia, eccezion fatta per l'isola di Andro. Venne però acquisita soltanto una minima parte dei territori assegnati nella partitio: passarono infatti sotto il dominio diretto della Repubblica unicamente Durazzo, Corfù, Corone e Modone conquistate fra il 1205 e il 1207. Durazzo e Corfù sarebbero rimaste veneziane soltanto per pochi anni, per essere riprese nel Trecento, mentre il possesso di Creta, Corone e Modone sarebbe stato assai più duraturo dell'Impero latino. Il motivo della diversità fra assegnazioni nella partitio e conquiste effettive è duplice. In primo luogo, quando comparvero i Veneziani, i più importanti fra questi territori erano caduti in mano ad altre potenze, con le quali non sarebbe stato prudente confrontarsi. In secondo luogo, ed è forse la ragione principale, la madrepatria adottò un diverso indirizzo politico rispetto ai vincitori della crociata. La conquista di tutta la pars secunda, che rientrava nella logica della spartizione, avrebbe implicato infatti una conversione in senso terrestre della politica veneziana, tradizionalmente lontana da simili aspirazioni. Sarebbe stato inoltre necessario un impegno militare considerevole e, a cose fatte, il mantenimento di consistenti forze di occupazione, con costi sproporzionati rispetto ai vantaggi acquisiti. Si seguì al contrario una politica più realistica, volta ad obiettivi possibili, lasciando da parte la terraferma e concentrando gli sforzi sugli scali utili per il commercio marittimo.
La prima spedizione per la Romània partì da Venezia dopo la metà di maggio del 1205, quando era ancora in vita il doge Dandolo. Si trattava della flotta destinata a condurre a Costantinopoli il patriarca latino che andava a prendere possesso della sua sede. Durante il viaggio i Veneziani attaccarono Durazzo conquistandola senza sforzo; poco più tardi sopraggiunsero altre navi, al comando di Giacomo Morosini, e tutti assieme si diressero a Corfù, base di Leone Vetrano. Era questo uno dei numerosi corsari genovesi, più o meno sostenuti dalla madrepatria, che dalla fine della crociata conduceva una guerra non dichiarata con Venezia. Corfù venne occupata e in luglio la flotta veneziana proseguì verso la capitale d'Oriente. Nell'arco di pochi mesi, però, l'isola sfuggì di nuovo al controllo tornando verosimilmente in mano al Vetrano e, a distanza di un anno, si rese necessaria una nuova spedizione per riprenderla. Questa volta salparono da Venezia trentuno galere al comando di Ranieri Dandolo, figlio dell'ex doge, e di Ruggero Premarin, che ne occuparono il castello vincendo l'accanita resistenza dei difensori, come ricorda il cronista Martin da Canal:
I Veneziani balzarono a terra tutti armati e quelli di Corfù accorsero per la difesa; ma, a raccontare il vero, la loro difesa non impedì ai Veneziani di prendere il sobborgo del castello; e di là essi andarono al castello. E là ebbero del filo da torcere, perché quelli del castello si difendevano con vigore e tiravano giavellotti, pali appuntiti e sassi e acqua bollente addosso ai Veneziani: e i Veneziani tiravano contro di loro quadrella e saette. E così la battaglia fu dura e aspra, ma nondimeno, per quanto si difendessero, non impedirono ai Veneziani di drizzare le scale alle mura e di abbattere la porta del castello; così salirono sulle mura e presero Corfù (25).
Il successo fu poi consolidato l'anno seguente con la cattura del Vetrano ad opera degli stessi comandanti veneziani. La flotta, salpata da Venezia, si impadronì delle nove galere di cui disponevano i corsari. Vetrano venne condotto a Corfù e ivi impiccato (26). Dopo l'esecuzione, le navi si mossero alla volta del Peloponneso, passato nel 1205 sotto la sovranità francese, attaccando di seguito Modone e Corone che erano ugualmente divenute nidi di pirati. Modone fu espugnata e i conquistatori ne distrussero le mura, per evitare che potesse di nuovo servire ai corsari; proseguirono quindi per Corone dove si ebbe di nuovo battaglia:
E quando quelli di Corone videro venire le galee dei Veneziani, si armarono per difendersi; e quando i capitani videro ciò, si armarono, e i Veneziani balzarono alle armi e presero le scale e le appoggiarono alle mura (27).
La resistenza fu piegata e i Veneziani presero possesso di Corone superando ogni difesa avversaria. Questa volta le mura vennero risparmiate e i vincitori lasciarono un presidio, proseguendo con la loro flotta alla volta di Creta dove li attendeva una dura battaglia per impossessarsi dell'isola (28).
La conquista di Creta fu l'operazione più impegnativa condotta in Romània e richiese circa un decennio per essere completata. Ma all'impegno veneziano corrispose in misura proporzionale l'utilità dell'acquisto, sia per la fertilità del suolo che per i vantaggi di natura strategica e commerciale che ne derivarono. Creta si trovava infatti al crocevia delle grandi rotte mediterranee e formava il necessario completamento degli scali che Venezia si era assicurata fino a quel momento. Nel 1203, sotto le mura di Costantinopoli assediata, l'isola era stata ceduta a Bonifacio di Monferrato da Alessio Angelo il giovane, che con l'aiuto dei crociati avrebbe di lì a poco conquistato il trono di Bisanzio. Bonifacio di Monferrato a sua volta la vendette ai Veneziani nell'agosto del 1204. Questi ultimi avevano temuto che l'isola potesse cadere in mano ai rivali genovesi, con i quali Bonifacio manteneva stretti legami, e che probabilmente avevano già avviato trattative per la cessione. I1 contrasto fra il marchese del Monferrato e l'imperatore Baldovino offrì però ai Veneziani l'occasione per risolvere la questione a proprio vantaggio. Durante la campagna estiva del 1204, infatti, l'imperatore aveva occupato Tessalonica senza l'assenso di Bonifacio il quale rivendicava a sé la città. Quest'ultimo reagì violentemente e si arrivò a un passo dalla guerra civile allorché egli occupò Didimotichon e pose l'assedio ad Adrianopoli presidiata da uomini di Baldovino.
A questo punto, però, si intromisero il doge Dandolo e i baroni, rimasti a Costantinopoli che inviarono al campo di Adrianopoli una delegazione. Il marchese fu convinto a rimettersi alla mediazione del doge e dei baroni ma, in realtà, più che una mediazione si concretizzò un'alleanza fra lui e il doge Dandolo, conclusa con l'accordo del 12 agosto 1204. Bonifacio di Monferrato rinunciò in favore del doge a tutti i diritti che vantava in Romània, cioè il possesso di Creta, il feudo concesso a suo padre dall'imperatore Manuele Comneno a Tessalonica con le relative dipendenze, a centomila iperperi promessigli da Alessio IV Angelo e, infine, a quanto in campo spirituale e temporale apparteneva o sarebbe venuto a lui e ai suoi vassalli dalla spartizione dell'Impero. In cambio ottenne mille marchi d'argento in contanti e la promessa di un territorio nei domini occidentali dell'Impero latino con,un reddito annuo di diecimila iperperi. Bonifacio diventava così vassallo dei dogi di Venezia, fatti salvi naturalmente i diritti che l'ordinamento feudale riservava all'imperatore (29). Gran parte di questo trattato rimase però teorica e gli esiti reali, di fatto, furono soltanto due: la cessione di Creta e il versamento da parte veneziana della grossa cifra che fu consegnata all'istante. Esso ebbe nondimeno il significato politico di porre il marchese di Monferrato sotto la protezione veneziana, rafforzando così la sua posizione nel conflitto che lo opponeva all'imperatore. L'aspetto più notevole per Venezia consistette naturalmente nell'acquisto di Creta, che il marchese di Monferrato lasciò di sicuro senza rimpianti, dato che la conquista dell'isola avrebbe messo in seria difficoltà chi non disponeva di una flotta adeguata. Per il momento, tuttavia, non se ne fece nulla e Creta restò in mano agli arconti, l'aristocrazia terriera bizantina che si impadroniva del potere in parallelo alla liquefazione dell'autorità centrale. Qui come altrove pare inoltre essersi stabilita una base di pirati genovesi già prima della cessione a Venezia e, per di più, nel 1206 l'isola venne conquistata da una spedizione corsara guidata da Enrico Pescatore conte di Malta che agiva per conto di Genova. Il Pescatore consolidò subito le proprie posizioni mettendo in efficienza una rete di quattordici castelli, situati in gran parte nella zona centro-orientale dell'isola. Parte dell'aristocrazia indigena, a quanto sappiamo, si schierò con lui, mentre altri chiesero l'aiuto di Venezia, dove si stava organizzando la spedizione di conquista (30).
Le prime navi veneziane comparvero nelle acque di Creta nel corso dello stesso anno. Si trattava della flotta reduce dall'occupazione di Corfù, che tuttavia si limitò ad un'azione poco più che dimostrativa catturando quattro galere genovesi nel porto di Spinalonga. La conquista vera e propria iniziò soltanto nel 1207, quando i Veneziani furono in grado di attaccare in forze. Dopo la caduta di Modone, la flotta di Dandolo e Premarin assalì la città di Candia che venne presa superando la resistenza genovese. Ma il successo non fu definitivo e la guerra si trascinò per altri quattro anni. I Veneziani assalirono i castelli del Pescatore e questi, in difficoltà, chiese e ottenne aiuto dalla madrepatria. Nelle fasi successive della guerra si ebbe un rovesciamento di sorti, segnato dalla cattura e morte in prigionia di Ranieri Dandolo. Per un paio d'anni il Pescatore fu di fatto padrone di Creta, di cui ambiva essere proclamato re, ma nel 1209 l'arrivo di rinforzi veneziani condotti da Giacomo Longo ristabilì l'equilibrio delle forze. Il Pescatore ricorse di nuovo a Genova, concludendo con questa un trattato che le concedeva privilegi commerciali e politici a Creta in cambio di aiuto militare. La flotta inviata in aiuto dai Genovesi fu però intercettata e distrutta dai nemici mentre navigava alla volta dell'isola. Non potendo più sostenere la lotta da solo, il conte di Malta venne a patti con Venezia cedendo Creta all'inizio del 1211 (31).
Il trattato con Enrico Pescatore non significava però l'acquisizione di Creta, se non in via puramente teorica. Al momento dell'accordo, infatti, i Veneziani ne possedevano soltanto una piccola parte, mentre il resto restava ancora in mano agli aristocratici bizantini. Non ci è noto l'atteggiamento di questi ultimi durante la guerra con il Pescatore, ma è certo che essi si opposero violentemente a Venezia quando, nel 1212, avviò una colonizzazione militare dell'isola, concedendo feudi a cittadini che avrebbero espropriato i proprietari indigeni. Minacciati nella loro stessa sopravvivenza sociale, gli arconti bizantini si ribellarono apertamente nel 1212 e alcuni componenti della famiglia degli Hagiostefaniti occuparono due castelli veneziani. Il duca Giacomo Tiepolo, che dal 1209 governava l'isola, si trovò a mal partito e chiese aiuto a Marco Sanudo, un avventuriero veneziano impadronitosi qualche anno prima di alcune isole egee. Dietro promessa di un compenso in feudi, il Sanudo si recò a Creta ed ebbe facilmente ragione dei ribelli, i cui capi fuggirono o vennero esiliati. Ma subito dopo cambiò campo e si accordò con un altro arconte della famiglia degli Skordili, associandosi a un piano di conquista dell'isola, della quale aspirava verosimilmente alla signoria. Nel giugno 1212 scoppiò a Candia una nuova rivolta e la città fu occupata dalle truppe del Sanudo appoggiate dai Greci, costringendo alla fuga il duca che si rifugiò nel castello di Temenos. I rivoltosi si impadronirono quasi dell'intera Creta, ma il Tiepolo riprese l'offensiva con l'aiuto della maggior parte dei feudatari veneziani e dei rinforzi giunti dalla madrepatria. Candia venne rioccupata e gli insorti furono costretti alla difensiva finché, fra fine 12 12 e inizio 1213, si giunse a un accordo: in cambio di consistenti vantaggi Sanudo interruppe le ostilità e si ritirò dall'isola, portando con sé anche venti arconti cretesi che lo avevano appoggiato (32).
Anche questo risultato non fu definitivo. Nel 1217 scoppiò una nuova rivolta indigena che si estese velocemente a tutta la parte occidentale dell'isola. Ne approfittò nuovamente Genova, che fece un altro tentativo per impossessarsi di Creta ad opera del suo cittadino Alamanno da Costa. Questi disponeva di forze notevolmente inferiori rispetto al Pescatore e si limitò a condurre azioni di pirateria. Venne però catturato assieme a trecento dei suoi e a quasi tutta la flottiglia e fu condotto in prigionia a Venezia, dove tornò libero l'anno seguente quando si fece la pace con Genova. Contro i ribelli i Veneziani non ebbero uguale fortuna e subirono una pesante sconfitta sul campo. Di conseguenza, fu deciso un mutamento di rotta e il 13 settembre 1219 ci Si accordò per la fine delle ostilità. I capi della rivolta furono amnistiati e si adottarono vari provvedimenti innovativi, dai quali trassero vantaggio soprattutto i proprietari terrieri. Si derogò infatti dalla linea di chiusura mantenuta fino a quel momento nei loro confronti e gli arconti furono inseriti nel sistema feudale veneto in sostanziale parità con i feudatari veneziani. Il trattato chiudeva così la fase di conquista dell'isola, ma non metteva fine ai focolai di rivolta. Al contrario, anche in seguito Creta avrebbe continuato a mostrarsi insofferente al dominio veneziano rivoltandosi a più riprese ancora per parecchio tempo (33).
La partitio assegnava pressoché tutte le isole dell'Egeo all'imperatore e ai crociati e, come si è visto, Venezia si vide attribuire soltanto Andro, Egina, Salamina e una porzione dell'Eubea. Andro fu conquistata nel 1207, mentre Egina e Salamina sfuggirono alla dominazione veneziana per rientrare nella parte dei crociati (34). L'Eubea ebbe una sorte particolare, perché qui a partire dal 1209 l'influenza veneziana sarebbe stata ancora più consistente del previsto. Un paio di anni dopo la spartizione la maggior parte delle isole egee restava ancora da conquistare. Le difficoltà dell'Impero latino e la preminenza di altri obiettivi avevano distratto gli Occidentali ed esse erano per lo più cadute in mano ad avventurieri in grado di approfittare del vuoto di potere. Questo fatto complicava le cose sia perché sarebbe stato necessario sloggiarli dalle isole, come i Veneziani stavano facendo faticosamente a Corfù, sia perché essi arrecavano notevoli danni esercitando la pirateria. Un quadro efficace della situazione è delineato dal cronista cinquecentesco Daniele Barbaro:
Erano in questi tempi molte dell'isole dell'Arcipelago et alcune altre parti della Grecia respetto ai tumulti seguili in quell'imperio redutto in man di male persone et de ladri che non obedendo alcun infestauano et dannificauano tutti, donde ne seguiuano et spogli et rapine, et spesso anche occision', et morte di quei che nauigauano per quei mari, et non solamente [erano> costoro infesti ai nauiganti, ma tra loro medesimi quei d'un isola et d'un luogo et l'altro se dauano molestia et se trauagiauano, et ogni cosa era piena dei insulti et desturbi, de lagrime e de querele (35).
Né l'imperatore latino, prosegue il cronista, né i Veneziani potevano intervenire, essendo il primo impegnato nella guerra con Teodoro Lascaris e i secondi nella conquista di Creta, per cui gli abitanti erano abbandonati a se stessi:
La qual cosa tegniva la prouincia inquietissima et quei popoli in infinita miseria et all'hora accadete che molte di quelle zente ascondeuano nelle uiscere della terra li suoi tesori et le soe cose più care, le quale poi sono stà trouade nei tempi sussequenti et se ne trouano ancora (36).
In questo stato di cose, nel quale di fatto la conquista dell'Arcipelago era alla portata di chiunque, l'iniziativa privata si sostituì a quella pubblica. Marco Sanudo, un nobile veneziano, raccolse intorno a sé un gruppo di audaci e si preparò all'azione:
fatta compagnia con alcuni altri Venetiani et anche con alcuni forastieri, tutti insieme deliberorno con buona licenza pero del Dose d'assaltar' cadaun d'essi privatamente et con le sue forze proprie et particular' l'isole del Leuante che za erano sottoposte all'Imperio de Greci, et quelche ogn'un d'essi acquistaua fosse so proprio, dandone pero una certa recognition' all'Imperio. Per la qual cosa mandorono nuntii a Constantinop'li, et hauendo il consenso di Balduin se preparorno all'impresa con molta sollecitudine (37).
La conquista delle isole egee non venne dunque attuata con spedizioni organizzate, bensì a seguito di un'iniziativa dei Veneziani di Costantinopoli, che a proprie spese misero in campo le forze necessarie (privatamente et con le sue forze proprie et particular'). È questo forse l'aspetto più caratteristico della formazione dell'impero coloniale veneziano: un pugno di patrizi si assicurò il dominio con un'azione che ha tratti del tutto particolari: è fatta in modo autonomo, da Costantinopoli, ma è anche legalizzata dalla madrepatria (con buona licenza pero del Dose). Riceve inoltre l'avallo dell'imperatore latino (il consenso di Balduin), che si riserva l'esercizio di diritti feudali (una certa recognition' all'Imperio). La spedizione veneziana avrebbe infatti interessato indistintamente le isole egee, uscendo dal settore veneziano per estendersi a territori della porzione imperiale o crociata. Nonostante il tono vago dei cronisti, è verosimile che vi siano state trattative dirette fra la signoria di Venezia e l'imperatore Enrico, culminate in un accordo probabilmente del 1206. Venezia autorizzò i propri cittadini ad occupare le isole e l'imperatore, dal canto suo, si impegnò a riconoscere il fatto compiuto, purché i conquistatori si assumessero oneri di natura feudale per le terre occupate. A ciò si aggiungeva, come clausola vincolante, il divieto di coinvolgere i Greci nell'impresa:
Non potendo lo Imperador di Costantinopoli francese et Venetiani andare a pigliare le isole del Arcipelago ed altri lochi in terra ferma et mantenerli, feceno proclamare che fusseno di coloro che le prendesseno, recognoscendoli dalo Imperio, pur che non fusseno Greci (38).
L'organizzatore dell'impresa, Marco Sanudo, era un nipote del doge Enrico Dandolo. Nell'agosto del 1204 era uno dei due inviati ad Adrianopoli per le trattative che portarono alla cessione di Creta (39). Tra 1204 e 1205, quando ancora viveva il Dandolo, partì da Costantinopoli con una flotta di otto galere armate a sue spese e conquistò l'isola di Nasso, dove si erano insediati pirati genovesi. Alla fine di giugno 1205 era di nuovo a Costantinopoli come funzionario del podestà e, poco più tardi, si recò a Venezia per illustrare al nuovo doge Pietro Ziani il suo progetto di conquista delle isole. Dallo Ziani ottenne un decreto, in forza del quale tutti i Veneziani erano autorizzati a conquistare a proprie spese le isole e le città dell'Impero assegnate a Venezia nella partitio, esclusi alcuni territori riservati al governo centrale, a condizione però che i territori così conquistati fossero ceduti o lasciati in eredità a soli cittadini veneziani. Questo decreto, che è poi la buona licenza del Dose di cui scrive il Barbaro, dava via libera al Sanudo e rendeva i suoi progetti diversi da semplici azioni di pirateria, ma non poteva estendersi ovviamente anche alle zone assegnate ai crociati. Egli si rivolse pertanto all'imperatore Enrico, che autorizzò l'impresa e che da lui ebbe il giuramento di fedeltà (40).
Marco Sanudo tornò in Romània nel 1206 quale comandante di galera nella flotta che conquistò Corfù e a Costantinopoli raccolse intorno a sé i nobili veneziani con i quali, nel 1207, partì per la spedizione navale che in pochi mesi avrebbe portato alla sottomissione delle isole greche. La sua conquista fu probabilmente facilitata dal fatto che si presentò come amico e difensore dei Greci contro i pirati che infestavano l'Arcipelago. Non abbiamo purtroppo molti particolari circa lo svolgimento dell'impresa, a motivo della scarsità di fonti e anche per la confusione da queste operata, con la tendenza ad assimilare avvenimenti che in realtà si stratificano nel tempo. Non è possibile cioè definire gli esatti contorni della spedizione, perché a questa le fonti attribuiscono avvenimenti che in realtà sono posteriori. La confusione è stata poi acuita dalla storiografia ottocentesca, che ha operato un ulteriore processo di semplificazione. Un'analisi rigorosa delle testimonianze consente di affermare con sicurezza che in questa circostanza si stabilirono nell'Egeo le signorie di Marco Sanudo, di Marino Dandolo, dei fratelli Ghisi e di Filocalo Navigaioso, mentre pare che le signorie dei Querini a Stampalia, di Giacomo Barozzi su Santorini e Terasia e dei Giustinian, Michiel e Ghisi su Ceo siano posteriori (41). Stando a quanto scrive nel Trecento il doge e cronista Andrea Dandolo, che è il primo a trattare l'argomento con una certa ampiezza, Marco Sanudo e i suoi conquistarono Nasso, Paro, Milo e Santorini, occupandole indipendentemente gli uni dagli altri. Marino Dandolo a sua volta prese Andro; Andrea e Geremia Ghisi Tino, Micone, Sciro, Scopelo e Sciato, mentre Lemno venne occupata da Filocalo Navigaioso. Fonti più tarde, a proposito dei Ghisi, ci dicono inoltre che i due fratelli si divisero le isole: Geremia ebbe Sciro, Sciato e Scopelo, appartenenti al gruppo delle Sporadi, e Andrea le cicladi Tino e Micone. Di queste Tino e Sciro spettavano al quarto imperiale e le altre erano state attribuite ai crociati (42).
La spedizione del 1207 segna la fase eroica della conquista, ma le scorrerie veneziane nell'Egeo continuarono anche negli anni successivi, portando probabilmente all'acquisizione di altre isole. Non siamo in grado però di fornire particolari in proposito, perché le uniche notizie certe si riferiscono ad atti di pirateria compiuti prima del 1224 che, come tali, vennero puniti a Venezia (43). Nel 1207-1208 è infine da collocare la presa delle isole ionie di Cerigo (o Citera) e Cerigotto, ad opera rispettivamente di Marco Venier e Giacomo Viaro che assunsero il titolo di marchesi. In questo caso la spedizione partì da Creta dove le due famiglie possedevano feudi (44).
La mancata conquista dei territori assegnati a Venezia nella partitio terrarum venne compensata con trattati con chi se ne era impadronito. I trattati si collocano fra 1209 e 1210, quando si erano ormai definiti gli obiettivi dell'espansione, e hanno un denominatore comune: il riconoscimento dell'alta sovranità veneziana, cui si unisce in diversa misura la concessione di privilegi. Questi ultimi comprendono di regola vantaggi di natura commerciale, volti a garantire la libertà di traffico per i Veneziani negli stati soggetti al protettorato della Repubblica.
Seguendo l'ordine geografico della partitio, non erano stati acquisiti in primo luogo i territori di Epiro, Acarnania ed Etolia, ad eccezione di Durazzo. Tutta la restante terraferma era caduta in mano a Michele Ducas Angelo Comneno. Questi aveva militato dapprima agli ordini di Bonifacio di Monferrato ma, durante la campagna in Grecia settentrionale del 1204-1205, aveva disertato raccogliendo l'appello del governatore bizantino del thema di Nicopolis. Quando fu assassinato, Michele Angelo ne raccolse la successione sposandone la vedova e dando vita a uno stato con capitale Arta, comunemente noto come despotato di Epiro, che si estendeva dai confini del territorio di Durazzo al golfo di Corinto.
Nel 1210, sentendosi minacciato dall'imperatore latino, il signore di Epiro decise di regolare i rapporti con Venezia ed entrò in trattative. Si giunse così a un trattato, il cui testo è stato conservato fino ai nostri giorni. Michele Angelo giurò fedeltà al doge, dichiarando di tenere come vassallo (nomine feudi) i territori che già governava e accordando in cambio una serie di concessioni. Si impegnava in primo luogo a rispettare nelle persone e nei beni (in personis et rebus) i Veneziani e gli abitanti di Durazzo, senza imporre loro alcun tributo, e a proteggerli nei territori a lui soggetti al momento e in futuro. Si assumeva poi l'obbligo di concedere ai Veneziani un quartiere nelle sue città (habere ecclesiam et curiam et fondicum) e accordava loro gli stessi privilegi di cui godevano al tempo dell'imperatore Manuele I Comneno.
Veneziani e abitanti di Durazzo erano inoltre autorizzati a commerciare liberamente senza andare soggetti a esazioni o dazi. In caso che uno di loro o un abitante di Corfù fossero stati danneggiati da un suo suddito, il signore dell'Epiro li avrebbe risarciti entro quindici giorni dalla denuncia del danno, pagando il doppio se fossero trascorsi più di quindici giorni. I nemici di Venezia sarebbero stati nemici dell'Epiro e Michele Angelo avrebbe rinunciato a esercitare il diritto di naufragio sulle navi della Repubblica. Avrebbe inoltre permesso l'esportazione del frumento dai suoi stati alla volta di Venezia. Ulteriori clausole contemplavano l'obbligo di non molestare Corfù, di non esigere alcun dazio dagli abitanti e di intervenire a favore di Venezia in caso di ribellione di questi o degli Albanesi. Ogni anno il despota di Epiro avrebbe pagato un tributo di quarantadue libbre di iperperi da versare a Durazzo in due rate, a maggio e settembre, e di due panni tessuti d'oro, uno per l'altare di S. Marco, l'altro per il doge. Tutti i suoi funzionari sarebbero stati infine obbligati a giurare di rispettare i Veneziani e, dopo la sua morte, il figlio Costantino avrebbe giurato a sua volta di osservare tutto il trattato (45).
Venivano quindi le isole di Cefalonia, Itaca e Zacinto che, sebbene assegnate a Venezia, non appartenevano più all'Impero dal 1185. Quando infatti i Normanni avevano aggredito Bisanzio, erano state occupate dall'ammiraglio siciliano Margaritone da Brindisi. Alla morte di questo, erano passate al genero, il conte Maio (o Matteo) Orsini, sotto il quale si trovavano ancora nel 1204. L'Orsini, che aveva inizialmente sostenuto il pirata Vetrano, invocò poi l'aiuto papale sulla contea di Cefalonia e nel 1209 chiese anche il riconoscimento di Venezia: prestò giuramento di fedeltà e si dichiarò vassallo del doge. In questo caso, però, non possediamo il testo del trattato e dobbiamo limitarci alla semplice notizia dei cronisti, che non danno informazioni sulle clausole (46).
A Venezia sfuggì inoltre la metà occidentale del Peloponneso, dove vennero conquistate soltanto Modone e Corone, ma anche in questo caso si arrivò a un trattato con Geoffroy de Villehardouin, che del Peloponneso era divenuto signore. Dalla Siria, dove si trovava nell'autunno 1204, il Villehardouin si imbarcò per raggiungere i compatrioti a Costantinopoli. Durante il viaggio finì casualmente a Modone e qui fu costretto a trascorrere l'inverno a causa dei danni subiti dalla sua nave. La sosta forzata fu tuttavia proficua, perché un anonimo arconte bizantino, forse un Cantacuzeno, lo invitò a conquistare insieme a lui il Peloponneso. I due si assicurarono il controllo di gran parte del paese ma, alla morte del greco, il figlio ruppe l'alleanza e i castelli sottomessi si rivoltarono contro i Francesi. Non potendo sostenere la situazione da solo, il Villehardouin si recò al campo di Bonifacio di Monferrato, all'assedio di Nauplia, e qui si accordò con il borgognone Guglielmo di Champlitte, riconoscendosi suo vassallo. Con il consenso del marchese di Monferrato, i due Latini partirono per il Peloponneso con circa cinquecento uomini a cavallo, occupando dapprima Modone e poco dopo sconfiggendo le forze con le quali Michele Angelo era venuto a combatterli. Presero quindi Corone, che lo Champlitte diede in feudo a Villehardouin, e occuparono Calamata, in Messenia, dove ricevettero la sottomissione di gran parte dei Greci del Peloponneso. Da questi avvenimenti, che cadono fra il novembre 1204 e il marzo 1205, ebbe origine il principato di Acaia o Morea, di cui lo Champlitte fu il primo titolare. Verso il 1208 egli partì per la Francia, a seguito della morte del fratello, ma non fece più ritorno perché a sua volta morì poco più tardi, lasciando la signoria al Villehardouin che divenne ufficialmente principe di Acaia un paio di anni dopo (47).
Nel giugno 1209 Geoffroy de Villehardouin stipulò nell'isola di Sapienza un trattato con il legato veneziano Raffaele Geno. Rinunciò a ogni pretesa su Corone e Modone dichiarando di ricevere tutto il Peloponneso, fino a Corinto, in feudo dal doge al quale giurava fedeltà anche a nome dei suoi successori. Si obbligava quindi a diventare cittadino veneziano, ad avere una casa a Venezia (et debeamus effici Venetici; et in Veneciis honorabilem domum debemus habere) e a offrire annualmente due panni serici tessuti in oro alla chiesa di S. Marco e uno al doge. Le concessioni più sostanziali, in parte analoghe a quelle del despota epirota, consistevano nell'obbligo di rispettare nelle persone e nelle cose i Veneziani senza imporre tributi, nel concedere loro un quartiere in qualunque città del principato essi volessero, nell'essere amico degli amici di Venezia e nemico dei nemici, nell'aiuto militare per l'acquisto e la conservazione di terre, escludendo quanto era stato definito nel trattato e fatti salvi i diritti imperiali (salvafidelitate domini Imperatoris). Il signore di Acaia si faceva carico infine di sottomettere un ulteriore distretto del Peloponneso, del quale già possedeva una piazza, cedendone a Venezia un quarto e prestando il servizio feudale per i quarti restanti nei termini fissati nel trattato, senza però il tributo dei panni (48).
L'ultimo trattato del genere venne concluso con il signore dell'Eubea o Negroponte. La spartizione assegnava a Venezia le due estremità con le piazze di Oreos e Karystos, ma in pratica tutta l'isola venne occupata nella primavera del 1205 dal re di Tessalonica, al quale sarebbe spettata soltanto la parte centrale. Bonifacio di Monferrato la diede in signoria al fiammingo Giacomo d'Avesnes e vi lasciò un forte presidio militare proseguendo nelle sue conquiste. Nell'agosto dello stesso anno l'intera isola venne ripartita in tre grandi feudi concessi da Bonifacio ad altrettanti gentiluomini veronesi del suo seguito, Ravano dalle Carceri, Pecoraro Pecorari di Mercanuovo e Giberto da Verona, che in seguito presero il nome di terzieri o Lombardi di Negroponte. Ravano dalle Carceri aveva militato con Venezia e nell'agosto 1204, assieme a Marco Sanudo, era stato inviato presso Bonifacio di Monferrato ad Adrianopoli, dove probabilmente passò al suo servizio (49).
Due dei terzieri scomparvero rapidamente di scena e restò il solo Ravano dalle Carceri. Questi nel I208 era uno dei capi dei baroni del Regno di Tessalonica, che si opponevano all'imperatore Enrico, deciso a far valere i suoi diritti su di loro, e nel marzo dell'anno seguente si proclamò vassallo di Venezia, verosimilmente al fine di consolidare la propria posizione. Il trattato fu questa volta stipulato a Venezia dagli ambasciatori di Ravano, fra cui il fratello Redondello, con l'impegno di farlo ratificare entro un mese dal signore dell'Eubea. L'isola fu concessa in feudo a Ravano il quale, da parte sua, si obbligava a versare annualmente un tributo di 2.100 iperperi
e di due panni tessuti in oro, uno per il doge e l'altro per la chiesa di S. Marco. Tre volte all'anno, a Natale, Pasqua e nel giorno di San Marco, sarebbero state cantate nella cattedrale di Negroponte le laudi del doge, i cui inviati dovevano essere accolti onorevolmente. Ai Veneziani si garantivano le persone e i beni, senza oneri, nell'isola
e nei territori a questa soggetti al momento e in futuro. Essi avrebbero avuto piena libertà di commercio e di esportazione (sine contrarietate cuiusquam), una chiesa e un fondaco a Negroponte e in tutte le altre città. Il dalle Carceri nulla avrebbe fatto contro gli interessi veneziani (nullam autem conspirationem faciam, nec fieri permittam, neque per me aliquid, quod ad uestrorum respiciam detrimentum) e avrebbe considerato amici gli amici di Venezia e viceversa. In caso di offese o danni ai Veneziani, sarebbe stata fatta giustizia entro trenta giorni dal reclamo; le liti fra Veneziani o in cui essi fossero i convenuti sarebbero state decise da giudici veneziani e Ravano avrebbe curato l'esecuzione delle sentenze. I Greci sarebbero andati soggetti agli stessi obblighi che avevano al tempo dell'imperatore Manuele Comneno e, da ultimo, Ravano si assumeva l'obbligo di far giurare fedeltà a Venezia ai Latini e a tutti i magnati greci dell'isola (50).
Le strutture dell'impero coloniale vennero create in tempi e modi diversi, adattandosi di volta in volta alle circostanze. Il doge Dandolo resse la Romània veneziana fino alla morte in sostanziale parità con l'imperatore, nei confronti del quale non aveva obblighi di vassallaggio. Al pari di questo adottò i calzari di porpora, che a Bisanzio erano insegna tipica del potere sovrano. Baldovino di Fiandra gli conferì inoltre la dignità di despota, ereditata dalla gerarchia aulica bizantina, nella quale occupava il secondo posto in ordine di importanza (51). Egli tuttavia nulla aggiunse ai propri titoli, limitandosi a definirsi secondo la tradizione doge di Venezia, Dalmazia e Croazia. Al contrario, il podestà che gli succedette adottò una nuova titolatura, in relazione alla duplice funzione da lui svolta, come capo della comunità veneziana e signore dell'impero coloniale, proclamandosi "podestà dei Veneziani di Romània e dominatore di un quarto e mezzo di questo stesso impero" (Dei gratia Venetorum potestas in Romania eiusdemque imperii quarte partis et dimidie dominator) (51).
Il primo podestà veneziano di Costantinopoli fu Marino Zeno, uno dei commissari che nell'estate 1204 avevano diviso i feudi di Romània fra i vincitori della crociata. Lo troviamo in carica il 29 giugno 1205, allorché sottoscrisse un editto, ma non ci è noto il giorno dell'elezione. Fu scelto da un'assemblea di Veneziani di Costantinopoli, della quale faceva parte, e la sua nomina venne semplicemente comunicata a Venezia, senza chiamarla ufficialmente in causa. Non è chiaro se si agì in questo modo per la fretta, imposta dall'andamento disastroso della guerra bulgara, o con precise intenzioni secessionistiche dei Veneziani di Romània, sulla scia di un atteggiamento che potrebbe aver coltivato anche il doge Dandolo. Comunque sia, l'elezione di Marino Zeno non mancò di suscitare sospetti a Venezia. In luglio, quando ne giunse notizia, il vicedoge Ranieri Dandolo inviò un'ambasceria a Costantinopoli per chiedere allo Zeno un rapporto scritto sull'accaduto e questi rispose il 29 settembre professando la propria sottomissione a Venezia. Nella lettera rievocava le circostanze dell'elezione, presentandola come un atto provvisorio in attesa delle decisioni del governo centrale, e proseguiva sottolineando l'impegno solenne, suo e del consiglio che lo affiancava, di accettare il governatore che fosse stato inviato da Venezia. Dava quindi corso alla richiesta presentatagli dai delegati veneziani, relativa ai feudi di Romània, ricordando di aver già deciso in tal senso e riconfermando quanto già deliberato. Il 29 giugno aveva infatti disposto, così come gli fu poi chiesto, che questi non fossero ceduti ad altri se non a cittadini veneziani (53).
La lettera dello Zeno mostra una chiara volontà di sottomettersi alla madrepatria, anche in caso che si tratti, come è probabile, di una semplice giustificazione a posteriori. A Venezia non si dovettero però dormire sonni tranquilli e vennero adottati ulteriori provvedimenti, che nell'arco di un biennio erosero ogni possibile velleità secessionista dei governatori di Costantinopoli. L'iniziativa in tal senso fu presa dal nuovo doge Pietro Ziani, eletto il 5 agosto 1205, che agì risolutamente per imporre un forte controllo sulla comunità di Costantinopoli. Si servì a tal fine dell'appoggio della Chiesa veneziana, che ribadì il legame giurisdizionale con la madrepatria, e intervenne con provvedimenti diretti a limitare i poteri del podestà. Il primo di questi, almeno nell'interpretazione più corrente, è un editto dell'ottobre 1205 con cui il podestà fu obbligato a cedere al controllo diretto di Venezia l'isola di Corfù e la costa dell'Albania e dell'Epiro. In tale direzione sembra inoltre muoversi, almeno in parte, il provvedimento già noto che autorizzava i Veneziani di Romània a impossessarsi delle isole dell'Egeo, dato che questi potevano agire senza far capo alle autorità di Costantinopoli. Ma le misure decisive furono senza dubbio il giuramento di fedeltà al doge e al comune di Venezia e l'usanza di inviare i podestà direttamente da Venezia, anziché farli eleggere a Costantinopoli. Anche in questo caso si agì con risolutezza e il primo a giurare sembra essere stato Ottaviano Quirini che nel 1207 fu mandato da Venezia a sostituire Marino Zeno (54).
Se dunque si manifestò una tendenza secessionista, questa fu di breve durata, né ebbe modo di rivelarsi in concreti atti politici. Prova indiretta del ridimensionamento del podestà è data anche dal rapido variare della titolatura. Il titolo assunto dallo Zeno ritorna in altri documenti del 1205 e 1206, ma in un atto del febbraio 1207 egli si definisce semplicemente podestà dei Veneziani di Costantinopoli "per mandato e volontà del doge" (de mandato et voluntate domini [...> ducis). Nel corso dell'anno precedente si era inoltre modificato il rapporto diplomatico con il doge. In una lettera di luglio, rivolgendosi allo Zeno, Pietro Ziani lo chiamava infatti "diletto figlio nostro, residente a Costantinopoli in nostra vece" (in Costantinopoli loco nostri residens) e, a partire da agosto, lo stesso doge aveva assunto il titolo di "signore della quarta parte e mezzo dell'impero di Romània" che i suoi successori avrebbero poi portato fino al 1356. Il cambiamento è significativo e, anche se Ottaviano Quirini nel marzo 1209 ricorre occasionalmente alla vecchia titolatura, in seguito i podestà la adotteranno soltanto specificando di agire come sostituti dei dominatori della quarta parte e mezzo dell'Impero di Romània (55).
La posizione di grande rilievo dei podestà concentrò nelle loro mani notevoli poteri. Essi operavano nella capitale a contatto con l'imperatore e il patriarca come rettori della comunità veneziana e nello stesso tempo rappresentanti di Venezia di fronte agli imperatori latini, ponendosi così al di sopra di qualsiasi altro governatore veneziano. La giurisdizione del podestà si estese fin dall'inizio su Costantinopoli e la pars prima e nella capitale venne costituito una sorta di duplicato in miniatura del comune veneziano, con consigli e funzionari che avevano gli stessi nomi di quelli della madrepatria. Tra i poteri del podestà rientravano la partecipazione al governo dell'Impero latino e la facoltà di concludere trattati validi per i territori a lui soggetti. La sua importanza risulta evidente anche da atti formali, come l'emissione nel 1220 di una crisobolla per definire una tregua con il sultano di Iconio. In questo modo infatti si comportava come i sovrani di Bisanzio e si poneva sullo stesso piano dell'imperatore latino, che da questi aveva ereditato la prerogativa di emettere documenti con sigillo aureo e sottoscrizione con inchiostro di porpora. Più di un podestà ebbe inoltre dal sovrano latino il titolo aulico di despota, che già abbiamo visto concedere al vecchio doge Dandolo. Marino Zeno adottò infine un abbigliamento parzialmente uguale a quello sovrano, usando a titolo onorifico un calzare di porpora al piede destro (56).
Il patto del marzo 1204 può essere considerato una sorta di carta costituzionale dell'Impero latino. Il contenuto venne sostanzialmente rispettato dai contraenti, ma non di meno a ogni avvicendamento di imperatore si ritenne opportuno confermarlo, aggiungendo talvolta nuove clausole. L'iniziativa in tal senso fu presa dal podestà di Costantinopoli, che nell'ottobre 1205 sottoscrisse nel palazzo delle Blacherne un trattato con Enrico di Fiandra, allora reggente dell'Impero. In termini istituzionali, questo accordo può essere ritenuto più importante di quello del marzo 1204: i rapporti franco-veneziani vennero infatti definiti su base concreta e non in previsione di un incerto futuro, come si era fatto prima della conquista di Costantinopoli. Lo stabilizzarsi della situazione non diminuì tuttavia il peso della componente veneziana, che continuò a essere preminente tanto da costringere l'imperatore a giurare solennemente il rispetto degli accordi con essa conclusi.
Il patto dell'ottobre 1205 si articola in tre punti qualificanti: gli elementi di novità, la riconferma pura e semplice del trattato del 1204 e, infine, la riproposizione di alcune clausole di questo, che dovevano essere ritenute di particolare importanza. Le parti si obbligavano prima di tutto ad accettare l'opera dei partitores, cioè la spartizione dell'Impero effettuata al tempo di Baldovino. Venivano poi fissati i reciproci obblighi militari, in modo molto più dettagliato di quanto non si fosse fatto in precedenza. La guerra sarebbe stata decisa concordemente da un consiglio formato da imperatore, podestà veneziano con i suoi consiglieri e baroni franchi (per potestatem Venetorum et eius concilium et per magnates Francigenarum). Avrebbero preso parte alle operazioni sia i feudatari franchi che quelli veneziani (omnes milites Imperii, tam Francigenes, quam Veneti), obbligati a seguire il sovrano in campagna dal 1 ° giugno al 29 settembre, con un'eccezione per i milites più vicini alla zona di operazioni, tenuti a partecipare solo in quantità dimezzata o addirittura esentati dal servizio, a seconda del pericolo rappresentato per loro dal nemico. Se il territorio imperiale era invaso, però, i limiti temporali delle operazioni potevano essere prolungati, a discrezione del consiglio. Tutti i feudatari dell'Impero, sia Franchi che Veneziani, dovevano impegnarsi con il giuramento a rispettare quanto pattuito. L'imperatore, per parte sua, era tenuto ad adottare ogni provvedimento necessario per la conservazione dello stato e a sottostare alle decisioni adottate in proposito dal consiglio "poiché a tale scopo gli è stata concessa la quarta parte di tutto l'impero di Romània".
In caso di inosservanza del trattato, sia da parte dell'imperatore che dei feudatari, si vietava a entrambi il diritto di rappresaglia attraverso la spogliazione del feudo (expoliare a possessione sua), ma si imponeva l'obbligo di sottostare ai giudici di parte franca o veneziana per dirimere la contesa. L'imperatore era inoltre vincolato da un obbligo generico a non commettere ingiustizie contro i suoi sudditi e, in caso contrario, a darne soddisfazione dinanzi al consiglio in presenza di questi giudici. Venivano quindi tre clausole particolari relative ai Veneziani, di cui le ultime due già chiaramente espresse nel patto del marzo 1204. I Veneziani avrebbero avuto piena libertà di movimento nell'Impero, senza andar soggetti a oneri sulle persone e sulle cose (absque omni contrarietate et absque ulla dactione); erano loro riconfermati, come nel patto precedente e più o meno con le stesse parole, i possedimenti e le onorificenze che avevano avuto sotto l'Impero greco e doveva essere escluso dalla Romània ogni cittadino degli stati in guerra con Venezia fino al termine del conflitto. Veniva quindi esplicitamente riconfermata la validità di tutto il patto del marzo 1204. L'imperatore infine si obbligava a giurare il nuovo patto (dominus Imperator hec omnia iuramento affirmare debet), cosa che poi Enrico di Fiandra fece il 12 agosto 1206, davanti all'altare di S. Sofia poco prima di essere incoronato. Lo stesso sovrano definì poi i rapporti giudiziari tra le comunità franca e veneziana con un lungo documento del marzo 1207 (57).
L'organizzazione periferica della Romània veneziana è assai meno conosciuta di quella della capitale. Sulla Tracia si hanno soltanto informazioni frammentarie su Rodosto, Lampsaco e Gallipoli. Le notizie su Rodosto vengono da una lettera del 10 dicembre 1219, scritta dal podestà Giacomo Tiepolo al doge Pietro Ziani. Sappiamo da questa che i Veneziani di Rodosto si erano organizzati in comune, i cui redditi vennero attribuiti a Venezia per ordine del governo centrale. La comunità locale, divisa come a Venezia in sestieri, aveva provveduto all'elezione di propri magistrati, non graditi però al podestà, che aveva annullato l'elezione ordinandone una seconda, sotto il controllo di suoi rappresentanti, ed esigendo il giuramento degli eletti (fecimus eligere capitaneos, castellanos et consiliarios, quia primam electionem eorum firmam esse nolebamus). Più tardi, il 15 luglio 1224, fu stabilito dal maggior consiglio di Venezia che i capitani di Rodosto e di Gallipoli fossero eletti a Venezia, dagli stessi elettori del podestà di una città di cui non è detto il nome, che certo è Costantinopoli (58). Del 1219 è anche un importante documento, i Tributa Lampsacenorum, una definizione dei redditi dei signori della città in funzione del servizio che essi devono prestare a Venezia. Si tratta in questo caso di un'inchiesta ordinata a tal fine dal podestà, che getta una luce importante sull'ordinamento feudale della Romània veneziana (59).
Sulla Romània occidentale si ha qualche notizia in più. A Durazzo, subito dopo la conquista, fu inviato un governatore da Venezia, con il titolo di duca. Il primo duca a noi noto è Marino Vallaresso, che vediamo in carica nel 1210 allorché trattò l'accordo con il despota di Epiro (60). Corfù non ebbe un regime centralizzato, ma nel luglio 1207 l'isola con le relative dipendenze venne concessa in feudo a dieci nobili veneziani. I dieci si impegnarono a prenderne possesso portando con sé da Venezia, a loro spese, altrettanti cavalieri e quaranta scudieri, un numero di armati ritenuto sufficiente per presidiare il castello. La concessione sarebbe stata ereditaria ma soggetta a una serie di obblighi che i beneficiari giurarono di rispettare. Il numero degli armati doveva essere mantenuto tale e gli eredi dei feudatari erano tenuti a recarsi a Venezia, entro sei mesi dalla successione, per giurare fedeltà e ricevere qui l'investitura dal doge. I dieci nobili si assumevano inoltre l'onere di mantenere le chiese e gli abitanti nella situazione in cui si trovavano prima della conquista latina. Questi ultimi non si sarebbero visti aggiungere nuovi oneri (nichil ab aliquo amplius exigentes, quam quod consueuerant temporibus Grecorum imperatorum), ma avrebbero dovuto giurare fedeltà ai dominatori. I Veneziani presenti nell'isola dovevano essere rispettati nelle persone e nei beni ed esenti da carichi fiscali, con l'impegno a proteggerli e farli risarcire per i danni eventualmente subiti. A ciò si aggiungeva la libertà di esportare mercanzie alla volta di Venezia o di qualsiasi altra località. Era poi fatto divieto ai dieci di ostacolare in qualsiasi modo, apertamente o con la frode, il commercio dei Veneziani (nullam conspirationem vel institucionem facere debemus in facto mercationum contra utilitatem et comodum hominum Venecie). Gli obblighi verso la Repubblica comprendevano in primo luogo l'identità di indirizzi politici, considerando amici gli amici di Venezia e nemici i nemici di questa, senza fare tregue o paci separate. Seguiva quindi l'impegno ad accogliere e assistere adeguatamente capitani, messi e flotte della madrepatria. Se i dogi fossero capitati nell'isola, avrebbero avuto diritto a un'accoglienza solenne, con la prestazione dei dovuti onori, e per loro sarebbero state cantate le laudi in chiesa tre volte all'anno. I feudatari di Corfù, infine, si impegnavano a inviare ogni anno, nel giorno dei ss. Pietro e Paolo, un censo di cinquecento manuelati. In caso di violazione degli obblighi avrebbero perso il beneficio subendo inoltre la confisca delle loro proprietà a Venezia e altrove (61).
Modone e Corone subito dopo la conquista vennero affidate temporaneamente a Ranieri Dandolo. I comandanti veneziani, volendo proseguire per Creta, pensarono inizialmente di raderle al suolo, ma il Dandolo si oppose ottenendo di custodirle a proprie spese e, quando ripartì, vi lasciò due suoi rappresentanti. Dovrebbe trattarsi anche in questo caso di una concessione in feudo, ma il regime istituito dal Dandolo non fu duraturo e venne meno probabilmente con la sua morte. La Repubblica assunse infatti il controllo diretto delle due piazze e vi inviò un proprio governatore. Il primo di questi fu Raffaele Goro "conservatore dei castelli di Modone e Corone" che troviamo in carica fra il 1208 e il 1209. Dopo di lui si ebbero due castellani, forse a partire dal 1211, sostituiti qualche anno più tardi da quattro affictatores, che ressero il territorio per nove anni. La serie dei castellani riprese poi regolarmente e nel 1264 il loro numero venne portato a tre, uno a Modone e due a Corone (62).
A Creta si istituì un duca e il primo fu quel Giacomo Tiepolo che già si è incontrato. Egli arrivò a Creta nel 1209 con i rinforzi inviati per combattere il Pescatore e in seguito vi dovette fronteggiare la rivolta indigena. Nel 1211 inoltre fu dato l'avvio a un sistema di colonizzazione militare attraverso la concessione di feudi nell'isola. A tal fine venne costituita a Venezia una colonia formata da 94 cavalieri (milites) e 26 fanti (pedites) da completare in Creta con altri elementi, scelti dal duca e dal suo consiglio, per raggiungere la cifra totale di 132 cavalieri e 408 fanti. Venne loro concesso l'intero territorio cretese, comprese quindi le parti ancora da conquistare, a eccezione della città di Candia con le zone circostanti, riservate a Venezia, e della proprietà ecclesiastica la cui destinazione sarebbe stata decisa dal duca insieme al suo consiglio. A costoro fu inoltre lasciato il compito di decidere circa il destino dei Greci per quanto concerneva lo stato delle persone e i beni mobili. Tutto il territorio non soggetto a vincolo venne suddiviso in sestieri e assegnato con un criterio proporzionale, per cui il feudo di un fante corrispondeva a un sesto di quello di cavaliere (unusquisque miles ex uobis sex partes possideat, et quilibet peditum habeat unam partem tantum). I feudi dovevano essere in pieno possesso dei beneficiari, che potevano lasciarli in eredità o cederli, con in più il diritto all'assegnazione di terre e di case in Candia e di zone di pascolo per i cavalli e gli altri animali. Essi avrebbero inoltre goduto della facoltà di commerciare liberamente (libere mercationem facere secundum usum mercatorum) e dell'esenzione per quattro anni dal pagamento di tasse.
In cambio si assumevano come d'uso diversi obblighi. I feudi non potevano essere ceduti se non a Veneziani con il consenso del duca e della maggioranza del consiglio e i titolari, legati dal vincolo di fedeltà, erano tenuti "a salvare, custodire e difendere l'isola contro chiunque a onore nostro e dei nostri successori". La successione andava regolata entro un anno, in modo differente a seconda dell'età di chi subentrava nel feudo. I cavalieri erano obbligati a provvedersi di armi, di tre cavalli e di due scudieri, mentre i fanti avevano il compito di armarsi in modo adeguato. Il commercio dei Veneziani non doveva essere danneggiato in alcun modo dai feudatari, i quali avrebbero seguito la stessa linea politica della madrepatria. Venezia li obbligava poi a far cantare quattro volte all'anno le laudi del doge, a dare appoggio militare negandolo ai suoi nemici, ad aiutare il duca nell'adempimento dei suoi compiti, ad accogliere degnamente i dogi e a pagare cinquecento iperperi dopo la scadenza dei quattro anni. Tutto ciò andava giurato e il giuramento doveva essere rinnovato ogni cinque anni a richiesta del duca. In caso di inosservanza il feudo sarebbe stato confiscato da Venezia. I Veneziani dovevano essere garantiti nelle persone e nelle cose ed esenti da oneri, con libertà di movimento, appoggio se subivano danni, libera facoltà di esportare merci tranne le vettovaglie controllate dal duca (63).
I signori dell'Arcipelago, quando conquistarono le isole, diedero vita a principati di fatto indipendenti dal comune. Al termine della conquista, il Sanudo tenne per sé Nasso e altre isole minori costituendo il ducato dell'Egeo Pelago o Arcipelago, di cui fu il primo titolare. Egli ne concesse probabilmente alcune in feudo a nobili veneziani ma, al di là delle tradizioni incontrollabili, sappiamo soltanto che questo fu il caso di Andro, affidata a Marino Dandolo. I Ghisi, a quanto pare, non furono vassalli del Sanudo, mentre il Navigaioso dipendeva direttamente dall'imperatore, dal quale ottenne la dignità di "megaduca de Costantinopoli", un titolo di corte che da Bisanzio era passato nella gerarchia dell'Impero latino. La situazione dei signori delle isole era del tutto particolare e diversa da quella dei feudatari insediati nei territori veneziani: avevano infatti conquistato isole non assegnate a Venezia nella spartizione e riconoscevano come signore l'imperatore latino. Il legame con Venezia, almeno all'inizio, fu assai tenue e dipendeva soltanto dagli obblighi che in teoria comportava lo stato di cittadini e da quelli assunti prima della conquista. Ma in pratica l'ambiguità della situazione consentì loro di operare al di fuori di ogni controllo della madrepatria. L'intervento a Creta del duca dell'Arcipelago è un esempio evidente di quanto si è detto, dato che il Sanudo non si comportò da suddito bensì su un piano di sostanziale parità con Venezia. Diversa fu al contrario la situazione dei Venier e Viaro, che si stabilirono a Cerigo e a Cerigotto come vassalli di Venezia mantenendo così il legame di dipendenza (64).
"In quel tempo [si legge in una cronaca del Duecento> i Veneziani occuparono la chiesa della beata Sofia, dicendo: 'L'Impero è vostro, noi avremo il patriarcato" (65). La prosa ingenua dell'autore sintetizza così un atto ulteriore della spartizione che consegnò a Venezia il patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca bizantino era fuggito, né d'altronde i crociati avevano pensato di mantenerlo in trono, e in obbedienza a un punto dell'accordo del 1204 venne sostituito da un occidentale. La scelta fu lasciata ai Veneziani perché, come si ricorderà, questo e il possesso della chiesa di S. Sofia erano i compensi per la parte dalla quale non fosse stato eletto l'imperatore. Il regime di diarchia con il quale era nato l'Impero latino trovava così una nuova espressione, consegnando di fatto il controllo dell'apparato ecclesiastico ai Veneziani, che già avevano pesantemente ipotecato la genesi politica della neoformazione statale.
Le cose furono però meno semplici del previsto, perché il papa si oppose alle decisioni dei crociati, contestando la confisca delle proprietà della Chiesa bizantina e l'elezione del patriarca. Quest'ultima venne da lui invalidata, come non conforme ai canoni ecclesiastici, ma alla fine Innocenzo III accettò il fatto compiuto confermando il patriarca, che ordinò personalmente imponendogli il pallio in S. Pietro il 20 marzo 1205. Qualche giorno più tardi il Morosini raggiunse Venezia e qui, dopo il 15 maggio, si imbarcò sulla nave che lo condusse a Costantinopoli. L'intervento papale non mise fine però alla pretesa di monopolizzare la vita ecclesiastica dell'Impero latino. Il Morosini venne infatti costretto a giurare di non ordinare canonici a S. Sofia se non veneziani, o almeno residenti da dieci anni a Venezia, e di fare in modo che il patriarca fosse sempre un suo compatriota facendolo poi giurare anche ai canonici. A ciò si aggiunse la promessa di non creare vescovi in tutta la Romània che non fossero veneziani e la rinuncia alla giurisdizione sulle chiese veneziane a Costantinopoli o nelle altre parti dell'Impero. Gli stessi canonici, all'atto della nomina, dovevano inoltre prestare giuramento di preservare il carattere esclusivamente veneziano del clero di S. Sofia. Innocenzo III sciolse il patriarca dal giuramento e continuò poi anche negli anni seguenti a contrastare una simile pretesa egemonica, ma con scarsi successi sostanziali. Malgrado i suoi sforzi, infatti, la maggioranza dei canonici di S. Sofia restò veneziana e veneziani furono la maggior parte dei patriarchi latini (66).
Il patto del marzo 1204 dava inoltre ai contraenti la facoltà di sostituire il clero greco con propri ecclesiastici (clerici vero utriusque partis illas ecclesias ordinare debent, que sue parti contigerint) ma in pratica questa clausola non fu rigidamente applicata e ci si adattò di volta in volta alle situazioni locali. A Costantinopoli i diritti dei Veneziani furono fatti valere con decisione ma altrove, come ad esempio a Rodosto, i vescovi bizantini aderirono al cattolicesimo e vennero perciò mantenuti in carica. In altri casi ci si trovò di fronte a una gerarchia latina già insediata che non fu possibile rimuovere, come accadde a Modone e Corone già soggette all'occupazione franca. A Durazzo, al contrario, il dettato dell'accordo venne rigidamente applicato. Qui prima dell'agosto 1209 i canonici del capitolo elessero un arcivescovo non veneziano, Manfredi, il quale fu poi confermato e consacrato dal patriarca latino. In segno di protesta, il governatore veneziano si impossessò di beni della chiesa locale e impedì all'arcivescovo di entrare in città. Questi si recò a Venezia, ma incontrò un nuovo rifiuto da parte del doge Ziani che negò la possibilità di insediare un dignitario ecclesiastico straniero a meno che non fosse ordinato con il suo consenso. Anche in questo caso intervenne il papa ma la questione fu risolta soltanto l'anno seguente allorché, a Venezia, Manfredi giurò fedeltà al doge assumendosi diversi obblighi nei confronti del comune. Quando poi morì, nel 1211, fu sostituito con un veneziano (67).
La rigidità della posizione veneziana a Costantinopoli e a Durazzo trova una spiegazione di natura politica: nel primo caso l'ovvia importanza della sede, nel secondo la delicatezza dei rapporti con l'Epiro che vennero momentaneamente risolti con il trattato del 1210. Ma in condizioni per così dire normali Venezia mostrò, in campo politico, il consueto pragmatismo che ne faceva l'elemento più dinamico dell'Impero latino. Come già durante la crociata le autorità veneziane operarono lucidamente, allo scopo di rendere stabili le proprie conquiste, e in sostanza anche l'apparato ecclesiastico fu reso funzionale agli interessi della classe dirigente veneziana. Il clero di Romània a conti fatti collaborò efficacemente per sostenere la politica della madrepatria. Lo prova con chiarezza anche la scarsità di incidenti fra autorità civili ed ecclesiastiche, che ebbero soltanto carattere episodico, come le scomuniche del podestà Marino Zeno ad opera del patriarca per il furto di un'icona in S. Sofia nel 1206 e, più tardi, dei castellani di Corone e Modone, in contrasto con il vescovo di Corone per questioni riguardanti i beni della chiesa (68).
Enrico di Fiandra fu senza dubbio il più capace degli imperatori latini. A differenza del fratello, si mostrò un politico duttile e seppe realizzare un modus vivendi con l'elemento greco. La sua energia risollevò le sorti precarie dei Latini dopo Adrianopoli e portò a felice conclusione la guerra bulgara. Ebbe ugualmente successo nella campagna contro i baroni lombardi del Regno di Tessalonica, in rivolta dopo la morte di Bonifacio di Monferrato, che vennero costretti a sottomettersi nel 1209. L'imperatore non riuscì però a impedire l'affermazione degli stati greci ribelli. L'esistenza di altri fronti non rese possibile un intervento decisivo contro Nicea e Teodoro Lascaris ne approfittò per consolidare il proprio dominio. Dopo aver concluso la tregua con l'Impero latino, egli fece rivivere a Nicea il patriarcato ortodosso di Costantinopoli e nel 1208 assunse la corona imperiale, presentandosi come il legittimo titolare del trono di Bisanzio. Nel 1211 Enrico di Fiandra riprese le operazioni contro Nicea ma, non potendo vincere, finì per riconoscerne l'esistenza concludendo un trattato di pace a Ninfeo, verso la fine del 1214, con cui vennero definiti i confini dei due Imperi. Con l'Epiro le cose andarono ancora peggio, perché il despotato si fece ben presto aggressivo nei confronti degli stati latini. Nel 1209, quando il sovrano latino stava per attaccarlo, Michele di Epiro si sottomise, legandosi a lui con un'alleanza matrimoniale, e l'anno seguente riconobbe ugualmente la sovranità veneziana. Subito dopo il trattato con Venezia tuttavia egli assalì la Tessaglia latina, costringendo l'imperatore a scendere in campo per contrastarlo. Gli attacchi proseguirono nei due anni successivi con successi epiroti, poi Michele Angelo si volse contro i possedimenti veneziani, occupando Durazzo e Corfù. Durazzo cadde nel 1213 e Corfù probabilmente l'anno successivo, quando vi si trovava di nuovo un vescovo greco (69). Veniva così dato un primo colpo all'impero coloniale veneziano, che in quegli stessi anni si andava ancora costituendo a prezzo di grandi sforzi.
Enrico di Fiandra morì improvvisamente a Tessalonica nel giugno 1216 a circa quarant'anni di età. Dopo la sua morte ebbe inizio una irreversibile decadenza dell'Impero, cui corrispose in misura inversamente proporzionale l'ascesa degli stati greci. Entrambi tendevano al fine ultimo di riconquistare Costantinopoli, ma per alcuni anni l'elemento più dinamico fu l'Epiro, dove nel 1215 a Michele era succeduto il fratellastro Teodoro. L'Epiro e Nicea avevano in comune l'obiettivo finale e l'odio per i Latini, ma per il resto erano animati da forti rivalità, che presto degenerarono in conflitto aperto. Enrico non aveva discendenti diretti e venne eletto suo successore il cognato Pietro di Courtenay, allora in Francia, che si mise in viaggio per Costantinopoli ai primi del 1217 assieme alla moglie Iolanda. I sovrani fecero tappa a Roma e qui il 9 aprile papa Onorio III li incoronò nella chiesa di S. Lorenzo fuori le Mura. A Roma furono raggiunti anche dagli emissari veneziani, che l'11 aprile ottennero la conferma solenne degli accordi esistenti fra l'Impero e Venezia (legalem societatem et omnia pacta et conuentiones et ordinationes atque honor centias). Pietro di Courtenay si impegnò inoltre a riconquistare Durazzo per conto della Repubblica e partì alla volta di Brindisi con un esercito di più di cinquemila uomini (70). Qui si imbarcò su navi veneziane che lo condussero in Albania, mentre Iolanda proseguì per Costantinopoli dove mise alla luce il futuro Baldovino II. Non è chiaro, a questo punto, se i Latini assediarono invano Durazzo per poi rinunciare all'impresa o se, al contrario, Teodoro di Epiro consegnò la città senza combattere. Il fatto non è però rilevante perché, se vi fu un successo, questo fu di breve durata. Pietro di Courtenay decise infatti di proseguire via terra per Costantinopoli, percorrendo l'antica via Egnazia, e sui valichi di montagna dell'Albania venne proditoriamente fatto prigioniero dal despota di Epiro che ne disperse le truppe. Come già Baldovino, anche il terzo imperatore latino terminò miseramente la propria esistenza in una prigione, senza più dare notizie di sé.
Fu un grande successo per Teodoro Angelo e un'umiliazione bruciante per i Latini. Il trono di Costantinopoli rimase di nuovo vacante e Iolanda assunse la reggenza mantenendola fino alla morte, nel settembre 1219. Si pensò per qualche tempo a una crociata contro l'Epiro, alla quale Venezia avrebbe partecipato, ma non se ne fece nulla quando nel 1218 Teodoro Angelo liberò il legato papale Giovanni Colonna, fatto prigioniero con l'imperatore, scusandosi con il papa e professando la sua fedeltà alla Santa Sede. A seguito di questa abile mossa diplomatica sfumò per Venezia l'ultima possibilità di recuperare Durazzo. La crisi dell'Impero latino non fece venir meno tuttavia l'interesse per la Romània. Sebbene si dubitasse della sopravvivenza dell'Impero, a Venezia si adottò una linea politica di conservazione che si basava su tre obiettivi essenziali: il mantenimento di Costantinopoli, lo sviluppo del commercio e il consolidamento dei domini coloniali. Un notevole passo avanti in tal senso fu fatto nel 1218 concludendo la pace con Genova, fino a quel momento tenuta fuori dall'Impero latino in forza del trattato del 1204. I Genovesi furono riammessi nell'Impero con libertà di praticarvi il commercio e si videro riconfermati i diritti e le proprietà che avevano sotto i sovrani bizantini, con l'obbligo però di pagare le stesse tasse (71).
La ripresa di relazioni normali con Genova, così come si era fatto con Pisa nel 1206, non fu un episodio transitorio. Al contrario le ostilità fra le due repubbliche non furono riprese per più di trent'anni e altri accordi vennero sottoscritti nel 1238 e nel 1251. La riconciliazione mise fine alla guerra di corsa, consentendo a Venezia di concentrare le energie nella difesa dell'Impero e nello stesso tempo di sviluppare i traffici marittimi. Cadono perciò in questi anni i trattati commerciali conclusi dal podestà di Costantinopoli con l'Egitto, con l'Impero di Nicea e il sultano selgiuchide. Il trattato con Nicea dell'agosto 1219, di durata quinquennale, consentiva ai Veneziani di commerciare senza pagare tasse, a differenza dei commercianti niceni tenuti a corrispondere i diritti usuali sia a Costantinopoli che negli altri territori veneziani. Fissava poi altre clausole minori relative ai naufragi, ai beni dei Veneziani defunti nei territori niceni, al conio delle monete, al divieto di approdo di navi nicene a Costantinopoli e di accoglienza di mercenari dai territori veneziani senza il consenso del podestà. Quest'ultimo era un tema attuale, perché i Veneziani rifornivano di mercenari l'Epiro in guerra con l'Impero latino (72).
Quando morì Iolanda, il titolo imperiale passò al suo secondogenito Roberto, che si trovava in Francia. In attesa del suo arrivo, venne nominato un reggente nella persona del fiammingo Conone di Béthune, che già aveva retto l'Impero dopo la morte di Enrico di Fiandra. Il podestà Giacomo Tiepolo ne diede notizia al doge Ziani con una lunga lettera del 10 dicembre, nella quale riferiva in primo luogo le decisioni adottate in merito alla richiesta del legato papale Giovanni Colonna. La questione verteva sulle rendite dei beni ecclesiastici, oggetto di controversia fra l'Impero e la Santa Sede, e il 12 ottobre si era tenuto in proposito un parlamento a Rodosto, alla presenza dello stesso legato e del patriarca latino. I baroni franchi avevano deciso di corrispondere una rendita annuale di tremila iperperi, ma il podestà si era riservato di dare una risposta a Costantinopoli, quando avesse ricevuto ordini dalla madrepatria. A causa delle insistenze del legato papale aveva però affrettato i tempi, concedendo a sua volta la stessa somma d'intesa con i suoi collaboratori. Ne dava ora notizia al doge, giustificando l'iniziativa con il timore della scomunica (timorem rinculi excomunicationis plene etiam dubitantes) che in caso contrario li avrebbe facilmente colpiti. A Rodosto egli aveva inoltre adottato provvedimenti per la comunità locale, di cui si è detto, in obbedienza a ordini ricevuti (secundum quod per vestras litteras nobis praecipiendo misistis). Sulla via del ritorno a Costantinopoli, il podestà e i baroni si erano fermati a Selimbria per eleggervi il reggente dell'Impero, che aveva giurato il rispetto dei patti con Venezia "in modo abbastanza conveniente" (et nobis sacramentum fecit satis decenter, quod nobis et nostro consilio tunc placuit, et ipsum sacramentum suo sigillo sigillatum habemus). Con la stessa lettera, il podestà annunziava al doge la morte del patriarca Gervasio (8 novembre 1219), aggiungendo che si adoperava perché fosse eletto un altro veneziano, e infine chiedeva l'invio di almeno dieci navi da guerra per proteggere i Veneziani e i loro interessi (73).
Roberto di Courtenay fu incoronato a Costantinopoli il 25 marzo 1221 dal patriarca latino Matteo, appena entrato in carica dopo una lunga vacanza della sede, e rinnovò a sua volta i patti con Venezia. Due anni più tardi egli concluse un trattato, con il podestà Marino Storlato, sui redditi dei quartieri commerciali latini di Costantinopoli (campi regiae civitatis), che vennero divisi in ragione di cinque ottavi per l'imperatore e il resto per i Veneziani. Nel 1224 la stessa norma fu estesa ai quartieri dei Provenzali e degli Spagnoli che, per motivi a noi ignoti, erano rimasti esclusi dall'accordo precedente. Venivano così completate le disposizioni prese al momento della spartizione riconfermando la preminenza di Venezia, della quale gli Occidentali residenti a Costantinopoli divenivano tributari (74).
Durante il regno inglorioso di Roberto di Courtenay, che si mostrò del tutto incapace, gli Epiroti raggiunsero il massimo della loro potenza ai danni dell'Impero. Nel 1218 Teodoro Angelo attaccò in Tessaglia, volgendosi poi contro la Macedonia per dare inizio a un progressivo accerchiamento di Tessalonica, dove governava Maria, vedova di Bonifacio di Monferrato, in nome del figlio minore Demetrio. Tra il 1218 e il 1222 vennero travolti tutti i punti fortificati intorno alla capitale del Regno, costringendo alla fuga la reggente e il figlio nel corso di quest'ultimo anno. Demetrio di Monferrato si recò da papa Onorio III e riuscì a convincerlo a bandire una crociata in difesa del suo Regno sotto la guida del fratellastro Guglielmo. A questa vennero invitati anche i Veneziani e forse fornirono navi, ma in ogni modo essa non ebbe sviluppi positivi. Tessalonica venne infatti assediata nel 1223 e capitolò alla fine dell'anno successivo, mentre la crociata arrivò in Grecia soltanto alcuni mesi dopo e qui si disperse quando Guglielmo di Monferrato morì di malattia. Teodoro Ducas aveva aggiunto al dominio originario la Tessaglia e gran parte della Macedonia e, dopo questo straordinario successo, si fece a sua volta incoronare imperatore a Tessalonica dall'arcivescovo di Ochrida. Nascevano così due Imperi greci, contrapposti a un ormai esangue Impero latino.
La pace con Nicea venne mantenuta fino al 1222 e forse in questi anni fu data attuazione al trattato con Venezia. Quando però nel 1222 morì Teodoro Lascaris e gli successe il genero Giovanni Ducas Vatatze, i Latini si inserirono nella contesa dinastica che ne seguì, appoggiando i fratelli maggiori del Lascaris contro Vatatze e mossero guerra a Nicea. La mossa fu avventata perché la guerra andò male. Essi subirono una pesante sconfitta e nel 1225 sottoscrissero un trattato che privò l'Impero di tutti i territori di Asia Minore, eccetto Nicomedia e la costa di fronte a Costantinopoli. Malgrado i continui rovesci, però, a Venezia si doveva essere ancora determinati a mantenere l'Impero. Pare provarlo anche il progetto di trasferire la capitale a Costantinopoli, che dovrebbe appunto cadere verso il 1224. Secondo una fonte cinquecentesca, ma non di meno attendibile, il doge Ziani sarebbe stato un acceso sostenitore della proposta, nella convinzione che Costantinopoli dovesse essere conservata come il punto centrale dell'impero coloniale veneziano (75). In pratica non se ne fece nulla, ma è comunque indubbio che questo fu l'indirizzo politico seguito a Venezia. Negli anni successivi, infatti, essa rappresentò il sostegno più solido dell'Impero latino, come unica potenza in grado di contrastare la potenza navale che i Niceni riuscirono a mettere in campo.
Giovanni Vatatze continuò a espandersi ai danni dei Latini e nel 1225 inviò truppe in Tracia: le forze nicene presero alcune città costiere entrando quindi in Adrianopoli, da dove però vennero costrette a ritirarsi dagli Epiroti, che a loro volta occuparono la città. In questi frangenti si compiva anche il destino della Tracia veneziana. La successione degli avvenimenti ci è in gran parte ignota, come molti aspetti di questo tormentato periodo, ma sappiamo che Lampsaco cadde in mano a Giovanni Vatatze, probabilmente nel 1224, e l'anno seguente la stessa sorte toccò a Gallipoli. Quest'ultima in seguito tornò ai Veneziani, ma fu loro definitivamente sottratta da Vatatze nel 1235 (76). Nel 1225 il centro dell'Impero latino era ridotto a Costantinopoli e ai sobborghi, senza collegamenti diretti con la periferia, e sembrava sul punto di cadere in mano all'imperatore greco di Tessalonica, che si preparava all'assalto finale. Continuerà tuttavia a sopravvivere per alcuni anni, al di là di ogni apparenza, non tanto per propria virtù quanto per gli errori e i contrasti dei suoi avversari. Tra questi si inserì ora l'Impero bulgaro, riportato all'antica potenza dallo zar Ivan II Asen, sul trono dal 1218, e a sua volta intenzionato a impossessarsi di Costantinopoli.
Nel 1228 morì Roberto di Courtenay lasciando il fratello minore Baldovino, per cui si impose di nuovo la scelta di un reggente. Ivan II Asen avanzò la propria candidatura, ma i baroni nominarono reggente e imperatore il re titolare di Gerusalemme Giovanni di Brienne, un anziano e valoroso soldato, che al momento combatteva per conto del papa contro Federico II. Fu convenuto che portasse a vita il titolo di imperatore latino e che quando Baldovino II avesse raggiunto i vent'anni regnassero insieme come co-imperatori. L'accordo venne ratificato da papa Gregorio IX nell'aprile 1229, ma passarono altri due anni prima che dall'Italia Giovanni di Brienne raggiungesse Costantinopoli. Questo vuoto di potere rendeva le cose più facili a Teodoro Angelo; egli, però, anziché dirigersi su Costantinopoli, preferì coprirsi le spalle assalendo i Bulgari, e sottoscrisse una tregua di un anno con i Latini nel dicembre 1228. La campagna bulgara si risolse però in un disastro: nella primavera 1230 l'esercito epirota venne distrutto a Klokotnica, sulla Maritza, e lo stesso Teodoro fu fatto prigioniero. La battaglia di Klokotnica segnò la fine dell'Epiro come potenza egemone, anche se il fratello di Teodoro, Manuele, riuscì a conservare il trono di Tessalonica. Egli dovette abbandonare ogni pretesa su Costantinopoli e lo zar bulgaro occupò i territori da poco conquistati dall'Epiro e una parte dell'Albania. L'iniziativa era passata nelle sue mani e a ragione egli poteva vantarsi del fatto che i Franchi, confinati nella sola Costantinopoli, governavano a sua discrezione. Ma in realtà chi trasse i maggiori vantaggi dalla situazione fu Nicea, che si era liberata del rivale e che, una volta esaurita la spinta bulgara, si sarebbe affermata come unica potenza.
Nel 1229 divenne doge di Venezia Giacomo Tiepolo, primo duca di Creta e podestà di Costantinopoli dal 1218 al 1220 e di nuovo dal 1224 al 1227. La sua esperienza ne faceva un conoscitore dei problemi di Romània e tale si sarebbe mostrato nei vent'anni di governo, compiendo notevoli sforzi per mantenere l'impero coloniale veneziano. Sotto il suo dogato, la Repubblica evitò di mescolarsi al conflitto che in Italia opponeva il papa a Federico II e mantenne buone relazioni con Genova, concentrando così le proprie energie in Oriente. Liberi da altre preoccupazioni, i Veneziani provvedettero a trasportare Giovanni di Brienne a Costantinopoli, dove fu incoronato. Nella primavera del 1231 questi inviò a Venezia, da Perugia, il proprio plenipotenziario Pietro di Altomanno che il 7 aprile a suo nome confermò, come d'uso, i patti degli imperatori latini con Venezia e fissò le modalità di trasporto. Venezia mise a disposizione gratuitamente le navi per trasportare 1.200 cavalli, 500 cavalieri e 5.000 altri uomini con il relativo equipaggiamento. La flotta, scortata da quattordici galere, poteva attraccare in qualsiasi punto della Romània, a discrezione del reggente, e i Veneziani avrebbero provveduto ai viveri per tre mesi dal momento della partenza. L'accordo venne confermato da Giovanni di Brienne il 29 maggio e il 1° agosto la partenza ebbe luogo (77).
Il nuovo sovrano non ottenne risultati di rilievo e le truppe giunte dall'Occidente si dispersero rapidamente, quando cominciarono a non essere pagate. La situazione si fece drammatica nel 1235, allorché Ivan II Asen si alleò con Nicea contro i Latini. Il patto venne stipulato a Gallipoli, appena strappata ai Veneziani da Vatatze, e fu poi suggellato con un'alleanza matrimoniale; ad esso aderì, sia pure in subordine, anche l'imperatore di Tessalonica. Si era così riformata, come ai tempi di Kalojan, una coalizione bizantino-bulgara per abbattere l'Impero latino. Gli alleati attaccarono in forze Costantinopoli per terra e per mare ma la città fu salvata dal coraggio di Giovanni di Brienne e dalla flotta veneziana. In previsione dell'assedio, il podestà Teofilo Zeno aveva chiesto aiuto alla madrepatria e di qui arrivarono venticinque galere, al comando di Leonardo Querini e Marco Gausono, che attaccarono la flotta nicena forte di cento legni. I Niceni si sottrassero allo scontro, temendo evidentemente la superiorità tecnica degli avversari, ma persero ugualmente venticinque galere che furono catturate. Questa vittoria diede nuova fiducia ai Latini e fu celebrata con grande entusiasmo a Costantinopoli, come ricorda nel suo stile cortese il da Canal:
Con grande gioia e con grande festa i Veneziani si recarono a Costantinopoli, conducendovi la grande vittoria che Domineddio aveva loro data. E i due nobili capitani furono accolti come avevano meritato; e messer Baldovino, il nobile imperatore di Costantinopoli, e messer Teofilo Zeno, il nobile podestà, mostrarono loro gioia e stragioia.
Gli alleati si ritirarono e, poco più tardi, la squadra veneziana rientrò in patria, dove i comandanti vennero accolti con analogo entusiasmo. Bulgari e Niceni tornarono all'attacco nel 1236, ma subirono un'altra sconfitta. Questa volta fu decisivo l'intervento del principe di Morea, Geoffroy II de Villehardouin, che con una flotta di 120 navi portò rinforzi agli assediati forzando il blocco navale nemico. Con il suo aiuto e con quello di Veneziani, Genovesi e Pisani l'imperatore poté nuovamente salvare la sua capitale (78).
L'Impero era però allo stremo e nel corso dello stesso anno Baldovino II partì per l'Occidente in cerca di aiuto. Papa Gregorio IX bandì una crociata ma le cose andarono per le lunghe e l'imperatore poté tornare soltanto alla fine del 1239, portando con sé forze consistenti. Nel marzo 1237 morì inoltre Giovanni di Brienne, lasciando Costantinopoli in uno stato miserevole. L'imperatore di Nicea controllava infatti gli accessi alla città, esposta alle incursioni delle sue truppe e, anche senza un assedio diretto, il blocco rendeva sempre più difficile l'esistenza dei Latini. Isolata e a corto di viveri, nella morsa nemica, la capitale dell'Impero latino correva un pericolo mortale. Da questa situazione, però, Costantinopoli uscì a causa di un improvviso rovesciamento di fronte: Ivan II Asen, timoroso della crescita di Nicea, ruppe l'alleanza e si schierò con i Latini, spostando così l'equilibrio delle forze a loro vantaggio. La cosa non fu di lunga durata perché, a seguito di un nuovo voltafaccia, lo zar bulgaro fece pace con il sovrano di Nicea verso la fine del 1237, ma servì a dare un po' di respiro agli Occidentali (79). Con quest'ultima mossa Ivan II Asen uscì di fatto dalla scena politica fino a quando morì, nel 1241; la sua morte, come già quella di Kalojan, fu seguita da una nuova fase di disgregazione della potenza bulgara.
L'impotenza dell'Impero latino era legata anche alla disperata situazione finanziaria in cui si trovava. L'esempio più evidente viene dalla cessione in pegno della corona di spine, una delle reliquie più sacre conservate a Costantinopoli. Durante l'assenza di Baldovino II, infatti, il reggente dell'Impero Anseau di Cayeux e i baroni ottennero dal podestà Albertino Morosini, in unione con altri, un prestito di 13.134 iperperi dando in pegno la reliquia. Alla scadenza, non si riuscì però a pagare il debito e fu ottenuto un nuovo prestito dal banchiere veneziano Nicolò Quirino il 4 settembre 1238. Questa volta fu convenuto che, se entro il termine del 10 novembre la corona di spine non fosse stata riscattata, sarebbe divenuta proprietà del Quirino che l'avrebbe portata a Venezia. Quando però Baldovino II fu informato, si rivolse a re Luigi IX il Santo che la riscattò dopo che era già arrivata a Venezia. La corona di spine prese quindi la via di Parigi dove il re fece costruire la Sainte-Chapelle per custodirla (80).
La defezione dei Bulgari non fermò Giovanni Vatatze ma ebbe il risultato di ritardare la fine dell'Impero latino. Il sovrano di Nicea assediò nuovamente Costantinopoli per terra e per mare e di nuovo il principe di Acaia intervenne per sbloccare la città, verso l'estate del 1238, in collaborazione con i Veneziani. L'arrivo delle forze crociate di Baldovino II, l'anno successivo, ebbe come conseguenza una momentanea ripresa dei Latini, che alleandosi con i Cumani nel 1240 riuscirono a riprendere Tzouroulon, una posizione chiave per il controllo degli accessi a Costantinopoli. Vatatze tentò un'azione diversiva contro la capitale, ma la sua flotta fu intercettata e messa in fuga dalle navi veneziane condotte dal podestà Giovanni Michiel. Forti della loro superiorità tecnica, già rivelatasi in precedenza, i Veneziani ebbero ragione dei nemici malgrado la sproporzione numerica e ne affondarono dieci galere (8'). Dopo questo episodio, le ostilità vennero interrotte nel 1241 con una tregua biennale.
Giovanni Vatatze visse fino al 1254 ma non fece altri tentativi per impossessarsi di Costantinopoli. Riuscì però a espandere notevolmente l'Impero di Nicea raddoppiandone l'estensione. Nel 1242 mise fine all'Impero di Tessalonica e quattro anni più tardi, quando la minaccia dei Mongoli finì di gravare su Nicea, riprese le operazioni nei Balcani sottraendo territori ai Bulgari e occupando Tessalonica nel dicembre 1246. Espulse quindi i Latini da Tzouroulon e da Vize riducendoli di nuovo alla sola capitale e ai dintorni di questa. In seguito conseguì altri successi sottraendo Rodi ai Genovesi e a spese del despotato di Epiro, staccatosi da Tessalonica dopo la battaglia di Klokotnica e nuovamente in espansione. Avviò inoltre contatti con il papato per la cessione di Costantinopoli in cambio dell'unificazione religiosa, cosa che gli avrebbe consentito di completare la sua opera, ma le trattative non andarono in porto. Nel frattempo l'Impero latino continuava la propria parabola discendente, sopravvivendo soltanto per gli incidenti di percorso che ritardavano l'azione del sovrano di Nicea. Dopo la partenza dei crociati di Baldovino II non arrivarono più rinforzi e, nel 1244, l'imperatore prese di nuovo la strada dell'Occidente in cerca di aiuto, ma tornò quattro anni più tardi a mani vuote. Il degrado era tale che, quando fu di nuovo a Costantinopoli, dovette vendere tutto quanto possedeva e il piombo che copriva i suoi palazzi per procurarsi denaro. Per ottenere un prestito da mercanti veneziani, fu inoltre costretto a dare in pegno l'unico figlio Filippo, che sarà poi trattenuto a Venezia fin dopo la caduta di Costantinopoli (82).
A Giovanni Vatatze successe il figlio Teodoro II Lascaris, che non modificò la politica paterna e fu costretto a combattere contro i Bulgari e gli Epiroti. Quando morì, nell'agosto 1258, il trono passò al figlio in minore età, ma la reggenza fu assunta con un colpo di stato da Michele Paleologo, poco più tardi proclamato co-imperatore. Anche a Venezia non si ebbero cambiamenti di linea politica al tempo di Marino Morosini, subentrato a Giacomo Tiepolo nel 1249. Sotto il dogato di Raniero Zeno, eletto nel 1253, ripresero al contrario le ostilità con Genova, con conseguenze disastrose per l'Impero latino, anche se ancora una volta il naturale succedersi degli avvenimenti fu ritardato da fatti imprevisti. La rivalità fra Epiro e Nicea raggiunse infatti l'acme in quegli anni, facendo passare in secondo piano per i Greci la conquista di Costantinopoli. Nel 1257 Michele II, despota di Epiro, iniziò una campagna contro Tessalonica e, per farla finita con Nicea, si alleò con Manfredi re di Sicilia, che si era impossessato di Corfù, Durazzo e altri centri epiroti, e con il principe di Acaia Guillaume de Villehardouin. La triplice alleanza, con l'appoggio della Serbia, minacciò gravemente Nicea, ma la situazione venne risolta da Michele Paleologo, che nell'autunno del 1259 sconfisse gli alleati a Pelagonia, in Macedonia, facendo prigioniero lo stesso principe di Acaia. Come già trent'anni prima, questa battaglia mise in ginocchio l'Epiro e nello stesso tempo rimosse ogni ostacolo sulla via di Costantinopoli.
Nel gennaio 1259 i Latini chiesero una tregua di un anno a Michele Paleologo, nella speranza di ricevere soccorsi, ma nessuno si mosse per salvare l'Impero. Le uniche potenze ancora interessate a conservarlo, il papato e Venezia, non erano in grado di intervenire in modo adeguato. Papa Alessandro IV era impegnato nelle vicende italiane e Venezia, a sua volta impegnata nella guerra con Genova, non poteva occuparsi più di tanto di Costantinopoli, il cui mantenimento costava enormemente (83). Ciò malgrado la città non venne abbandonata: nel 1259 il doge autorizzò il podestà Marco Gradenigo a raccogliere tremila iperperi per difenderla e l'anno seguente, a questo scopo, podestà e consiglieri presero in prestito duecento iperperi da un mercante veneziano. Nel maggio dello stesso 1260, inoltre, il doge Zeno promosse un'iniziativa volta a reclutare una guarnigione permanente di mille uomini per la difesa di Costantinopoli. Non vi sono prove che il progetto sia stato realizzato, ma esso è indicativo della linea di tendenza della politica veneziana, ancora indirizzata alla conservazione della capitale di Oriente. In ogni caso, nelle acque di Costantinopoli stazionavano regolarmente navi veneziane e ciò rappresentava un forte deterrente, dato che difficilmente la città poteva essere conquistata senza un attacco simultaneo da terra e da mare (84).
Nella primavera del 1260 Michele Paleologo cercò di prendere Costantinopoli con l'aiuto di un traditore latino, ma il tentativo fallì ed egli si ritirò concludendo una nuova tregua di un anno con Baldovino. Verso la fine dello stesso anno intervenne un fatto nuovo, destinato a modificare il quadro internazionale. Arrivarono infatti presso l'imperatore niceno due emissari genovesi, con una proposta di alleanza in chiave antiveneziana. I negoziati andarono in porto e, il 13 marzo 1261, venne concluso a Ninfeo un trattato, ratificato solennemente a Genova con piccole modifiche il 10 luglio 1261. In forza dell'accordo, la Repubblica avrebbe messo a disposizione di Nicea fino a cinquanta navi, equipaggiate a spese dell'imperatore, ottenendo in cambio una serie di privilegi, fra i quali la libertà di commerciare senza pagare dazi in tutto l'Impero. I mercati greci sarebbero stati preclusi ai nemici dei Genovesi e, una volta riconquistata Costantinopoli, essi avrebbero recuperato tutti i loro possedimenti in città, aggiungendo a questi alcune proprietà veneziane, se avessero contribuito alla presa della città. Il trattato rovesciava dunque i rapporti di forza delle repubbliche marinare in Oriente, assicurando la supremazia a Genova e, nello stesso tempo, metteva a disposizione di Nicea le forze navali di cui aveva bisogno.
Subito dopo il trattato, sedici galere genovesi vennero inviate in Oriente, ma l'intervento di queste non fu necessario perché Costantinopoli cadde in modo imprevisto. Poco prima che scadesse la tregua, infatti, Michele inviò in ricognizione in Tracia un suo generale, il cesare Alessio Strategopulo, con circa ottocento uomini e l'ordine di passare vicino a Costantinopoli per spaventare i Latini. Quando però Strategopulo giunse in prossimità della capitale, venne a sapere che essa era pressoché priva di difensori e decise di approfittarne. L'intera flotta, costituita da trenta navi veneziane e una siciliana, era infatti partita al comando del podestà Marco Gradenigo per attaccare l'isola di Dafnusia nel mar Nero, appartenente a Nicea. Su questa si era imbarcata quasi tutta la guarnigione latina, lasciando in città soltanto l'imperatore con il suo seguito. Con l'aiuto dei "Volontari", una popolazione di origine greca che viveva nei dintorni di Costantinopoli, i Niceni entrarono in città nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1261. Al mattino seguente, i Latini cercarono di resistere ma vennero dispersi e l'imperatore Baldovino II, vista inutile ogni difesa, si preparò a fuggire. Nel corso della stessa giornata tornò la flotta e il cesare, su consiglio di un collaboratore, ordinò di dar fuoco alle case dei Latini lungo la riva, cominciando da quelle veneziane, in modo che questi pensassero alle loro famiglie in pericolo rinunciando al contrattacco. Lo stratagemma diede i risultati sperati e gli Occidentali non poterono fare altro che provvedere all'evacuazione, abbandonando dolorosamente la città che ormai consideravano la loro patria. In numero forse di tremila, si ammassarono sulle navi, che li condussero a Negroponte. Molti però morirono di fame prima di giungere a destinazione. Fuggirono anche l'imperatore Baldovino, ferito nell'ultima battaglia, il podestà veneziano e il patriarca latino Pantaleone Giustiniani. Finiva così l'Impero latino di Oriente, dopo cinquantasette anni di vita (85).
Quando cadde Costantinopoli, l'impero coloniale veneziano si era ridotto a ben poco. La pars prima era andata perduta interamente, mentre della pars secunda restavano soltanto Corone e Modone, alle quali si devono aggiungere Creta e le isole dell'Arcipelago. Il controllo dei due centri del Peloponneso non diede problemi, ma a Creta continuarono a esserci difficoltà. Nel giugno 1222 fu inviata un'altra colonia di feudatari e da questa iniziativa, probabilmente, prese l'avvio una nuova rivolta, guidata dai Melissini, che venne chiusa con un trattato del 1224 (86). Quattro anni dopo, per iniziativa di alcune famiglie arcontali, ebbe però inizio una rivolta di maggiori proporzioni, che proseguì fino al 1236. I disordini si estesero in quasi tutta l'isola e offrirono all'imperatore di Nicea la possibilità di intervenire, mettendo così in forse la stessa dominazione veneziana sull'isola. Ne furono promotori gli Skordili e i Melissini e, seguendo l'esempio di Giacomo Tiepolo, il duca Giovanni Storlato chiamò in aiuto il duca dell'Arcipelago Angelo Sanudo, subentrato al padre verso il 1227. I Greci, a loro volta, ricorsero a Giovanni Vatatze, che inviò a Creta una flotta di trentatré navi, al comando del megaduca Aussenzio. L'arrivo di queste forze fece ritirare il duca dell'Arcipelago che, a quanto pare, fu corrotto dai Greci e consentì ai ribelli di conseguire notevoli successi. Qualche tempo più tardi la flotta nicena ripartì, per naufragare in prossimità di Cerigo, lasciando però nell'isola le truppe di terra. I Veneziani, inizialmente a mal partito, cominciarono a ristabilire la situazione nel febbraio 1233, attirando dalla loro parte due capi ribelli che, in cambio di feudi, si sottomisero alla Repubblica e si impegnarono a combattere per essa contribuendo a cacciare i Niceni da Creta (et anatolicos pro nostro posse fugare et ponere illos foris de terra), a meno che questi ultimi non si sottomettessero ottenendo il permesso di rimanere e ricevendo concessioni in terre. Nello stesso tempo venne inviato da Venezia un nuovo gruppo di feudatari per colmare i vuoti che si erano aperti nelle loro file (87).
La situazione si capovolse a partire dal 1234. Giovanni Vatatze inviò un'altra flotta da Nicea, ma questa fu costretta a ritirarsi dopo uno scontro con i Veneziani nelle acque della Suda. Quando poi arrivò il nuovo duca Angelo "Gradonico", parte dei ribelli aderì alla sua politica di conciliazione, stipulando due importanti trattati che tolsero molta ragion d'essere alla rivolta. Il primo di questi venne concluso con gli abitanti Apano e Cato Sivritos che ottennero il perdono in cambio della resa. I Veneziani fecero diverse concessioni e i ribelli, per parte loro, si impegnarono a combattere gli irriducibili, i Niceni e chiunque altro si fosse ribellato in seguito, rispettando inoltre una limitazione al pascolo e alla semina. Il duca, su richiesta dei Greci, avrebbe scritto al doge per ottenere la conferma degli accordi con una crisobolla (rogare dominum Ducem cum precibus, quod hoc concordium mandet grissovolum et privilegium). L'altro trattato fu stipulato all'incirca nello stesso tempo con i due arconti Nicola Daimonoiannis e Michele Melissinos, che cedettero ai Veneziani il castello di S. Nicolò, al momento ancora in mano ai Niceni, accordandosi sull'ordinamento futuro di questo. Ancora nel 1234, infine, il doge Tiepolo fece un trattato con il signore bizantino di Rodi, Leone Gavalas, che si impegnò ad aiutare il duca di Creta contro i Niceni. Secondo i termini dell'accordo, tra l'altro, i sudditi di Gavalas potevano commerciare liberamente a Creta e lo stesso valeva per i Veneziani a Rodi. L'alleanza però fu del tutto effimera, dato che l'anno dopo Gavalas comandava la flotta bizantina che attaccò Costantinopoli (88).
I Niceni furono messi alle strette e la guerra terminò con la loro resa nel 1236. Essi vennero a patti con il duca Stefano Giustinian, cedendo il castello di S. Nicolò e altri punti fortificati che ancora presidiavano. In cambio ottennero la facoltà di mantenere le armi, le loro cose e di evacuare l'isola per recarsi in Asia Minore.
I Veneziani avrebbero consegnato i prigionieri di guerra, consentendo inoltre a un numero limitato di Cretesi di partire con i Niceni (si de Cretensibus, qui sunt in castello S. Nicolai, usque ad tres vel quatuor volunt venire vobiscum, facere possint). Terminò così la rivolta indigena dando inizio a un periodo di relativa tranquillità che durò fino alla caduta di Costantinopoli, dopo la quale Michele Paleologo e i Genovesi intervennero per fomentare nuovi disordini. In questi anni di calma venne fondata La Canea e si inviò da Venezia una nuova colonia di milites da insediare nella città e nel relativo territorio. In questo erano comprese anche le isole di Gozzo e di Antigozzo, occupate qualche anno dopo dal feudatario cretese Giacomo Querini con le navi concessegli dal duca di Creta. Il Querini aveva acquistato metà dei diritti sulle isole da un altro feudatario, che ne aveva avuto la concessione e, dopo la conquista, comprò anche l'altra metà assicurandosi l'intero feudo (89).
I trattati del 1209 e 1210 restarono lettera morta, almeno per quanto riguarda i contenuti politici, a eccezione di quello con l'Eubea. Il signore dell'Epiro alla prima occasione si impadronì di Durazzo e Corfù e Venezia non fu in grado di ristabilire i propri diritti. In seguito, dopo la confisca del carico di una nave naufragata a Corfù, Venezia proibì ai propri mercanti di svolgere la loro attività in qualsiasi porto del territorio di Teodoro Angelo (90). La sconfitta subìta da parte dell'Epiro ebbe conseguenze anche nei rapporti con il conte di Cefalonia, che abbandonò Venezia per porsi sotto protezioni più solide. Il vincolo di vassallaggio dei principi di Acaia rimase puramente nominale, ma non di meno i rapporti fra Venezia e la Morea furono buoni per parecchi anni. Diverso fu al contrario il caso dell'Eubea, perché qui l'influenza stabilita dal trattato del 1209 continuò a crescere. Nella capitale Negroponte fu insediato un bailo, attestato a partire dal 1216, che amministrava la colonia veneziana dell'isola. Quale rappresentante del doge, nella sua qualità di signore dell'Eubea, questo funzionario aveva un'ampia autorità, tanto da poter stabilire le assegnazioni dei feudi. Quando infatti morì Ravano dalle Carceri, gli eredi si rivolsero al bailo Pietro Barbo perché regolasse la successione ed egli, nel 1216, divise l'isola in tre grandi feudi, tutti comprensivi di parte della città di Negroponte, ognuno dei quali venne affidato a due eredi. I terzieri, per parte loro, riconobbero la sovranità veneziana e si assunsero gli stessi obblighi di Ravano dalle Carceri, concedendo in più l'uso delle proprie misure ai mercanti veneziani, l'ampliamento del quartiere in Negroponte e una dotazione per la locale chiesa di S. Marco. In caso di morte di un titolare, gli sarebbe subentrato l'altro con signoria su tutto il terzo (tota pars tercia insule nominate deuenire debeat in ipsum) e a sua volta obbligato a mantenere gli accordi con Venezia (91).
Ravano dalle Carceri, riconoscendo nel 1209 la sovranità veneziana, era divenuto vassallo di Venezia e del re di Tessalonica. In seguito i diritti feudali del re di Tessalonica erano passati all'imperatore latino, per essere poi trasferiti al principe di Acaia Geoffroy II de Villehardouin verso il 1233. Questo fatto sarebbe stato gravido di conseguenze, perché alcuni anni più tardi portò a un conflitto con Venezia. Quando infatti nel 1255 morì senza figli Carintana dalle Carceri, seconda moglie del principe di Acaia Guillaume de Villehardouin e titolare di un terzo dell'Eubea, Guglielmo da Verona e Narzotto dalle Carceri, signori del terzo meridionale e centrale, si appropriarono della sua signoria, consegnandola al loro congiunto Grapella dalle Carceri ed escludendo gli eredi collaterali. Questi si rivolsero al Villehardouin che, nel 1256, si recò in Eubea dove chiamò in giudizio i due terzieri e li fece imprigionare, impadronendosi del terzo settentrionale e della loro porzione di Negroponte. Dopo la sua partenza, il bailo Paolo Gradenigo, sollecitato dalle mogli e dai seguaci dei terzieri, radunò i suoi e si impossessò con le armi della città. Alla notizia di quanto era accaduto, il principe di Acaia spedì in Eubea forze consistenti al comando di Geoffroy de Briel, signore di Caritena, che devastarono l'isola e rioccuparono la capitale disperdendo i Veneziani (92).
Iniziò così un conflitto destinato a durare per un biennio e a estendersi su più fronti. Venezia inviò sette galere con il nuovo bailo Marco Gradenigo, che mise l'assedio a Negroponte e il 14 giugno 1256 stipulò trattati con Narzotto dalle Carceri e Guglielmo da Verona, rimessi in libertà dal principe di Acaia. Essi si impegnarono a fare "viva guerra" al Villehardouin (vivam guerram contra dominum Guillielmum, principem Achadie, et coadiutores suos) senza concludere pace separata e, nello stesso tempo, rafforzarono i legami di dipendenza da Venezia, proclamandosi uomini ligi del doge. Confermarono le concessioni precedenti e, in aggiunta a queste, diedero a Venezia il castello sul ponte che univa Negroponte alla terraferma. La Repubblica si vide poi attribuire due quartieri della città e, al posto del tributo in denaro previsto nei trattati del 1209 e del 1216, la riscossione dell'imposta sulle operazioni commerciali (comerclium), da cui erano esenti i mercanti veneziani, i borghesi di Negroponte e i terzieri stessi (93).
Il conflitto assunse proporzioni maggiori con la costituzione di alleanze da una parte e dall'altra: si schierarono tra gli altri con Venezia Guillaume de la Roche, fratello del duca franco di Atene, e quindi lo stesso duca Guy, mentre il principe di Acaia trovò alleati in Eubea, nella famiglia del duca di Atene, in Genova e fra i Bizantini. Si dilatò anche il fronte e la guerra fu combattuta con esiti diversi in Eubea, nel territorio del ducato di Atene, intorno a Corone, nella Morea settentrionale e sul mare. Il Villehardouin fece costruire un castello in legno dinanzi a Corone, bloccando i Veneziani, che subirono anche una pesante sconfitta navale (94). Essi però, con l'aiuto dei loro alleati, riuscirono a occupare Negroponte e a sconfiggere le truppe inviate dal principe per riprenderla:
Il principe [scrive Marin Sanudo Torsello> per ricuperar la città mandò sopra l'isola quanta gente poté metter ad uno e della Morea e del terzero del Rio [= Oreos>, che teniva in sé. Questa gente corse sino sotto la città. Veneziani e quelli della città uniti uscirono fuori e benché fussero pedoni, e quelli del principe a cavallo, non dimeno li ruppero e presero molti e della Morea e di Negroponte, e li mandorono a Vinegia, li quali furono posti in prigion. La causa precipua della vittoria loro fù, che molti Veneziani si aveano posto in mano alcuni rampigoni astati, con li quali tiravano giuso dalli cavalli li cavalieri, ed atterrati li vincevano facilmente; il che io hò udito dalli prigioni istessi, con li quali hò parlato in Vinegia (95).
Forti del successo, i Veneziani assediarono Oreos nel terzo settentrionale dell'isola, ma la guerra si risolse su un altro teatro di operazioni. La battaglia decisiva ebbe luogo infatti nella primavera del 1258 tra il duca di Atene e il principe di Acaia, che si scontrarono ai piedi del monte Karydi in Megaride. Guillaume de Villehardouin fu il vincitore e di lì a poco il de la Roche si sottomise con i suoi vassalli, ponendo virtualmente fine al conflitto con la sua uscita di scena. Nell'agosto dello stesso anno Venezia fece i primi sondaggi e, l'anno seguente, il bailo di Negroponte e i suoi due consiglieri ebbero l'incarico di trattare la pace con il principe di Acaia.
Le trattative furono ritardate dalla prigionia del Villehardouin, dopo la battaglia di Pelagonia, e si arrivò a concluderle a Tebe soltanto nel 1262 (96).
Baldovino II trasferì al principe di Acaia anche la sovranità sulle isole dei signori veneziani, ma la sua decisione in questo caso non ebbe conseguenze negative. Servì al contrario a rafforzare il potere dei feudatari, che divennero vassalli di uno stato in piena espansione anziché di un Impero in agonia. I dominatori dell'Egeo si mantennero in sostanziale autonomia da Venezia per tutta la durata dell'Impero latino ma, dopo la caduta di questo, iniziarono a riavvicinarsi alla madrepatria fino a divenirne protettorati nel Trecento. Marco Sanudo continuò a fare le sue guerre private anche dopo l'intervento a Creta, attaccando l'Asia Minore e riuscendo a occupare Smirne. Fu però sconfitto e fatto prigioniero dall'imperatore di Nicea, al quale dovette cedere la città. Egli morì prima del gennaio 1228, lasciando il ducato dell'Arcipelago al figlio Angelo. Quest'ultimo morì a sua volta verso il 1262 e sotto il suo successore, Marco II, iniziò il processo di riavvicinamento a Venezia (97).
Le vicende delle isole egee negli anni centrali dell'Impero latino sono assai poco note, come già d'altronde quelle della conquista. Abbiamo notizia di un contrasto fra il duca Angelo Sanudo e Filippo Ghisi, genero di Geremia, per il possesso dell'isola di Amorgo, che faceva parte del ducato dell'Arcipelago, ma possiamo ricostruire con una certa ampiezza soltanto alcuni fatti di Andro. Nel 1235 il signore di questa, Marino Dandolo, ebbe un violento conflitto per cause a noi ignote con Giovanni, vescovo latino dell'isola. Lo fece dapprima imprigionare; poi lo costrinse all'esilio privandolo delle rendite della chiesa e si mantenne ostile malgrado l'intervento del patriarca latino, con il quale raggiunse un accordo che poi non mantenne. Nel 1233 il vescovo Giovanni ricorse a papa Gregorio IX, che provvide temporaneamente alle sue necessità finanziarie e ordinò alle sedi ecclesiastiche di Mosinopoli, Atene e Tebe di proclamare solennemente la scomunica contro il Dandolo (pulsatis campanis et candelis accensis excommunicatum publice nuntietis), ricorrendo se necessario al braccio secolare per mettere fine all'esilio. Questo, però, durava ancora nell'ottobre del 1238, quando terminano le nostre informazioni sulla vicenda (98).
Un destino analogo, con una sorta di contrappasso, capitò al signore veneziano. Qualche tempo più tardi, infatti, Geremia Ghisi con l'aiuto del fratello Andrea, e forse il consenso del duca dell'Arcipelago, si impadronì con la forza del castello di Andro, occupando tutta l'isola e appropriandosi dei beni mobili del Dandolo e della sorella Maria Doro. Il signore spodestato, o qualcuno per lui, ricorse a Venezia e la questione fu sottoposta al giudizio del maggior consiglio. L' 11 agosto 1243, quando il Dandolo era già morto, fu pronunciata contro i due Ghisi un'analoga sentenza di condanna, ma con un margine di incertezza sulle effettive responsabilità di Andrea, sulle quali a Venezia non si era bene informati (castellum Andre cum tota insula, si habebit illud, et cum toto habere, si habebit). Fu deciso il sequestro di tutti i beni dei Ghisi in territorio veneziano; si diede mandato al doge di ordinare la consegna di Andro, entro la Pasqua seguente, al bailo di Negroponte o altro rappresentante della Repubblica e la restituzione di tutti i beni sottratti a Marino Dandolo e alla sorella. Inoltre venne indicata ai Ghisi una scadenza entro la quale presentarsi dinanzi al doge per sottomettersi (ad obediendum precepta domini ducis et sui consilii) e attenersi alle decisioni adottate dalle autorità veneziane. In caso contrario sarebbero stati messi al bando da Venezia e i loro beni utilizzati per risarcire le parti lese. La deliberazione del maggior consiglio non fu tuttavia rispettata e il processo per Andro continuò fino al 1259, ma contro il solo Andrea, che subì il bando e il sequestro dei beni, finché si sottomise ottenendone la revoca. Ma alla morte di Andrea Ghisi almeno parte dei beni non era stata restituita e la vicenda ebbe strascichi giudiziari con gli eredi, che reclamavano dal comune quanto loro apparteneva, fino al 1280 quando venne definitivamente chiusa(99).
1. Walter Prevenier, De 0orkonden der Graven van Vlaanderen (1191-Aanvang 1206), II, Uitgave, Bruxelles 1964, pp. 555-558.
2. Ibid., p. 556: "Vos etiam, et homines Venetie, libere et absolute, absque omni controversia, per totum imperium habere debetis omnes honorificentias et possessiones quas quondam consuevistis habere, tam in spiritualibus quam in temporalibus, et omnes rationes sive consuetudines, que sunt in scripto, et sine scripto".
3. Ibid., pp. 557-559.
4. Ibid., p. 558: "Est autem et sciendum, quod a nostra et vestra parte duodecim homines, vel plures, pro parte eligi debent, qui iuramento astricti, feuda et honorificentias inter homines debent distribuere, et servitia assignare, que ipsi homines imperatori et imperio facere debent, secundum quod illis bono videbitur, et conveniens apparebit".
5. Antonio Carile, Partitio terrarum Imperii Romanie, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 217-222 (pp. 125-305).
6. Donald M. Nicol, Byzantium and Venice. A Study in Diplomatic and Cultural Relations, Cambridge 1988, (trad. it. Venezia e Bisanzio, Milano 1992), pp. 154-155
7. A. Carile, Partitio terrarum, pp. 218-220.
8. W. Prevenier, De 0orkonden, p. 557.
9. A. Carile, Partitio terrarum, p. 155.
10. Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, a cura di Edmond Faral, II, (1203-1207), Paris 19735, 333-339, pp. 142-150.
11. Roberto di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216), a cura di Anna Maria Nada Patrone, Genova 1972, CXII, p. 244.
12. G. De Villehardouin, La conquête, 340-361, pp. 150-170.
13. Ibid., 364, p. 172: "qui viels hom ere et gote ne veoit, mais muli ere sages et preuz et vigueros".
14. Ibid., 362-374, pp. 170-182.
15. W. Prevenier, De 0orkonden, p. 557: "iurare debemus [...> quod ab ultimo die instantis mensis martii morari debemus usque ad annum expletum".
16. G. De Villehardouin, La conquête, 375-387, pp. 182-196: "Et garni li dux de Venise Rodestoch de Veniciens, qu'il ere leur" (p. 194).
17. Nicetae Choniatae Historia, a cura di Ioannes A. Van Dieten, in Corpus Fontium Historiae Byzantinae, XI, I, Berlin-New York 1975, p. 621.
18. G. de Villehardouin, La conquête, 388-403, pp. 196-216; 417, p. 230 (Eraclea in mano ai Veneziani nella primavera 1206); Nicetae Choniatae Historia, p. 621 (probabile riconquista di Panion); Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, I, 1938-1958, p. 282: "Marcus Dandulo et Iacobus Viadro confederati civitatem Gallipolim invadunt, et viriliter muniunt".
19. G. De Villehardouin, La conquête, 404-421, pp. 216-234.
20. Ibid., 423, p. 236.
21. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur äteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante, I-III, Wien 1856-1857: II, CLXIX, pp. 17- 19 (Pactum Adrianopolitanum: a. 1206).
22. G. De Villehardouin, La conquéte, 424-452, pp. 236-266: "et une bataille de Veniciens, dont Andrius Valeres ere chevetaine" (p. 250).
23. Ibid., 459-494, pp. 274-308: "[...> et les garnirent et des plus haltes gens des Venitiens et de toz les barons l'empereor" (p. 292).
24. Ibid., 495-500, pp. 308-314 (morte di Bonifacio); Georgii Acropolitae Opera, a cura di August Heisenberg - Peter Wirth, I, Stutgardiae 1978 (Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana), 13, p. 23 (distruzione di Eraclea, Panion, Rodosto); Silvano Borsari, Studi sulle colonie veneziane in Romania nel XIII secolo, Napoli 1966,
pp. 32-34.
25. Venetiarum historia vulgo Petro lustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 143: "qui exercitus Corphyense castrum adeptus est, sed infra menses paucos amissum est"; Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, LXV, p. 69 (trad. del curatore); S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 26-28.
26. M. da Canal, Les estoires, LXVII-LXVIII, p. 70.
27. Ibid., LXVIII, p. 71; Marin Sanuto, Vitae ducum Venetorum italice scriptae ab origine Urbis, sive ab anno CCCCXXI, usque ad annum MCCCCXCIII, in R.I.S.; XXII, 1733, col. 535: "due luoghi prese, che un tal Vetral corsaro possedeva col presidio d'alcuni Turchi, che dentro v'erano stati posti".
28. M. da Canal, Les estoires, LXVIII-LXIX, pp. 70-72: "il la mistrent en bone garde et se partirent d'ileuc a tote lor conpagnie et s'enalerent a Candie, c'est une vile de l'isle de Crit" (p. 72).
29. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, CXXIII, pp. 512-515 (Refutatio Cretae: 12 ag. 1204); Giovanni Battista Cervellini, Come i Veneziani acquistarono Creta. A proposito di una tarda pretesa dei Gonzaga di Mantova, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1908, pp. 262-278.
30. Silvano Borsari, Il dominio veneziano a Creta nel XIII secolo, Napoli 1963, pp. 21-22.
31. Ibid., pp. 22-25.
32. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXXXV, pp. 159-166 (Pactum, quod fecit dominus Jacobus Theupulo, Duca Crete, cum domino Marco Sanuto, ut exiret de insula Crete: a. 1213); S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 27-36.
33. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLV, pp. 210-213 (Pactum, quod d. Dominicus Delphino, Ducha Crete, fecit cum Constantino Seuasto et Theodoro Melissino et aliis Grecis: 13 sett. 1213); S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 36-39.
34. Johannes Koder - Friedrich Hild, Hellas und Thessalia, Wien 1976 (Tabula Imperii Byzantini, I), pp. 119, 253.
35. John Knight Fotheringham, Marco Sanudo Conqueror of the Archipelago, Oxford 1915, p. 107.
36. Ibid.
37. Ibid.
38. Raymond Joseph Loenertz, Les Ghisi dynastes vénitiens dans l'Archipel, 1207-1390, Firenze 1975, p. 28 n. 9 (Marco Barbaro dal cod. Vindob. 6155, c. 134), cf. ibid., pp. 313-315 (riedizione del brano di Daniele Barbaro).
39. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, CXXIII, p. 513.
40. Il decreto non ci è giunto ma ne abbiamo un riassunto in Marci Antonii Sabellici Historiae Rerum Venetarum, Venezia 1718 (Degl'Istorici delle cose veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto, 1), p. 185 e in Andreae Naugerii Historia Veneta italico sermone scripta ab origine Urbis usque ad annum MCDXCVIII, in R.I.S., XXIII, 1733, col. 986.
41. S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 36-38.
42. A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 282: " [...> plerique nobiles, ceteris sibi conligatis, Grecie opida audacter invadere statuunt, et, segregatim navigantes, Marcus Sanuto, cum suis sequacibus, insulas Nixie, Parii, Melli et Sancte Herini adeptus est, et Marinus Dandulo Andram [...> Similiter Andreas et Ieremias Gisio: Tinas, Micholas, Schirum, Scopulum et Schiatum. Philochalus etiam Navigaioso Stalimenem optinens, imperiali privilegio, imperii megaduca est effectus"; J.K. Fotheringham, Marco Sanudo, p. 57 (spiegazione del termine "segregatim", che può significare "separatamente" gli uni dagli altri o anche dallo stato, nel senso di una spedizione privata); S. Borsari, Studi sulle colonie, p. 41; R.J. Loenertz, Les Ghisi, p. 29.
43. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1950, nrr. 10-12, 14-17, pp. 6-7; nrr. 14-16, 29-30, 44, 46-48, 51, pp. 50-51, 54, 58-60.
44. Freddy Thiriet, A propos de la seigneurie des Venier sur Cerigo, "Studi Veneziani", 12, 1970, p. 200 (pp. 199-210).
45. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXXIII, pp. 119-120 (Privilegium Michaelis Comneni: 20 giugno 1210); CCXXIV, pp. 120-124 (Promissio M. Comneni, Despotae Artae, facta Petro Ziani Duci: a. 1210).
46. D.M. Nicol, Byzantium and Venice, pp. 156-157.
47. Jean Longnon, Les compagnons de Villehardouin. Recherches sur les croisés de la quatrième Croisade, Genève
1978, pp. 33-35.
48. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCVI, pp. 96- 100 (Pactum Principis Achajae Goffredj: luglio 1209, correzione della data in Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Age. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959, p. 87 n. 1).
49. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, CXXIII, p. 513: "Vobis, namque domino Marco Sanuto et domino Rauano de Verona, recipientibus procuratorio nomine pro domino Henrico Dandulo [...>"; Johannes Koder, Negroponte. Untersuchungen zur Topographie und Siedlungsgeschichte der Insel Euböa während der Zeit der Venezianerherrschaft, Wien 1973 (Veröffentlichungen der Kommission fiir die Tabula Imperii Byzantini, 1), p. 45.
50. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCV, pp. 93-96 (Promissio Rauani); CCVI, p. 96 (Promissio Rodondelli, fratris Rauani de Carceribus).
51. G. Acropolitae Opera, 8, p. 13 (dignità di despota); F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 78.
52. Vittorio Lazzarini, I titoli dei dogi di Venezia, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 5, 1903, pp. 294-295 (pp. 271-313) = Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 19692, pp. 212-213 (pp. 195-226).
53. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, CLIV, pp. 558-561 (Confirmatio feudorum institutorum per Marinum Geno, Potestatem Constantinopolitanum: 2 giugno 1205, correzione della data in F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 80 n. 4); ibid., CLVII, pp. 566-569 (Electio Marini Geno in Potestatem Constantinopolitanum post obitum domini Henrici Dandulo: 2 sett. 1205, correzione della data in V. Lazzarini, Scritti, p. 212 n. 3).
54. Ibid., CLIX, pp. 569-571 (Refutatio Marini Geno, facta comuni Venecie de Corphu et Durachio et aliis locis Imperii: ott. 1205); Robert L. Wolff, A New Document from the Period of the Latin Empire of Constantinople: The Oath of the Venetian Podestà, "Annuaire de l'Institut de Philologie et d'Histoire Orientales et Slaves", 12, 1952, pp. 538-573 (= Id., Studies on the Latin Empire of Constantinople, London 1976, VI): testo del giuramento, pp. 552-553, F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 81 (ruolo della Chiesa).
55. V. Lazzarini, Scritti, pp. 213-214; R.L. Wolff, A New Document, p. 551.
56. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLVIII, p. 221: "id est chrusobolum eius superscriptum rubeis litteris, et inferius sigillatum aurea forma sui sigilli"; Venetiarum historia, p. 145: "Et quia imperator Constantinopolitanus gerebat in pedibus stivalos rubeos secundum morem Grecorum antiquitus observatum, sic iste primus potestas pro parte imperii tangente ducatui Venetorum stivalum unum rubeum in pede dextro incepit gerere cum honore"; V. Lazzarini, Scritti, p. 214 (titolo di despota a Jacopo Tiepolo nel 1219-1220, a Marino Michiel nel 1221, a Marino Storlato nel 1223 e Albertino Morosini nel 1238); R.L. Wolff, A New Document, pp. 555-556 (comune veneziano a Costantinopoli); S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 89-91 (poteri del podestà).
57. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, CLX, pp. 571-574 (Confirmatio partitionis per dominum Henricum, fratrem Imperatoris Constantinopolitani, et Marinum: ott. 1205); II, CLXXIV, pp. 34-35 (Juramentum factum per Henricum, Imperatorem Constantinopolitanum, Marino Geno pro partitione Romanie: 12 ag. 1206); CLXXX, pp. 49-52 (Forma iustitiae inter Venetos et Francigenas: marzo 1207).
58. Ibid., II, CCLVII, pp. 218-219; Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, nr. 69, p. 66: "De capitaneo Rodisto et Galipoli, ut elegi debeant per electores Potestatis".
59. Antonio Carile, Per una storia dell'Impero Latino di Costantinopoli (1204-1261), Bologna 19782, pp. 398-400 (edizione del documento).
60. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXXIV, p. 121: "Marinus Vallaressus, vir nobilis, dux Durachii"; A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 282: "Ducatui etiam Durachii Marinus Valareso prefectus est" (a. 1205).
61. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CLXXXII, pp. 54-59 (Concessio castri Corphuensis: luglio 1207).
62. A. Danduli Chronica per extensum descripta, pp. 283 (concessione al Dandolo), 284: "Raphaelem Goro conservatorem Coroni et Mothoni delegavit"; Venetiarum historia, p. 313: "[...> inceptum vero fuit primo sub tempore magnifici domini Petri piani sublimis ducis Veneciarum, curentibus annis Domini MCCXI. Verum sciendum est quod primitus unus castelanus ad dicta castra destinabatur, et postmodum duo, et certo tempore III. Sed quando erant III, unus commorabatur in castro Mothoni, et reliqui duo in castro Coroni"; ibid.: "Raphael Goro primus conservator castrorum Mothonis et Coroni [...>. Postea venerunt IIII affictatores per VIIII annos"; Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931, IV, nr. I, p. 348 (elezione del terzo castellano).
63. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXXIX, pp. 129-136 (Concessio insulae Cretensis: sett. 1211, numero esatto dei feudatari in S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, p. 29 n. 7); CCXXX, pp. 136-142 (Instrumentum promissionis coloniae Venetorum in Cretam missae: ott. 1211); CCXXXII, pp. 143-145 (Sexteriorum Cretensium in militias divisio: a. 1212).
64. Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, II, Torino 1940, nr. 519, pp. 58-60 (megaduca di Costantinopoli, cf. qui n. 42); S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 41-42.
65. Devastatio Constantinopolitana, in Charles Hopf, Chroniques gréco-romanes inédites ou peu connues, Paris 1873, p. 92: "Eodem tempore Veneti occupaverunt ecclesiam beatae Sophiae dicentes: Imperium est vestrum, nos habebimus patriarchatum".
66. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, CXXXIII, pp. 532-534, 8 febbr. 1205; CXXXIV, pp. 534-538, 8 febbr. 1205; CXLIV, pp. 547-550 (Sacramentum canonicorum deputatorum in ecclesia patriarchali Constantinopolitana: 8 maggio 1205); CXLV, pp. 550-551 (Sacramentum presbyteri Theodi: 14 maggio 1205) CXLVI, pp. 551-553, 15 maggio 1205; II, CLXVII, pp. 13-15, 21 giugno 1206; CLXXXIV, pp. 61-62 (Sacramentum Egidii, electi canonici ecclesiae Constantinopolitanae: nov. 1207); CXCIX, pp. 75-76 (Sacramentum Henrici, canonici S. Sophiae: apr. 1208); Giorgio Fedalto, La chiesa latina in Oriente, I, Verona 19812, pp. 235-286 (il patriarcato di Costantinopoli).
67. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXXV, pp. 123-124 (Privilegium Durachii factum per dominum Petrum Ziani, Ducem Venecie, occasione investitionis per ipsum facte Manfredo, Archiepiscopo Durachino: sett. 1210); CCXXVI, pp. 125-126 (Fidelitas Manfredi Archiepiscopi Durachini sub domino Petro Çiani de territorio et locis circa Durachium: sett. 1210); S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 99-104; G. Fedalto, La chiesa latina, I, pp. 421-422.
68. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CLXXVIII, pp. 45-47 (Innocentius III Patr. Constantinopolitano. Confirmatur sententia, lata contra Venetos, intrantes ecclesiam suam violenter propter iconam capiendam: 15 genn. 1207); Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, nr. 33 a-e, pp. 175-176; Robert L. Wolff, Footnote to an Incident of the Latin Occupation of Constantinople: the Church and Icon of the Hodegetria, "Traditio", 6, 1948, pp. 319-328; S. Borsari, Studi sulle colonie, p. 104.
69. D.M. Nicol, Byzantium and Venice, p. 161.
70. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCIL, pp. 193-195, 11 apr. 1217; Roberti Autissiodorensis Chronici continuatio II, a cura di Oswald Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores, XXVI, 1882, p. 282: "Promiserat autem Venetis et litteras inde confecerat ob quasdam interpositas pactiones, quod dictam urbem, quam sibi querebantur olim violentia ducis ablatam, eisdem protinus resignaret, si sibi capiendi eam a Domino copia prestaretur"; A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 287; D.M. Nicol, Byzantium and Venice, p. 162.
71. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLI, pp. 197-205 (patto con Genova ratificato a Venezia l' 11 maggio 1218: F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 88 n. 5); A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 296; D.M. Nicol, Byzantium and Venice, p. 162 (crociata contro l'Epiro).
72. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXCV, pp. 341-346, 30 nov. 1238; CCCXVIII, pp. 457-461, 10 luglio 1251 (trattati con Genova); CCXLIII-CCXLVIII, pp. 184-193 (Pacta Aegyptiaca: a. 1217); CCLVIII, pp. 221-225 (Pactum Soldani Turchie: marzo 1220); CCLII, pp. 205-207 (Pactum factum inter Lascarum, Imperatorem Grecorum, et Jacobum Teupulo, Potestatem Constantinopolitanum: ag. 1219); A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 288: "Anno sequenti, Iacobus Theupolo potestas pro Venecia in Constantinopolim, cum iam Galorum potencia evanesceret, cum Theodoro Commano Lascaro Grecorum imperatore per quinquenium treguas, et cum Alatino soldano Turchie per bienium, firmavit"; Donald M. Nicol, La quarta crociata e gli imperi greco e latino 1204-1261, in AA.VV., Storia del mondo medievale, III, Milano 1978, p. 526 (mercenari occidentali per l'Epiro); Id., Byzantium and Venice, p. 164 (trattato con Nicea e bibliografia).
73. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLVII, pp. 215-221, 10 dic. 1219.
74. Ibid., II, CCLX, pp. 227-230 (Confirmatio partitionis in Romania, facta a Roberto Imperatore Marino Michaeli, tunc Potestati Venetorum Constantinopolitano: marzo 1221); CCLXVII, pp. 253-254 (Conventio inter Robertum Imperatorem et Marinum Storlatum, Potestatem Venetorum in Constantinopoli, de bonis et iuribus: 15 apr. 1223); CCLXVIII, p. 254 (testo perduto); CCLXIX, p. 255 (Concessio et traditio facta per Robertum, Imperatorem Constantinopolitanum, Jacobo Teupulo, potestati Constantinopolitano, de campo Prouincialium et Yspanorum: 20 febbr. 1224); A. Danduli Chronica per extensum descripta, pp. 288-290.
75. F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 92-93.
76. S. Borsari, Studi sulle colonie, p. 64.
77. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLXXVII, pp. 277-288 (Tractatus concordiae inter Joannem, electum imperatorem Constantinopolitanum, et Jacobum Theupulum, Ducem Venetiarum: 7 apr. 1231); CCLXXVIII, pp. 289-290 (Appendix ad tractatum concordiae: 7 apr. 1231); CCLXXIX, pp. 290-297 (Juagmentum Joannis, regis Jerosolimitani: 3 maggio 1231 [= 29 maggio, correzione della data in F. Thiriet, La Romanie vénitienne, p. 96 n.>); CCLXXX, pp. 298-299 (Appendix ad juramentum Joannis Imperatoris: 29 maggio 1231).
78. G. Acropolitae Opera, 33, p. 50 (Gallipoli presa ai Veneziani nel 1235), p. 52 (assedio di Costantinopoli); M. da Canal, Les estoires, LXXXILXXXIV, pp. 80-85 (trad. del curatore, p. 85); A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 295; Chronica Albrici monachi Trium Fontium, a cura di Paul Scheffer, in M.G.H., Scriptores, XXIII, 1874, p. 938: "iste Gaufridus cum 120 navibus seu vasis bellicis succursum prestitit obsessis"; Jean L0ngnon, L'Empire latin de Constantinople et la principauté de Morée, Paris 1949, p. 173.
79. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXCVI, pp. 346-349, 4 sett. 1328; D.M. Nicol, Byzantium and Venice, pp. 168-169.
80. J. Longnon, L'Empire latin, p. 180.
81. G. Acropolitae Opera, 37, pp. 59-60 (superiorità navale degli Italiani, 30 navi nicene contro 13); M. da Canal, Les estoires, LXXXV, pp. 84-86 (160 navi greche e 10 veneziane); A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 298 (16 navi veneziane).
82. Robert L. Wolff, Mortgage and Redemption of an Emperor's Son: Castile and the Latin Empire of Constantinople, "Speculum", 29, 1954, pp. 45-84 (= Id., Studies on the Latin Empire, V).
83. Fragmentum Marini Sanuti Torselli, in C. Hopf, Chroniques gréco-romanes, p. 171: "Etiam Veneti fuerunt multum gravati in plurimis expensis ad substinendum civitatem Constantinopolitanam predictam"; altra ediz. in Robert L. Wolff, Hopf's So-Called 'Fragmentum' of Marino Sanudo Torsello, in AA.VV., The Joshua Starr Memorial Volume, New York 1953 (= Id., Studies on the Latin Empire, X), p. 150 (pp. 149-159).
84. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, III, CCCXXXVIII, pp. 24-25; Deno J. Geanakoplos, L'imperatore Michele Paleologo e l'Occidente 1258-1282. Studio sulle relazioni tra Bisanzio e il mondo latino, Palermo 1985, pp. 407-408 (doc. inedito del 5 ag. 1260); Walter Norden, Das Papsttum und Byzanz, Berlin 1903, App. n. XIII, pp. 759-760 (guarnigione di Costantinopoli); A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 309; "Nunc ecciam, pro tutela Constantinopolitani imperii, Latinorum viribus debilitatis, dux Iacobum Quirino suarum galearum capitaneus mictens, ab incursionibus Grecorum imperium conservavit illesum" (a. 1259).
85. Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae (a. 1207-1270), a cura di Luigi Alfredo Botteghi, in R.I.S.2, VIII, 3, 1914-1916, p. 48: "Multi utriusque sexus oppressi dire famis angustia, in navibus antequam portum attingerent, perierunt"; A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 311: "Marcus igitur Gradonico pro Venetis tunc potestas et Balduinus imperator, ac Panthaleo Iustiniano patriarcha, cum multitudine Latinorum, navigia Venetorum consendentes, Nigropontem perveniunt; et a Laurencio Teupolo loci baiulo, de inopinato casu compuncto, honorifice recipiuntur"; Dj. Geanakoplos, L'imperatore Michele Paleologo, pp. 85-126.
86. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLXIII, pp. 234-249 (Augmentatio militarium Crete: giugno 1222); CCLXVI, pp. 251-253 (Concessio Pauli Quirini, Ducae Cretensis, facta Theodoro et Michaeli Melisseno: 8 genn. 1224, correzioni della data in S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, p- 39 n- 34).
87. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCLXXXIII, pp. 312-313 (Promissio Graecorum in Creta insula: febbr. 1233); CCLXXXIV, p. 314; S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 41-42.
88. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXC, pp. 322-326 (Pactum Angeli Gradonici, Duchae Cretensis, cum quibusdam incolis de Creta: ott. 1234); CCXCI, pp. 326-328 (Concessio castri S. Nicolai de Creta: a. 1234); CCLXXXIX, pp. 319-322 (Pactum Marsilii Georgii cum Leone Gavalla, domino Rhodi); A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 295: "Grecorum stolus, cuius erat amiraleus Leo Gavala"; S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 43-45.
89. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXCIII, pp. 333-335 (Pacta Graecorum in Creta: 23 luglio 1236); CCCXXII, pp. 470-480 (Concessio Caneae: 29 apr. I252); S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 45-47.
90. Il Liber Communis detto anche Plegiorum del R. Archivio generale di Venezia. Regesti, a cura di Riccardo Predelli, Venezia 1872, nr. 616, pp. 147-148, 10 giugno 1228; nr. 642, p. 153, 19 ag. 1228.
91. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, CCXLI, pp. 175-179 (Concessio tercie partis Nigropontis: 14 nov. 1216).
92. Marino Sanudo Torsello, Istoria del regno di Romania, in C. Hopf, Chroniques gréco-romanes, pp. 103- 104; A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 306; v. anche S. Borsari, Studi sulle colonie, p. 52.
93. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, III, CCCXXXIV, pp. 13-16, 14 giugno 1256; CCCXXXI, pp. 1-5; CCCXXXII, pp. 7-11, 25 genn. 1257 (correzioni della data in Raymond- Joseph Loenertz, Les seigneurs tierciers de Négropont de 1205 à 1280. Régestes et documents, "Byzantion", 35, 1965, nrr. 48-49, p. 251 [pp. 235-276> = Id., Byzantina et franco-graeca, II, Roma 1978, p. 157 [pp. 141-181>); S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 56-57.
94. M. Sanudo Torsello, Istoria, pp. 104-107; A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 306; J. Longnon, L'Empire latin, p. 221.
95. M. Sanudo Torsello, Istoria, pp. 104-105.
96. Ibid., p. 105; G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, III, CCCXXXI, pp. 5-6, 6 ag. 1258;
CCCXXXII, pp. 10-12, 6 ag. 1258; CCCXXXIX, pp. 25-26, marzo-agosto 1259 (Rainerii Geni Ducis Potestas Thomae Justiniano cett. concessa); CCCXL, pp. 27-28, marzo-agosto 1259; CCCXLVIII-CCCXLIX, pp. 46-55, 15-16 maggio 1262.
97. S. Borsari, Studi sulle colonie, pp. 59-63.
98. Raymond Joseph Loenertz, Marino Dandolo, seigneur d'Andros, et son conflict avec l'évêque Jean 1225-1238, "Orientalia Christiana Periodica", 35, 1959, pp. 165-181 (= Id., Byzantina et franco graeca, I, Roma 1970, pp. 399-419).
99. Id., Les Ghisi, pp. 38-42, 187.