La Rivoluzione scientifica: modelli di conoscenza. Le comete
Le comete
I problemi relativi al moto e alla natura fisica delle comete attraversano tutta la storia dell’astronomia e della cosmologia. Nell’Antichità greca e fino al tardo Rinascimento la teoria dominante fu quella aristotelica, secondo la quale le comete erano il prodotto visibile dell’incendio di esalazioni calde e secche provenienti dalla superficie terrestre ed elevatesi sino alla sfera del fuoco. È una teoria che si integra con la cosmologia aristotelica e in particolare con la divisione del Cosmo in due sfere separate: quella terrestre, regno dei quattro elementi e della generazione e corruzione delle sostanze, e quella celeste, composta di solo etere e di corpi immutabili. All’interno di questo schema, Aristotele colloca le comete nella regione terrestre e al di sotto della sfera lunare: si tratta di fenomeni temporanei e imprevedibili, incompatibili con l’immutabilità della regione celeste. La teoria aristotelica dominò praticamente incontrastata per molti secoli, nonostante fossero state formulate ipotesi alternative, come quella pitagorica secondo la quale le comete erano corpi celesti, che in seguito fu ripresa da Seneca ma non riuscì mai ad imporsi.
Nella seconda metà del Quattrocento si levarono le voci critiche degli astronomi Paolo Dal Pozzo Toscanelli, Georg von Purbach e Regiomontano. Il primo sostenne che le comete erano corpi celesti, mentre Purbach e Regiomontano tentarono di determinare attraverso l’osservazione la distanza delle comete dalla Terra. Fu solo nel Cinquecento, tuttavia, che le tesi antiaristoteliche iniziarono ad affermarsi sia per effetto del miglioramento degli strumenti e dei metodi di osservazione, sia grazie a un rinnovato interesse per tesi filosofiche diverse da quella aristotelica. In questo periodo il dibattito sulle comete cominciò ad avere un ruolo centrale all’interno di una più ampia riflessione sulla cosmologia. Nell’ultimo quarto del XVI sec., infatti, le indagini sull’esatta determinazione della posizione celeste, della distanza dalla Terra e della natura delle comete diventarono un elemento decisivo per le teorie sulla materia celeste, sull’esistenza di orbi solidi e sull’immutabilità dei cieli.
Due fenomeni celesti segnarono in modo decisivo la ricerca astronomica e cosmologica della fine del XVI sec.: l’apparizione della nova nella costellazione di Cassiopea nel 1572, che fu visibile fino ai primi mesi del 1574, e la cometa del 1577. A margine di questi eventi, seguiti poi negli anni da altri analoghi (una cometa nel 1585 e la nova kepleriana del 1604), si infiammò il dibattito; alcuni astronomi, tra i quali spicca soprattutto il danese Tycho Brahe, sostennero che i due fenomeni avevano avuto luogo nella regione celeste. Nella sua prima opera a stampa, dal titolo De nova et nullius aevi memoria prius visa stella (1573), Brahe scartò l’ipotesi che il nuovo fenomeno fosse una cometa e che si trovasse in prossimità della Terra. La totale assenza di parallasse, infatti, faceva escludere la possibilità che la distanza della nova dalla Terra fosse misurabile in raggi terrestri e portava a ritenere che essa si trovasse a una distanza immensa dal nostro pianeta. Questo era un dato fondamentale nelle mani di Brahe che, pur sostenendo ancora la tesi aristotelica dell’immutabilità celeste, situava la nova nella sfera delle stelle fisse. Pochi anni dopo le concezioni di Tycho muteranno: lo studio della cometa del 1577, i cui risultati furono pubblicati nel De mundi aetherei recentioribus phaenomenis del 1588, lo convincerà che le comete sono in realtà fenomeni celesti, e che sono costituite della stessa materia di cui è composta la regione celeste. Il loro moto descrive un’orbita intorno al Sole, il quale a sua volta orbita intorno alla Terra.
Il ruolo delle comete nella cosmologia moderna è fondamentale anche per un altro motivo: dal loro moto gli astronomi poterono dedurre l’inesistenza degli orbi solidi della tradizione aristotelica. In un trattato scritto nel 1585 e dedicato alla cometa di quello stesso anno, Christoph Rothmann, matematico di corte di Guglielmo IV, langravio di Assia-Cassel e convinto copernicano, sostituì agli orbi solidi un cielo fluido composto di un elemento aereo nel quale gli astri e le comete potevano muoversi liberamente. La cometa del 1585 era localizzata nella sfera di Saturno, ossia molto lontano dalla Terra, ma era composta di elementi terrestri. Rothmann sosteneva una soluzione che riprendeva almeno in parte quella aristotelica, privata però degli aspetti termici; egli riteneva che le comete fossero un fenomeno ottico causato dall’ascesa di esalazioni provenienti dalla Terra che provocavano un effetto di rifrazione quando venivano attraversate dalla luce solare: «la materia delle comete è formata da esalazioni ascese [nella regione celeste] e illuminate dai raggi solari» (Scriptum de cometa, p. 134).
Nel 1618, tre comete in rapida successione fecero la loro comparsa nei cieli europei; nella primavera dell’anno successivo scoppiò la polemica tra Galilei, che inizialmente intervenne attraverso un suo portavoce, e i gesuiti, nella persona di Orazio Grassi, professore di matematica al Collegio Romano e autore del De tribus cometis anni MDCXVIII (pubblicato anonimo) e della più nota Libra astronomica ac philosophica (1619), firmata con lo pseudonimo di Lotario Sarsi. Grassi riprendeva le tesi innovative di Tycho Brahe secondo le quali le comete erano corpi celesti simili ai pianeti, dotate di una loro orbita circolare che si trovava a una distanza dalla Terra superiore a quella della Luna. Inoltre, riteneva che le comete fossero prive di luce propria e riflettessero quella solare.
Galilei rispose sostenendo che le comete non potevano essere considerate ‘corpi reali’. Si trattava invece di semplici apparenze causate dall’ascesa di esalazioni provenienti dalla Terra. Nel Saggiatore, il testo che lo consacrò a un largo pubblico di intellettuali, egli sostenne che «tal volta possano elevarsi dalla Terra essalazioni ed altre cose tali, ma tanto più sottili del consueto, che ascendano anco sopra la Luna, e possano esser materia per formar la cometa»; mentre per quanto riguarda la visibilità «tanto la chioma quanto il capo non son altro che reflession di raggi in una materia, qualunqu’ella si sia» (EN, VI, pp. 278, 238).
Il Saggiatore segnò il punto di svolta delle successive vicende di Galilei: sul piano del successo personale, il testo significò la definitiva consacrazione dello scienziato, che da allora in poi fu osannato nei più influenti circoli scientifici e letterari romani ed europei; ma sul fronte opposto, la sferzante polemica con Grassi, voce ufficiale dei gesuiti, guastò irreparabilmente i rapporti con la Compagnia: dopo i successi del Sidereus nuncius e della visita romana nella primavera del 1611, egli ‘perse l’affetto’ dei suoi influenti interlocutori scientifici, tanto che Vincenzo Viviani, nella biografia di Galilei, sottolineò la pericolosità della nuova situazione.
Sul piano scientifico, invece, le tesi galileiane sembrano essere più arretrate rispetto a quelle del suo oppositore, al punto che sono state considerate una riedizione, rivista e corretta, della teoria delle esalazioni di derivazione aristotelica. In realtà, la situazione non si presta facilmente a una tale schematizzazione, essendo il Saggiatore soprattutto un’opera programmaticamente votata al rovesciamento delle tesi dell’avversario più che alla dimostrazione delle proprie. In essa, l’elaborazione di teorie astronomiche e fisiche sulle comete è posta in secondo piano. Ciò è visibile nella stessa struttura dell’opera che alterna lunghe citazioni dalla Libra di Grassi e gli argomenti contrari di Galilei. Inoltre, le tesi sulla natura ottica delle comete e sull’ascesa delle esalazioni nella regione celeste riprendono posizioni analoghe espresse a più riprese nella seconda metà del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento. In ogni caso, conclusasi la vicenda del Saggiatore, Galilei non tornerà più sull’argomento.
Anche nel resto d’Europa le comete erano al centro dei dibattiti scientifici; tra i protagonisti della ricerca su questo tema spiccano personaggi quali Kepler, che nel De cometis (1619) avanza l’ipotesi di un loro moto rettilineo, John Flamsteed, Edmond Halley e Isaac Newton. Tra costoro trova posto anche l’astronomo ‘dilettante’ Johannes Hevelius, un facoltoso produttore di birra di Danzica la cui passione, abilità e dedizione all’astronomia ne fanno una figura singolare nel panorama seicentesco. Egli conobbe personalmente i filosofi Pierre Gassendi e Athanasius Kircher, gli astronomi Ismaël Boulliau e Edmond Halley e intrattenne una fitta corrispondenza con intellettuali e scienziati. Negli anni Quaranta del Seicento, iniziò a costruire sul tetto della propria abitazione quello che sarebbe stato uno degli osservatori più avanzati del periodo (prima naturalmente che fossero fondati quelli parigino e londinese); inizialmente egli si servì di una piccola stanza all’ultimo piano, alla quale aggiunse poi una torre coperta e, in seguito, una piattaforma con due osservatori, uno dei quali rotante.
La sua fama di accurato osservatore (dal 1663 poté giovarsi anche dell’aiuto della seconda moglie, Catherina Elisabetha Koopman) e di abile progettista e costruttore di strumenti è legata soprattutto a opere come la Machina coelestis pars prior (1673) e pars posterior (1679), che descrive minuziosamente le sue tecniche, o alla Selenographia (1647) che contiene una celebre mappa lunare, la descrizione di diversi strumenti quali l’elioscopio, il microscopio e il telescopio militare, e il risultato delle sue osservazioni di Saturno. Del 1668 è la Cometographia, un’opera dedicata principalmente alla cometa del 1652. Osservandone la parallasse, Hevelius sostenne che la cometa non si trovava al di sotto del cielo lunare ma nella regione celeste. Inoltre, anche attraverso un accurato lavoro di confronto con i dati delle comete osservate tra Cinquecento e Seicento, ritenne che il loro moto fosse parabolico, ossia dello stesso tipo di quello studiato per i proiettili sulla Terra. Per quanto riguarda la spiegazione della composizione fisica, il corpo della cometa sarebbe formato dalla condensazione di esalazioni provenienti dai pianeti, a loro volta responsabili anche delle macchie solari.
Se la fama di Hevelius è legata soprattutto all’accuratezza delle sue osservazioni, lo stesso vale anche per l’inglese John Flamsteed. Egli entrò presto in contatto con Henry Oldenburg e la Royal Society e nel 1675 ottenne l’incarico di astronomo reale con il compito di organizzare il nuovo Osservatorio di Greenwich e di compilare nuove tavole dei moti celesti. L’anno successivo Flamsteed iniziò le osservazioni che sarebbero culminate con la pubblicazione postuma del catalogo stellare, Historia coelestis Britannica (1725) corredato dall’Atlas coelestis (1729). I problemi legati all’organizzazione dell’osservatorio erano molti, sia esclusivamente tecnici, quali il miglioramento delle osservazioni, sia economici: il pagamento degli stipendi avveniva con molto ritardo e mancavano i fondi per l’acquisto degli strumenti tanto che Flamsteed se ne dovette fare carico personalmente. Tuttavia, questo non impedì che Greenwich diventasse presto un fondamentale punto di riferimento per la ricerca scientifica in Inghilterra e nel Continente.
Nel novembre 1680 fu avvistata una cometa, che alla fine del mese scomparve in prossimità del Sole. A fine dicembre ne apparve un’altra che sembrava allontanarsi dal Sole e la cui coda appariva più grande del disco lunare. Flamsteed si convinse che si trattava di un’unica cometa che aveva girato intorno al Sole, sparendo poi alla vista. Attraverso un comune amico, Flamsteed contattò Isaac Newton per un parere. In due lunghe lettere di risposta, Newton criticò la tesi di Flamsteed, rilevando alcuni errori nella datazione delle osservazioni e rifiutando la spiegazione fisica del moto della cometa: Flamsteed riteneva il Sole e la cometa due magneti i cui poli prima si attraggono (moto verso il Sole) e poi si respingono (moto dal Sole).
Solo qualche anno dopo, durante la redazione dei Principia (1687), per la quale si avvalse spesso del lavoro dell’Osservatorio di Greenwich, Newton ammise che le comete del 1680-1681 erano una sola e ne calcolò l’orbita. Abbandonando la teoria di Kepler secondo la quale le comete avevano una traiettoria rettilinea, Newton ritenne che se le comete avessero descritto un’orbita ellittica, questa non sarebbe stata di un tipo quasi circolare (ossia con i due fuochi molto vicini, come accade per i pianeti); dalle osservazioni dei moti delle comete, infatti, risultava che le orbite delle comete che tornavano in vista della Terra erano molto simili a parabole. Nella proposizione 40 dei Principia, dedicata allo studio dell’orbita delle comete, Newton chiarisce la sua posizione: «Perciò le comete, che per lo più si trovano al di là dei pianeti e descrivono, quindi, orbite con assi più grandi, ruotano più lentamente. Per cui, se l’asse dell’orbita di una cometa è quattro volte maggiore dell’asse dell’orbita di Saturno, il tempo di rivoluzione della cometa starà al tempo della rivoluzione di Saturno, ossia a 30 anni, come 4√4 (ossia 8) ad 1, e perciò sarà di 240 anni. [...] Ma le orbite saranno talmente prossime alle parabole, che le parabole possono essere impiegate in loro vece senza errori sensibili» (ed. Koyré, pp. 693-694). Newton sostenne inoltre che le comete fossero una ‘specie di pianeti’, ossia corpi celesti soggetti alla legge dell’attrazione gravitazionale e che le loro code fossero un effetto ottico prodotto dal vapore emesso dalla testa della cometa stessa.
Uno dei principali problemi legati all’osservazione delle comete è la brevità della loro apparizione, che rende difficile tracciarne una traiettoria (o un’orbita) accurata. Alla fine del Seicento, la teoria kepleriana del moto rettilineo era forse quella più diffusa ma, come si è detto, esistevano alternative che prevedevano un moto parabolico o iperbolico. Il primo a considerare seriamente la possibilità che si trattasse invece di un moto ellittico fu Edmond Halley. A partire dagli studi di Newton compresi nelle ultime pagine dei Principia (che Halley contribuì a far pubblicare), egli tentò di calcolare orbite ellittiche per alcune comete storiche. Prendere in considerazione una linea chiusa per l’orbita delle comete voleva dire studiare la possibilità che comete apparse in tempi molto lontani fra loro potessero essere lo stesso corpo celeste; Halley ipotizzò infatti che quelle del 1531, del 1607 e del 1682 fossero una sola (la ‘cometa di Halley’). La sua previsione che la stessa cometa sarebbe riapparsa nel 1758 si rivelò poi esatta, mentre errata fu quella che attribuiva alla cometa del 1680 un periodo di 575 anni. L’opera di Halley che rendeva pubblica la sua teoria apparve nelle “PhilosophicalTransactions” del 1705 con il titolo di Astronomiae cometicae synopsis.
Si veda anche La Rivoluzione scientifica: modelli di conoscenza. Cosmologie