La Rivoluzione scientifica: modelli di conoscenza. Prospettive storiche: l'aristotelismo e le nuove filosofie
Prospettive storiche: l'aristotelismo e le nuove filosofie
Il XVII sec. fu un periodo di grandi cambiamenti e di nuove scoperte, accompagnate da un generale ripensamento della concezione della Natura prevalente in Europa e della posizione dell'uomo al suo interno. Le analisi dei mutamenti che hanno interessato i diversi campi di ricerca saranno l'oggetto dei capitoli successivi, mentre in questo si affronteranno gli aspetti generali dello sviluppo delle scienze nel XVII sec., i nuovi approcci alla storia, alla matematica e alla sperimentazione e il ruolo dei concetti di certezza e di probabilità.
Innanzi tutto, occorre ricordare che per la maggior parte del secolo lo studio della Natura, in quasi tutti i campi di ricerca, rimase fondato sulla filosofia aristotelica. È dunque dalla scienza aristotelica e dai suoi oppositori, prima e durante il XVII sec., che occorre iniziare.
La filosofia aristotelica rimase al centro della coscienza intellettuale europea dal tardo XIII sec. fino a tutto il XVII e a buona parte del XVIII. All'alba del Seicento, essa costituiva una parte fondamentale del programma di studi di ogni tipo di scuola in tutti i paesi europei. Ogni cittadino europeo, cattolico o protestante, settentrionale o meridionale, avrebbe potuto sottoscrivere l'affermazione contenuta nella Ratio studiorum, il libro di testo adottato nelle scuole dei gesuiti, secondo cui era necessario "seguire la dottrina di Aristotele in ciò che concerne la logica, la filosofia della natura, l'etica e la metafisica" (ed. Bianchi, p. 98). In questo modo, la filosofia aristotelica venne a costituire una sorta di lingua franca dell'Europa dotta.
La visione aristotelica del mondo naturale è descritta da Eustache de Saint-Paul nella Summa philosophiae quadripartita. Pubblicata a Parigi nel 1609, l'opera fu più volte ristampata sia nei paesi cattolici sia in quelli protestanti e fu utilizzata nelle scuole per introdurre gli allievi allo studio della filosofia naturale. Da parte nostra, ci serviremo di questo autore per descrivere la filosofia aristotelica, in quanto egli espone una versione dell'aristotelismo ampiamente condivisa nel periodo che stiamo esaminando.
In primo luogo, Eustache specifica l'oggetto della filosofia naturale, o fisica, alla quale è dedicata una delle quattro parti della Summa, intitolata Physica: "l'oggetto della fisica in senso proprio è il corpo naturale in quanto naturale". Un corpo naturale "consta di una duplice natura, la materia e la forma; queste infatti sono dette principî del moto e della quiete" (pp. 5-6). È presente qui un'implicita distinzione tra oggetti naturali e oggetti artificiali: i primi possiedono il principio del proprio mutamento. Di conseguenza, la filosofia naturale era contrapposta alle scienze del mondo artificiale, tra le quali figura, per esempio, la meccanica, che si occupa dei modi di raggiungere scopi contrari alla natura delle cose, come quando si adopera una leva o una carrucola per sollevare un grave all'altezza voluta. La Physica è suddivisa a sua volta in tre parti: la prima, dal titolo De corpore naturale in genere, è dedicata allo studio dei corpi naturali e in essa sono descritte le caratteristiche generali del mondo fisico, che comprendono la forma, la materia e la privazione (i tre principî aristotelici della Natura), le quattro cause, lo spazio, il tempo e il moto. Nella seconda parte, De corpore naturale inanimato, Eustache affronta i temi della materia celeste e dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) e quelli dell'azione, della passione, della generazione e della corruzione. La terza e conclusiva parte, De corpore naturale animato, è dedicata alla trattazione delle cose viventi, e in essa si parla dell'anima, delle sue facoltà e della separazione dell'anima dal corpo.
Seguendo lo schema scolastico tradizionale, Eustache concepisce i corpi in termini di materia prima, di forma sostanziale e di privazione. La materia prima è ciò che soggiace al mutamento e rimane immutato quando un corpo passa da un genere di cosa a un altro. La forma sostanziale, invece, è ciò che individua un ente in quanto tale e che cambia quando lo stesso ente passa da un genere a un altro (nei viventi, la forma prende il nome di anima). La privazione non si distingue effettivamente dalla materia: è la mancanza nella materia di proprietà particolari che consente alla materia stessa di acquisirle in seguito. Secondo l'ortodossia tomista, la materia è atto puro e la forma potenza pura, e l'una non può esistere senza l'altra. Eustache, tuttavia, adottando le posizioni di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Ockham, attribuiva alla forma e alla materia la capacità di esistere indipendentemente in diversi modi. Seguendo la tradizione aristotelica, egli negava inoltre l'esistenza del vacuum o spazio vuoto.
Non meno importante era la classificazione aristotelica dei corpi esistenti nell'Universo. Nel mondo sublunare, il mondo sottostante la sfera della Luna, esistono quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. In virtù della sua forma, ciascun elemento possiede un particolare ventaglio di quelle che erano chiamate generalmente qualità primarie e qualità motorie. Le qualità primarie sono le coppie caldo/freddo e umido/asciutto. La terra, per esempio, è fredda e asciutta, l'acqua fredda e umida, l'aria calda e umida e il fuoco caldo e asciutto. Oltre alle qualità primarie, gli elementi possiedono le qualità motorie: la leggerezza e la pesantezza. La terra e l'acqua, gli elementi pesanti, hanno la tendenza a cadere in basso, verso il centro del mondo, mentre l'aria e il fuoco tendono a sollevarsi in alto, allontanandosi dal centro del mondo. Più esattamente, le qualità motorie derivano dal fatto che ciascun elemento ha una sua sede naturale nell'Universo, l'elemento terrestre al centro, seguito, a distanze sempre maggiori, dall'acqua, dall'aria e dal fuoco. Quando vengono allontanati dalla loro sede naturale, gli elementi tendono a tornarvi. Tuttavia, in Natura gli elementi non si trovano mai, o quasi mai, allo stato puro, ma si mescolano tra loro, dando origine a corpi dotati di proprietà differenti a seconda delle diverse proporzioni degli elementi che li compongono. La teoria, assai complessa, dei corpi composti diede origine ad alcune delle più accese dispute dell'aristotelismo del Tardo Medioevo e della prima Età moderna. Poiché le cose erano composte da elementi diversi, tendenti a separarsi di nuovo, il mondo sublunare era un mondo in costante trasformazione, in cui gli elementi davano origine alle cose combinandosi tra loro e ne provocavano la corruzione tornando a separarsi.
Diversa natura aveva il mondo dei corpi celesti: questi, infatti, non erano formati dai quattro elementi, ma da un quinto detto 'etere', o 'quintessenza'. Si riteneva che la fisica celeste seguisse leggi completamente diverse da quelle della fisica terrestre. I corpi celesti non seguivano un percorso rettilineo, ma si muovevano lungo circoli perfetti. A differenza del mondo sublunare, dominato dal cambiamento, dalla generazione e dalla corruzione, il mondo celeste era visto come il regno immutabile della perfezione.
Per quanto rappresentasse l'ortodossia dominante, la filosofia aristotelica, riassunta nella Summa philosophiae quadripartita di Eustache e in altri manuali, non era priva di avversari, fu anzi osteggiata sin dalla sua introduzione nell'Occidente latino. Considerato una filosofia pagana, non facilmente conciliabile con il pensiero cristiano, l'aristotelismo (o almeno alcune sue interpretazioni) fu condannato più volte a Parigi nel XIII sec., fino alla condanna del 1277, quando ben 217 tesi furono proibite dal vescovo Étienne Tempier.
A partire dal XVI sec. si affermarono numerosi sistemi filosofici che sfidavano la visione del mondo aristotelica. In effetti, gli autori dell'inizio del Seicento ritenevano di trovarsi di fronte a una vera rivoluzione intellettuale. Già nei primi decenni del secolo i filosofi conservatori seguaci dell'aristotelismo lamentavano l'aumento dei pensatori che si rifiutavano di accogliere la verità ricevuta. Nel suo commento alla Genesi, le Quaestiones celeberrimae in Genesim (1623), Marin Mersenne identificava come esponenti di questa tendenza antiaristotelica, tra gli altri, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Bernardino Telesio, Francesco Patrizi, Nicolas Hill e Sébastien Basson, oltre a Johannes Kepler, Galileo Galilei, Francis Bacon e William Gilbert. Più o meno negli stessi anni, il celebre professore parigino Jean-Cécile Frey teneva le lezioni di fronte a torme di studenti, difendendo Aristotele da tutti gli attacchi e fustigando le opinioni eterodosse di molti suoi avversari.
Il XVI sec. aveva prodotto una grande varietà di scuole di pensiero ostili all'aristotelismo. Una delle più note era quella dei cosiddetti naturalisti italiani, un gruppo di filosofi che condividevano un generale rifiuto dell'interpretazione aristotelica della Natura. Nel Libro I del De rerum natura (1565), Telesio rifiutava la concezione aristotelica del corpo come unione di materia e di forma, sostituendola con una concezione del mondo basata sul caldo e sul freddo, agenti immateriali (ma naturali) che penetrano nella materia inerte, animandola. Secondo Telesio, il mondo è il risultato della lotta tra questi due agenti fondamentali, in perenne opposizione. Il pensiero di Campanella rappresenta in un certo senso la prosecuzione e lo sviluppo di quello di Telesio. Campanella, che aveva iniziato la carriera come suo seguace, in particolare nell'opera giovanile Philosophia sensibus demonstrata (1591), era giunto soltanto più tardi alla conclusione che la teoria fisica del suo maestro necessitasse di fondamenta più solide e profonde. Nel De sensu rerum et magia (1620) e anche nel più tardo Universalis philosophiae, seu metaphysicarum […] dogmata (1638), affermò che Telesio aveva sbagliato nel considerare il caldo e il freddo come agenti naturali, sostenendo che essi dovevano la loro efficacia a Dio e all'anima del mondo. La luce era invece alla base della concezione del mondo di un altro filosofo italiano, Francesco Patrizi da Cherso, autore della Nova de universis philosophia (1591).
Gli scritti densi e complessi di Giordano Bruno, benché difettino a volte di coerenza, presentano alcuni temi ben definiti. Bruno rifiuta i concetti aristotelici di Dio, di sostanza, di materia e di forma. Nel De la causa, principio et uno (1584) afferma che Dio è l'unica sostanza e tutte le cose finite sono soltanto suoi aspetti. Bruno non respinge del tutto l'idea che i corpi siano prodotti dall'unione di forma e materia, ma sembra spesso considerare questi due concetti come equivalenti, in modo poco aristotelico. Telesio e Patrizi attaccarono anche le idee aristoteliche di spazio e luogo, affermando che lo spazio preesiste a ogni cosa ed è indipendente dai corpi, essendo una sorta di contenitore vuoto riempito soltanto in parte dal mondo fisico. La basilare distinzione aristotelica tra cielo e Terra fu messa in discussione dal sistema copernicano, formulato nel De revolutionibus orbium coelestium (1543). Altri attacchi vennero dagli alchimisti, e in particolare da quelli appartenenti alla scuola di Teophrast Bombast von Hohenheim, noto come Paracelso (1493-1541). Mentre alcuni alchimisti non pensavano di agire in contraddizione con le linee fondamentali dell'aristotelismo, i paracelsiani ritenevano che fosse ormai giunto il momento di sostituirlo con una nuova filosofia della Natura.
Agli occhi dei conservatori come Mersenne e Frey tutto ciò assumeva l'aspetto di una rivoluzione, un tentativo di rovesciare l'aristotelismo e sostituirlo con qualcosa di nuovo. Per Mersenne, si trattava di un atto di pura presunzione. In un celebre passaggio della Vérité des sciences (1625), scrisse: "Come filosofo, Aristotele è un'aquila; gli altri sono solo dei pulcini che vorrebbero volare prima di avere le ali" (pp. 110-111). Altri la pensavano in modo ancora più radicale. L'astrologo e filosofo francese Jean-Baptiste Morin (1583-1656), reagendo a un attacco alle tesi di Aristotele presentato pubblicamente da un gruppo di atomisti, nella Réfutation des Thèses [...] contre la doctrine d'Aristote (1624) affermò: "Non vi è nulla di più sedizioso e pernicioso di una nuova dottrina: e lo dico non solo per la teologia, ma anche per la filosofia" (p. 3).
Mersenne, Frey e Morin probabilmente non immaginavano che gli attacchi alla tradizione aristotelica sarebbero divenuti ancora più violenti e temibili negli anni successivi. Nel 1620 Francis Bacon pubblicò la Instauratio magna, opera nella quale delineava un completo rinnovamento di tutte le scienze. All'interno di quest'opera, egli presentava ai lettori il Novum organum, un nuovo metodo sperimentale con il quale si prefiggeva di indagare le scienze e di rinnovarle profondamente.
Nello stesso periodo, il giovane René Descartes stava elaborando il suo personale metodo di indagine nelle Regulae ad directionem ingenii, rimaste poi incompiute. Solo dopo alcuni anni, nel 1637, Descartes pubblicò il Discours de la méthode, in cui esponeva le proprie opinioni sull'indagine scientifica e auspicava l'avvento di una nuova scienza. Inoltre, Descartes pubblicò alcuni esempi concreti di applicazione del suo metodo, vale a dire una nuova geometria, che univa elementi della geometria tradizionale all'algebra, e i primi saggi della nuova scienza meccanicista, destinata a dominare il pensiero scientifico fino alla fine del secolo. Nella nuova filosofia naturale proposta da Descartes, la materia e la forma degli aristotelici erano sostituite da corpi, viventi e inanimati, concepiti sul modello delle macchine. Di lì a poco, gli sviluppi della matematizzazione galileiana del moto e dell'elaborazione del copernicanesimo avrebbero minato ulteriormente la concezione aristotelica del mondo, così come avrebbero fatto la riscoperta dell'atomismo da parte di Pierre Gassendi, il materialismo di Thomas Hobbes e molti altri sviluppi del pensiero contemporaneo. Alla fine del secolo, il genio universale di Gottfried Wilhelm Leibniz poteva annunciare la nascita di una nuova filosofia, come avevano fatto prima di lui polemicamente Mersenne e Frey, ma questa volta i protagonisti erano altri: "I fondatori della filosofia moderna sono Bacon, Galilei, Kepler, Gassendi e Descartes" (De la philosophie cartésienne, p. 1480). I novatores del XVI sec. erano caduti completamente nell'oblio e il XVII sec. si presentava ai contemporanei come l'età che aveva dato i natali alla nuova filosofia della Natura e aveva visto la scienza moderna muovere i primi passi.
I dettagli di questa nuova scienza saranno discussi nei capitoli seguenti: il sorgere di diverse forme di atomismo e di meccanicismo, che offrivano un'alternativa alla visione aristotelica di un mondo dominato dalla materia e dalla forma, le spiegazioni matematiche della Natura, le nuove interpretazioni dello spazio e del vuoto, che contraddicevano quelle aristoteliche, il superamento della distinzione tra naturale e artificiale e tra celeste e terrestre, le nuove spiegazioni della vita e così via.
Uno dei cambiamenti più evidenti che caratterizzarono il XVII sec. fu il mutato atteggiamento verso le novità filosofiche. L'originalità di pensiero non ha goduto sempre di una buona reputazione. Come abbiamo visto, Morin riteneva, per esempio, che ogni novità fosse potenzialmente pericolosa. L'Oxford Latin dictionary, da parte sua, riporta tra i significati di novus ‒ letteralmente 'nuovo' nel latino classico ‒ quelli di 'sovversivo' e 'sedizioso', avallandoli con citazioni da Cicerone, Svetonio e Tacito. Durante il XVI sec., le novità, le innovazioni e le opinioni eterodosse erano guardate con sospetto, almeno in alcuni ambienti. Benito Pereyra (1535 ca.-1610), stimato professore di fisica al Collegio Romano, nel De modo legendi cursum philosophiae esprimeva un punto di vista molto comune quando sosteneva che "non bisognerebbe farsi allettare dalle nuove opinioni ‒ ossia da quelle che abbiamo scoperto noi stessi ‒ ma aderire alle opinioni antiche e comunemente accettate" (p. 667). Questo principio era contenuto anche nella Ratio studiorum dei gesuiti, l'insieme delle regole che governavano la loro estesa rete di istituti scolastici. Nella versione del 1599, essa ammoniva gli insegnanti a rifuggire dalle nuove opinioni, anche nelle materie che non mettevano in pericolo la fede. Potremmo proseguire a lungo nelle citazioni: definire una dottrina nuova, innovativa o originale non significava necessariamente elogiarla.
Tutto questo era destinato a cambiare nel XVII sec., quando la novità sembrò assumere un valore positivo. L'opera più rappresentativa di questa tendenza è forse la Instauratio magna di Bacon, sul cui frontespizio era rappresentata una nave a vele spiegate, in procinto di superare le Colonne d'Ercole e di inoltrarsi nell'oceano aperto, a simboleggiare la ricerca del nuovo. Sotto la nave è inciso un motto biblico: "molti lo scorreranno e la loro conoscenza sarà accresciuta" (Daniele, 12, 4). Il significato implicito nell'immagine scelta da Bacon era che il suo libro avrebbe aperto un'epoca di nuove scoperte e di grande accrescimento delle conoscenze. L'opera inizia con una critica di ciò che era stato fatto fino a quel momento:
Se qualcuno considera attentamente tutta quella pretesa varietà di libri della quale le scienze e le arti sono tanto fiere, troverà ovunque infinite ripetizioni della stessa cosa, lievemente diverse per il modo della trattazione, ma già scontate per quanto concerne l'invenzione. In tal modo ciò che a un primo sguardo sembrava ricchezza si riduce, una volta esaminato, a ben poco.
Per quanto riguarda l'utilità bisogna dire apertamente che questo sapere che ci deriva soprattutto dai Greci sembra essere una specie di infanzia della scienza con tutte le caratteristiche proprie dei fanciulli: pronto a ciarlare, è immaturo e incapace di generare. (Scritti filosofici, pp. 521-522)
La soluzione proposta da Bacon è estremamente coraggiosa: "cominciare interamente da capo l'impresa con mezzi più validi e intraprendere una totale Restaurazione, innalzata sulle dovute fondamenta, delle scienze, delle arti, e di ogni umano sapere" (ibidem, p. 516). Non vi è traccia di paura delle novità in queste parole. Il passato deve essere abbandonato e la ricerca della conoscenza ripresa su basi interamente nuove.
Ritroviamo accenti molto simili nel Discours de la méthode di Descartes, dove l'autore espone il suo ambizioso programma di rifondazione della scienza. Come Bacon, anche Descartes si dichiara deluso dalla cultura tradizionale e desideroso di ricostruire l'intero edificio del sapere dalle fondamenta. Paragonando il corpus del sapere tradizionale a una casa costruita su fondamenta instabili o a una città cresciuta in modo casuale, affermava:
Quanto alla Filosofia dirò soltanto che, vedendo che è stata coltivata dai più eccellenti ingegni che siano mai vissuti e che, tuttavia, non c'è nulla in essa su cui non si continui a discutere e che quindi non sia scevro da dubbi, non ero così presuntuoso da sapere che vi sarei riuscito meglio degli altri. D'altra parte, considerando quante diverse opinioni siano state sostenute a proposito di uno stesso argomento che sia vero, finii di stimare pressoché falso tutto ciò che era solo verisimile.
Quanto poi alle altre scienze, in quanto esse derivano i loro principî dalla Filosofia, conclusi che non poteva esser stato costruito nulla di solido su fondamenti così incerti. (OF, I, p. 503)
Non è quindi sorprendente che, una volta giunto il momento di ricostruire, egli abbia finito per scartare la maggior parte del sapere tradizionale.
Bacon e Descartes, come la maggior parte dei loro contemporanei assetati di novità, avevano due bersagli preferiti. Il primo era l'aristotelismo scolastico, che abbiamo descritto all'inizio di questo capitolo. Le dottrine aristoteliche insegnate nelle scuole rappresentavano il simbolo stesso della tradizione e dell'autorità che essi intendevano distruggere, ma il secondo bersaglio era costituito dall'Umanesimo, che tanta importanza aveva avuto nella vita intellettuale del XVI sec., anche tra gli scienziati e i matematici.
L'Umanesimo fu un vasto e diffuso movimento intellettuale incentrato sulla riscoperta della letteratura e della cultura dell'Antichità classica. Gli sforzi degli umanisti erano diretti principalmente alla rinascita della lingua, della retorica e della letteratura dell'antica Roma, ma l'Umanesimo ebbe importanti conseguenze anche in campo scientifico. Gli umanisti riscoprirono, pubblicarono e studiarono i principali testi matematici dell'Antichità, tra cui gli scritti di Archimede, Pappo di Alessandria e altri. Ugualmente importante fu la riscoperta degli antichi sistemi non aristotelici di filosofia naturale. Justus Lipsius (Joost Lips, 1547-1606), per esempio, contribuì grandemente ad accendere l'interesse verso vari aspetti dello stoicismo, fra cui la filosofia naturale. Ancora più importante a questo riguardo fu l'azione di Pierre Gassendi, forse l'ultimo degli umanisti scientifici: egli dedicò la maggior parte della sua carriera all'edizione del testo greco del Libro X delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, che contiene il nucleo principale degli scritti dell'atomista greco Epicuro. La pubblicazione di questi testi, accompagnata dai dotti e filosofici commentari di Gassendi, contribuì notevolmente alla rinascita dell'interesse per le dottrine atomiste nell'Europa del XVII secolo.
Con l'avvento del nuovo secolo, tuttavia, questa soggezione dinanzi al passato cominciò a essere messa apertamente in discussione. Nella citazione che abbiamo da poco riportato, Bacon rifiuta il ritorno pedissequo alla cultura dei Greci. Descartes, in modo ancora più radicale, contrappone il 'buon senso' alla cultura libresca. In un celebre passo del Discours, afferma "che anche le scienze dei libri, quelle almeno fondate soltanto su ragioni probabili e non dimostrate, essendosi formate e accresciute a poco a poco con le opinioni di molte e differenti persone, non sono tanto vicine alla verità quanto i semplici ragionamenti che può fare naturalmente un uomo di buon senso" (OF, I, p. 506). La soluzione adottata da Descartes fu semplicemente quella di rivolgersi verso il mondo e verso sé stesso per cercare di comprendere la realtà delle cose.
Gli scritti di Galilei sono altrettanto indicativi di questa nuova mentalità: nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), il personaggio di Simplicio, che incarna l'aristotelismo dogmatico, è continuamente messo in ridicolo per la sua deferenza verso Aristotele, a cui si oppongono le argomentazioni di Salviati (portavoce di Galilei), fondate sull'esperienza e sulla ragione, e l'atteggiamento aperto e ragionevole di Sagredo. La lezione che si ricava dal Dialogo è chiara: nel nuovo mondo del XVII sec., la storia e l'autorità contano poco o nulla.
Verso la fine del Seicento, la Francia letteraria rimase a lungo invischiata nella cosiddetta 'querelle des Anciens et des Modernes', in cui erano messi a confronto i meriti letterari degli Antichi e quelli dei Moderni. Ma in campo scientifico l'argomento era già stato chiuso molti anni prima. Alla fine del secolo, nessun membro rispettabile della Repubblica delle Lettere avrebbe osato mettere in dubbio la superiorità delle scienze naturali e matematiche moderne.
Cosa pensasse effettivamente Aristotele dei rapporti tra matematica e mondo naturale è ancora oggetto di opinioni piuttosto discordanti. Tuttavia, qualunque fosse la sua opinione, è certo che la matematica non svolgeva un ruolo fondamentale nella filosofia naturale del tardo periodo scolastico. Come abbiamo già visto, infatti, la filosofia naturale propriamente detta trattava i corpi da un punto di vista esclusivamente qualitativo, in termini di unione di materia e di forma, di elementi, delle loro mescolanze e della formazione di sostanze composte e così via. Questo non significa tuttavia che non esistessero scienze matematiche incaricate dello studio dei fenomeni naturali. Nella tarda Scolastica, un certo numero di discipline, connesse tanto con la matematica quanto con la fisica, furono riunite nella categoria della matematica mista o delle 'scienze intermedie'. Nella voce dedicata alla matematica del Lexicon philosophicum (1613) di Goclenius (Rudolph Göckel), si legge che esistono tre generi di matematica. In senso generale, 'matematica' significa disciplina, dottrina, precetti; in senso secondario, significa geometria o aritmetica. Ma il terzo significato è il più interessante. Egli afferma infatti che "per matematica non si intende solo aritmetica e geometria, ma anche astronomia, ottica, musica, meccanica" (p. 672).
Occorre tuttavia tenere chiaramente presente la distinzione tra filosofia naturale vera e propria e scienze intermedie. In linea generale, la prima si occupava delle cause ultime dei fenomeni naturali, in termini di materia, forma e privazione. Il compito delle scienze intermedie era invece, solitamente, quello di spiegare i fenomeni, cioè i risultati prodotti da quelle cause, in termini matematici. Particolarmente interessante a tale proposito (e ricco di implicazioni per i radicali cambiamenti intervenuti nel XVII sec.) è lo status della meccanica e il suo rapporto con la fisica. La filosofia naturale si occupava delle cose naturali in quanto tali, ne indagava le essenze e ricercava le vere cause dei fenomeni naturali, ma le cose in Natura non si comportano sempre nel modo che noi vorremmo. È qui che entra in gioco la meccanica. Le macchine non sono oggetti naturali, ma artefatti: cose costruite dall'uomo per eseguire determinate operazioni di cui ha bisogno. La meccanica è la scienza che studia le macchine. Nella Mechanica, un corpus di scritti attribuiti ad Aristotele nel XVI sec. e da allora ampiamente letti e commentati, è descritta la situazione in questi termini: "La nostra meraviglia si accende, in primo luogo, di fronte a quei fenomeni che accadono secondo Natura, ma dei quali non conosciamo la causa; e in secondo luogo da quelli prodotti da qualche arte contraria alla Natura e a beneficio dell'umanità. La Natura spesso opera in modo contrario all'interesse umano, poiché essa segue sempre il suo corso senza deviazioni, mentre l'interesse umano cambia continuamente. E dunque, quando si deve fare qualcosa di contrario alla Natura ci troviamo in difficoltà e dobbiamo chiamare in nostro aiuto un'arte che chiamiamo 'meccanica'" (847a 10f).
La meccanica si occupava degli oggetti artificiali, ossia degli oggetti naturali trasformati in congegni a nostro uso e consumo. In questo senso era un supplemento alla fisica, dato che tra i suoi oggetti vi erano cose di cui la fisica non si occupava, cioè le cose artificiali, le macchine. A sua volta, la fisica era indispensabile alla meccanica. Ovviamente, le macchine erano fabbricate con materiali naturali (legno, metallo, corde, ecc.) dotati di specifiche proprietà. La meccanica si serviva di queste proprietà per studiare il funzionamento delle macchine. Così, per esempio, la pesantezza giocava un ruolo determinante nella spiegazione del funzionamento delle macchine semplici (come, per esempio, la leva e la vite), che utilizzavano tutte la forza umana o animale per vincere gli effetti naturali della pesantezza e consentivano di sollevare le cose in diversi modi. I trattati di meccanica partivano sempre dal presupposto che si avesse a che fare con corpi dotati di pesantezza e quindi con la tendenza a cadere verso il centro della Terra. Il problema della causa della pesantezza e della caduta libera dei gravi esulava dal campo della meccanica e riguardava esclusivamente la fisica. La pesantezza rappresentava quindi per la meccanica un presupposto soltanto preso in prestito da una scienza distinta, la fisica.
Nel XVI sec., la matematica e la filosofia naturale erano discipline molto differenti, appartenenti a mondi completamente diversi. Questa situazione era però destinata a mutare radicalmente nel corso del secolo successivo. Nel 1610, sull'onda del successo del Sidereus nuncius, Galilei fu invitato a entrare a far parte della corte fiorentina di Cosimo II de' Medici. Date le sue esperienze nei campi dell'ottica, dell'astronomia e della meccanica, l'incarico più naturale sarebbe stato quello di matematico del granduca. Galilei tuttavia si oppose e scrisse a Belisario Vinta, segretario di Stato di Cosimo, quanto segue: "Finalmente, quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S[ua] A[ltezza] vi aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in mathematica pura: nella quale qual profitto io habbia fatto, et se io possa et deva peritar questo titolo, potrò far vedere a loro A[ltezze], qual volta sia di loro piacimento il concedermi campo di poterne trattare alla presenza loro con i più stimati in tal facoltà" (EN, X, p. 353).
Galilei non era il solo a pensare che esistessero importanti legami tra la fisica e la matematica. Descartes, per esempio, considerava gli studi di Isaac Beeckman un deciso passo in avanti verso l'unificazione delle due discipline. Gli scritti di Beeckman apparvero poco dopo la sua morte con il titolo Mathematico-physicarum meditationum, quaestionum, solutionum centuria (1644). Nello stesso anno, Mersenne pubblicò un libro con un titolo molto simile, Cogitata physico-mathematica. Anche Descartes tentò in un certo senso di unire la fisica alla matematica, in una prospettiva ancora più ambiziosa di quella di Beeckman e perfino di quella di Galilei. Secondo Descartes, infatti, tutto ciò che esisteva doveva essere studiato e compreso esattamente allo stesso modo in cui si studiavano e si comprendevano le macchine. Così scriveva nei suoi Principia philosophiae:
A tal fine non poco mi hanno aiutato le cose costruite dall'arte [dell'uomo], infatti, tra queste e i corpi naturali non conosco altra differenza se non che le operazioni per costruire gli artefatti sono perlopiù compiute con strumenti tanto grandi da poter essere facilmente percepiti dai sensi: ciò infatti si richiede perché possano essere costruite dagli uomini. Al contrario, gli effetti naturali dipendono quasi sempre da alcuni organi tanto minuti che sfuggono a ogni senso. (OF, II, p. 387)
Non è quindi affatto sorprendente che egli scrivesse a un suo corrispondente di pensare che "tutta la mia fisica non sia altro che una meccanica" (AT, II, p. 542). Benché la matematica svolga un ruolo piuttosto limitato nelle opere di fisica pubblicate da Descartes, la sua classificazione della fisica come branca specifica della matematica è tutt'altro che irrilevante. Anche per Thomas Hobbes la fisica era virtualmente identica alla matematica, né vi era alcuna differenza tra l'oggetto dell'una e dell'altra. Di conseguenza, il moto fisico era affrontato in modo sostanzialmente identico a quello geometrico, ossia a partire dal moto dei punti, delle linee e delle superfici, che consente di costruire le diverse figure geometriche, e la geometria non era altro che la manipolazione immaginaria dei corpi. In un'opera più tarda, Elementorum philosophiae sectio secunda de homine (1658), Hobbes scriveva:
E poiché nelle cose naturali che nascono dal moto non è possibile neppure procedere con un ragionamento a posteriori, senza la cognizione di ciò che consegue ad una qualunque specie di moto, e non è possibile giungere alle conseguenze dei moti senza la cognizione della quantità, che è la geometria, non può accadere che certe cose non debbano essere dimostrate, con una dimostrazione a priori, anche dal fisico. Perciò la fisica, dico la vera fisica, che si fonda sulla geometria, si suole annoverarla tra le matematiche miste. (Elementi di filosofia, p. 590)
In Hobbes, quello che in precedenza era stato il campo della matematica mista, si rivela dunque come la vera fisica. Dal suo punto di vista, non si trattava di dare una veste matematica alla vecchia fisica aristotelica, quanto piuttosto di conferire alla matematica mista, come la si era definita fino a quel momento, le funzioni e il ruolo della fisica. In modo molto simile a quello tentato da Galilei nei primi anni del secolo, Hobbes cercò di elevare la matematica mista al rango di disciplina filosofica.
Non è facile stabilire esattamente fino a che punto la fisica matematica facesse effettivamente parte di questi primi programmi. Forse si avvertiva l'esigenza di unire la fisica alla matematica, senza avere però una chiara idea di come farlo. Certo è che alla fine del secolo le due discipline apparivano oramai indissolubilmente legate.
L'opera monumentale di Isaac Newton, intitolata Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), stabilì un nuovo paradigma per tutte le scienze, collegando con chiarezza tra loro la fisica e la matematica. Newton si servì del ragionamento matematico per dimostrare l'esistenza di una forza universale, esercitata da ciascun corpo su tutti gli altri, in misura inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra i due. In tal modo, egli utilizzò il ragionamento matematico per inferire la causa di fenomeni come il moto dei pianeti e la caduta dei gravi, esprimendola a sua volta sotto forma di legge matematica. Newton riuscì dunque nell'intento di dotare la fisica di un metodo matematico e di formulare i veri principî matematici della filosofia naturale. Un secolo prima, un titolo come quello da lui scelto, che mescolava termini considerati allora del tutto inconciliabili quali 'matematica' e 'filosofia naturale', avrebbe suscitato stupore e diffidenza. Invece dal momento della sua pubblicazione il libro di Newton, pur trovandosi al centro di un acceso dibattito, richiamò in breve tempo una fitta schiera di ammiratori e di imitatori.
L'interesse per l'esperienza e per la sperimentazione non era una novità nel XVII secolo. Sin dai tempi antichi, le teorie di coloro che tentavano di comprendere i fenomeni naturali si erano basate almeno in parte sull'osservazione del mondo. Ciò è particolarmente vero nel campo della medicina, nel quale originariamente il termine 'empirico' si riferiva a un gruppo di medici che rifiutavano la teoria e la speculazione e basavano la pratica medica sull'esperienza, ma è vero anche che l'esperienza e il suo ruolo nella scienza del XVII sec. presentano alcuni aspetti nuovi.
Innanzitutto, gli uomini del XVII sec. avevano a disposizione una gran quantità di nuove informazioni sul mondo naturale. Il frontespizio della Instauratio magna di Bacon, precedentemente citato, testimonia, fra le altre cose, un grande interesse per i viaggi di esplorazione, che avevano aperto agli europei le porte di un Universo completamente nuovo, mettendoli in contatto con piante, animali e popoli fino ad allora sconosciuti, e che avevano aumentato considerevolmente la conoscenza della geografia del mondo. Questi viaggi inoltre avevano dato grande impulso all'astronomia, fornendo informazioni sui cieli dell'emisfero meridionale, che erano ignoti ai Greci e di conseguenza anche agli europei medievali e rinascimentali, il cui sapere si basava su quello dei loro predecessori. Il sapere si era accresciuto anche grazie ai notevoli progressi della tecnologia, agli strumenti astronomici progettati da Tycho Brahe (1546-1601), all'introduzione di cannocchiali, microscopi e strumenti quali la pompa pneumatica di Robert Boyle (1627-1691), che consentivano di effettuare esperimenti in condizioni che prima d'allora non era stato possibile ricreare.
I seguaci delle scienze aristoteliche tradizionali non erano affatto ostili alla sperimentazione. Come abbiamo visto, ciò risultava vero in particolare nel campo delle scienze matematiche, quali l'astronomia, l'ottica e la meccanica. I commentatori più recenti hanno sottolineato il fatto che, agli inizi del XVII sec., i gesuiti che coltivavano queste scienze si sforzavano di ricavare le loro conoscenze basandosi sull'esperienza. Tuttavia la sperimentazione divenne particolarmente importante per coloro che assumevano una posizione alternativa all'aristotelismo, specialmente come mezzo per invalidare gli atteggiamenti aristotelici più tradizionali nei confronti della Natura.
L'interesse per l'esperienza e per la sperimentazione rivestiva un ruolo centrale nelle filosofie alchemiche che si ergevano a sfidare l'aristotelismo dominante. In un famoso brano dell'Idea medicinae philosophicae (1571), il medico danese Peder Sørensen (Petrus Severinus), seguace di Paracelso, scrive:
Vendete le vostre terre, le vostre case, i vostri abiti e i vostri gioielli, e bruciate i vostri libri. Dall'altra parte, compratevi delle calzature robuste, scalate le montagne, esplorate le valli, i deserti, le coste del mare e le più profonde depressioni della terra, e annotate con cura le differenze degli animali e delle piante, i vari generi di minerali, le proprietà e i modi di origine di tutto ciò che esiste. Non vergognatevi di studiare diligentemente l'astronomia e la filosofia terrestre dei contadini. Infine, comprate carbone, costruite fornaci e non stancatevi mai di osservare e di utilizzare il fuoco. In questo modo, e in nessun altro, arriverete a conoscere le cose e le loro proprietà. (p. 39)
Per Sørensen, l'esperienza era indispensabile per scoprire come è fatto il mondo, ma il più importante sostenitore dell'empirismo scientifico nel XVII sec. fu senza dubbio Bacon. Come abbiamo detto precedentemente, la sua ambizione, espressa nella Instauratio magna, era quella di riformare tutto il sapere. Per far ciò, egli sostiene, è necessario cominciare con un appello diretto alla Natura: "per coloro i quali non si propongono di far congetture o divinazioni, ma di scoprire e di sapere, avendo per scopo, non di imitare gli spacciatori di favole congegnate ad imitazione dei mondi, ma di arrivare a chiarire la vera essenza di questo nostro vero mondo, quasi analizzandolo; tutta la materia deve essere tratta dalle cose stesse" (Opere filosofiche, I, p. 238). Trarre dalle cose stesse ‒ a rebus ipsis ‒ significa, ovviamente, trarre dall'esperienza. Bacon delinea la procedura per usare l'esperienza e la sperimentazione nel Novum organum, pubblicato come seconda parte dell'Instauratio magna nel 1620, in alternativa all'Organum aristotelico, il corpus degli scritti logici dello Stagirita. Il primo passo del nuovo metodo baconiano consiste semplicemente nella raccolta di esperimenti e osservazioni: "In primo luogo si deve infatti preparare una storia naturale e sperimentale che sia sufficiente ed esatta, perché essa è il fondamento di tutto il resto. E non si deve immaginare o escogitare quello che la natura fa e produce, ma scoprirlo" (ibidem, p. 353).
Tuttavia, una storia naturale, una raccolta casuale di fatti, è troppo poco maneggevole per essere utilizzata direttamente. E così, suggerisce Bacon, "si devono preparare tavole e coordinazioni delle istanze, disposte in modo tale che per mezzo di esse l'intelletto possa lavorare attivamente" (ibidem). Si prenda come esempio l'indagine sulla natura del calore, che Bacon tratta in modo estremamente dettagliato nel Novum organum. Egli parte da quella che definisce la tavola delle 'Istanze che convergono nella natura del caldo', o 'Tavole della essenza e della presenza', dove viene elencata una varietà di circostanze nelle quali si manifesta il calore, come le meteoriti infuocate, la calce viva spruzzata con acqua, il ferro sciolto in acido e lo sterco fresco di cavallo. La seconda tavola è quella che Bacon chiama delle 'Istanze in fenomeni prossimi che sono altrettante privazioni della natura del caldo'; in essa sono esaminati singolarmente i fenomeni elencati nella 'Tavola della essenza e della presenza' e si cerca di trovare istanze simili nelle quali il calore è assente. Così, per esempio, riguardo all'osservazione che il ferro sciolto in un acido produce calore, Bacon nota che metalli più morbidi, come l'oro e il piombo, non rilasciano calore quando sono sciolti nell'acido. La terza tavola è chiamata la 'Tavola dei gradi o comparativa del caldo', nella quale Bacon riporta osservazioni relative a cose in cui la natura del calore si manifesta in misura maggiore o minore, osservando per esempio che, sebbene lo sterco vecchio sia più freddo di quello fresco, ha in sé ciò che egli chiama un potenziale di calore, in quanto produrrà calore qualora venga rinchiuso o seppellito. Allo stesso modo, Bacon osserva che sostanze diverse bruciano producendo gradi diversi di calore.
Una volta raccolti e ordinati nelle apposite tabelle tutti i contenuti della storia naturale, si è pronti per il passaggio successivo, l'induzione, che Bacon chiama la 'prima vendemmia'. A questo punto, egli afferma, bisogna scoprire "una natura tale che sia sempre presente quando è presente la natura data, assente quando essa è assente, e capace di crescere o decrescere con essa" (ibidem, p. 380). Nel caso del calore, dunque, si tratta di trovare ciò che è sempre presente quando il calore è presente, e sempre assente quando il calore è assente. Questo procedimento si svolge in due fasi. Innanzitutto Bacon usa le tavole per escludere da una natura determinate proprietà. Così, per esempio, sebbene egli ritenga che i corpi celesti siano caldi, essere un corpo celeste non significa fare parte della natura del calore, poiché esistono corpi terrestri che lo sono altrettanto. Una volta vagliate in questo modo le istanze candidate a rappresentare la natura del calore, è possibile esaminare ciò che rimane e stabilire che cosa hanno in comune tutte le cose calde. Quello che Bacon suggerisce è che il calore è un caso particolare di movimento: "il calore è movimento espansivo non uniformemente secondo il tutto, ma secondo le particelle più piccole del corpo; ed è insieme trattenuto, respinto, e ricacciato indietro con violenza" (ibidem, p. 390). Ciò, osserva Bacon, è quanto hanno in comune tutte le istanze di calore che si trovano nelle tavole della nostra storia naturale. Da questo punto in poi, non è ben chiaro dove ci porti il Novum organum. Presumibilmente la prima vendemmia avrebbe dovuto essere seguita da vendemmie successive, dalle quali si sarebbe ricavata un'ulteriore conoscenza della Natura. Inoltre, suggerisce Bacon, la conoscenza che abbiamo derivato dai nostri esperimenti ci detterà in qualche modo nuovi esperimenti da eseguire, sebbene egli non indichi esattamente come ciò debba avvenire. È importante notare che Bacon non si limita a sostenere l'utilità dell'esperienza, come molti altri suoi contemporanei. Secondo lui, l'aspetto innovativo del suo metodo consiste nel mostrarci come utilizzare l'esperienza in modo efficace, così che possa effettivamente portare alla conoscenza delle cause reali delle cose, ovvero a una scienza autentica.
Il metodo del Novum organum è esemplificato nell'ordinamento della Casa di Salomone, l'ideale di società scientifica che Bacon immagina nel suo racconto utopistico, New Atlantis, pubblicato postumo nel 1626 in appendice alla Sylva sylvarum. Alla base dell'organizzazione si trovano coloro che compilano le tavole della storia naturale, un totale di ventiquattro investigatori: dodici "mercanti di luce [...] sono incaricati di visitare i paesi stranieri, fingendo di appartenere ad altre nazioni. [...] Essi ci portano libri, sommari ed esemplari delle scoperte di tutti gli altri paesi"; tre "predoni" ricercano esperimenti descritti nei libri, tre "uomini del mistero" raccolgono esperimenti nel campo delle arti meccaniche e delle scienze liberali, e tre "pionieri o minatori" effettuano nuovi esperimenti di loro invenzione. Essi sono affiancati da tre "classificatori", incaricati di ordinare queste osservazioni e questi esperimenti nelle tavole appropriate. Nella fase successiva dell'impresa sono impiegati dodici lavoratori: tre "uomini di dote" o "benefattori" esaminano le tavole iniziali redatte dai compilatori, e ne ricavano sia le applicazioni tecnologiche sia le prime conclusioni teoriche, presumibilmente quella che Bacon chiama la 'prima vendemmia' nel Novum organum; tre "fiaccole", come vengono chiamati, estrapolano quindi nuovi esperimenti dal lavoro dei classificatori e dei benefattori, esperimenti che sono poi eseguiti da tre "inoculatori"; e infine, "altri tre innalzano le prime invenzioni, mediante esperimenti, in più vaste osservazioni, assiomi, aforismi. Noi li chiamiamo 'interpreti della Natura'" (Scritti filosofici, pp. 863-865).
Il programma empirista di Bacon delineato nel Novum organum e poi specificato nella New Atlantis fu il modello esplicito a cui si rifecero i fondatori della Royal Society di Londra nel 1660. Nella History of the Royal Society del 1667, scritta a difesa dell'istituzione, Thomas Sprat esordisce con un encomio del suo ispiratore:
Mi limiterò a menzionare un grande uomo, che ha saputo immaginare questa impresa in tutta la sua estensione, prima che fosse realizzata; intendo dire, Lord Bacon. Nei cui libri sono sparsi ovunque i migliori argomenti che si possano produrre in difesa della filosofia sperimentale; e i migliori consigli per la sua promozione. Tutto ciò lo ha adornato con grandissima arte; cosicché se i miei desideri avessero potuto prevalere sulle richieste dei miei eccellenti amici, che mi hanno spinto a intraprendere quest'opera, questa Storia della Royal Society non avrebbe avuto altra prefazione, se non qualche passo dei suoi scritti. (pp. 35-36)
L'attività della Royal Society rispecchiava effettivamente un autentico interesse per una conoscenza del mondo basata sull'indagine empirica, ossia per il 'ritorno alle cose stesse' propugnato da Bacon. Le "Philosophical Transactions" sono piene di osservazioni empiriche. Il volume pubblicato nel 1687, per esempio, contiene una recensione dei Principia di Newton, nonché molti articoli su argomenti di matematica pura o mista; ma non si limita a ciò e comprende, fra l'altro, la descrizione di un ermafrodita, un resoconto della presunta pioggia di grano in Wiltshire, un articolo sui motivi per cui la Luna sembra più grande quanto più è vicina all'orizzonte, una ricerca sulla velocità di circolazione del sangue, l'esposizione di un tentativo di allevamento sotterraneo di anatre, uno scritto sulla storia naturale dello Staffordshire e altri resoconti e curiosità di storia naturale. Di fatto nelle "Philosophical Transactions" si trovano non solo scritti di storia naturale, ma anche resoconti storici di carattere molto più generale, compreso un commento a un saggio sul ripristino dei sistemi di pesi e misure ebraici, un articolo sulla Grande Muraglia cinese e una strana iscrizione rinvenuta sul basamento di una colonna a Roma.
Un aspetto importante del ricorso all'esperienza nel XVII sec. è la distinzione fra osservazione ed esperimento. Per i filosofi naturali aristotelici, la fisica era lo studio dei corpi naturali in quanto tali, vale a dire internamente dotati dei principî di moto e quiete. Di conseguenza, era importante osservare il modo in cui tali corpi si comportano naturalmente, come essi sono in sé, mentre non vi era nulla da guadagnare a sottoporli a condizioni innaturali: riscaldare l'acqua o la terra, elementi entrambi freddi per natura, non può dirci nulla su ciò che essi sono in sé. Le cose cambiano, però, se si pensa a vari altri indirizzi speculativi concorrenti. L'alchimista, per esempio, riteneva che solo assoggettando i corpi al calore fosse possibile separarne gli elementi costitutivi e quindi scoprirne la vera natura. È per questo motivo che Sørensen affermava: "comprate carbone, costruite fornaci e non stancatevi mai di osservare e di utilizzare il fuoco". Analogamente, Nicaise Le Febvre, nel suo popolare testo alchemico, Traicté de la chymie (1660), scriveva che il fuoco è il mezzo principale che l'alchimista ha a disposizione per conseguire il suo obiettivo primario, ossia la separazione della materia nei suoi elementi ultimi:
Poiché come l'anatomista si serve di rasoi e di altri utensili affilati nelle sue dissezioni, per separare nel modo migliore le diverse parti del corpo umano, cosa che rappresenta il suo principale obiettivo; lo stesso fa l'artista chimico, prendendo a modello la Natura stessa, per raggiungere il suo scopo, che consiste nel riunire le cose omogenee e separare quelle eterogenee per mezzo del fuoco; […] dato che il fuoco non rallenta o diminuisce mai la sua azione, ma piuttosto la prosegue e la intensifica, fino a quando non elimina ogni eterogeneità dal composto. (ed. 1664, p. 19)
Pertanto, è assoggettando particelle di materia al fuoco che possiamo conoscerne la vera natura. Per il filosofo meccanicista Descartes, non vi è differenza fra l'artificiale e il naturale, da cui consegue che possiamo conoscere il mondo materiale sia attraverso l'osservazione, sia attraverso la manipolazione. Tuttavia è Bacon che porta agli estremi questa generalizzazione, quando nel Novum organum scrive: "Infatti, come nelle cose politiche l'ingegno di ciascuno, i suoi segreti sentimenti e affetti si scorgono meglio quando costui si trovi in stato di turbamento, che altrimenti; così pure i segreti della natura si mostrano meglio sotto la pressione dell'arte, che secondo il loro corso naturale" (Opere filofiche, I, p. 320). Per svelare i più reconditi segreti della Natura, quindi, occorre torturarla, escogitare esperimenti e vedere quel che accade, e non limitarsi a osservare il corso normale degli avvenimenti.
Il fatto di utilizzare gli esperimenti, invece di limitarsi a osservare il corso normale della Natura, è un tratto distintivo della scienza del XVII sec., che la separa nettamente da quella dei secoli precedenti. Questo nuovo atteggiamento si riscontra nelle esperienze di Galilei e di Mersenne con il pendolo e i gravi sui piani inclinati, negli esperimenti di ottica di Descartes con i prismi e le ampolle d'acqua, relativi alla sua teoria dell'arcobaleno, negli esperimenti di Evangelista Torricelli (1608-1647) e di Blaise Pascal (1623-1662) con i tubi di mercurio e altri liquidi, in quelli di Boyle con la pompa pneumatica, negli esperimenti di ottica di Newton e in moltissimi altri. In un certo numero di casi, gli scienziati presero in esame situazioni che potrebbero essere definite innaturali al massimo grado, situazioni che potevano essere create soltanto in laboratorio con l'intento specifico di produrre una serie di circostanze che non erano altrimenti riscontrabili in Natura.
Come si è detto, per tutto il XVII sec. si attribuì una crescente importanza alla sperimentazione e all'esperienza. Ma vale la pena ricordare anche un altro cambiamento, che investe il concetto stesso di esperienza su cui si fonda l'empirismo seicentesco. Sebbene anche gli aristotelici facessero ricorso all'esperienza, in genere per esperienza si intendevano le manifestazioni comuni della Natura, che chiunque poteva osservare nel corso della normale interazione quotidiana con il mondo. L'esperienza e i fenomeni, in questo senso, rappresentavano non tanto il frutto di osservazioni individuali, bensì la saggezza collettiva che deriva dall'unanimità delle osservazioni individuali. Negli Analitici secondi, Aristotele sosteneva che il ricordo si generava dalla sensazione, la cui ripetizione dava luogo a ciò che si può definire 'esperienza'. La scienza aristotelica si fondava non su singole istanze dell'esperienza sensoriale, né su osservazioni particolari effettuate in occasioni particolari, bensì sul corso generale dell'esperienza, sul consenso comune. Alla scienza aristotelica non bastava l'osservazione particolare del fatto che la mattina del 23 gennaio 1679 avesse nevicato a Stoccolma o che il 26 settembre 1664 una determinata mela fosse caduta dall'albero in testa a un certo Newton. Ciò che contava, era che fosse generalmente accettato il fatto che d'inverno nei paesi settentrionali nevicava, o che i gravi cadevano; questo è ciò che costituiva l'esperienza propriamente detta e che la distingueva dalla percezione. Il passaggio dalla percezione, intesa come esercizio individuale dei sensi in una determinata occasione, all'esperienza propriamente detta implicava la ripetizione di tali percezioni individuali. Qualora queste fossero risultate sufficientemente convergenti, la memoria le avrebbe trasformate in fatti empirici, fatti che potevano essere riconosciuti e accettati da tutti, e che costituivano il fondamento di un autentico sapere. In tal modo, un dato empirico poteva essere considerato una sorta di enunciato generale elementare, convalidato dalla ripetizione.
I dati derivati da un'esperienza comune omogenea, sono raramente controversi: ci si può aspettare che l'esperienza del lettore non sia diversa da quella dello scienziato. In questo contesto, l'esperienza può essere vista come un elemento universalmente accettato su cui lo scienziato aristotelico può basare la sua argomentazione, ma tale concezione cambia nel XVII sec. con l'emergere di nuove e controverse visioni del mondo. L'attenzione dello scienziato si rivolge sempre più a tipi di fenomeni fortemente specializzati, fenomeni come quelli che si manifestano nel vuoto creato con la pompa pneumatica, accessibili soltanto ad alcuni individui, o fenomeni quali quelli osservati nelle acque stagnanti con il microscopio di nuova invenzione, osservazioni sorprendenti che contraddicono l'esperienza quotidiana. Diventa dunque sempre più problematico stabilire la credibilità delle osservazioni e dei fenomeni sperimentali; a questo fine non bastano più il consenso generale e l'esperienza comune. Non è più possibile considerare l'esperienza un elemento universalmente accettato; lo scienziato deve convincere il lettore che i fenomeni di cui parla sono vere rappresentazioni delle cose così come sono.
Forse per tale motivo, sempre più spesso i risultati sono presentati non in termini generali, ma in termini di esperienza personale del singolo osservatore. Un esempio tipico è il resoconto di uno degli esperimenti effettuati da Boyle con la pompa pneumatica. In detto esperimento, descritto nei New experiments (1660) egli mise un'allodola nell'apparato, dal quale poi tolse l'aria:
Prendemmo (non potendoci al momento procurare altro uccello vivo abbastanza piccolo da poter entrare nel recipiente) un'allodola, a cui uno sparo di un uomo, che avevamo mandato a procurarci degli uccelli per il nostro esperimento, aveva spezzato un'ala. Nonostante questa ferita, tuttavia, l'allodola era molto vispa e, introdotta nel recipiente, vi risalì più volte a una notevole altezza. Dopo aver sigillato velocemente, ma accuratamente il recipiente, si azionò diligentemente la pompa, e l'uccello per un po' sembrò vivace; ma non appena fu aspirata una maggiore quantità di aria, incominciò visibilmente ad accasciarsi e a dare segni di malessere e ben presto fu presa da convulsioni violente e irregolari come quelle che si vedono nei polli quando si torce loro il collo: l'uccello infatti si sbattè da parte a parte due o tre volte, e morì con il petto in su, la testa in giù e il collo piegato [...]. Constatammo che l'intera tragedia si era svolta in dieci minuti, parte dei quali erano stati impiegati a sigillare il coperchio del recipiente. (Opere, p. 916)
Questo è molto diverso dall'affermare semplicemente, come si sarebbe forse fatto in precedenza, che le allodole (o gli uccelli, o un qualsiasi altro animale) muoiono qualora si tolga l'aria dall'ambiente in cui si trovano. Tale resoconto ci mostra esattamente quello che Boyle fece e vide in quella determinata occasione. Stando così le cose, la credibilità del resoconto dipende, in un certo senso, dalla credibilità del suo autore: si crede al resoconto perché si crede a Boyle. Inoltre, la vivida descrizione della procedura sperimentale trasporta il lettore sul luogo e, in tal modo, lo trasforma in ciò che potremmo definire un 'testimone virtuale' dell'esito dell'esperimento. Ciò rivela un'altra tendenza tipica di quel periodo, ovvero la natura sempre più marcatamente sociale dell'osservazione. Se per Des- cartes o Bacon bastava che le osservazioni dello scienziato fossero confermate da un testimone di fiducia, ciò era ritenuto insufficiente dallo statuto della Royal Society. In The history of the Royal Society, Sprat sostiene infatti che gli esperimenti devono essere eseguiti più volte, da sperimentatori diversi, e quindi presentati tutti insieme alla Royal Society, a cui spettava il compito di determinare la validità del dato sperimentale. Egli ci informa inoltre che, quando la Royal Society si faceva carico di promuovere un esperimento o una serie di esperimenti, la prassi corrente era quella di suddividere l'incarico fra diversi soci. Secondo quanto afferma Sprat, gli esperimenti erano organizzati
sia affidando lo stesso incarico a molti uomini, separati tra loro, sia creando comitati […]. Da questa unione di occhi e mani nascono [numerosi] vantaggi. Di conseguenza, si avrà una piena comprensione dell'oggetto in tutti i suoi aspetti; e vi sarà una comunicazione reciproca tra le scienze, che si illumineranno a vicenda: mentre l'opera di un singolo può fornire solo una prospettiva parziale. Fissando il pensiero di molti uomini su un solo oggetto, si potrà porre inoltre rimedio a quel difetto, che è pressoché inevitabile nei grandi inventori. È infatti costume di queste menti gravi e poderose di fare meraviglie all'inizio, per cedere e raffreddarsi a poco a poco col tempo, fino a divenire esauste e giungere a provare disgusto per ciò di cui un tempo erano più avide […]. Per questo il miglior rimedio è riunire insieme molte menti. (pp. 84-85)
Che gli esperimenti debbano essere effettuati da un certo numero di persone è un requisito esplicito, frutto di un'attenta riflessione; soltanto nel caso in cui gli esperimenti siano replicati più volte sarà possibile evitare gli errori in cui lo sperimentatore isolato è destinato a cadere. Oltre a soddisfare la condizione che gli esperimenti siano ripetuti da diversi individui, i fatti sperimentali devono essere convalidati dal consenso della comunità:
[dopo l'esecuzione di un esperimento] giunge per l'assemblea il momento di svolgere il suo secondo grande compito, che è quello di giudicare e decidere sulla questione di fatto. In questa loro funzione, [i membri] sono soliti fare effettuare di nuovo per intero l'esperimento alla loro presenza […] e lo ripetono finché l'intera compagnia non sia pienamente convinta della certezza e della costanza, oppure, al contrario, dell'assoluta impossibilità del suo effetto. Tale scrutinio critico e reiterato di queste cose, che avvengono di fronte ai loro occhi, ha lo scopo di sottrarre a ogni ragionevole disputa la realtà di quelle operazioni, la cui esecuzione è stata positivamente determinata dalla Società […]. Non esiste nulla, di quanto è oggi approvato e praticato nel mondo, che sia confermato da un'evidenza maggiore di quella che viene richiesta dalla Società; con la sola eccezione dei Sacri Misteri della nostra religione. (ibidem, pp. 99-100)
A stabilire la veridicità dei fatti sperimentali nel loro complesso è ora la comunità. Non è un caso che qui si faccia riferimento a quel che accadeva all'interno della Royal Society. I nuovi criteri di fattualità richiedevano nuove istituzioni. Se la conferma di un dato sperimentale implica la ripetizione dell'esperimento da parte di altri sperimentatori e l'accertamento conclusivo di una commissione di esperti, è necessario stabilire criteri di competenza e creare istituzioni che siano in grado di decidere chi abbia le qualifiche necessarie per riprodurre gli esperimenti o per convalidarne l'esito e stabilire la fattualità sperimentale. Non ci sorprende, quindi, che la formulazione di questi nuovi concetti di sperimentazione ed esperienza abbia coinciso con l'espansione delle accademie e delle società scientifiche nella seconda metà del XVII secolo.
Non si deve sopravvalutare l'importanza dell'empirismo nel quadro della Rivoluzione scientifica del Seicento. Nonostante il ruolo svolto dalle nuove osservazioni astronomiche di Brahe (interpretate attraverso la lente delle teorie planetarie di Kepler) e di Galilei, il modello copernicano rimaneva in gran parte una questione dibattuta a livello puramente teorico. Sebbene Boyle tentasse di fornire la prova sperimentale della sua concezione meccanica e corpuscolare della materia, opponendosi alla visione aristotelica del corpo come insieme di materia e forma, la filosofia corpuscolare aveva ben poco da offrire in termini di risultati empirici concreti. Il fatto che, laddove l'aristotelismo attribuiva un fenomeno empirico a una forma sconosciuta, il meccanicismo lo attribuisse a una struttura corpuscolare sconosciuta, non appare affatto in questo senso un progresso di grande rilevanza. Nondimeno, in questo periodo il ruolo dell'esperienza e della sperimentazione nelle scienze progredì in misura significativa.
Per un aristotelico ortodosso, il concetto di certezza era inseparabile da quello di scienza. Nella Summa philosophiae quadripartita, Eustache de Saint-Paul fornisce tre diverse definizioni di ciò che deve essere considerato scienza. Per la prima, "impropria e generalissima", si può parlare di scienza "per qualunque tipo di conoscenza vera". Per la seconda, "propria e meno confusa", il termine scienza è applicabile "alla conoscenza vera ed evidente per qualsiasi causa". Secondo la terza, "massimamente propria e quindi meno ampiamente manifesta [la scienza] è conoscenza certa ed evidente di una cosa necessaria attraverso la causa propria e necessaria da cui la cosa dipende veramente e secondo la natura" (De rebus dialecticis, p. 7). Nel valutare questa definizione della scienza, tuttavia, occorre ricordare che il termine 'scienza' (ovvero il latino scientia) aveva all'epoca un'accezione molto diversa rispetto alle lingue moderne. La logica e la teologia facevano entrambe parte della scienza, mentre per includere tra le scienze la fisica o filosofia naturale era necessario considerare con una certa elasticità questa definizione. Eustache risponde affermativamente alla domanda se fosse lecito considerare la filosofia naturale una scienza ma, in merito all'obiezione che non tutto nella fisica è certo e dimostrato dalle cause prime, osserva: "perché una disciplina generale possa dirsi veramente scienza è sufficiente che in essa si conoscano con certezza alcune cose, anche se non tutte, e siano dimostrate per mezzo delle vere cause, anche se non accuratamente" (Physica, p. 3). Non era necessario dimostrare la certezza di tutta la fisica nel suo complesso per considerarla una scienza, in senso stretto. In pratica, gli standard di certezza erano applicati solo parzialmente.
L'incertezza che dominava il campo della filosofia naturale era in netto contrasto con il livello di certezza raggiunto dalle scienze matematiche. Più in generale, Cristoforo Clavio (1537-1612), uno degli autori della Ratio studiorum, il programma di studi che doveva essere seguito nelle scuole dei gesuiti in tutti i paesi europei, invitava gli studenti di filosofia naturale ad applicarsi alle scienze matematiche e chiedeva che fosse riconosciuta una maggiore importanza al loro insegnamento. La lezione di Clavio fu compresa e fatta propria da Descartes, che aveva studiato in un collegio dei gesuiti. Nel Discours de la méthode, egli lamenta l'incertezza di ciò che gli era stato insegnato a scuola, concentrandosi in particolare sulla filosofia, la disciplina che più si avvicinava al moderno concetto di scienza; ma già Descartes considerava falso tutto ciò che appariva solo probabile.
Occorre certo tener presente che nel XVII sec. il concetto di probabilità era complesso e non coincideva del tutto con il nostro, ma includeva argomenti fondati sull'autorità e opinioni non dimostrabili attraverso un ragionamento. In ogni caso è evidente la volontà di Descartes (almeno nei suoi primi scritti) di raggiungere un'assoluta certezza nelle riflessioni scientifiche. Questo atteggiamento è particolarmente evidente nelle Regulae ad directionem ingenii, un trattato sul metodo a cui Descartes aveva lavorato negli anni Venti del Seicento, nel quale affermava:
Ci si deve occupare solo di quegli oggetti alla cui conoscenza certa e indubitabile sembra sia sufficiente il nostro ingegno.
Ogni scienza è conoscenza certa ed evidente; chi dubita di molte cose non è più dotto di chi non vi abbia mai pensato, anzi mi sembra anche più ignorante di quest'ultimo, se di alcune cose si è fatto una falsa opinione; è meglio pertanto non studiare mai, anziché occuparsi di oggetti così difficili da esser costretti, non potendo distinguere il vero dal falso, ad ammettere come certe le cose dubbie: in questi casi infatti c'è meno speranza di aumentare il proprio sapere che pericolo di diminuirlo. Perciò, con questa proposizione, respingiamo tutte le cognizioni soltanto probabili e stabiliamo che si debba prestar fede solo a quelle perfettamente note e delle quali non si può dubitare. (OF, I, p. 237)
La risposta di Descartes all'incertezza della scienza scolastica è la richiesta di una certezza ancora maggiore di quella pretesa dai suoi insegnanti. La sua aspirazione sembra essere quella di elevare la filosofia naturale allo stesso grado di certezza delle scienze matematiche. In questo senso, egli può essere visto come un riformatore della tradizione scolastica, che tentò di adeguare ai suoi stessi standard.
Più tardi Descartes scoprì di non essere in grado di creare una scienza dotata di queste caratteristiche. Posto di fronte alla realtà, a un mondo intransigente e assai poco disposto a lasciarsi strappare i suoi segreti, fu costretto ad ammorbidire la propria posizione. Nelle ultime pagine della versione francese dei Principia (Les principes de la philosophie, 1647), Descartes sembra infatti attenuare le proprie pretese di certezza, ammettendo uno standard meno rigido per le scienze naturali. Dopo aver constatato di aver proceduto non per mezzo di deduzioni tratte a partire dalle cause prime, bensì ipotizzando l'esistenza di meccanismi nascosti e quindi deducendo i fenomeni da queste ipotesi, egli ammette che la nostra conoscenza di questi meccanismi fondamentali è ben lungi dall'essere certa, e conclude:
Che, riguardo alle cose che i nostri sensi non percepiscono affatto, basta spiegare come esse possono essere; e che è tutto quello che Aristotele ha cercato di fare.
Si replicherà ancora a questo che, sebbene io abbia forse immaginato cause che potrebbero produrre effetti simili a quelli che vediamo, non dobbiamo per questo concludere che quelli che noi vediamo sono prodotti da esse. Poiché come un orologiaio ingegnoso può fare due orologi che segnano le ore in egual modo, e tra i quali non siavi alcuna differenza in quello che appare all'esterno, e che, nondimeno, non abbiano nulla di simile nella composizione delle loro ruote: così è certo che Dio ha un'infinità di diversi mezzi, per opera di ciascuno dei quali può aver fatto che tutte le cose di questo mondo appaiano tali quali ora appaiono, senza che sia possibile allo spirito umano di conoscere quale di tutti questi mezzi egli ha voluto impiegare a farle. Il che non ho nessuna difficoltà ad accordare. Ed io crederò d'avere fatto abbastanza se le cause che ho spiegato sono tali, che tutti gli effetti che esse possono produrre sono simili a quelli che vediamo nel mondo, senza preoccuparmi se è per mezzo di esse o per mezzo di altre che essi sono prodotti. Anzi, credo essere tanto utile per la vita di conoscere cause così immaginate, che se si avesse la conoscenza delle vere: poiché la medicina, le meccaniche, e generalmente tutte le arti, cui la conoscenza della fisica può servire, non hanno per fine che di applicare talmente alcuni corpi sensibili gli uni agli altri, che, per opera della serie delle cause naturali, alcuni effetti sensibili siano prodotti; il che noi faremo egualmente bene considerando la serie di alcune cause così immaginate, benché false, che se esse fossero le vere, poiché questa serie è supposta simile, in ciò che riguarda gli effetti sensibili. (ed. Garin, pp. 361-362)
In tal modo Descartes sembra rinunciare alla sua ambizione giovanile, la creazione di una scienza totalmente certa, e ammettere che la nostra conoscenza del mondo fisico ha solo un valore probabile.
Questo atteggiamento di Descartes fa parte di una tendenza più generale, affermatasi nel XVII sec.: se per gli scolastici la filosofia naturale costituiva una scienza perché almeno una parte di essa poteva essere riconosciuta come totalmente certa, molti contemporanei di Descartes rifiutavano perfino questa modesta affermazione. Mersenne, per esempio, manifestava un profondo scetticismo verso la nostra capacità di penetrare le cause reali dei fenomeni fisici. Nelle Questions inouyes (1634), egli pone la questione: "Se sia possibile conoscere qualcosa di certo nella fisica", a cui risponde nel modo seguente:
Non c'è nulla di più chiaro e di più evidente del fatto che la luce illumina, e che le pietre cadono verso il centro della Terra, e ciò nondimeno non sappiamo ancora se esse cadono a causa della loro pesantezza o se siano spinte dall'aria, e da tutti i corpi che si trovano al di sopra, oppure se siano attratte dalla Terra: non sappiamo come la luce illumina, né come riscalda [...]. Non si può dire infatti che si sappia qualcosa come si dovrebbe, secondo le leggi e le nozioni che Aristotele e gli altri filosofi danno della scienza, se non si dimostra che è impossibile che la ragione che si apporta, o che la cosa che si propone, non sia vera. Il che basta a convincere coloro che si servono della riflessione, che non vi è nulla di certo nella fisica, o che le cose certe sono così poche, che è difficile proporre. (pp. 53-54)
Mersenne sembra assumere, da questo punto di vista, una posizione ancora più radicale di quella di Descartes, secondo il quale gli uomini possono conoscere almeno le cause probabili dei fenomeni fisici. Alle parole di Mersenne fanno eco quelle del suo collega e 'compagno d'armi' Gassendi, che, nelle Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos (1624), un'opera giovanile in cui attaccava l'aristotelismo, negava esplicitamente la possibilità di una scienza in senso aristotelico. Una delle esercitazioni si intitola "che la scienza non esiste, e soprattutto quella aristotelica". Nell'articolo 6 di questa esercitazione si dimostra come sia impossibile giungere a scoprire la vera natura delle cose, di cui conosciamo soltanto le apparenze: "Si può conoscere solo quello che appare a ciascuno di noi" (pp. 192A, 203A). Gassendi rimase per tutta la vita di questa opinione, che ritroviamo anche nelle Animadversiones in decimum librum Diogenis Laertii (1649), come pure nel Syntagma philosophicum, pubblicato dopo la sua morte, che sviluppa molti temi contenuti già nelle Animadversiones. Tale posizione fu espressa con molta chiarezza da Walter Charleton, un seguace inglese di Gassendi (ma anche di Descartes!), che nella Physiologia (1654) parafrasa in questo modo le parole del suo maestro:
Siamo uomini, ossia talpe; a cui un'ottica debole e limitata consente solo l'ispezione delle parti esteriori e inferiori della Natura, non essendo sufficientemente perspicace da penetrarne e trafiggerne l'interiore e astrusa eccellenza: né siamo in grado di speculare le sue gloriose bellezze lungo la linea diretta e incidente delle essenze e delle cause formali, ma solo lungo quella rifratta e riflessa degli effetti; e anche così, siamo spesso costretti a procedere nell'oscurità, come dimostra la manifesta incertezza delle nostre apprensioni, che restringe la nostra aspirazione a una scienza apodittica e intima, all'umile e oscura regione della semplice congettura superficiale. Questa è infatti la condizione dei nostri imperfetti intelletti, che non ci consente l'esplorazione dei più profondi recessi e la conoscenza delle proprietà formali delle nature, ma limita l'applicazione delle nostre facoltà disquisitive ad alcune apparenze, o effetti di quelle. (pp. 50-51)
L'opinione di Charleton e Gassendi trovò la sua piena espressione alla fine del secolo nell'Essay concerning humane understanding (1690) di John Locke, in cui si legge:
Perciò sono tentato di dubitare che, per quanto avanti l'umana industria possa spingere la filosofia utile e sperimentale nelle cose fisiche, una filosofia scientifica debba essere per sempre fuori dal raggio delle nostre possibilità: perché ci mancano idee perfette e adeguate persino di quei corpi che sono più vicini a noi, e più soggetti al nostro comando […]. Di continuo vengono alla notizia dei nostri sensi certi effetti, di cui, fin qui, abbiamo una conoscenza sensoria: ma delle cause, modo e certezza della loro produzione, per le due ragioni dette, dobbiamo adattarci ad essere ignoranti. In questo campo non possiamo andare oltre ciò che l'esperienza particolare ci fa sapere come questione di fatto, e, per analogia, indovinare quali effetti, in altre esperienze, saranno probabilmente prodotti da corpi simili. Ma quanto a una scienza perfetta dei corpi naturali […] credo che ci troviamo così lontani dall'avere la capacità di una cosa simile, che concludo sarebbe uno spreco di fatica il ricercarla. (ed. Pelizzi-Farina, II, pp. 628, 632)
In questo passaggio, Locke esprime quella che era divenuta l'opinione prevalente nella comunità scientifica della fine del secolo. Perfino Leibniz, che pure riteneva possibile conoscere con certezza alcune parti della scienza, per esempio le leggi fondamentali della Natura, nella Monadologia fu costretto ad ammettere che "nei tre quarti delle nostre azioni non siamo che empirici" (Scritti filosofici, III, p. 457). Nei Nouveaux essais, scritti in risposta al pessimismo di Locke riguardo alla conoscenza e alla possibilità di una scienza dei corpi, Leibniz si limita a raccomandare benevolmente di accettare il genere inferiore di certezza che possiamo trarre dai sensi come una forma di conoscenza e di sviluppare la nuova scienza delle probabilità come parte della logica di una scienza così concepita: "Ma senza disputare sulle parole, ritengo che la ricerca dei gradi di probabilità sarebbe importantissima; essa però ci manca tuttora, e questa è una grossa mancanza della nostra logica. Poiché, quando non si può decidere in modo assoluto la questione, si potrebbe sempre determinare il grado di verosimiglianza ex datis e, di conseguenza, si potrebbe giudicare razionalmente quale partito è il più evidente" (ibidem, II, p. 354).
Le scoperte effettuate nel corso del secolo e la maggiore consapevolezza della complessità del mondo naturale indussero gli scienziati ad accettare l'idea di doversi accontentare di una conoscenza incerta e soltanto probabile. L'originaria domanda di certezza, che Descartes aveva ereditato dai suoi maestri aristotelici, si era dimostrata inesaudibile.
Al principio del secolo, gli europei vivevano in un mondo ancora per molti aspetti aristotelico e continuavano a pensare la Natura in termini di materia e forma, sfera celeste e mondo sublunare, anime infuse negli oggetti viventi, secondo una visione confortata dall'esperienza comune e dal ragionamento sillogistico tradizionale. Alla fine del XVII sec., il mondo era divenuto un luogo profondamente diverso agli occhi di coloro che indagavano la Natura. Benché apparentemente ancora in auge, soprattutto nelle università, l'aristotelismo cominciava a incrinarsi e in molti fra i circoli intellettuali era stato sostituito da una nuova visione meccanicista e matematica del mondo, sostenuta da una nutrita serie di testimonianze empiriche: questo passaggio segnò l'inizio del mondo della scienza moderna.
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