La Rivoluzione scientifica: luoghi e forme della conoscenza. Le accademie
Le accademie
di Saverio Ricci
La moderna accademia scientifica venne formandosi in Italia al principio del XVII sec., con tratti inizialmente anche esoterici; più tardi, con carattere di istituzione ufficiale sostenuta dallo Stato, in Francia e in Inghilterra; in quest'ultimo paese, come in Germania e nel mondo tedesco, con particolare intonazione religiosa. L'esigenza di organizzare in modo nuovo la collaborazione fra gli uomini di scienza e l'integrazione e comunicazione delle loro riflessioni, intuizioni e scoperte, sorse nel punto di convergenza di tre diversi fenomeni storici: la crisi dell'accademia di tipo letterario e antiquario, spesso legata alla vita delle corti principesche o ecclesiastiche, o delle istituzioni comunali, patrizie o borghesi; il diffuso sentimento di inadeguatezza e di vetustà dell'insegnamento universitario tradizionale e del sapere ivi tramandato e professato (aristotelico-scolastico in filosofia, tolemaico in astronomia, galenico in medicina), che suscitavano insofferenza in quanti venivano aprendosi a dottrine e orientamenti innovatori maturati spesso, se non sempre, al di fuori delle università (si pensi alla rinascita degli studi platonici e delle filosofie antiche non aristoteliche e pre-aristoteliche; al rinnovamento della matematica e delle discipline fondate sull'osservazione e la sperimentazione, non ultima, l'alchimia; e alle rivoluzioni compiute nell'astronomia da Copernico e nella medicina da Paracelso); infine, le conseguenze della Riforma protestante con la grave lacerazione spirituale e politica comportata dalle guerre di religione, i cui orrori suscitarono fra dotti e scienziati sia di osservanza cattolica sia delle diverse confessioni riformate, il desiderio di riconciliazione generale dei popoli e degli Stati divisi dallo scisma, all'insegna dei comuni valori dell'Europa cristiana e umanistica.
Sotto quest'ultimo aspetto le vicende scientifiche delle prime accademie moderne vennero intrecciandosi con quelle di società e circoli, spesso esoterici, postulanti riforme religiose oltre che educative, insieme a utopie di rinnovamento politico e di rigenerazione umana. In altri termini, si venne affermando, nel giro di pochi decenni, sia nei paesi cattolici, sia in terra protestante, la consapevolezza del letale nocumento che le contrapposizioni politico-religiose fra gli Stati, e le stesse scissioni e lotte confessionali che spesso dividevano, all'interno di uno stesso Stato, gli aderenti all'uno o all'altro credo, recavano all'avanzamento del sapere, al rinnovamento della scienza e alla diffusione dei suoi benefici effetti sulla società; il rifiuto della guerra, e in particolare della guerra di religione, proclamato da Erasmo da Rotterdam al principio del XVI sec., accomunava, verso la fine di quell'epoca, intellettuali di diversa fede e di contrapposta nazione.
Nei confini dell'ortodossia cattolica, nei territori in cui agiva la Controriforma, l'aspirazione a una nuova e duratura pace europea, a un ordine politico nel quale la nuova scienza fosse lasciata libera di svolgere senza restrizioni e intralci dogmatici e organizzativi ciò che avvertiva quale suo compito civile, il miglioramento della condizione umana, quella aspirazione non si nutrì o non poté nutrirsi, per ovvie ragioni, di fermenti religiosi originali. Fuori dai confini cattolici, invece, soprattutto in Germania e in Inghilterra, il rinnovamento della scienza, la fede nel più generale e pervasivo dovere filantropico e potere catartico della scienza, e la tendenza a disegnare in forme nuove i rapporti fra gli uomini di scienza e fra questi e gli uomini comuni e le autorità civili, si accompagnarono ‒ sebbene non pacificamente, e talvolta in modo drammatico ed esasperato, anche sul piano politico, e con ricorso a cautele protettive e a ombreggiamenti misterici ‒ ad attese millenaristiche, a irruenti ansie di rigenerazione spirituale, a turbolenze e inquietudini di carattere mistico e profetico. Ma, notata questa importante distinzione, occorre dire che ovunque, in Europa, almeno fino ai primi decenni del Seicento, si costituirono accademie, circoli e società di dotti e di scienziati, queste ebbero quale tratto comune la fede nella radicale unità tra scienza, ricerca della pace religiosa e politica e miglioramento delle condizioni morali e materiali dell'umanità, al di là di qualsiasi differenza confessionale o nazionale.
A partire dalla fine della prima metà del secolo, invece, la compressione di prospettive universalistiche etico-religiose sfuggenti alle contrapposte chiese; la vigilanza e non raramente la restrizione esercitate su filosofia e scienza anche in alcuni paesi in cui era prevalente la confessione riformata; l'irrigidimento repressivo della Chiesa cattolica nei confronti della nuova scienza nel momento in cui questa adombrava finalità generali che investivano anche il campo politico-religioso; il rafforzamento degli Stati assoluti e la ripresa e lunga prosecuzione dei contrasti dinastici e di potenza, unitamente all'evoluzione dell'economia europea verso forme di sfruttamento e di organizzazione delle risorse umane e naturali, subordinate all'interesse degli Stati e alle loro continue esigenze belliche, determinarono la trasformazione delle accademie scientifiche da liberi centri di indagine speculativa con carattere tendenzialmente universalistico, interdisciplinare, cosmopolitico e filantropico, alternativo alle università, in organismi professionali e specialistici complementari e integrati alle università, poveri o del tutto privi di spinte religiose e spirituali di segno innovatore, e pienamente subalterni alla direzione politica e agli interessi economici, alle esigenze tecnologiche e agli scopi militari ed educativi degli Stati. Le accademie scientifiche, al di là delle personali aspirazioni e inclinazioni dei loro membri, furono spinte a non operare più secondo il principio che il sapere fosse un valore universale senza bandiera da volgere all'indistinto beneficio di tutti gli uomini, bensì nella prospettiva della scienza quale bene nazionale e strumento per l'ampliamento della potenza economica e politica dei singoli Stati. La Royal Society, che aveva tratto origine dalle riunioni di filosofi e di scienziati che solevano incontrarsi a Londra e a Oxford tra il 1645 e il 1650, fu dotata infatti nel 1662 di uno statuto regio, e pur non ricevendo sovvenzioni dal re Carlo II, il suo primo presidente fu un uomo di corte, il visconte William Brouncker. Essa perse gradualmente l'originaria intonazione etico-religiosa per dedicarsi a studi prevalentemente sperimentali. In Francia, intorno al 1648, si era costituita un'accademia libera da ingerenze statali, per iniziativa di un finanziere, Henri-Louis Habert de Montmor, e di scienziati e filosofi quali Pierre Gassendi, Marin Mersenne, Christiaan Huygens. Nel 1666 Colbert, ministro di Luigi XIV, la trasformò in Académie des Sciences, i cui soci erano nominati e retribuiti dal sovrano. L'Académie fu provvista così di larghi mezzi, ma privata di qualsiasi autonomia. Diventò un'istituzione governativa, in osmosi con la burocrazia regia e subordinata agli interessi politici nazionali. In Germania, infine, la Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften (Reale Accademia Prussiana delle Scienze) di Berlino, istituita nel 1700 su ispirazione di Leibniz, benché preceduta da attività scientifiche autonome, rappresentò un'iniziativa regia; fu un'istituzione consapevole degli interessi nazionali riservando sempre più larga attenzione ai problemi tecnologici ed economici del regno.
I fondatori delle prime accademie scientifiche moderne ebbero viva la coscienza della radicale novità e originalità del fenomeno che quelle istituzioni rappresentavano. Federico Cesi (1585-1630), promotore e animatore della prima accademia scientifica italiana ed europea, quella dei Lincei istituita a Roma già nel 1603, ne diede suggestiva, e quasi orgogliosa e risentita testimonianza allorché, scomparso nel 1624 uno dei principali soci del sodalizio che egli aveva fondato, Virginio Cesarini, reagì con fastidio all'idea che questi fosse ricordato in un'epigrafe, quale membro, insieme, sia dell'Accademia lincea sia di quella detta degli Umoristi, che aveva carattere tradizionale di cenacolo letterario. Scrive Cesi:
Circa l'Academia nostra si dice che non si cura competere con alcuna delle altre, che tutte ama e stima; ma si contenta starsene da sé [...]. La nostra non è impresa come delle altre Academie [...]. Poiché il volerci mettere in competenza o in punti di precedenza con altra Academia è contro il fine nostro [...]. La nostra non è una Academia d'un luogo particolare dove va chi vole; ma una universal scelta di letterati che si fa per tutto. E se s'ha a riguardare alla professione, l'Academia nostra professa Matematica e Filosofia; e siccome le Academie Teologiche devono precedere a tutte, così dopo queste li esercitij filosofici e matematici devono preceder particolarmente alle belle lettere, e tanto più se s'osserva la rarità [...]. Insomma, o siamo soli, o ci lascino stare. (Archivio Linceo, 4, f. 369r)
L'Accademia dei Lincei era stata fondata proprio nella consapevolezza della crisi delle accademie cortigiane e letterarie, avvertita congiuntamente all'insufficienza del magistero universitario aristotelico, al declino delle scienze matematiche e naturali, all'esigenza di rinnovare profondamente tutto il vasto dominio della philosophia naturalis, nel quale si ritrovavano la botanica e la medicina come l'astronomia e l'alchimia. Non è un caso che in quello straordinario affresco della 'crisi del mondo' costituito dai Ragguagli di Parnasso (1612-1613; 1614) di Traiano Boccalini (1556-1613), composto negli stessi anni in cui Cesi, a Roma e fuori Roma, cercava di raccogliere nella sua accademia scienziati e filosofi di tutta Italia e di tutta Europa (vi accolse Galilei e Giambattista Della Porta; forse vi avrebbe voluto anche Kepler e Bacon, e sicuramente vi radunò, accanto agli italiani, scienziati tedeschi e fiamminghi), la 'crisi delle accademie' sia fra le prime preoccupazioni di Apollo, chiamato a correggere o a deplorare i vizi e le storture dell'umanità sempre più folle e disperata.
Boccalini riceve sul Parnaso una delegazione delle accademie d'Italia, capeggiata dai rappresentanti della senese Accademia degli Intronati, i quali lamentano che, con il passare del tempo, nelle antiche accademie l'"ardentissimo desiderio di sapere" aveva preso a intorpidirsi e a languire, che "quegli esercizi virtuosi talmente si raffreddavano, che dove prima le accademie da privati erano frequentate e dai principi avuti in somma riputazione, in progresso di tempo di maniera venivano abbandonate e disprezzate, che molte volte era accaduto che, come più tosto dannose che utili, sino erano state proibite, e in tutto con poca riputazione delle buone lettere" (De ragguagli di Parnasso, ed. Firpo, I, p. 50). Apollo risponde auspicando che "gli amatori delle buone lettere fossero diligentissimi nel sopprimer subito qualsivoglia accademia che troppo si fosse veduta allontanata dalle buone regole della sua prima istituzione, fondandone nel tempo medesimo delle nuove", affinché il mondo non si riempisse "di accademie inutili", di uomini "inutili al mondo", e sempre, invece, "godesse i beni che si ricevono dalle fruttuose" (ibidem).
Qualche anno dopo la pubblicazione dei Ragguagli di Boccalini, nel gennaio 1616, Federico Cesi pronunciò nella sua Accademia una sorta di discorso programmatico, Del natural desiderio di sapere, nel quale la luminosa tradizione delle grandi accademie filosofiche e umanistiche del Quattrocento (egli accenna con ammirazione a quella fiorentina di Lorenzo il Magnifico, illustrata dal Poliziano e da Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola, e a quelle romana di Pomponio Leto e napoletana di Giovanni Pontano e Iacopo Sannazzaro) appare offuscata dalle superstiti accademie letterarie ed erudite del tardo Rinascimento e del primo Seicento: "Restano alcune poche accademie di belle lettere (come si dice) che continuarebbono sempre, nelle quali vi sarebbe non poco frutto se si premesse nelle eruditioni scelte e nel buono et utile della filologia e poesia più che nelli sonetti, madrigali, barzelletti e comedie, e più nelle lettioni utili e ricche che nelle dicerie pompose e vane" (ed. 1988, pp. 123-124). Al contrario, l'Accademia lincea non costituisce un luogo particolare dove si reca chiunque voglia coltivarvi i più disparati interessi letterari, bensì una scelta congregazione di studiosi, eletti senza distinzione di nazione politica, e chiamati a svolgere un programma e ad adempiere finalità accuratamente delineate, secondo una disciplina organizzativa certa e severa.
Cesi afferma in questo discorso che l'Accademia lincea è sorta per rinnovare le scienze ordinariamente poco coltivate, o addirittura neglette e disprezzate sia nell'insegnamento scolastico e universitario, sia nelle accademie già esistenti, con il duplice fine di produrre un nuovo cospicuo avanzamento nella conoscenza della verità, e di influire, sia pure indirettamente e mediatamente, sulla realtà morale e civile dell'uomo, e ciò perché il progresso delle scienze e della filosofia naturale risponde alla più importante inclinazione naturale dell'uomo ‒ della quale Cesi addita con rincrescimento il declino: il desiderio disinteressato di sapere; per conseguenza, lo sviluppo della vera scienza esercita una efficacia positiva sui rapporti sociali, sulla vita etica, civile e spirituale, accrescendo il benessere comune e consolidando la sicurezza e la quiete politica.
Cesi, che a motivo della sua appartenenza alla nobiltà romana e della sua dimestichezza, anche familiare, con le gerarchie della Chiesa ha avuto larga esperienza dell'atteggiamento dei 'potenti' verso i problemi della scienza e dell'educazione, pone innanzitutto la questione della effettiva comprensione che gli uomini politici del tempo erano capaci di esercitare nei confronti del sapere e dei modi della sua organizzazione e diffusione: "difficilmente vien premiato et honorato chi è molto dissimile da quello che deve premiarlo. L'eminenza del sapere, come più sublime, è anco sospetta alli eminenti di fortuna: la facoltà grande che porgono le scienze suol similmente essere poco grata a chi per altra via si trova il potere".
La divaricazione tra potere e sapere non può trovare soddisfacente soluzione se si tende a perpetuare il modello della 'accademia di corte', del tutto subalterna ai disegni dei principi: "Il luogo poi appresso a' principi è tutta cortigianaria; si procura la gratia del padrone e di tutta la corte et insieme in nome di saper assai con arti continue, et è periculosissimo invece dell'honorato grado di filosofo cader nel luogho vilissimo di parasito, buffone o almeno adulatore" (ibidem, pp. 112, 121-122). Cesi ritiene che il delicato rapporto tra la cultura e l'autorità debba svolgersi su un piano più dignitoso e proficuo di quello del patronato. Il 'principe' deve promuovere e sostenere gli sforzi validi di crescita e di avanzamento del sapere, consapevole del fatto che i benefici effetti del progresso della scienza costituiranno patrimonio della società intera, e dell'umanità nel suo complesso.
Ai principi e alla Chiesa i Lincei chiedono il rispetto della libertas philosophandi in naturalibus, e promettono, d'altro canto ‒ come recita il Lynceographum, statuto programmatico dell'Accademia ‒ di astenersi dall'intervenire nei domini propri della potestà laica e dell'ecclesiastica: gli accademici non si occuperanno né di politica in senso stretto, né di teologia. Ciò non vuol dire che essi non giudichino in qualche misura 'politica' anche la loro attività scientifica, giacché essa influisce o aspira a influire sui costumi, sulla moralità, sulla vita civile; né che essi si asterranno dal contribuire a dissolvere l'equivoca e asfissiante subordinazione della ricerca scientifica all'esercizio della fede e del magistero ecclesiastico. Essi si schiereranno infatti con il loro confratello Galilei nella difesa delle sue scoperte e del suo metodo, reclamando l'autonomia della scienza dalle Sacre Scritture. Aderendo alla teoria copernicana e alle numerose altre 'novità celesti' comportate dalle nuove indagini naturalistiche i Lincei non intesero offendere il sentimento religioso, peraltro vivissimo in molti di essi, ma sottolineare la distinzione di piani tra le une e l'altro, e reinterpretarono gli insegnamenti scritturali e la sapienza dei Padri della Chiesa in forma non contrastante con i principî del cristianesimo, ma neppure lesiva della dignità della ragione umana e denegante con dogmatica ottusità le evidenze dell'osservazione sperimentale.
Tuttavia, nella visione di Federico Cesi l'indifferenza o sordità dei principi e l'ostilità della Chiesa, che permane pregiudizialmente arroccata nella difesa a oltranza della vecchia filosofia scolastica, non rappresentano i soli motivi determinanti l'inibizione del libero svolgimento del 'natural desiderio di sapere'. Il valore costituito dalla ricerca della verità è spregiato in ogni aspetto e forma della convivenza umana. Per esempio, la sete di guadagno e di onori offusca ogni aspirazione di carattere etico e scientifico genuinamente avvertita:
Né però da noi così di buon passo viene fuggita la fatiga [intellettuale] come ne vien seguitato il guadagno, né facilmente si conosce vero guadagno esser quello che si fa con la scienza, poiché l'occhio si rivolge subitamente al denaro et alla robba, onde le vien il commodo et il piacere, onde la stima et il potere; e questi paiono acquisti reali e massicci, gl'altri metaforici e sottili, et è commune parere, fondato assai ben nell'esperienza quotidiana, che poco fruttino le scienze e massime quelle che più ci apportino di cognitione. (Del natural desiderio di sapere, ed. 1988, pp. 110-111)
Il 'natural desiderio di sapere' è ostacolato anche dal costume familiare, che tende a sviare, piuttosto che a favorire, la spontanea inclinazione allo studio disinteressato di cui danno prova molti giovani, che vengono invece incoraggiati dai loro padri a intraprendere professioni redditizie; e dalla torpida superficialità imperante nelle università e nelle scuole, sicché "il dottorato suole a molti troncare la via del sapere", mentre lo studio delle scienze non legate a un immediato e lucroso fine pratico è abbandonato, benché proprio dalle scienze contemplative e astratte il natural desiderio di sapere tragga gli alimenti più consistenti e l'opportunità di svolgersi nella forma sua più caratteristica: "Sono le più abandonate e derelitte quelle stesse [scienze] che più possono sodisfar il desiderio nativo, quelle che più ci danno di cognitione e più ci apportano di perfettione e d'ornamento, dico la gran filosofia, le matematiche e filologiche e poetiche eruditioni; pochi sono che, sentendole pur solo nominare, non le rifiutino e biasimino subito col dir che non sono de pane lucrando" (ibidem, p. 120).
La lotta in cui Cesi e i Lincei si impegnarono fu dunque duplice: rinnovare il sapere e sviluppare le scienze suscitando anche una più elevata considerazione della vita intellettuale sia nella società sia rispetto al potere politico, che bisognava rendere consapevole del fatto che la riforma lincea della cultura era rivolta al 'pubblico utile', e non impegnava direttamente e in modo contestatario o eversivo il piano religioso e politico.
Né di tutto ciò verrà poco utile al pubblico e poco servitio alli principi; certo è dalle scienze e virtù ne scaturiscono la bontà de' costumi, l'habilità nelle attioni, lo studio della pace, onde nella moltiplication di quelle consisterà la propagation della pace, della bontà e del valore; haverà più soggetti il publico d'applicare a qualsivoglia negotio, habili, spiritosi, prudenti, giuditiosi, haverà più soggetti osservanti del giusto et amici della pace, onde siano meno trasgredite le leggi e con più quiete si viva senza tumulti e seditioni [...]. Goderà similmente [il pubblico] dell'utile, dell'inventioni e grandi e mirabili, che verranno dall'acutezza di tali ingegni [...]. Così nascono l'instrumenti ammirandi, si trovano i più rari medicamenti, i fuochi, l'armi, le diffese, le machine, le evasioni d'acqua, tanti secreti per facilità dell'arti necessarie al vitto humano, per i commodi, per la sanità, per il vitto stesso. (ibidem, pp. 138-139)
Si intende come nella prospettiva lincea la fondazione di una nuova accademia, di un'accademia di tipo nuovo, non corrisponda soltanto alla determinazione di nuove condizioni per il libero e fecondo svolgimento dell'indagine scientifica e per l'ampia comunicazione e discussione dei suoi risultati all'interno degli ambienti competenti. L'accademia è concepita invece anche quale fucina di un nuovo carattere morale, che si intende debba esser proprio non solo dell'uomo di scienza, ma di tutti gli uomini degni di tale nome. L'accademia è dunque disegnata quale sede e mezzo per l'adempimento di un compito più largo: la riforma dell'uomo esistente e il rinnovamento della vita civile. E di ciò fanno fede non solo il discorso programmatico di Cesi del 1616, e l'organizzazione stessa del sodalizio prevista dal suo statuto quale sorta di 'milizia filosofica', nella quale gli adepti sono chiamati a condurre i loro studi e le loro esperienze in un clima di elevata tensione morale e di profondo rigore comune, di fratellanza spirituale e di abnegazione personale, ma anche gli spunti di critica del costume generale e degli istituti educativi e sociali frammentariamente sparsi in altre scritture del fondatore.
Fra gli appunti, i programmi e gli abbozzi di opere compresi nel cosiddetto Zibaldone, infatti, Cesi irride alla 'vanità' dei costumi e degli usi sociali del suo tempo: le "humane squame" delle "pompe, lusso, vestiti, foggia, livree"; biasima quel colpevole "passar tempo" di una società che conserva, distorte e consunte, solo le apparenze dell'antica società feudale e del codice cavalleresco, con i suoi "Complimenti, Visite, Feste"; con il femmineo "Cavalleresco dameggiare", in cui la "Galanteria" prevale sulla sodezza dei concetti e dei principî, dove la "Buffonaria [...] ha tolto il luogo alli detti morali". Il mondo descritto e deplorato da Cesi è "privo di essere", tutto risolto nell'"apparenza": "il procurar di parere ordinariamente è segno di mancamento nel essere". È un mondo incapace di esprimere, sul piano politico e sociale, grandezza di propositi e pubblica utilità, giustizia e virtù civile. "Secolo antico molto più publico. Secol di hoggi molto più privato", scrive Cesi, in cui "si guadagnano mercedi e stipendi senz'opra", mentre "con utile publico e privato notabilissimo, anzi con honore e con diletto stesso potrebbono impiegarsi e guadagnarsi". Fra le note di Cesi spuntano allora gli istituti feudali, il baronaggio romano, cui egli meditava forse di dedicare uno studio approfondito, nonché il tema classico e umanistico della contrapposizione tra l'avidità di ricchezze e l'eroismo dello spirito: "Che le ricchezze, grandezze e dignità sono di grande impedimento ad ogni heroica impresa, e che è più difficile sollevarsi et emergere alli troppo ricchi, che alli troppo poveri". Cesi esalta piuttosto le virtù degli Antichi, generosi, sapienti ed eroici; e addita nella crisi delle università e più in generale dell'insegnamento uno dei maggiori motivi della decadenza della vita morale: "[è] più atto a filosofar un idiota ch'uno ch'abbi fatto i corsi scholastici, anzi che forsi naturalmente sappi più verità filosofiche. [...] di tanti famosi scolastici e Peripatetici niuno sia stato inventore di cosa utile al mondo, né pur ne habbia applicato se non pochissimo". La stagnazione, che è morale quanto intellettuale, gli pare particolarmente avvilente proprio nella filosofia, sì che "l'huomo in quasi tutte l'arti sia arrivato al sommo dell'eccellenza, e nella cognition delle cose e filosofia mai sia uscito da primi bozzi e rudimenti". Insomma, Cesi avverte la crisi del suo tempo quale rovesciamento radicale di valori e di giudizi: "che le più sottili e copiose scienze del mondo siano le ceremonie e complimenti, l'arte de' cibi e delle vesti, più ample che l'istessa universal filosofia"; "che la virtù è amata e laudata in astratto, ma odiata e biasimata in concreto, e per contrario il vizio"; "che il mondo per lo più stima nobiltà quello che è oscurezza, et anco molte volte infamia" (Gabrieli 1989, pp. 50-56).
Gli accenti dolenti con cui Cesi annota nel suo Zibaldone ‒ ed espone nel discorso Del natural desiderio di sapere ‒ spunti e osservazioni critiche sulla società, e non solo sulle scuole, le università e gli studi del suo tempo, ricordano, lo si è accennato, certi luoghi di Boccalini, che, si è visto, tratta negli stessi termini che saranno di Cesi il problema della crisi delle accademie, e lamentando allo stesso modo il declino del disinteressato desiderio di conoscenza, e in particolare della ricerca filosofica. Mentre chi ha seminato in discipline redditizie quali la medicina e l'avvocatura ha raccolto poi "ricchissimi tesori", "gli agricoltori della filosofia vi hanno fino perduto il seme, e però il mondo va abbandonando simil sorte di mercatanzia, come quella che, avendo bisogno di terreni fecondissimi d'ingegni sottili e d'infinito studio per allevarla e ridurla a maturità, e facendo poco frutto e di quel poco trovando sì rari compratori, l'attendervi è un rimettervi il capitale". E come Cesi aveva fatto debito ai genitori e ai familiari del sistematico sviamento dei giovani dal retto sentiero della virtù e del sapere ("Né creda alcuno che tutti li maggiori e padri e zii, a chi spetta l'inviamento di giovani come vecchi e prudenti, habbiano pensiero d'applicarli alla virtù, poiché molti non possono, molti non se ne curano, e molti anco impediscono totalmente"), Boccalini avverte "che tra gli uomini i maggiori nemici, che pruovino i figliuoli, sono i padri loro; mercè che, col troppo sviscerato e perpetuo amore che portano loro, di molto maggior danno li sono che gl'implacabili nemici con l'odio". Infatti, ammonisce Boccalini,
pessimamente si consegliano que' padri, che, maggiore studio ponendo in accumular le grandi eredità di ricche rendite a' figlioli, che in lasciar loro quel prezioso e sempre durabile patrimonio delle buone lettere, che il fuoco non può consumare, le inondazioni de' diluvi non possono disertare e la rapacità de' tiranni non vale a tôrre, invece di uomini utili alla casa loro, alla patria e al mondo, infelicissimamente allevano pezzi di carne inutili e grandemente viziosi. (De ragguagli di Parnasso, ed. Firpo, II, p. 765)
Ben informato delle scoperte galileiane e delle relazioni tra Galilei ‒ che aveva stretti legami con i circoli veneziani frequentati da Boccalini ‒ e i Lincei, Boccalini adopera in altro senso quel meraviglioso strumento dell''occhiale' o 'celispicio' (il telescopio) che a Galilei aveva fruttato celebrità e successi scientifici, e l'amicizia di Cesi e dell'Accademia lincea. Boccalini dichiara infatti di aver inforcato un 'occhiale politico' per comprendere il "vero stato del secolo presente". Distolta la spettacolare lente dalla contemplazione del cielo stellato e dall'osservazione del microcosmo ‒ uso prediletto dai Lincei ‒, Boccalini voleva adoperarla per sorprendere "l'intimo senso" dei governanti e la "vera qualità de' costumi" degli uomini, che "nemmeno con l'occhio dello stesso Linceo poteva essere veduta, se al naso altri non si poneva prima quel finissimo occhial politico, che altrui perfettamente faceva veder la verità delle passioni che negli stomachi cupi delle moderne persone si trovavano".
L'indagine 'telescopica' di Galilei, la sua ricerca ‒ e quella dei Lincei ‒, condotta sul piano naturale, pare avere un emulatore in Boccalini, sebbene il suo cannocchiale sia puntato sull'uomo e sulla vita civile, e non verso le stelle. Ed ecco che al Boccalini ‒ come al Cesi quando riflette sulla situazione morale dell'uomo ‒ si rivela "un mondo pieno di ostentazioni e d'apparenza, con pochissima sostanza di bene e di vera virtù: dove numero grande d'uomini sono foderati d'una finta semplicità, vestiti dalla falsa alchimia di una apparente bontà, ma pieni d'inganni, di artifici e di macchinazioni". Il "secol privato" detestato da Cesi è il "secol falso" scoperto da Boccalini,
secolo pieno di interesse, e nel quale anco tra il padre e il figliuolo non so scorgere perfetta carità né candidezza di amore; e solo con questi mirabilissimi occhiali vango fatto chiaro che il mondo altro non è che una grandissima bottega, dove non è cosa sotto la luna, che non si comperi e non si venda: di modo che il vero fine degli uomini, che vi abitano, solo è il guadagno, l'ammassar danari. E insomma così brutto è il mondo che io veggo, che cosa troppo odiosa mi è il tener questi occhiali al naso. (ibidem, pp. 296-297)
Ma la critica dello stato del mondo, delle contraddizioni e dei turbamenti che lo affliggono, delineata con garbata ironia e dolenti paradossi da Boccalini, non è importante a intendere soltanto lo sfondo sul quale si staglia l'ispirazione del Cesi fondatore della prima accademia scientifica moderna d'Italia e d'Europa, a comprendere cioè l'intreccio di passione per il sapere e di preoccupazione per le condizioni morali e civili dell'umanità che spiega e alimenta la organizzazione di tipo nuovo che gli scienziati cominciano a darsi all'inizio del XVII secolo. Il messaggio di Boccalini fu infatti assunto a simbolo di un movimento di idee manifestatosi in Germania nel secondo decennio del XVII sec. ‒ quello dei Rosacroce ‒ che pur non costituendo un'accademia, non può essere ritenuto estraneo ai fermenti e ai processi che caratterizzano la costituzione delle prime accademie, e la cui breve e ancora misteriosa e controversa storia è stata interpretata da alcuni studiosi come la 'preistoria' per un verso di una delle più significative esperienze accademiche e scientifiche dell'Europa moderna, la Royal Society, e per un altro dell'ideologia massonica.
Infatti, quando nel 1614 l'oscura setta iniziatica, di ispirazione paracelsiana e filantropica e di interessi medici, teosofici e alchimistici, caratterizzata da una mistica aspirazione al rinnovamento spirituale dell'umanità e da aneliti di pace e di collaborazione fra i popoli e fra gli uomini di scienza di ogni nazione, venne allo scoperto con la pubblicazione, a Kassel, del suo manifesto, intitolato Fama fraternitatis, pensò di diffondere, nello stesso libretto, la traduzione tedesca proprio di uno dei Ragguagli più significativi del Boccalini, il LXXVII, intitolato Generale riforma dell'universo dai sette savi della Grecia e da altri letterati pubblicata di ordine di Apollo.
Boccalini immagina che i sette saggi della Grecia siano convocati da Apollo per concertare un piano di riforma generale del mondo. Ora, la conclusione cui l'autore pare pervenire è che il mondo non sia più suscettibile di riforma, che i suoi guasti siano irrimediabili: "in questo mondo si vive col manco male che più col bene, e [...] la somma prudenza umana tutta sta posta nell'aver ingegno da saper fare la difficile risoluzione di lasciar questo mondo come altri l'ha trovato". A questo sconsolato parere egli si arrende dopo aver constatato che il secolo in cui vive è come un uomo il cui corpo sia talmente piegato dalle 'apparenze', che al di sotto di queste "non si trova pur un'uncia di carne viva di sostanza".
Tuttavia, i sette saggi hanno esposto a turno le loro proposte di riforma del mondo; dalla loro esposizione si deduce non soltanto il catalogo dei vizi e delle storture da cui una società riformatrice e filantropica come quella dei Rosacroce avrebbe voluto liberare l'umanità; ma proprio l'insieme delle aspirazioni e dei motivi ispiratori che ‒ in altro contesto e con toni e strumenti che sarebbero diventati sempre meno esoterici e sempre meno condizionati dagli iniziali interessi astrologici e alchimistici (pure di duratura presenza, fra i Lincei, sebbene con diversa indole) ‒ si ritrova nell'Accademia fondata da Cesi.
I saggi propongono infatti, fra l'altro, che "si proibisca il comperare e il vendere, ché così tra gli uomini si instituirà quella santa parità de' beni, madre della pubblica pace"; che siano estirpati "i due infami e scellerati metalli dell'oro e dell'argento", in nome dei quali gli uomini commettono la maggior parte delle nefandezze; che gli uomini siano "violentati", ovvero costretti, "a camminare per la strada della virtù", cioè, che con "leggi severe", sia assicurato che solo i meriti virtuosi possano dischiudere la strada che conduce alle "dignitadi supreme". Inoltre, paradossalmente, i saggi chiedono che venga proibita la "navigazione", da intendersi però come pratica del dominio coloniale, della spoliazione e dello sterminio dei popoli indifesi del nuovo mondo, raggiunti e dominati dall'"avarizia" e dall'"ambizione" degli europei.
Insomma, dal concilio e dal contraddittorio allegorico fra i sette savi, sale un coro di riflessioni, anche discordi su qualche punto pratico, ma solidali nell'esecrazione del capovolgimento dei valori che Cesi ‒ con Boccalini ‒ biasimava quale tratto essenziale del suo tempo: lo sfavore in cui sono cadute la virtù e la scienza; il predominio della brama di potere e di denaro; la violazione di ogni regola di giustizia civile e finanche di affetto e di saggezza familiare.
I punti di profonda consonanza tra Cesi e Boccalini ‒ ovvero tra il progetto fondativo della prima accademia scientifica moderna e la critica dello stato del mondo tratteggiata da un fine moralista ‒ denotano indubbie affinità con gli appelli di una società clandestina a carattere medico-religioso e teosofico-alchimistico come quella dei Rosacroce; lasciano inoltre ritenere che ‒ al di là delle divisioni confessionali, delle distinzioni e peculiarità di ambiente, di interessi e di tradizione intellettuale, delle tanto diverse finalità e forme in cui i Lincei e i Rosacroce operarono nella società del loro tempo ‒ a un certo momento, nel primo ventennio del XVII sec., sia nell'Italia della Controriforma, sia nella Germania riformata, si manifestarono una stessa insofferenza e uno stesso anelito. Insofferenza verso quei mali che Boccalini metteva a nudo e scrutava con il suo "occhiale politico": l'avidità di denaro e di potere, lo spadroneggiare dell'ignoranza e della presunzione, lo svilimento del desiderio di conoscenza e delle virtù civili e familiari. Più concretamente, insofferenza e rivolta morale contro il processo di declino delle forme tradizionali del sapere e dei valori connessi alla 'vita per il sapere' che si accompagna, al principio del Seicento, con una prevalenza sempre più minacciosa delle ragioni particolari delle potenze religiose, politiche ed economiche (Chiesa contro Chiesa, Stati cattolici contro Stati protestanti, Stati più forti e aggressivi contro Stati più deboli e pacifici, maggioranze religiose contro minoranze religiose) sulle ragioni universali, cosmopolite, pacifiste e filantropiche della nuova scienza in formazione. Anelito a una società nuova, in cui il nuovo sapere scientifico ‒ vinta l'ostilità degli ambienti conservatori dominanti nelle scuole, nelle università, nelle categorie professionali, nelle corti, nelle chiese ‒, autonomo dagli interessi di potenza dei principi e svincolato dalle ragioni di contrasto politico e confessionale, riuscisse a esercitare un'influenza decisiva sui responsabili del potere politico e religioso, contribuendo a determinare un cambiamento radicale della condizione umana.
Non è certo un caso che il programma di Cesi risultasse consonante con quello di Francis Bacon e che nel 1625 circolasse fra i Lincei il proposito, mai attuato, di ascrivere il filosofo inglese all'Accademia romana; ed è ampiamente noto che appunto dal pensiero di Bacon trassero ispirazione i fondatori della prima grande accademia scientifica inglese, la Royal Society, sebbene, con il tempo, l'appello di carattere universalistico di Bacon, la sua visione della scienza come bene comune a tutti gli uomini senza distinzioni di nazione e di religione, fosse poi gradualmente superato dal prevalente interesse dello Stato assoluto.
In Inghilterra si era radicato fin dalla seconda metà del XVI sec. un movimento scientifico autonomo e spesso polemico rispetto all'università. Grandi matematici, astronomi e medici avevano insegnato in scuole per artigiani e commercianti, non nelle aristocratiche Oxford e Cambridge, legando il loro magistero all'ascesa e alla formazione culturale dei nuovi ceti borghesi, e trovando protezione proprio nelle prime grandi società d'affari, come la Compagnia della Moscovia e la Compagnia inglese delle Indie Orientali. A Londra un noto banchiere, Thomas Gresham (1519 ca.-1579), istituì una sorta di università, il Gresham College, nella quale i professori, che ricevevano stipendi più elevati di quelli di Oxford e Cambridge, insegnavano ai giovani provenienti dalla borghesia mercantile e dal ceto artigiano non soltanto le discipline umanistiche coltivate nelle università regie, ma anche e soprattutto materie, quali la geometria, la medicina e l'astronomia, che avevano immediate finalità pratiche e, peraltro, non erano adeguatamente trattate nelle aule universitarie.
In queste, Euclide, Paracelso e Copernico erano ancora ignorati, se non contrastati, e si restava fermi ad Aristotele, Galeno e Tolomeo. Un sapere alternativo a quello universitario, e percorso da profondi fremiti di rinnovamento e di allargamento degli orizzonti, era inoltre professato in numerosi circoli privati, accademie più o meno clandestine spesso malviste dalle autorità e sospette alla Chiesa anglicana per la loro curiosità verso autori ritenuti pericolosissimi atei, quali gli atomisti greci e i naturalisti del Rinascimento italiano. Era il caso del circolo di Henry Percy, nono conte di Northumberland, costituitosi al principio del Seicento, nel quale si ritrovavano matematici, fisici e astronomi, che accolsero le teorie di Giordano Bruno e di Kepler e le scoperte di Galilei, svilupparono il metodo sperimentale, puntando anch'essi il telescopio verso il cielo, e subirono, per le loro simpatie filosofiche e la disinvoltura religiosa e politica, persecuzioni, arresti, esili.
Questo ampio e ricco movimento intellettuale aveva toni anche religiosi e politici: quegli scienziati aderirono alla corrente puritana e molti di loro, contrari alla monarchia, si sarebbero schierati dalla parte di Oliver Cromwell (1599-1658) e del parlamento repubblicano. L'ansia di un nuovo millennio e l'aspettativa che la scienza potesse contribuire a generare una nuova e più elevata condizione di vita spirituale, e non solo materiale, per l'umanità, si intrecciavano con l'ideale democratico, e trovavano alimento anche in idee e atteggiamenti introdotti in Inghilterra dai protestanti tedeschi scampati al trionfo cattolico e controriformista dell'Europa centrale. Essi recavano con sé gli ideali dei Rosacroce e della pansofia, ossia l'aspirazione alla costituzione di una sorta di collegio internazionale di dotti dediti al bene universale e impegnati a tramutare i risultati delle loro ricerche scientifiche in benefici sociali e civili fruibili da tutti gli uomini. Questo concetto centrale, che in Italia aveva trovato espressione, pur con le cautele e i velami imposti dalla Controriforma, nel pensiero di Cesi e nell'Accademia dei Lincei, e che in Germania aveva indossato i panni misteriosi ed esoterici dei Rosacroce, fu disegnato con estrema lucidità da Bacon. "Figli miei" scrisse nella Redargutio philosophiarum "[...] Non rivolgiamo il nostro animo verso la gloria di fondare una setta, ma occupiamoci responsabilmente della utilità e grandezza degli uomini [...]; che nascano cioè invenzioni salutari e utili capaci di vincere e alleviare (per quanto è possibile) i bisogni del genere umano" (Scritti filosofici, p. 435). Per far ciò, sostiene Bacon, occorre che lo Stato, che tutti gli Stati, finanzino la costituzione di un organismo attivo in cui gli uomini di scienza possano agevolmente lavorare insieme, in spirito di collaborazione, di solidarietà e di servizio, bandendo le contrapposizioni di setta e di scuola, le gelosie professionali, la segretezza tipica della magia, e gli odi politici e religiosi. Bacon esorta il re d'Inghilterra a creare una grande biblioteca, un orto botanico, un giardino zoologico e un laboratorio, e spera che voglia riformare radicalmente le università. Il suo non è nazionalismo; all'opposto, è un ideale cosmopolitico. Desiderare, scrive nel Novum organum, di "accrescere la loro potenza nella patria è una cura volgare e degenere. [...] portare innanzi la potenza e il dominio della loro patria nel genere umano; cura più dignitosa, ma non meno cupida. Ma se uno si sforza d'instaurare la potenza e il dominio di tutto il genere umano nell'universo, la sua ambizione (seppure la si deve chiamare così) è senza dubbio più sana e più angusta delle due precedenti" (Opere filosofiche, I, p. 340). Da queste idee trassero ispirazione gli uomini che fondarono la Royal Society; sebbene fosse lontana da Bacon l'idea di un'accademia che servisse gli interessi di un solo paese, e non quelli di tutta l'umanità.
di Saverio Ricci
Si è detto in precedenza che l'Italia ebbe il primato nella costituzione delle accademie scientifiche moderne, grazie all'originale intuizione del romano Federico Cesi, fondatore dell'Accademia dei Lincei.
L'esperienza lincea ‒ significativa non solo per lo stretto legame che a un certo momento si stabilì tra l'Accademia romana e la battaglia copernicana di Galilei, ma anche per altri rilevanti contributi che il sodalizio recò agli studi naturalistici ‒ ebbe inizio nel 1603 e terminò nel 1630, con la prematura scomparsa di Cesi, anche se alcune importanti iniziative editoriali dei suoi soci, condotte ancora in nome dell'Accademia, proseguirono piuttosto affannosamente fino al 1651.
Cesi aveva solo diciotto anni quando fondò i Lincei insieme ad altri tre scienziati, anch'essi piuttosto giovani, fra i quali il medico e naturalista olandese Jan van Heeck (1579-1620). Alla morte di Cesi l'Accademia avrebbe contato ben trentacinque cooptazioni; fra i membri dell'associazione gli stranieri erano otto: un olandese, un belga, uno spagnolo, cinque tedeschi. Il sodalizio aveva infatti carattere internazionale. Nel progetto originario Roma avrebbe dovuto costituire solo la sede centrale dell'attività accademica; una sede relativamente autonoma, affidata al naturalista napoletano Giambattista Della Porta, fu istituita nel 1610 a Napoli, dove si offrivano un fertile ambiente e un'antica, illustre tradizione soprattutto alle indagini naturalistiche, particolarmente care a Cesi. Fra i soci napoletani dell'Accademia vi furono, fra gli altri, oltre a Della Porta, l'astronomo, architetto, medico e filosofo Niccolò Antonio Stelliola (Stigliola, 1547-1632), e il botanico Fabio Colonna (1567-1640); era materano un altro linceo meridionale, Antonio Persio, discepolo e illustratore di Bernardino Telesio. Fra i pensatori e gli scienziati meridionali che, pur non ascritti all'Accademia, furono in continuo e fecondo contatto con Cesi e i Lincei, vanno ricordati Tommaso Campanella, il medico e orientalista Mario Schipani, i naturalisti Ferrante e Francesco Imperato. Attraverso il suo 'liceo' (sede lincea) di Napoli, l'Accademia fu dunque in costante, propizio rapporto con le tradizioni e le correnti più vive e anche anticonformiste della cultura filosofica e scientifica meridionale, particolarmente ammirata da Cesi, che lasciò una testimonianza entusiastica del suo primo soggiorno a Napoli, nella primavera e nell'estate del 1604: "ho trattato in modo con il sig. Gio. Battista Porta, et sig. Ferrante Imperato, che son tutti miei et de' Lincei amicissimi, et invero sono miracoli di Natura, et molto più di quello che si dice; io ho imparato grandemente nel discorrer con loro, et ho havuto et havrò bellissimi secreti" (Gabrieli 1938, p. 41). A Napoli, attraverso Della Porta, Stelliola, Campanella e Persio, i Lincei recuperarono i fermenti e gli studi del naturalismo meridionale, telesiano e bruniano; entrarono in contatto con sviluppi e tensioni del copernicanesimo; percepirono il profondo legame che nella cultura fiorita nel Mezzogiorno d'Italia coniugava le battaglie scientifiche e filosofiche con quelle civili e religiose, politiche e sociali.
Quello napoletano fu il solo 'liceo' effettivamente costituito e operante. Cesi aveva divisato di fondare sedi accademiche, ciascuna fornita di biblioteca, laboratorio, museo e orto botanico, anche in altre città europee, e addirittura extraeuropee, ma questo progetto non fu mai portato a compimento. Ciononostante i Lincei suscitarono e intrattennero relazioni proficue con ambienti intellettuali di altre città e di altri paesi. A Praga, centro di studi sia magico-esoterici sia astronomici e cosmologici di eccezionale rilievo, il linceo van Heeck cercò di ottenere per l'Accademia l'attenzione e il favore dell'imperatore Rodolfo II, cultore e protettore delle indagini più disparate e curiose, ed entrò in contatto con Kepler e altri importanti astronomi; ne conseguì un sempre più marcato e approfondito interesse dei Lincei ‒ attratti inizialmente soprattutto dagli studi medici, botanici e alchemici ‒ verso le questioni cosmologiche, sì che l'influenza copernicana e quella kepleriana su Cesi e sulla sua Accademia prepararono e accompagnarono, in notevole misura, l'incontro con Galilei. La prima pubblicazione lincea fu costituita proprio da un breve trattato di van Heeck sulla nuova stella, apparsa nella costellazione del Serpentario nell'ottobre del 1604. Le scoperte galileiane del 1610, dovute all'uso astronomico del cannocchiale (innumerabilità delle stelle, rugosità e imperfezione della Luna e dei satelliti di Giove), suscitarono ammirazione ed entusiasmo fra i Lincei, sì che nell'aprile del 1611 lo scienziato pisano fu cooptato all'Accademia. Da quel momento le sorti di Galilei furono inseparabili da quelle dei suoi amici romani.
Cesi conferì a Galilei un ruolo preminente nel sodalizio linceo, subordinando alla sua approvazione le ascrizioni di nuovi soci, affinché gli studiosi accolti da allora in avanti non fossero "schiavi né d'Aristotele né d'altro filosofo ma d'intelletto nobile e libero nelle cose fisiche". Alla fine delle vicende dell'Accademia, infatti, potranno contarsi ben dieci lincei legati a Galilei da amicizia, da affinità intellettuale e da orientamento scientifico.
Tuttavia, Cesi non ebbe, rispetto a Galilei, un ruolo di mero mecenate o protettore; provvisto di considerevole competenza astronomica, il principe dei Lincei condivise immediatamente il programma di affermazione e di sviluppo del copernicanesimo sostenuto dallo scienziato pisano, sorreggendone gli sforzi sul piano politico e collaborando, insieme ad altri Lincei, anche sotto il profilo più propriamente scientifico. Nel 1613 l'Accademia pubblicò sotto i propri auspici e con l'ausilio di altri accademici la Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, in cui Galilei raccoglieva i documenti della polemica che lo aveva visto in contrasto con il gesuita Christoph Scheiner (1573-1650): un ulteriore attacco alla concezione aristotelica della Natura, provocata dall'applicazione del cannocchiale allo studio dei fenomeni celesti.
Nel 1616, allorché il Sant'Uffizio condannò e proibì l'ipotesi copernicana e ingiunse in via riservata a Galilei di non insegnarla e non diffonderla in alcuna forma, i Lincei furono solidali con lo scienziato, e sospesero dall'Accademia il matematico Luca Valerio (1553-1618), che non condivideva la difesa dello scopritore dei satelliti di Giove. Tuttavia, l'intera Accademia dei Lincei era comunemente ritenuta favorevole alla dottrina eliocentrica. Nelle sue scritture private Cesi espresse sempre avvisi moderati ed esortazioni alla prudenza, relativamente ai rapporti con la Chiesa, con i filosofi e gli scienziati aristotelici e con i gesuiti, e non avrebbe voluto che la polemica copernicana esplodesse con tanta violenza. D'altro canto, sul piano scientifico, stimolava Galilei a procedere ancora oltre Copernico, riconoscendo, con Kepler, l'ellitticità delle orbite planetarie e, con Tycho Brahe e altri cosmologi, l'inesistenza delle sfere cristalline e la fluidità del cielo. Coniugando audacia speculativa con abilità diplomatica e vasta dottrina scritturale e patristica, nel 1618 Cesi espose in una lunga epistola al cardinale Roberto Bellarmino la teoria della fluidità del cielo, e celebrò la scoperta galileiana di nuove innumerevoli stelle, accennando così, sebbene del tutto ipoteticamente, a quella immensità dell'Universo, la cui risoluta dichiarazione la Chiesa aveva condannato in Giordano Bruno; e ciò svolse con estrema competenza e cautela, attingendo largamente alle Sacre Scritture, ai Padri della Chiesa e ai filosofi antichi, al fine di aprire una breccia nello schieramento conservatore. D'altra parte, nel campo delle indagini cosmologiche, i Lincei proseguirono, per quanto ostacolati dalla censura ecclesiastica o impacciati dalla prudenza con la quale essi stessi ritenevano di dover illustrare gli esiti di quelle indagini, a favorire le nuove teorie e i nuovi metodi. Nel 1616 pubblicarono il piano della Encyclopedia Pythagorea del copernicano e bruniano Stelliola, che già per due volte era stato arrestato dall'Inquisizione. Nel 1623, l'ascesa al soglio pontificio, con il nome di Urbano VIII, di Maffeo Barberini ‒ amico dei Lincei ed estimatore di Galilei ‒ spinse gli accademici a pubblicare e a dedicare al nuovo papa Il Saggiatore, l'opera nella quale lo scienziato pisano polemizzava con il gesuita Orazio Grassi sulla natura delle comete. Urbano VIII si circondò di dignitari appartenenti all'Accademia, e suo nipote, il cardinale Francesco, accettò di essere ascritto al sodalizio.
Contemporaneamente, i Lincei conducevano importanti ricerche naturalistiche: per esempio di zoologia, adoperando il microscopio nello studio della morfologia delle api (Apiarium, 1625); e di botanica, elaborando, sulla scorta dei documenti che un naturalista spagnolo aveva raccolto direttamente nel nuovo mondo, un'ampia, suggestiva e accurata enciclopedia illustrata della flora e della fauna americane, a scopo essenzialmente medicinale: il Rerum medicarum Novae Hispaniae thesaurus, che conobbe complesse vicende editoriali e fu pubblicato in veste definitiva solo nel 1651, ad Accademia ormai disciolta. Inoltre, mentre i soci tedeschi compilavano un ampio compendio critico della medicina e pratica alchemica paracelsiana, che restò inedito, Francesco Stelluti si occupava della questione del legno fossile (nel 1637 darà alle stampe un trattato sull'argomento), e Cesi portava avanti sia ricerche archeologiche e antiquarie, sia studi di botanica, editi postumi da Stelluti nel 1651, nell'ambito dell'enciclopedia naturalistica del nuovo mondo.
Cesi morì nel 1630, due anni prima che la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo compromettesse per sempre Galilei e la causa copernicana agli occhi della Chiesa cattolica. I lincei Giovanni Ciampoli (1590-1643) e Cassiano Dal Pozzo (1588-1657), stretti collaboratori del papa e di suo nipote Francesco Barberini, caddero in disgrazia, e con loro l'intera Accademia fautrice di Galilei, sì che riuscirono vani i tentativi condotti soprattutto da Stelluti per persuadere il cardinale Barberini ad assumere la presidenza del sodalizio, lasciata vacante dalla morte del fondatore.
La Chiesa ridusse Galilei a un avvilente isolamento, e lasciò che l'Accademia lincea si estinguesse quasi naturalmente, privata della sua guida e principale energia motrice e turbata dall'esito della questione copernicana.
Nell'agosto del 1632, poco prima che l'Inquisizione fiorentina intimasse al tipografo di sospendere la stampa del Dialogo sopra i due massimi sistemi, si concedeva l'imprimatur a un'opera critica dello scritto galileiano, le Dubitationes di Claude Guillermet de Bérigard (1592-1663). Filosofo dell'Università di Pisa, di origine francese, Bérigard era incaricato dal granduca di Toscana, e forse dallo stesso cardinale Barberini, di scrivere una confutazione di Galilei sotto forma di lettera aperta all'Accademia dei Lincei, dalla quale proprio Barberini stava cercando di separarsi, resistendo alle offerte di Stelluti. In tal modo, con un'opera dedicata al granduca e ispirata da Barberini, che prendeva le distanze dai suoi amici galileiani, la famiglia Medici, un tempo protettrice di Galilei, e la Chiesa, che già aveva mostrato stima per Galilei e i Lincei, sembrarono intimare allo scienziato pisano e alla sua Accademia di tacere sull'eliocentrismo una volta per sempre.
L'imbarazzante eredità galileiana e lincea, resa tale dalla pesante condanna decretata dalla Chiesa, che parve rinnovare l'intransigenza dimostrata trentadue anni prima con Giordano Bruno, fu tuttavia ripresa e sviluppata in forme nuove, dettate dal brusco mutamento di atmosfera. In Italia due accademie si richiamarono alla scienza galileiana e al progetto linceo: l'Accademia del Cimento a Firenze e l'Accademia degli Investiganti a Napoli. Comuni a entrambe furono due distinzioni fondamentali rispetto all'esperienza lincea e alla tradizione galileiana. Sotto il profilo istituzionale, mentre l'Accademia lincea aveva costituito un organismo autonomo, puntigliosamente organizzato, regolamentato da statuti e con intenti programmatici stabiliti ‒ alla cui accettazione giurata era rigidamente subordinata l'ammissione dei soci, fino a rappresentare una sorta di 'milizia filosofica', quasi una comunità di spiriti affini assimilabile alle congregazioni religiose, e ispirata da una comune concezione della vita e della scienza ‒, sia il Cimento sia gli Investiganti conobbero regole associative molto blande, e nessuna statuizione programmatica e organizzativa dichiarata e accettata dagli aderenti. Se nel Cimento il fattore coesivo del sodalizio fu rappresentato dalla figura di Leopoldo de' Medici, fondatore e onnipotente presidente, che applicò consuetudini cortigiane, per gli Investiganti tale fattore è legato alla simbolica immagine di Andrea Conclubet, marchese di Arena, nella cui casa e sotto la cui protezione si svolgevano le riunioni accademiche, ma soprattutto alla solidarietà professionale e morale e alla forte omogeneità intellettuale dei soci, o almeno dell'iniziale gruppo costitutore. Sotto il profilo culturale, sia il Cimento sia gli Investiganti dovettero ridurre la portata delle aspirazioni e dei programmi scientifici di Galilei e dei Lincei, mostrando di non concentrare l'attenzione su quelle gravi questioni cosmologiche che avevano provocato la rottura del 1632, e di voler sviluppare altri aspetti della scienza moderna, meno sospetti alla Chiesa e ai filosofi aristotelici. Al di là di certe essenziali differenze culturali e politiche legate ai diversi contesti nei quali il Cimento e gli Investiganti operarono, sia nell'una sia nell'altra accademia, ragioni prudenziali, ma anche nuovi orientamenti intellettuali, determinarono lo svolgimento di una visione del sapere priva di prospettive o tensioni metafisiche e filosofiche generali e che, per questo, non coinvolgevano il piano della fede religiosa. Nell'esperienza investigante, tuttavia, l'attenzione al momento sperimentale risulta ‒ diversamente dalla visione, almeno ufficiale, del Cimento ‒ sempre subordinata alla discussione filosofica. Pur all'interno di una concezione probabilistica e sperimentalistica della ricerca, condivisa con il Cimento, gli Investiganti ritengono che la scienza abbia il compito di risalire alle cause dei fenomeni, di scoprire il sostrato che li sottende, correggendo la percezione sensoriale che è ingenua e apparente. Per gli Investiganti ‒ che pure si muovevano nel raggio dell'influenza galileiana e cartesiana ‒ non si dà una garanzia esterna di verità, quale poteva essere il Dio di Descartes, o la struttura matematica dell'Universo, comune a quella della mente umana, come era stata platonicamente intesa da Galilei. Tale visione convenzionalistica della scienza si avverte proprio nel campo più tipicamente galileiano dell'astronomia.
Per gli Investiganti l'ipotesi copernicana è la migliore, dal punto di vista funzionale e da quello della coerenza descrittiva, ma non vi sono ragioni metafisiche che la determinino quale assolutamente vera.
Verso la fine degli anni Cinquanta del XVII sec., il granduca di Toscana Ferdinando II e suo fratello Leopoldo vollero riprendere pubblicamente la linea innovatrice condannata dalla Chiesa, al fine di riscattare e celebrare l'immagine anche internazionale della casata medicea, che aveva protetto Galilei finché aveva potuto, e che aspirava a proseguire il suo ruolo di promotrice e fautrice dell'avanzamento del sapere. Tuttavia, i Medici non intendevano suscitare il risentimento della Chiesa; avrebbero ripreso e sviluppato i contributi del retaggio galileiano più propriamente 'fisici', fondati sulla valorizzazione dell'esperienza e dell'esperimento, evitando cautamente sconfinamenti nei campi delicati e controversi della filosofia naturale e dell'astronomia. L'Accademia del Cimento sorse quindi quale accademia di corte, rigidamente subordinata al gusto personale e agli interessi politici del suo istitutore, il principe Leopoldo, tanto che all'inizio fu denominata 'Accademia di Leopoldo' e talvolta confusa con la precedente esperienza cesiana, essendo ricordata in qualche testimonianza come 'Liceo di Firenze'. Il carattere cortigiano del sodalizio comportò il tratto vago e precario del suo funzionamento: non conobbe, infatti, forme e periodicità stabilite, programmi o regole. Si riuniva nel palazzo di Leopoldo e ne seguiva gli spostamenti; non esistevano pratiche certe e definite per l'ascrizione dei soci. Tutto era subordinato al volere di Leopoldo, che concepiva l'ammissione all'Accademia come un'onorificenza cortigiana. L'intenzionale 'neutralità' filosofica del circolo comportò che vi fossero cooptati sia scienziati legati alla tradizione galileiana sia dotti conformisti, fedeli all'insegnamento aristotelico, così che la Chiesa e l'università potessero guardare al Cimento con tollerante benevolenza e fiducioso rispetto. Espunte dalle trattazioni accademiche le questioni cosmologiche e metafisiche, e accettato il costante confronto con gli aristotelici, in nome di un'apparente equidistanza critica tra autorità scolastica e teorie moderne, il Cimento non ebbe comunque vita facile al suo interno. All'immagine di compattezza e imparzialità imposta all'esterno da Leopoldo corrispondeva, nelle adunanze degli accademici, un continuo, esasperato e anche violento contrasto tra moderni e tradizionalisti. Si veniva cioè riproponendo, sul piano dello studio dei fenomeni fisici, quel conflitto tra esperienza e autorità che nel 1616 e nel 1632 aveva prodotto la rottura tra Chiesa e scienza. Gli esperimenti che gli accademici conducevano intorno alla Natura e alla trasformazione della materia, pur non muovendo pregiudizialmente dall'intento dichiarato di dimostrare la superiorità del nuovo modello geometrico, meccanico e corpuscolare della Natura su quello aristotelico, finivano sempre con il rinnovare i dissidi e le contrapposizioni tra galileiani e scolastici. Di qui le sfide, i complotti, i litigi, i malumori, tenacemente e cautamente mediati e dissimulati da Leopoldo; di qui la vita criptica di alcuni sodali, quasi una 'seconda Accademia' sottratta all'ufficialità, per il ripetersi di riunioni più riservate in cui i sostenitori del metodo galileiano potevano, a dispetto dell'enunciata 'neutralità' filosofica del Cimento, nutrire liberamente le proprie indagini richiamandosi apertamente a influenze filosofiche antiche e moderne: platonismo, atomismo, gassendismo, cartesianismo; orientamenti radicalmente invisi alla Chiesa e tenuti ai margini delle istituzioni ufficiali.
Leopoldo volle dare un esito tangibile e autocelebrativo alle esperienze naturali condotte dall'Accademia. Nel 1667, a dieci anni dall'inizio delle prime adunate regolari del Cimento, il segretario del sodalizio, Lorenzo Magalotti, diede alle stampe un sontuoso volume, Saggi di naturali esperienze fatte nell'Accademia del Cimento, che costituì, oltre che un grande libro di fisica sperimentale, un capolavoro di seicentesca 'dissimulazione', un compromissorio espediente di autocensura. L'opera ‒ destinata più a celebrare presso le corti europee l'immagine della casata medicea che ad alimentare il dibattito scientifico (fu inviata infatti in omaggio a principi, cardinali e ambasciatori invece di essere posta in vendita e diffusa fra gli scienziati) ‒ ebbe carattere di sforzo collettivo e anonimo prodotto da uomini di corte piuttosto che da distinte personalità. Dal volume fu esclusa l'illustrazione degli esperimenti, anche cosmologici, che avevano sollevato maggiori polemiche fra gli accademici, sui quali Leopoldo volle calare a posteriori un'immagine del tutto inverosimile di collettiva concordia e di completa ubbidienza al principe; vi fu apposto un prudentissimo Proemio, in cui una solenne professione di sperimentalismo, sottratto a qualsiasi influenza filosofica e spoglio di ogni intenzione polemica, si concludeva con la dichiarazione: "ci protestiamo di non voler imprender mai brighe con alcuno, entrando in sottigliezza di dispute o in picca di contradizioni: e se talora, per far passaggio da una ad un'altra esperienza, o per qualunque altro rispetto, si sarà dato qualche minimo cenno di cosa specolativa, ciò si pigli pur sempre come concetto o senso particolare di Accademici, ma non mai dell'Accademia, della quale unico istituto si è di sperimentare e narrare" (Saggi di naturali esperienze, pp. 40-41).
La napoletana Accademia degli Investiganti ebbe invece carattere pronunciatamente polemico. Più libera di quella del Cimento, giacché mancò non soltanto di regole e statuti, ma anche della condizionante presidenza di un principe, sviluppò, in continuità con l'esperienza lincea, la tendenza a esercitare un'influenza diretta sulla vita civile, in consapevole contrasto con la cultura dominante e con i suoi centri di potere istituzionale e professionale. Nonostante la sconfitta di Galilei e dei Lincei, gli Investiganti ritennero che il rinnovamento della filosofia e della scienza non fosse scindibile dall'impegno sociale e professionale; il carattere soprattutto medico del sodalizio accentuò quasi naturalmente il legame organico tra vita teorica e vita pratica, e ne rese programmatico ed esplicito l'intento innovatore. Pur limitandosi a sfiorare appena le grandi questioni cosmologiche e astronomiche che avevano comportato la crisi galileiana e lincea, gli Investiganti rivissero nel campo della medicina, e in particolare della sanità pubblica, la frizione tra autorità ed esperienza, caratteristica del conflitto copernicano.
La vicenda investigante è strettamente connessa a quella del suo maggiore ispiratore e promotore, il filosofo e medico Tommaso Cornelio, attivo prima a Napoli, dove fu allievo del naturalista Marco Aurelio Severino, e poi, dopo il 1644, a Roma, a Firenze e infine a Bologna, città nelle quali era entrato in contatto con gli allievi di Galilei (Michelangelo Ricci, Evangelista Torricelli, Bonaventura Cavalieri). Nel 1646 compose un De sistemate mundi, rimasto inedito, in cui accoglieva le teorie copernicane e galileiane. Tre anni dopo fece ritorno a Napoli, portando con sé e diffondendo gli scritti dei 'moderni': non solo Galilei, ma Gassendi, Descartes, Bacon, Harvey, Boyle. Insieme al giurista Francesco D'Andrea fece parte dell'Accademia degli Oziosi, messa in subbuglio proprio dal Discorso dell'eclissi che egli volle pronunciarvi il 29 maggio 1652. Cornelio esaltava Galilei e Kepler, e sottolineava l'importanza della rivoluzione astronomica da essi compiuta rispetto alla lotta per la libertà di filosofare: la nuova cosmologia si incontrava con la nuova fisiologia e con le più recenti tendenze della medicina, sulla base della comune riduzione della materia a sostanza omogenea di tutto l'Universo, a sostrato quantificabile e indifferenziato sia dei fenomeni celesti sia di quelli microcosmici. La peste scoppiata a Napoli nel 1656 aggravò il dissidio tra i fautori della nuova scienza e i sostenitori del sapere tradito, giacché rivelò l'incapacità e l'insipienza delle autorità di governo e delle istituzioni preposte al controllo della sanità pubblica.
I medici tradizionalisti reagirono alle critiche degli innovatori, seguaci della spagirica, cioè dell'applicazione terapeutica dell'alchimia, chiedendo alle autorità di proibire l'insegnamento dell'alchimia che, non previsto negli statuti universitari, era tuttavia diffuso in forma privata. Si era nell'estate del 1663. Tommaso Cornelio pubblicò allora un'opera fortemente polemica, che lo impegnò per diversi anni: i Progymnasmata physica. Vi premise un dialogo in cui due personaggi, chiamati significativamente Bruno e Stigliola ‒ simboli del più audace rinnovamento filosofico nella cultura moderna del Mezzogiorno d'Italia e della tradizione copernicana e lincea ‒ criticano aspramente il vecchio sapere medico di scuola galenica, difeso da un altro personaggio di nome Trusiano. La medicina tradizionale ‒ è la tesi di Cornelio ‒ non soltanto risulta superata sul piano scientifico, ma si rivela sempre più fallace e pericolosa su quello sociale, anche perché i suoi cultori antepongono al progresso della conoscenza la difesa dei privilegi corporativi e dei propri guadagni. Un altro amico di Cornelio, il medico Leonardo Di Capua, riprese il tema in un Discorso per difesa dell'arte chimica e de' professori di essa, datato 28 settembre 1663. Secondo Di Capua, i medici tradizionalisti per desiderio di guadagno, non curano il progresso dell'arte e respingono i ritrovati o le tesi dei medici di nuovo orientamento, che potrebbero invece stimolare quel progresso. Un ausilio insostituibile alla medicina può essere fornito dalla chimica, il cui insegnamento Di Capua chiede che sia invece autorizzato e posto sotto un controllo istituzionale. Gli aristotelici vedevano nelle ricerche chimiche, fondate su una concezione della materia contrastante con quella professata da Aristotele, un grave pericolo per la loro egemonia culturale, e i medici conservatori avvertivano negli iatrochimici, nei medici nuovi, una consistente minaccia al loro monopolio dell'insegnamento, del potere pubblico e dell'attività professionale. Il risultato dello scontro fu un libro di Sebastiano Bartoli, l'Astronomiae microcosmicae systema novum, che, sebbene provvisto delle necessarie licenze civili ed ecclesiastiche, fu confiscato e bruciato per i suoi durissimi attacchi alla medicina galenica.
L'Accademia degli Investiganti si costituì ufficialmente proprio tra il 1663 e il 1664, nel momento in cui più aspro era il conflitto tra conservatori e innovatori. Se ne fecero promotori Cornelio, D'Andrea e Di Capua; le sedute si svolgevano nel palazzo del marchese di Arena. Nell'estate del 1664 l'Accademia ricevette la visita di una delegazione di scienziati inglesi, Philip Skippon e John Ray, che sarebbero poi divenuti illustri membri della Royal Society. Il 26 giugno 1664 si ritrovarono in casa del marchese Conclubet, e assistettero a una riunione degli Investiganti, che avveniva ogni mercoledì pomeriggio. Gli ospiti inglesi contarono circa sessanta soci, lettori attenti di Galilei, Descartes, Harvey, Bacon, Hobbes, dediti a interessanti esperimenti naturali a carattere collegiale, come l'escursione compiuta il 26 ottobre di quello stesso anno da tutti gli accademici, sulle sponde del lago di Agnano, al fine di verificare il carattere venefico della macerazione del lino, attività che da tempo immemorabile era condotta in quel sito. Si trattava di una questione dagli importanti risvolti sia sanitari sia economici. I medici galenisti avevano ritenuto il processo di macerazione la causa di una serie di misteriosi decessi per febbre, ai quali mancava una spiegazione plausibile. Il governo sospese temporaneamente la macerazione, ma gli Investiganti criticarono il provvedimento, giudicandolo affrettato, in quanto non fondato sulla verifica sperimentale della nocività di questo processo di lavorazione. Il conflitto tra gli Investiganti e i medici tradizionalisti arrivò a tale asprezza che nel 1670 il viceré di Napoli fece sospendere le attività accademiche.
In seguito, l'Accademia conobbe molteplici riprese e rinascite. Tra il 1670 e il 1683 gli Investiganti continuarono a riunirsi informalmente; Cornelio, che pubblicò una seconda edizione dei Progymnasmata, si tenne in stretto contatto con la Royal Society, nelle cui "Philosophical Transactions" apparve un sommario della sua opera in inglese. Ai tradizionali legami con il Cimento e con i galileiani di Roma e di Firenze, si aggiunsero, per iniziativa di Leonardo Di Capua, quelli con l'Accademia romana di Cristina di Svezia. Morto Cornelio nel 1684, l'Accademia investigante si strinse intorno a Di Capua, che morirà nel 1695. In questa terza fase della vicenda investigante, il gruppo di studiosi che si richiamava all'Accademia coincise con quello che si riuniva nella casa dell'avvocato Giuseppe Valletta, che aveva messo insieme una grande biblioteca, ed era amico non soltanto di Di Capua e D'Andrea, ma anche di Giambattista Vico. Nel 1688 fu data alle stampe a Napoli, per la prima volta, un'edizione di tutti gli scritti di Cornelio. Tuttavia quell'anno segnò l'inizio di una fase profondamente repressiva, durata fino alla fine del XVII secolo.
L'Inquisizione infierì duramente contro i sostenitori delle dottrine fisiche professate dagli Investiganti, e in particolare contro l'atomismo. Lunghi processi furono istruiti contro personaggi anche minori, accusati di 'ateismo' in quanto seguaci della filosofia cartesiana o del gassendismo, introdotti a Napoli da Cornelio e dai suoi amici. Ciò spinse l'avvocato Valletta a stendere una sorta di apologia della filosofia moderna, in forma di lettera a papa Innocenzo XII, in cui chiedeva che l'Inquisizione romana fosse allontanata da Napoli. Il testo, che ebbe una complessa e tormentata vicenda redazionale ed editoriale ‒ fu ampliato fino a meritare il titolo di Istoria filosofica e tradotto in latino e in francese ‒, era destinato a circolare clandestinamente in Italia e all'estero. Valletta difendeva Di Capua dalle accuse mossegli nel 1694 da un padre gesuita, Giovanni Battista De Benedictis, e sostenendo l'innocenza della teoria degli atomi, cercò di dimostrare come fosse piuttosto l'aristotelismo a meritare l'accusa di empietà.
L'eredità investigante trovò altre, più compromissorie forme di sopravvivenza e di resistenza. Tra il 1686 e il 1698 molti dei vecchi Investiganti aderirono a nuove accademie: quella detta 'degli Incuriosi', con carattere più pacato e inoffensivo, e l'Accademia palatina di Medinaceli. Quest'ultima, fondata a Napoli dallo stesso viceré Luis Francisco de la Cerda di Medinaceli, nel cui palazzo si tenevano le sedute, accolse anche Valletta e Vico, e spostò gli interessi dei filosofi napoletani verso le discipline storiche e umanistiche, riservando minore attenzione agli studi fisici e astronomici, che continuavano a suscitare l'apprensione della Chiesa e delle autorità.
Il breve esperimento di Medinaceli, accademia di Stato, o almeno di corte, priva di carica apertamente polemica verso il sapere tradito, fu prologo di un nuovo tentativo settecentesco, nel quale il tradizionale interesse investigante per le scienze naturali fu ricondotto a un tipo di accademia meno informale e più strettamente controllata dall'autorità; non più circolo autonomo e volontario di liberi studiosi, ma istituzione regolare, sotto l'egida statale.
Si tratta dell'Accademia delle Scienze fondata nel 1732 dal naturalista Celestino Galiani, e munita di diploma imperiale. Nel 1734 il nuovo re di Napoli Carlo III di Borbone la pose sotto la sua protezione. La nuova accademia napoletana, che continuava tuttavia a riferirsi alla tradizione investigante, ebbe fama europea. Galiani fu eletto membro della Royal Society, e gli studi di chimica, mineralogia, botanica e vulcanologia promossi dalla sua accademia erano ampiamente noti. Ormai l'Accademia delle Scienze era un'istituzione pubblica. Si estinse nel 1744, ma quando risorse, nel 1780, come Accademia Reale delle Scienze e Belle Arti, non si trovò strano che disponesse di un certo numero di soci stipendiati dal re: fra questi, Gennaro Vico, figlio del grande filosofo. Anche a Napoli, come altrove in Europa, l'accademia non rappresentava più uno strumento di critica e di severa polemica con le forme e le sedi tradizionali del sapere, quale era stata concepita all'inizio del Seicento da Federico Cesi, ma una sorta di istituzione onorifica, che collaborava con l'università fino a diventarne un'emanazione o un complemento, e si sforzava di recare lustro alla casa regnante che la proteggeva e beneficio all'industria, al commercio, alle tecniche, nonché all'esercito della nazione, sviluppando le applicazioni funzionali della scienza, o l'aspetto celebrativo delle belle arti.
di Mario Biagioli
Durante la prima Età moderna il trasferimento del mecenatismo dei principi dalle corti alle accademie condusse alla sostituzione del mecenate in carne e ossa con la persona ficta, rappresentata dalla corporazione. Nelle accademie la credibilità non era più fondata sullo status personale dello scienziato e sui suoi rapporti con un principe o sulla sua abilità nel seguire le regole di comportamento proprie del mecenatismo e della corte. In questo nuovo contesto istituzionale erano l'appartenenza alla corporazione e la capacità di produrre sapere secondo le 'convenzioni istituzionali' a fare di uno scienziato un membro autorevole. Inoltre, mentre la legittimazione garantita dai rapporti personali con il mecenate era spendibile prevalentemente nei circoli di corte e in quelli legati al mecenatismo, la credibilità che derivava dall'appartenenza a un'istituzione e dall'adesione alle convenzioni interne alla cerchia scientifica apriva le porte del vasto mondo della cultura.
I codici cortigiani di comportamento ‒ che attraverso la dipendenza da singoli principi davano legittimità agli studiosi ‒ si trasformarono in codici di comportamento accademici che, strutturando l'interdipendenza tra gli studiosi, ne definirono i rapporti rispetto al potere, le pratiche e i diritti in quanto membri appartenenti a istituzioni scientifiche. A quest'epoca i confini tra i circoli di corte e il mondo della cultura erano ancora permeabili. Aristocratici e uomini di corte facevano parte di accademie scientifiche, molte delle quali (in particolare quelle private) potevano contare tra i loro membri aristocratici e gentiluomini ben versati nella diplomazia e nella vita di corte, come per esempio Lorenzo Magalotti (1637-1712), il segretario dell'Accademia del Cimento patrocinata dai Medici, che in seguito aprì una scuola per diplomatici. Inoltre, le prime reti internazionali di corrispondenza, messe in piedi dalla comunità scientifica e letteraria, si sovrapponevano, e talvolta coincidevano, con le reti diplomatiche, poiché ad alimentarle erano spesso uomini di cultura che viaggiavano al seguito di delegazioni diplomatiche o nella cerchia di giovani aristocratici in viaggio per il Grand Tour.
Tuttavia, il fatto che il rispetto delle regole sociali di comportamento fosse insito nella gran parte dei personaggi più eminenti dell'emergente comunità filosofica, non significa che le regole proprie delle classi superiori permeassero in modo uniforme il mondo scientifico, né che vi fosse un consenso unanime intorno al modo in cui tali regole dovevano presentarsi. Al di là delle differenze nazionali, rispetto ai canoni del comportamento civile e dell'educazione, vi era una tensione fondamentale (all'interno sia della società di corte sia della comunità scientifica nascente) tra l'accettare le convenzioni, da un lato, e il cercare di cambiare le regole del gioco a proprio favore, dall'altro lato. Poiché le convenzioni e l'educazione riflettevano distinzioni sociali e gerarchie, l'emergere di nuovi gruppi sociali e il declino di altri implicarono una revisione di tali codici. Nel caso della scienza, i dibattiti tra i sostenitori di tesi diverse, come quello tra Galilei e gli scolastici in materia di cosmologia, o quello tra Boyle e Hobbes sul vuoto, rivelarono vere e proprie fratture quanto ai modi dell'argomentazione. Infine, scienziati e mecenati tendevano a importare dai diversi ambienti sociali di provenienza idee differenti delle 'buone maniere'.
Lo scandalo de Roberval, scoppiato nel dicembre del 1658 presso l'Accademia di Montmor di Parigi, una delle prime associazioni filosofiche, può essere esemplificativo di alcune di queste tensioni. L'astronomo Ismaël Boulliau (Bullialdus) scriveva a Christiaan Huygens il 6 dicembre 1658:
Gilles de Roberval ha fatto molte sciocchezze a casa del signor de Montmor, il quale è notoriamente un uomo d'onore e d'alto rango. Ospite nella casa di quest'ultimo, è stato talmente maleducato che risentitosi per un'opinione del signor des Cartes condivisa dal signor de Montmor, ha dichiarato apertamente di essere più intelligente di lui e ha sostenuto di essergli da meno solo in quanto a beni. Ha dichiarato inoltre di essere centinaia di volte più degno del signor de Montmor di ricoprire la carica di Maitre des Requestes. Quest'ultimo, che è una persona moderata, si è limitato a fargli notare che avrebbe potuto e dovuto comportarsi in modo più educato, evitando di litigare con lui e di trattarlo con disprezzo nella sua stessa casa. Tutti i presenti giudicarono la volgarità e la pedanteria del signor de Roberval assai singolare. (OC, III, p. 287)
Scandali di questo tipo erano proprio ciò che i manuali di galateo raccomandavano di evitare al cospetto dei potenti. Secondo il Nouveau traité de la civilité (1671) di Antoine de Courtin, "quando si tratta di contraddire una persona di rango rispondendo di no, non bisogna esprimere un netto "No, signore, le cose non stanno così", ma ricorrere a perifrasi del tipo "Mi scusi signore...", "La prego di perdonarmi, signora, se oso affermare..."" (ed. 1675, p. 32). Benché de Roberval non abbia mai più messo piede in quel circolo, l'associazione non riuscì a rimettersi dallo sconcerto e, travolta da continue dispute e disaccordi, fu sciolta nel 1664.
Se considerata inaccettabile nella casa di un gentiluomo come de Montmor, a corte la maleducazione di de Roberval avrebbe dato luogo a un vero e proprio disastro. Dato il rango e la sensibilità nei confronti delle violazioni alle regole del comportamento, i principi avevano a cuore la buona educazione dei loro studiosi, preoccupandosi dell'eventuale natura polemica delle loro tesi e delle possibili situazioni imbarazzanti che potevano scaturire dalle controversie scientifiche, come avvenne con il granduca Ferdinando II de' Medici, il quale temeva d'incorrere in 'incidenti diplomatici' con i principi protettori degli avversari dei suoi studiosi. Per analoghe ragioni, principi e protettori di alto rango avevano la tendenza a fare da arbitri più che da giudici, assumendo un atteggiamento 'nominalista' nei confronti delle tesi dibattute.
Quando, per esempio, nel 1660 il fondatore dell'Accademia del Cimento, Leopoldo de' Medici, si trovò coinvolto, suo malgrado, nella controversia che opponeva Huygens, Honoré Fabri ed Eustachio Divini sugli anelli di Saturno, per più di un anno evitò di accettare ufficialmente la dedica che nel 1659 Huygens gli aveva rivolto nel proprio Systema Saturnium, finendo per dichiarare di non essere "un giudice adeguato a pronunciarsi sulle sue dottrine" e demandando la questione ai suoi accademici. Per venire incontro alle preoccupazioni di Leopoldo, questi ultimi costruirono modelli meccanici a partire dalle due ipotesi contrapposte, senza arrivare a un giudizio conclusivo e presentando, alla fine, una relazione ‒ che non fu mai pubblicata ‒ sulla validità delle rispettive ipotesi.
Gli studiosi coinvolti non adottavano sempre la stessa cautela 'nominalista' dei loro mecenati e principi. Benché la maleducazione di de Roberval pare costituisca un caso unico, a questo tipo di inclinazione non furono estranei personaggi come Galilei, Newton, Edme Mariotte e Robert Hooke, che spesso tentarono di far emergere la propria posizione sottolineando la rilevanza epistemologica delle loro teorie, anche a costo di criticare gli avversari superando i limiti posti dalle buone maniere. Le tensioni scaturite a causa dell'attribuzione delle scoperte non si limitavano ai rapporti tra mecenate e studioso, ma si verificavano anche nei dibattiti tra studiosi provenienti da gruppi sociali diversi. Nella controversia sull'orologio a molla, che vide coinvolti Huygens e Hooke nel 1675, Huygens, essendo un aristocratico, si attenne ai canoni vigenti fra gentiluomini, sottoscritti dalla Royal Society, dando per scontato che Hooke avrebbe fatto lo stesso. Questi, invece, che tendeva a osservare più le regole sociali proprie del mondo degli artigiani che quelle dei gentiluomini, non aderì alle stesse convenzioni e si lasciò andare a pesanti insulti, determinando una crisi che costrinse la Royal Society a riconsiderare il proprio ruolo di istituzione in grado di offrire un terreno per una composta risoluzione delle controversie.
Sebbene gli scontri fra diverse regole sociali e differenti nozioni di buona educazione fossero comuni alla società intera, tra i filosofi naturali assunsero un carattere estremamente serio, data la difficoltà a risolvere controversie tenendo conto delle ormai consolidate nozioni di verità. Scrivendo da Parigi, nel febbraio del 1658, lo studioso e astronomo Boulliau confrontava lo stile dell'Accademia scientifica che si radunava a casa di Henri-Louis Habert de Montmor con quello di un circolo letterario riunito intorno all'ambasciatore veneziano:
Apprendo da alcune persone che i veneziani sono più gradevoli, più educati, più civili, e nelle discussioni si servono di parole estremamente cerimoniose. I Montmoriani sono più aspri e discutono con maggior veemenza, giacché le loro dispute vertono sulla ricerca della verità; a volte sembrano sul punto d'insultarsi e tendono a non sbottonarsi, perché ciascuno di loro, sebbene professi di avere quale unico interesse l'indagine e la ricerca, vorrebbe la paternità esclusiva della verità qualora questa venga alla luce. E se nella sua opera di ricerca qualcuno perviene a una verità, gli altri evitano in tutti i modi di collaborare con lui, perché ognuno pensa di perdere parte della propria fama e della propria gloria se concede qualcosa, anche minima, al rivale e se lo riconosce come legittimo scopritore. (Brown 1967, pp. 78-79)
La rottura dei codici di comportamento, originata dall'idea di un'unica verità, era resa più grave dall'adesione a sistemi filosofici e cosmologici onnicomprensivi (perlopiù quelli aristotelico e cartesiano) che, trasformando le proprie tesi in assiomi non problematici, rinsaldavano nei loro fautori la tendenza a trincerarsi su posizioni dogmatiche.
Per usare le parole di Joseph Glanvill nella Scepsis scientifica del 1665, dedicata alla Royal Society: "il dogmatico accusa di menzogna chiunque dissenta da lui e innalza la propria opinione a norma intellettuale" (p. 170). La percezione di Glanvill dei pericoli del dogmatismo era condivisa dalla maggior parte dei promotori di istituzioni scientifiche e improntò le continue lamentele, peraltro un po' retoriche, che si trovano nella letteratura e nei carteggi delle accademie sulla polemicità e la rudezza delle dispute sillogistiche aristoteliche.
La tattica utilizzata dalle accademie per controllare le minacce che da ogni parte mettevano in pericolo la buona educazione filosofica si fondava su due punti distinti, ma tra loro collegati: da un lato il mantenimento di un'interazione costruttiva fra gli studiosi membri delle accademie e il mondo della cultura che si andava formando, e dall'altro la conservazione del sostegno e della legittimazione forniti dai principi. Pur essendo entrambi cruciali per fondare la legittimità della conoscenza prodotta, questi due obiettivi rivestivano priorità diverse a seconda dei contesti, delle condizioni istituzionali e del grado di coinvolgimento dei principi nelle varie accademie.
La risposta al primo problema prevedeva non solo il rifiuto dei sistemi filosofici dogmatici, ma anche la proposta di metodologie meno controverse. Samuel Sorbière, segretario dell'Accademia di Montmor e uno dei promotori dell'Académie des Sciences, propose un'epistemologia nominalistica che ammetteva la possibilità di sostenere legittimamente opinioni diverse a proposito di uno stesso fenomeno. La filosofia sperimentale di Boyle, in parte adottata dalla Royal Society, rifletteva inoltre il tentativo di introdurre canoni di comportamento per il dibattito e, collegata a esso, una nozione di prova scientifica, il 'dato di fatto', che insieme mettessero gli studiosi in condizione di confrontare i propri punti di vista diversi in modo formalmente corretto.
Anche se non tutte le accademie aderirono alla proposta di Boyle, la necessità di fondare una discussione corretta fu riconosciuta nell'intera Europa. L'interesse per le prove ottenute grazie a operazioni sperimentali contribuì a rendere meno aspri i dibattiti, non solo perché limitò il ricorso ad argomentazioni basate sui grandi sistemi ‒ e perciò potenzialmente dogmatiche ‒, ma anche perché indusse i critici ad approfondire l'analisi delle metodologie usate per ottenere i dati presentati, prima di mettere in questione l'integrità personale del loro autore. Quando poi la controversia rimaneva irrisolta, era sempre possibile concedere allo studioso il beneficio del dubbio circa le condizioni dell'esperimento, le caratteristiche degli strumenti utilizzati, la loro taratura, e così via. Hooke, per esempio, nella Micrographia del 1665 (un'opera patrocinata dalla Royal Society e dedicata alla società stessa), evitò di accusare di 'menzogna' un autore del quale contestava le osservazioni, sottolineando le difficoltà connesse alla regolazione precisa del microscopio: "Gli occhi della mosca, in particolari condizioni di luce, possono apparire simili a una griglia [...] il che potrebbe spiegare come mai l'esimio dottor Power sembri supporli come tali" (p. 24).
Nonostante le buone maniere fra gli studiosi permettessero alle accademie e ai loro patroni di non compromettere i propri legami, altre strategie erano finalizzate alla difesa dell'onore del principe, evitando, per esempio, temi capaci di indebolire l'assolutismo politico. La costante esclusione della politica e della teologia dalla lista degli argomenti di discussione ammissibili nelle accademie scientifiche rifletteva in modo evidente questa preoccupazione. Cesi sosteneva che lo statuto dell'Accademia dei Lincei fosse basato "sulla politica e sulla ragion di Stato". Anche le accademie che non ponevano esplicitamente la ragion di Stato al centro dei propri interessi, condividevano la cautela adottata dai Lincei nel delimitare i diversi campi di studio e il tipo di questioni relative alla Natura, che era opportuno affrontare.
Benché l'esclusione della politica e della teologia fosse finalizzata direttamente alla tutela del rispetto per l'autorità dei principi e delle chiese e, in alcuni paesi, a evitare di alimentare tensioni religiose, in termini filosofici era giustificata sostenendo che sia i 'misteri della religione', sia i 'misteri dello Stato' erano al di là dell'umana comprensione e che renderli oggetto d'indagine fosse dunque non soltanto pericoloso e sacrilego, ma anche impossibile. La legittimità del potere del principe assoluto (e il discorso sulla ragion di Stato che ne conseguiva) era presentata come qualcosa di impenetrabile al pari della natura di Dio, al quale, peraltro, essa era generalmente collegata dalle dottrine del diritto divino dei monarchi. Questi assiomi politici e religiosi erano al tempo stesso fatti incontestabili e misteri impenetrabili. Per esempio, Théophraste Renaudot (1586-1653), moderatore delle conferenze di filosofia naturale al Bureau d'Adresse di Parigi, nonché uno dei protetti del cardinale Richelieu, nelle Premières centuries, afferma che "i misteri delle faccende di Stato sono di natura simile a quelli delle cose divine, perciò è meglio che se ne parli il meno possibile" (p. 3).
L'avversione nei confronti dell'indagine sui misteri della religione e dello Stato era una conseguenza del bando imposto dalle accademie alla metafisica, ai sistemi filosofici onnicomprensivi e alla ricerca delle cause prime dei fenomeni, come attestano le parole di de Roberval, pronunciate in un dibattito sulla natura del peso, presso l'Académie des Sciences: "non ci si dovrebbe pronunciare su questi misteri. Le loro radici sono assolutamente impenetrabili e per gettarvi luce ci vorrebbero facoltà intellettuali specifiche, che ci fanno difetto" (Maury 1866, p. 349). Gli scienziati erano tenuti a descrivere i fenomeni e a discuterne le cause immediate, ma, in quanto sudditi del principe cui non era concesso di esplorare i misteri della ragion di Stato, non potevano spingersi alla ricerca delle cause prime. I limiti che le accademie scientifiche imponevano alle proprie indagini corrispondevano a quegli stessi confini che i filosofi neostoici di quel periodo stabilivano intorno alle proprie analisi politiche. L'orientamento strumentale dei sudditi, che li indusse ad avversare l'indagine sui presunti misteri metafisici, fu un assoggettamento disciplinato, originatosi dal regime di potere assolutistico e dalle relative dottrine della ragion di Stato, in cui quei misteri avevano una parte fondamentale.
Per riassumere, al tempo dell'istituzione delle prime accademie, il mondo della cultura era piuttosto permeabile, popolato da mecenati con gradi diversi di potere e da studiosi il cui rispetto per le regole formali era più o meno elevato. Il fatto che i partecipanti avessero interessi, formazione e metodologie diversi contribuiva a fare di queste regole una categoria assai controversa. Al tempo stesso non si potevano ignorare le regole delle buone maniere senza mettere in pericolo la comunicazione che avveniva all'interno della nascente comunità culturale, la legittimazione delle teorie sulla Natura, la distribuzione di riconoscimenti e, più in generale, le strutture sociali all'interno delle quali i filosofi naturali cercavano di dare vita alle proprie comunità e reti di relazioni. Se a lungo andare le forme di comunicazione entro il mondo della cultura e della società di corte finirono per divergere, i codici di comportamento delle comunità scientifiche restarono, almeno in una fase iniziale, improntati ai processi attraverso cui si articolarono, all'interno della società di corte, l'autorità e la soggezione a essa.
di Mario Biagioli
Le dinamiche interne alla Royal Society forniscono un esempio di come i processi che sottostavano agli scenari di corte e alla strutturazione dell'autorità del principe (attraverso la problematica e spesso contraddittoria collusione fra principi e sudditi) condizionassero anche le relazioni sociali e la distribuzione di riconoscimenti professionali all'interno delle prime accademie sponsorizzate da principi. Fu proprio un'accademia come la Royal Society a costituire la propria autorità nel mondo della cultura, al pari di un re nella propria corte. Ciò appare paradossale, in quanto, retrospettivamente, la Royal Society sembra la più vicina all'ideale di una corporazione di filosofi naturali indipendenti da qualunque principe.
La credibilità della Royal Society in quanto corporazione trovò nelle "Philosophical Transactions" una risorsa fondamentale, con la quale assicurare ai membri e ai collaboratori dell'accademia una certa autorevolezza. Tuttavia il prestigio garantito dalle "Philosophical Transactions" a chi pubblicava sulle sue pagine era 'riciclato'. La Royal Society infatti non possedeva di per sé l'autorevolezza per cui era nota, ma divenne elemento centrale nel mondo della cultura persuadendo i suoi 'sudditi' a 'sottomettere' al vaglio dell'associazione i propri lavori, donandoli, per la pubblicazione sugli annali. Le "Philosophical Transactions" restituivano in cambio questa sorta di 'sovranità scientifica', in quanto coloro che vi pubblicavano le proprie opere guadagnavano prestigio e autorevolezza. L'autorità, che sia il principe sia la Royal Society esibivano e al tempo stesso si procuravano, era fondata su uno scambio: i sudditi la rispettavano in cambio di una posizione distinta all'interno delle configurazioni sociali. Tali configurazioni non potevano funzionare in assenza di meccanismi che traducessero quei 'doni di sottomissione' in segni di distinzione sociale e professionale.
Al pari di un principe che necessita di un gran numero di sudditi che ne legittimino il potere, la Royal Society procurava contributi e scambi con studiosi stranieri, che venivano poi pubblicati sulle "Philosophical Transactions". Tuttavia la distribuzione del prestigio tra i corrispondenti esterni e i membri interni dava spesso origine a tensioni e conflitti, analoghi a quelli che generava il comportamento di un sovrano quando concedeva o rifiutava privilegi ai propri sudditi. Per esempio, durante la controversia fra Hooke e Newton intorno alla natura della luce, negli anni Settanta del XVII sec., o quella fra Johannes Hevelius e Adrien Auzout sulle comete nel 1664-1665, Henry Oldenburg e la Royal Society si vennero a trovare nella delicatissima posizione di dover riconoscere il diverso grado di autorevolezza ‒ vale a dire un diverso grado di distinzione filosofica ‒ di alcuni loro 'sudditi', preservando nello stesso tempo l'integrità della struttura dell'istituzione ed evitando che il discredito di uno dei suoi membri ricadesse su di essa. La ricerca di un equilibrio fra le diverse teorie scientifiche era tanto difficile quanto il rispetto dei segni di distinzione all'interno della corte.
La legittimazione da parte degli scienziati delle proprie teorie e della propria credibilità poggiava su una stabilità fragile, costruita su una densa rete di filosofi naturali, i cui contributi scientifici consacravano la Royal Society in quanto autorevole punto di riferimento. Retrospettivamente, saremmo tentati di collocare gli autori che pubblicavano sulle "Philosophical Transactions" nella categoria degli autori scientifici moderni, piuttosto che in quella dei sudditi del principe. Si trattava invece semplicemente di un diverso tipo di sudditi, non associati a un principe, a una corte o a un unico paese, ma a una struttura interdipendente che si estendeva su diverse nazioni. Le evidenti tensioni prodotte dalla coesistenza di interessi locali con una prospettiva internazionale rivelano una Royal Society stretta tra due esigenze intimamente collegate e nello stesso tempo in conflitto tra loro: rafforzare la propria autorità come istituzione a carattere nazionale e promuovere nel contempo lo sviluppo di reti di rapporti su scala internazionale. L'associazione non cercò di rafforzare la propria indipendenza, bensì di realizzare nuove forme di stretta interdipendenza che fossero ancora in grado di salvaguardare la distinzione individuale attraverso processi di mutua dipendenza, fondati su quegli stessi codici che regolavano i rapporti interni alla corte. A differenza del sovrano assoluto, che incarnava il potere della struttura sociale circostante, Oldenburg si limitò a gestire l'autorità della rete di rapporti che aveva al centro la Royal Society.
Tuttavia, egli fece suo il ruolo del principe, allorché si occupò efficacemente di sviluppare le regole che i membri della Royal Society dovevano seguire nella sua delicata fase iniziale. Fu Oldenburg che, nell'esercitare le proprie funzioni redazionali, decise come e quando promuovere i suoi corrispondenti ad autori delle "Philosophical Transactions", assumendo così una funzione strutturalmente analoga a quella esercitata dal principe quando distribuiva fra i sudditi segni di distinzione.
Il passaggio dal mecenatismo alla corporazione di scienziati tra loro interdipendenti e che si autolegittimano non fu un processo lineare. Nel XVII sec., solo la Royal Society riuscì ad avvicinarsi a quel modello, ottenendo lo statuto formale di corporazione. Per molti decenni fu l'unica istituzione a certificare la paternità scientifica dei saggi che ricevevano il proprio imprimatur all'atto della pubblicazione. Come si vedrà in seguito, altre accademie ‒ come l'Accademia del Cimento e l'Académie des Sciences ‒ ebbero analoghe strutture ibride che servivano a legittimare e certificare la scientificità delle opere. Mentre queste accademie continentali si rivolgevano a una comunità filosofica internazionale più ampia, per alcuni decenni il principe continuò a rappresentare la fonte diretta di legittimazione, come avveniva precedentemente nel quadro del mecenatismo regio. Si potrebbe dire che inizialmente il riconoscimento che questi studiosi ricevevano dal mondo della cultura non ne faceva dei veri e propri autori, ma tendeva piuttosto a essere tradotto per così dire in capitale culturale a vantaggio del loro principe-mecenate. Nel complesso questi accademici restavano sudditi del loro principe e la grande visibilità internazionale di alcuni tra essi, come per esempio Huygens o Cassini, accresceva tanto il loro prestigio quanto quello dei loro protettori. Di conseguenza, più che allo sviluppo e alla gestione di una vasta comunità di studiosi tra loro interdipendenti, l'organizzazione dell'accademia era finalizzata alla conservazione o alla salvaguardia della posizione sociale del loro protettore.
Se con l'andare del tempo le accademie scientifiche riuscirono a sostituire il principe in quanto nodi centrali di reti di interdipendenza e di legittimazione, questo processo non fu né in opposizione alla logica del potere principesco, né esterno a essa. A contribuire al cambiamento fu invece proprio l'emergere di accademie, sorte grazie al sostegno dei principi, in grado di far articolare all'interno di quelle stesse strutture nuove forme di relazioni sociali.
In generale, quanto più la produzione e la legittimazione delle scoperte dell'accademia erano rappresentate come dipendenti dal principe, tanto più gli studiosi tendevano ad avere un contegno 'educato' e a figurare come sudditi anziché come autori. In modo corrispondente, una 'distanza' relativamente grande fra studiosi e principi, o una relativa debolezza del potere del principe, permetteva agli studiosi di rappresentarsi come autori invece che come sudditi. Tuttavia vi erano dei limiti alla distanza dal principe oltre i quali non era consentito spingersi se non si voleva mettere a rischio la legittimazione sia dello scienziato sia delle sue teorie. Un'uscita definitiva dal sistema, infatti, non avrebbe condotto alla libertà, ma al sovvertimento delle condizioni che rendevano possibile la produzione di nuove forme di interdipendenza messe in atto dai filosofi naturali.
di Mario Biagioli
L'Accademia del Cimento offre un esempio dei problemi legati alle forme di interrelazione sociale posti dalla diretta partecipazione del principe alle attività dell'accademia, istituzione in cui gli studiosi lavoravano a stretto contatto con la fonte stessa del potere. Il Cimento ‒ considerato la prima accademia di scienze sperimentali d'Europa ‒ si riunì nel decennio compreso tra il 1657 e il 1667 alla corte di Firenze intorno al principe Leopoldo de' Medici (1617-1675), fratello minore di Ferdinando II, granduca di Toscana. Leopoldo convocava l'Accademia a sua totale discrezione, stabiliva l'ordine del giorno degli esperimenti, comprava in prima persona gli strumenti e chiamava tra i suoi accademici matematici e filosofi già alle dipendenze dei Medici. L'Accademia non ricevette mai un riconoscimento formale. Le riunioni cominciarono intorno al 1657, ma dopo il 1662 subirono un rallentamento per poi interrompersi definitivamente dopo il 1667, anno in cui Leopoldo fu nominato cardinale. Il nome stesso di 'Accademia del Cimento' fu ideato a posteriori, in occasione della pubblicazione nel 1667 dei Saggi di naturali esperienze fatte nell'Accademia del Cimento ‒ un libro che offre una selezione degli esperimenti condotti presso l'ormai scomparsa Accademia.
Leopoldo, un principe cadetto con poche speranze di diventare granduca, si assunse l'onere di celebrare la casata dei Medici come grande mecenate della scienza europea e di legare il nome dell'Accademia del Cimento alla tradizione di due scienziati, Galileo Galilei ed Evangelista Torricelli, che in passato avevano operato presso la corte medicea. Gran parte del lavoro svolto presso l'Accademia fu condotto focalizzando l'attenzione sulla meccanica galileiana (a parte, naturalmente, la sua controversa astronomia) e sui primi fondamentali esperimenti di Torricelli sul vuoto. In pratica, Leopoldo volle presentare i Medici come la punta di diamante della scienza europea. Anche la sua attività quale promotore dell'arte fiorentina (cioè medicea) era volta al raggiungimento di obiettivi e strategie analoghi, come dimostra il suo patrocinio della monumentale opera in sei volumi di Filippo Baldinucci (Notizie de' professori del disegno, 1681-1728), nonché dell'indispensabile aggiornamento delle Vite de' più eccellenti pittori scultori et architettori (1550) del Vasari: una mossa mirata a far assurgere Firenze a capitale dell'arte europea.
Forse a ostacolare il riconoscimento ufficiale dell'Accademia del Cimento fu proprio il coinvolgimento diretto di Leopoldo nell'attività dell'istituzione: un principe del suo rango rischiava di rovinare la propria immagine lavorando al fianco dei propri sudditi (molti dei quali di umili origini) in un contesto professionale ufficiale. Tale partecipazione poteva tuttavia essere giustificata presentando l'Accademia come una sorta di passatempo, ossia come un'attività in cui i codici di comportamento erano piuttosto informali. Analoghe preoccupazioni si nascondono dietro la pubblica presentazione del lavoro dell'Accademia, riportato nei Saggi di naturali esperienze: in tale occasione, Leopoldo preferì apparire più come un supervisore che non come partecipante attivo quale effettivamente fu in molte occasioni.
Allo stesso modo, ai membri del Cimento non era consentito esibire la propria associazione all'Accademia con titoli quale 'accademico del Cimento'. Questi non potevano divenire accademici, cioè membri di un'associazione ufficiale, perché la posizione di Leopoldo imponeva loro di apparire come una sorta di suoi 'servitori scientifici', agenti della celebrazione della scienza medicea. Il programma encomiastico di Leopoldo traspare anche dal modo in cui procedette alla distribuzione dei Saggi che non furono mai commercializzati, né resi facilmente accessibili alla comunità scientifica. Questo volume, elegantemente illustrato, pensato per magnificare la ricca tradizione della scienza medicea attraverso una selezione degli esperimenti effettuati presso l'Accademia, solitamente veniva dato in omaggio come una sorta di libro da esposizione, a principi e aristocratici europei.
L'Accademia si impegnò a seguire il metodo sperimentale, basato sulla descrizione degli effetti prodotti attraverso esperimenti più che sull'individuazione delle loro cause prime. Talora i Saggi riportavano interpretazioni e ipotesi che si spingevano al di là della pura descrizione, ma non si trattava di componenti essenziali del testo, bensì di artifici volti a favorire "il passaggio da un esperimento all'altro" ed esplicitamente indicati come "idea od opinione di singoli accademici, ma mai dell'Accademia in quanto tale, il cui unico fine è effettuare esperimenti e descriverli" (Saggi di naturali esperienze, Prologo). Questa prudenza non era solo il risultato del desiderio di Leopoldo di evitare possibili conflitti, come quelli di Galilei con i teologi, ma rifletteva le buone maniere filosofiche cui era legato dal proprio rango. Imponendo ai suoi sudditi di fare e descrivere esperimenti anziché di ricercarne le cause, Leopoldo si assicurava che l'attività del Cimento non suscitasse controversie potenzialmente dannose per il suo prestigio. Questo obiettivo è espresso esplicitamente nel prologo ai Saggi dove si afferma che "prima di ogni cosa dobbiamo in ogni modo evitare scontri con chiunque partecipando a cavillose polemiche o a dibattiti su questioni controverse" (ibidem).
La premura con cui Leopoldo fece replicare numerose volte l'esperimento di Torricelli sul vuoto e la minuziosa descrizione contenuta nei Saggi sono una chiara dimostrazione della sua prudenza. L'esistenza del vuoto era una questione estremamente controversa che si scontrava con gli assunti fondamentali tanto della filosofia aristotelica, quanto di quella cartesiana. Michelangelo Ricci, un matematico romano poi nominato cardinale, essendo estremamente attento alle convenzioni, avvertì Leopoldo del polverone che la discussione sul vuoto contenuta nei Saggi rischiava di sollevare, con il conseguente relativo imbarazzo per il principe che aveva esplicitamente sostenuto l'Accademia. Pur condividendo le preoccupazioni di Ricci, Leopoldo desiderava rivendicare per Torricelli (e dunque per i Medici) la paternità di quella scoperta, che nel frattempo, dopo il primo esperimento del 1643, era stata ampiamente riprodotta e discussa in tutta Europa. Alla fine si venne a trovare in una situazione delicata: poteva affermare l'esistenza del vuoto, aumentando il prestigio dei Medici per aver sostenuto una scoperta di tale importanza; o, al contrario, poteva optare per una rivendicazione più cauta, offrendo alla casata meno prestigio ma provocando anche meno guai.
La volontà di Leopoldo di evitare polemiche imbarazzanti finì con il prevalere sull'ambizione, e l'Accademia si limitò a rivendicare il primato di Torricelli sull'esperimento, ma non sulla scoperta del vuoto. Mentre i Saggi riportavano che nel cilindro di Torricelli si era rilevato uno spazio 'vuoto di aria', si ammetteva nello stesso tempo che in tale spazio poteva aver trovato posto qualcos'altro. Tra l'altro nei Saggi si faceva molta attenzione a impiegare il termine 'vuoto' sempre come aggettivo e mai come sostantivo. Infine la scoperta del vuoto da parte di Torricelli fu annunciata soltanto in un opuscolo pubblicato 'privatamente' dallo studioso mediceo Carlo Roberto Dati, il quale, anch'egli molto prudente, non nominava mai l'Accademia e si firmava come 'Timauro Antiate'. La preoccupazione di Leopoldo di evitare le teorie che potessero scatenare dispute non era però condivisa da tutti i suoi accademici. Giovanni Alfonso Borelli, per esempio, pensava che la prudenza del principe ostacolasse la possibilità dell'Accademia di realizzare importanti scoperte.
Nei Saggi, Leopoldo si preoccupava anche di offrire un'immagine del Cimento quale istituzione in cui regnava la concordia, sottolineando come la sua attività fosse sempre proceduta tranquillamente e al riparo da controversie intestine. Il libro non menziona le forti tensioni e i disaccordi (talvolta conditi di insulti coloriti) che si evincono invece dalla corrispondenza privata sia degli accademici sia del principe stesso e neppure nomina alcuno dei membri dell'associazione. L'unica voce che si incontra nei Saggi è quella del segretario redattore del volume, del quale, però, non viene mai citato il nome. Allo stesso modo, nella Relation de l'eclipse horizontale de Lune observée en l'Isle de Gorgone le 26 juin 1666 par l'ordre du sérenissime prince Léopold, pubblicata sul "Journal des Sçavans", non si fa parola né dell'Accademia come organismo ufficiale, né dei nomi degli accademici inviati dal principe sull'isola e in due altre località della Toscana. Sottolineando il fatto che la spedizione rispondeva ai desideri (e alle risorse economiche) del principe, la relazione ne presentava implicitamente Leopoldo come l''autore'. La paternità delle osservazioni da parte degli accademici passò sotto silenzio (o 'isolata') poiché si trattava di persone troppo vicine al principe.
Diversamente dalla Royal Society, che si impegnò soprattutto a certificare la conoscenza tramite la testimonianza collettiva, la credibilità dei risultati del Cimento era garantita dal fatto che a certificarli era implicitamente una personalità quale Leopoldo. Come affermò nel 1668 il presidente della Royal Society lord William Brouncker: "non si può dubitare dell'attendibilità dei risultati e della loro trasparenza dal momento che sono stati esaminati con l'aiuto e il patrocinio di un principe tanto grande, splendido e saggio" ("Journal des Sçavans", 1669, p. 519). Nonostante Leopoldo non fosse mai menzionato in quanto partecipante diretto o testimone degli esperimenti, la sua dissimulata ma nondimeno reale presenza dispensava i Saggi (o la relazione della spedizione sulla Gorgona) dal dover riportare i nomi dei testimoni e di coloro che avevano preso parte direttamente all'esperimento o di fornire una dettagliata relazione sugli esperimenti proposti da Boyle e dalla Royal Society, una pratica che gli scienziati di rango inferiore dovevano seguire per meritarsi il riconoscimento dei propri pari. Infine, dato che i Saggi non facevano il nome di alcun accademico in particolare, il merito per il lavoro dell'Accademia ricadde inevitabilmente sul principe. Leopoldo divenne così l'autore in absentia, accrescendo la propria distinzione senza metterla in pericolo.
di Mario Biagioli
La fondazione da parte di Luigi XIV, nel 1666, di quella che divenne nota come Académie Royale des Sciences fu un grande gesto di mecenatismo, perfettamente consono alla rappresentazione del potere del Re Sole. Questi non favorì una disciplina particolare o un gruppo di studiosi, ma, con un gesto di noblesse oblige, prese sotto tutela tutte quante le scienze naturali, dando un'immagine di sé come del conquistatore di un altro regno, quello della cultura.
L'attiva partecipazione all'accademia di un sovrano che si autorappresentava come il Re Sole ‒ dunque ben più potente di Leopoldo de' Medici ‒ sarebbe stata percepita come una messa in discussione dei comuni codici di comportamento. Il potere di Luigi XIV era troppo forte perché potesse essere isolato all'interno di un'accademia scientifica, un ambiente cioè in cui i conflitti tra studiosi erano potenzialmente sempre presenti. Inoltre, diversamente da Leopoldo che poteva distinguersi celebrando la storia del mecenatismo mediceo in favore di famosi scienziati italiani, Luigi XIV non aveva alle spalle una tradizione scientifica da celebrare e, probabilmente, considerò l'Académie come un semplice gioiello da aggiungere alla già ricca collezione di accademie reali. Luigi XIV infatti non partecipò mai all'attività dell'associazione scientifica, limitandosi a visitare brevemente la Bibliothèque du Roi nel 1681 e l'Observatoire nel 1682. Entrambe le visite ebbero un carattere meramente formale: il re fu condotto nelle diverse sale e gli venne presentata una rapida serie di semplici dimostrazioni scientifiche. Si trattasse di protocolli di corte o di esperimenti, davanti al Re Sole non erano ammessi errori.
A differenza di Leopoldo, che partecipava alla vita della sua Accademia ed era testimone dei risultati conseguiti ‒ benché il suo coinvolgimento venisse sempre accuratamente nascosto nella presentazione pubblica del Cimento contenuta nei Saggi ‒ Luigi, forse proprio a causa del suo alto rango, non fece mai da garante dell'Académie. Quando, nel corso delle sue visite, assisteva al lavoro degli accademici, egli non era che un semplice spettatore di esperimenti già avvenuti e non un testimone diretto coinvolto nel processo di produzione del sapere. Allo stesso modo, quando Luigi XIV assisteva a sedute scientifiche operative, come per esempio la dissezione di animali esotici a Versailles, questi eventi erano presentati più come spettacoli che come vere e proprie sessioni di ricerca. Inoltre tali dissezioni non avevano luogo nei locali dell'Académie, ma nella residenza del re, ossia nel suo spazio 'privato'. Non era il re che si recava all'Académie, ma gli accademici che, convocati dal loro principe, andavano nella sua residenza con lo scopo di intrattenerlo: uno scenario che pare riflettere gli stessi codici grazie ai quali gli assistenti di Boyle e i costruttori dei suoi strumenti potevano rendergli visita e lavorare presso di lui, ma che impedivano a Boyle, in quanto aristocratico, di andare a trovare i suoi assistenti nel loro laboratorio.
Quindi un nobile come Boyle poteva figurare quale autore facendo apparire il proprio nome in calce alle sue pubblicazioni e mostrarsi intento a lavorare circondato dai suoi assistenti, mentre un principe come Leopoldo era costretto a nascondere pubblicamente il proprio coinvolgimento e poteva qualificarsi come autore soltanto in absentia. Luigi XIV, invece, che dei tre era di gran lunga il più potente, giunse fino a non apparire nel processo di ricerca (e non solo nel testo come aveva fatto Leopoldo), ma ciononostante, continuava a legittimare a distanza il lavoro dei suoi accademici in forza del suo maggior potere.
Sempre a causa dell'alto rango, Luigi tese a dare ai suoi rapporti con gli accademici una connotazione ambigua, in qualche modo paragonabile alla caratterizzazione 'informale' adottata dal Cimento come effetto del coinvolgimento di Leopoldo. Fino al 1699, per esempio, l'Académie presentava molte delle caratteristiche private e, in qualche misura, segrete dell'Accademia di Leopoldo: essa tendeva a cancellare la paternità dei singoli autori, non aveva statuti e canoni espliciti che regolassero le attività e, per qualche tempo, non ebbe neppure un nome ufficiale. Un'aura di segretezza circondava le attività e i visitatori erano ammessi molto raramente alle riunioni dell'Académie.
Se era possibile visitare l'Observatoire, la curiosità degli studiosi che cercavano di ottenere informazioni sul funzionamento interno dell'Académie rimaneva inappagata. Inizialmente la comunicazione ufficiale con il mondo della cultura o con altre associazioni di studiosi fu molto limitata. Alcuni accademici trovavano questa situazione frustrante ‒ come già prima di loro i membri dell'Accademia del Cimento ‒, perché la paternità delle scoperte non aveva la possibilità di essere riconosciuta dalla più ampia comunità filosofica.
Tra il 1666 e il 1669 l'Académie si riunì regolarmente e pubblicò libri, ma di fatto non godette di un'esistenza ufficiale. Gli statuti ufficiali dell'associazione furono redatti nel 1669, ma vennero integrati dall'autorizzazione reale soltanto nel 1713. Nel 1666 Luigi XIV si limitò ad approvare il verbale relativo al progetto di accademia che il ministro Colbert aveva elaborato. Questo modello di 'informalità', simile a quello che abbiamo trovato nell'Accademia del Cimento, si estese anche alla natura dei luoghi in cui gli accademici si riunivano: in un primo tempo si trattò di uno spazio privato (la biblioteca di Colbert), poi le riunioni si trasferirono in un luogo semiufficiale (la Bibliothèque du Roi), tuttavia fu soltanto dopo la formalizzazione del 1699 che l'Académie si spostò al Louvre e cominciò a tenere, due volte l'anno, assemblee aperte al pubblico.
L'evoluzione nel modo di affrontare questioni come le pubblicazioni e la paternità di teorie e scoperte riflette la lenta ma costante espressione di canoni di interdipendenza interna prodotti dall'Académie. Fino al 1699, infatti, essa non fu una corporazione ma, nel migliore dei casi, un organismo consultivo amministrato dal re attraverso Colbert e i suoi successori. I vari surintendants (che non erano scienziati) agirono più come direttori effettivi dell'Académie che come intermediari fra questa e il re. Per di più, la mancanza di canoni ben definiti per la regolamentazione delle attività quotidiane finiva per accentuare il potere del surintendant. Come nel caso di Leopoldo con il Cimento, furono Colbert e i suoi successori ad avere sempre l'ultima parola sul destino di pubblicazioni e programmi di ricerca, ad assegnare i compiti, a giudicare su lamentele e controversie e, in genere, a fissare il piano di lavoro. Alla morte di un surintendant, l'Académie veniva investita da gravi crisi non dissimili da quelle che colpivano i singoli 'clienti' alla morte del loro protettore. La questione della paternità fu affrontata ufficialmente nel 1688, ma venne formalizzata solo nel 1699, cioè, appunto, dopo che l'Académie era diventata un'istituzione ufficiale. Nei suoi primi decenni di vita vigeva invece l'attribuzione collettiva della paternità di tutte le pubblicazioni ufficiali, sulle quali, peraltro, i ministri di Luigi si riservavano un controllo diretto "per salvaguardare la reputazione dell'associazione".
Diversamente dalla Royal Society, l'Académie non poteva pubblicare con il proprio imprimatur editoriale. Gli accademici avevano accesso a organi di pubblicazione meno ufficiali (o stranieri), ma anche la forma di queste comunicazioni rifletteva le tensioni intorno alla questione della paternità di scritti e opere. Per esempio, i brevi resoconti del lavoro dell'Académie (solitamente non più di qualche pagina) che venivano pubblicati sul "Journal des Sçavans" tendevano a essere presentati più come recensioni che come relazioni ufficiali, ed è curioso notare che tali recensioni non si riferivano all'Académie des Sciences in quanto organismo ufficiale, ma si limitavano ad affermare che il lavoro era stato effettuato o presentato presso la Bibliothèque du Roi da un'assemblée che si riuniva in quella sede. Inoltre, all'inizio, le comunicazioni inviate dagli accademici al "Journal des Sçavans" venivano pubblicate senza che gli autori fossero presentati nella loro veste di membri dell'Académie. Questa volontà di evitare l'ufficializzazione dell'Académie colpisce ancor più se si tiene presente che a dirigere il "Journal des Sçavans" Colbert aveva chiamato Jean Gallois, accademico fin dal 1668, e che quindi non sembravano sussistere ostacoli pratici per fare della rivista il tramite ufficiale fra l'Académie e il più ampio mondo della cultura. Il fatto che ciò non accadesse indica, in modo non sorprendente, che la prudenza del sovrano prevalse sul desiderio di prestigio personale e distinzione professionale degli accademici.
Come nel caso del Cimento, nel periodo 'informale' dell'Académie il re condivideva il prestigio prodotto dal lavoro dei suoi 'agenti'. Avvenne in modo particolarmente evidente quando, nel 1686, venne coniata la medaglia celebrativa della scoperta dei nuovi satelliti di Saturno a opera di Gian Domenico Cassini. Da nessuna parte sulla moneta si trova il nome dell'astronomo, e l'incisione si limita a un generico 'v. Saturni satellites primum cogniti'. Il fatto che il nome di Cassini non figurasse non era segno di un'ingiustizia del re nei suoi confronti, bensì un atto di noblesse oblige di Luigi nei confronti di sé stesso. Come nel Cimento, un accostamento diretto al principe avrebbe fatalmente provocato un declassamento dell'autore della scoperta. Era come dire che il lavoro di Cassini non rappresentava un contributo sufficiente per la gloria di Luigi. L'iscrizione sulla medaglia suggerisce invece che era il re a onorare la scoperta concedendole di essere annoverata tra "gli eventi rilevanti del regno di Sua Maestà", attraverso l'emissione dell'oggetto celebrativo.
I limiti nella paternità delle opere, imposta ai membri dell'Académie nei primi decenni di vita, riflette forse quelle stesse preoccupazioni del principe, che nel Cimento si erano tradotte nel silenzio ufficiale sugli accademici e sulla loro attività. Il nome degli studiosi di Luigi era citato nei contributi collettivi, mentre i contributi individuali figuravano, almeno all'inizio, come prodotto del lavoro dell'Académie. Nel Cimento, questa politica del silenzio sull'identità degli autori fu ancora più rigorosa, probabilmente perché Leopoldo ebbe, rispetto a Luigi, un coinvolgimento più diretto nella sua Accademia. In breve, la prassi dell'attribuzione collettiva, che caratterizza la prima fase dell'Académie, probabilmente non è soltanto il riflesso di un''etica' baconiana del lavoro collettivo, ma costituisce una forma di 'anonimato parziale' mirato a creare una 'funzione d'autore' sufficientemente ambigua da permettere una ricaduta del prestigio che ne derivava indistintamente sul re e sugli accademici. Si tendeva a non menzionare gli accademici come autori di singoli libri, ma le loro figure restavano visibili in quanto istituzione regia: il re ne otteneva prestigio perché la conoscenza che in quelle opere si concretizzava era il prodotto dell'accademia che egli patrocinava e legittimava. Insomma, anche se gli accademici non erano lasciati senza un nome (come lo erano nei Saggi dell'Accademia del Cimento), erano comunque ancora presentati come sudditi del principe.
Non sono queste le uniche analogie con il Cimento. Come i Saggi, le prime pubblicazioni dell'Académie non erano indirizzate ai rappresentanti del mondo della cultura (che raramente riuscivano a procurarsele). Si trattava di grandi ed eleganti pubblicazioni in folio, spesso riccamente illustrate e stampate dall'Imprimerie Royale su grand papier, volte a celebrare la gloria di Luigi agli occhi degli altri principi. Nei primi decenni, dunque, lo status di membro dell'Académie restò piuttosto vago, non diversamente da quanto abbiamo visto a proposito dell'Accademia di Leopoldo. L'Académie cercò di presentarsi come priva di controversie interne, benché la documentazione dimostri ampiamente il contrario. Quando i disaccordi diventavano pubblici ‒ come nel caso del dibattito sulla sede della facoltà visiva che vide coinvolti Edme Mariotte, Jean Pecquet e Claude Perrault tra il 1668 e il 1676 ‒, Bernard Le Bovier de Fontenelle pensava a riscrivere opportunamente la storia, presentando una disputa "bellissima" caratterizzata da "infinite riflessioni fini e intelligenti, con grande puntualità di dettagli", che esprimevano "tutte le sfumature del dibattito". Infine, proprio come il Cimento, anche l'Académie fu assai attenta a non adottare linee d'indagine e metodologie controverse, ma si attenne a un'epistemologia strumentale perfettamente consona alla ragion di Stato. Sappiamo da fonti documentarie che Luigi intervenne direttamente su tale questione. Un certo scetticismo nei confronti dei sistemi filosofici e delle argomentazioni metafisiche (quando non la loro netta condanna) restò un elemento fondamentale dell'Académie: le analisi sulle cause prime furono bandite, l'eclettismo dominava e l'orientamento metodologico generale, secondo la definizione di Roger Hahn, tese a configurarsi come una sorta di "positivismo fenomenologico".
Diversamente dal Cimento, che mise fine alle riunioni intorno al 1667, a soli dieci anni dall'inizio dell'attività, la continuità dell'Académie le permise di trasformarsi lentamente in un'istituzione, cioè in una struttura in cui i membri erano legati tra di loro da una maggiore interdipendenza, come stabilito nel 1699 dagli statuti che ne regolavano l'attività interna. I membri del Cimento non furono mai in grado (né ebbero mai il tempo) di organizzarsi secondo tale struttura a causa della vicinanza e del coinvolgimento diretto e continuo di Leopoldo. Dal canto suo invece, mentre cercava una forma di autoregolamentazione, l'Académie arrivò a ricoprire un ruolo centrale all'interno del mondo della cultura. Se inizialmente il suo status era dipeso interamente dal principe, nel 1699 essa aveva già prodotto una quantità di tesi, aveva pubblicato rapporti ufficiali della propria attività (benché solo per due anni, nel 1692 e nel 1693) e aveva sviluppato reti di corrispondenza con studiosi di altri paesi.
Retrospettivamente, l'isolamento iniziale dell'Académie dal mondo della cultura appare non tanto un ostacolo quanto un produttivo "tirocinio". Infatti, a differenza dell'Inghilterra in cui i codici di comportamento non entravano direttamente in contrasto con le abitudini sociali proprie della filosofia sperimentale, in Francia questi canoni erano in conflitto con approcci più tecnici o sperimentali alla filosofia naturale.
L'iniziale isolamento dell'Académie des Sciences dalla più ampia società delle buone maniere potrebbe aver consentito al re di tenere al sicuro i propri scienziati potenzialmente "maleducati", mentre di fatto forniva loro uno spazio sociale protetto (e pur tuttavia legittimo) nel quale dedicarsi a pratiche più professionali e sperimentali che, a partire dal 1699, sarebbero stati in grado di adottare pubblicamente. A quel punto, l'Académie poté stabilire le differenze fra i propri codici e le regole formali della conversazione delle prime accademie filosofiche private. Come affermò il presidente, l'abate Jean-Paul Bignon durante la prima assemblea pubblica dell'Académie, "basta che una verità sia utile, perché [l'accademia] sappia divulgarla in modo interessante". E il segretario dell'istituzione Fontenelle gli fece eco: "Si era convenuto che le riunioni dell'accademia assumessero una forma alquanto diversa dalle discussioni pubbliche di filosofia, dove l'obiettivo non è di portare alla luce la verità, ma solo di non essere ridotti al silenzio. Qui desideriamo che tutto sia semplice, calmo, senza grandi ostentazioni di ingegno e conoscenza" (Histoire du renouvellement de l'Académie royale des sciences, I, p. 16).
di Mario Biagioli
L'iniziale incapacità dell'Académie di provvedere alla pubblicazione dei propri Mémoires e di entrare così in modo più rapido e fermo a far parte della comunità scientifica internazionale fu la conseguenza del suo status di istituzione regia e del tentativo di salvaguardarne l'onore. Martin Lister, un membro della Royal Society, riferì che il marchese Guillaume-François de L'Hôpital, un accademico conosciuto nel 1698 a Parigi, gli aveva confidato che "non riuscivano a portare avanti la pubblicazione mensile dei Mémoires, come avevano fatto per due anni, perché i membri dell'accademia erano troppo pochi e avevano scarsissimi contatti con l'esterno" (A journey to Paris, p. 78). A questa situazione Lister contrapponeva le difficoltà del defunto Henry Oldenburg, che era riuscito a gestire la vasta rete di corrispondenti della Royal Society proprio perché era così ampia. Come Oldenburg aveva spiegato a Lister, il trucco consisteva nell'usare "una lettera per rispondere a un'altra" (ibidem). Le "Philosophical Transactions" erano una reazione a catena (di pubblicazioni e di prestigio) che si autoalimentava e che Oldenburg doveva solo tenere sotto controllo.
Il Cimento e l'Académie tesero in generale a cancellare l'individualità dell'autore ed entrambe restarono non strutturate al loro interno e relativamente isolate dal mondo della cultura. La comunicazione con l'esterno rimase limitata, almeno nel periodo iniziale, sia perché non era indispensabile alla legittimazione del lavoro delle accademie (garantita essenzialmente dal rango dei loro principi), sia perché, essendo legate direttamente a un principe, i canoni di comunicazione esterna (come del resto qualsiasi forma di interazione diplomatica) erano vincolati al prestigio e al potere del principe stesso.
Una maggiore distanza relativa fra l'accademia e il principe (come nel caso della Royal Society) non permise solo il riconoscimento della paternità individuale dei risultati scientifici. Il fatto che il ruolo del principe nella legittimazione dell'opera degli accademici fosse meno determinante diede ai membri dell'associazione la possibilità di elaborare canoni istituzionali grazie ai quali legittimare il proprio lavoro in virtù della loro reciproca interdipendenza più che in rapporto alla dipendenza dal principe. All'origine dello sviluppo della rete di corrispondenti della Royal Society vi sono le stesse difficoltà. Poiché l'accademia inglese aveva bisogno di 'colonizzare' il mondo della cultura, o di contribuire alla sua costruzione in modo che questo potesse accogliere la colonizzazione, essa potrebbe essersi ramificata con lo scopo di compensare il potere che non le veniva da parte del principe.
A rendere tale ramificazione non solo necessaria ma anche possibile fu proprio la relativa distanza della Royal Society dal principe. La sua limitata connotazione ufficiale e il relativamente debole controllo del principe sulla sua corrispondenza (tranne nei casi in cui erano coinvolte negli scambi questioni di sicurezza nazionale) garantirono infatti a Oldenburg una libertà d'azione maggiore nella comunicazione con l'esterno. Per esempio, lo status ambiguo delle "Philosophical Transactions" ‒ di fatto organo della Royal Society, ma presentate ufficialmente come un'iniziativa personale di Oldenburg ‒ e la pretesa natura privata della corrispondenza di quest'ultimo, diedero alla rivista uno spazio di manovra di cui non avrebbe potuto godere se fosse stata l'organo ufficiale della Royal Society, o se Oldenburg si fosse presentato come suo portavoce ufficiale. Se il sovrano avesse intrattenuto con l'accademia rapporti stretti, sarebbe stato difficile mantenere quell'ambigua posizione. Il "Journal des Sçavans", a differenza delle "Philosophical Transactions", non riuscì mai a sviluppare con l'Académie legami neanche pseudoufficiali, benché condividesse con l'istituzione il direttore e gli autori di molti saggi.
Le diverse strutture narrative delle relazioni sperimentali pubblicate dall'Académie des Sciences e dalla Royal Society, esaminate da Christian Licoppe (1994), riflettono i diversi gradi di coinvolgimento dei principi in queste istituzioni. Licoppe ha mostrato come i resoconti delle prime riunioni dell'Académie non adottassero una forma narrativa volta a indurre il lettore a condividere le tesi di chi scriveva, producendo così quel tipo di "testimonianza virtuale" invocata da Robert Boyle, e solitamente adottata dalle "Philosophical Transactions". Questi resoconti non sembrava volessero indurre il lettore a sentirsi testimone diretto dell'esperimento, quasi vedesse con i propri occhi, fornendo una descrizione estremamente dettagliata delle circostanze sperimentali, né in genere indicavano il nome dell'autore dell'esperimento o dell'osservazione. Piuttosto i resoconti ‒ che tendevano ad adottare la struttura "X ha fatto e X ha visto", dove X in genere non era un nome di persona ma un pronome ‒ sembrava riflettessero la fiducia dell'Académie nella propria autorevolezza come espressione della voce collettiva che derivava dall'essere un'istituzione regia composta di esperti selezionati. La posizione che emerge dalle relazioni sugli esperimenti è agli antipodi rispetto alla tendenza della Royal Society di non dare per scontata la propria autorevolezza in quanto istituzione, ma di alimentarla e mantenerla attraverso il consenso dei membri interni e dei corrispondenti alle relazioni lette nel corso delle riunioni o pubblicate sulle "Philosophical Transactions".
Pur condividendo l'analisi di Licoppe circa il tono, la struttura e l'evidente mancanza di sensibilità verso il lettore dei resoconti dell'Académie, è legittimo supporre che quella che Licoppe interpreta come un'affermazione di autorevolezza sia invece un segno di impotenza. Come abbiamo già ricordato, nello scrivere questi resoconti l'Académie non apriva ufficialmente le proprie teorie a un confronto con il mondo della cultura. Si trattava di relazioni a uso interno, vale a dire destinate proprio a chi le aveva scritte. All'Académie non interessava creare un effetto di 'testimonianza virtuale' nei lettori, e questo non tanto perché non ne avesse bisogno, quanto perché la sua dipendenza dal principe e il controllo che quest'ultimo esercitava sul lavoro degli scienziati rendevano difficile l'instaurarsi di un dialogo con il pubblico esterno. D'altra parte, dato il relativo coinvolgimento del principe nell'istituzione, le relazioni sperimentali della Royal Society potevano, per non dire dovevano, oltrepassare i confini dell'accademia per permetterle di conquistarsi quell'autorevolezza che non riceveva direttamente dal principe. In un certo senso, i resoconti dell'Académie incarnavano l'autorità del principe e proprio per questo non potevano oltrepassare lo spazio di protezione dell'accademia, poiché non c'erano ancora regole che potessero gestire quel passaggio e le contestazioni che ne sarebbero potute derivare causando grave imbarazzo. L'Académie godeva di autorità all'interno del proprio ambito reale, ma non riusciva facilmente a proiettare all'esterno il suo prestigio. Come avveniva per il monarca che ne legittimava la credibilità e la rilevanza, anche nel caso dell'Académie potere e fragilità procedevano di pari passo.
Nel primo riconoscimento ufficiale che Carlo II concesse alla Royal Society nel 1662, si diceva: "Guardiamo con favore a tutte le forme di sapere, ma è con particolare piacere che incoraggiamo gli studi filosofici, in particolare quelli che, attraverso veri e propri esperimenti tentano o di dar forma a una nuova filosofia, o di perfezionare quella vecchia" (The record of the Royal Society, p. 226). L'enfasi posta dalla Royal Society sulle pratiche sperimentali e sulla chiarezza espositiva delle relazioni sugli esperimenti, che avrebbe potuto essere fonte di problemi nel gran numero di accademie continentali inclini al modello della conversazione, rifletteva il contesto politico inglese e i modi in cui quel regime politico strutturava i rapporti tra società civile e principe. Carlo II non era un Re Sole e la monarchia inglese non aveva le caratteristiche tipiche dell'assolutismo. Poiché il potere del principe non costituiva la loro principale fonte di legittimazione, i filosofi naturali non si preoccupavano in particolar modo che le proprie attività fossero in sintonia con esso. La fonte della legittimazione sociocognitiva perseguita dagli studiosi della Royal Society era data dalla posizione sociale e dall'immagine del gentiluomo più che dal prestigio del sovrano assoluto. Il re non rese mai visita all'accademia, ma spesso si intrattenne a discutere di filosofia naturale con numerosi membri della Royal Society. Nella Relation d'un voyage en Angleterre del 1664, il segretario dell'Accademia di Montmor Samuel Sorbière non nascose la sua sorpresa nello scoprire Sir Robert Moray ‒ eminente uomo di corte, membro della Royal Society ‒ intento ad approntare i propri strumenti in un luogo pubblico:
È stato incredibile, anzi, edificante, vedere una persona solitamente dedita agli affari di Stato e di tale eccellenza, uno che ha passato la gran parte della propria vita al comando militare e a impegni di governo, adoperarsi a costruire macchine e a regolare telescopi a St. James Park. E lo abbiamo visto fare tutto ciò con grande impegno, suscitando senza dubbio grandi perplessità tra molti uomini di corte, i quali non si interessano di stelle, e ritengono anzi disonorevole occuparsi di alcunché, se non d'inventare nuove mode. (p. 57)
Sorbière esprimeva il suo stupore per la natura anomala della monarchia inglese e osservava che "poiché la corte d'Inghilterra non è grande quanto la nostra, l'accesso al principe è più facile", e che "il re deve intrattenere rapporti buoni con l'aristocrazia e la piccola nobiltà per poterne conservare la lealtà e la stima, e queste ultime devono usare lo stesso riguardo nei confronti dei mercanti" (ibidem, pp. 93-94): uno scenario profondamente diverso dalla realtà francese. Da buon suddito di un sovrano assoluto, Sorbière non nascose la sua sorpresa nemmeno riguardo al ruolo del parlamento inglese, che ‒ suscitando probabilmente la costernazione dei suoi ospiti ‒ definì un 'organismo bizzarro'.
Secondo lui gli Inglesi avevano una sorta di temperamento 'selvaggio', che gli ricordava quello degli antichi Romani i quali, come gli Inglesi, si abbandonavano volentieri a sport violenti, e tale carattere aveva reso loro impossibile accettare forme di governo più autoritarie. Analoghe alle considerazioni di Sorbière furono quelle di Lorenzo Magalotti, che si recò in Inghilterra nel 1668. Sorbière collegò lo 'spirito forte' degli Inglesi non solo alla loro struttura politica, ma anche al loro modo di pensare e alle loro regole di comportamento. Egli apprezzò chiaramente la 'concretezza' e la semplicità propria di quel popolo, e la considerò la causa prima dell'ordinato funzionamento della Royal Society ("Non ho potuto fare a meno di osservare questa condotta in un organismo formato da tante persone e gruppi diversi, perché nella loro associazione ammettono tutti", ibidem, p. 70), ma al contempo giudicò questo spirito responsabile di un'arroganza un po' rozza, un''aria di superiorità' che, secondo Sorbière, gli Inglesi tendevano ad assumere nei confronti degli stranieri. La sua percezione di una certa 'rozzezza' dell'aristocrazia inglese emergeva inoltre quando definiva 'gentiluomo di campagna' un membro della Royal Society. In sostanza, Sorbière giudicava gli Inglesi persone dalle idee chiare, dal carattere forte, modeste, ma al tempo stesso un po' rozze e per certi versi estranee alla raffinata civiltà continentale. Si tratta di una rappresentazione che richiama alla mente il tipico elogio reso dalla nobiltà di corte francese alla vita semplice benché, ovviamente, poco 'civile', del contadino.
La pubblicazione del diario di Sorbière suscitò il disappunto di Thomas Sprat, il futuro storiografo della Royal Society. Nella sua replica del 1665, Sprat concordava con Sorbière unicamente sul rapporto tra gli atteggiamenti filosofici degli Inglesi e l'assoluta unicità del loro 'spirito'. Nelle osservazioni di Sorbière sui modi un po' rozzi degli Inglesi, scorgeva invece il riflesso di un caratteristico pregiudizio continentale e liquidava il suo avversario come "futile viaggiatore, vuoto politicante, pedante insolente e mediocre saputello" (Observations on Monsieur de Sorbière's voyage into England, p. 255). Secondo Sprat, i Francesi erano troppo presi dai loro formalismi, un atteggiamento frutto della loro religione 'papista' e vincolata ai rituali. Scrivendo a proposito di una sua visita a Parigi, alcuni decenni dopo anche Lister commentava "i modi ossequiosi e la tendenza della gente al formalismo", affermando che "gli Inglesi sembrano meno cerimoniosi e meno osservanti della religione" (A journey to Paris, pp. 25, 16). Inoltre Sprat trovava i Francesi esageratamente retorici, mentre gli Inglesi, secondo lui, più che al parlare erano portati al fare: "[provate a confrontare] la genuinità, la freschezza, il vigore di molti dei nostri racconti con le pesanti e pompose metafore di cui alcuni nostri vicini, tutti pieni di sé, inzeppano ancora i loro libri" (Observations, p. 265). In particolare, sia nella replica a Sorbière sia nella History of the Royal Society, Sprat individuava nella naturale inclinazione degli Inglesi alla filosofia sperimentale un segno della loro virilità (opinione, questa, che trovava d'accordo anche Oldenburg):
Il carattere dell'inglese è libero, semplice, sincero, gentile, poco incline a raccogliere le provocazioni: a differenza di altri, egli non ama le chiacchiere, ma in compenso tende a pesare bene le parole. Alcuni suoi vicini lo accusano di avere un carattere un po' brusco e un po' troppo rigido: ma sono carenze ampiamente compensate dalle sue virtù salde e virili. (Observations, pp. 289-290)
Se la rappresentazione fatta da Sorbière degli Inglesi era impregnata del luogo comune francese del 'contadino genuino', la descrizione dei filosofi francesi di Sprat e Oldenburg faceva capo invece alla tendenza alla denigrazione della vita di corte, che dipingeva gli uomini di corte come effeminati a causa dell'eccessivo formalismo. Al contrario, come affermava Sprat, le cose dure (come erano gli Inglesi) non si lasciavano affinare facilmente. Ne conseguiva che, secondo gli standard locali della buona educazione, non c'era nulla di strano nel fatto che i filosofi naturali inglesi effettuassero esperimenti e producessero dati concreti, invece di impegnarsi in lunghe conversazioni sulle dottrine filosofiche, come quelle delle prime accademie filosofiche parigine. Per le stesse ragioni, anche il lavoro di basso profilo, tecnico e potenzialmente 'noioso' non era solo accettabile, ma particolarmente legittimato, tanto che di fatto Sprat e Boyle poterono identificare i loro eccessivi formalismi con una mancanza di etica, ribaltando l'accusa mossa nei loro confronti dagli studiosi continentali. Alcuni giunsero addirittura a considerare troppo cerimoniose le relazioni sperimentali dell'Accademia del Cimento. Di converso è probabile che agli studiosi continentali, abituati al modello della conversazione, la 'tecnologia letteraria' di Boyle ‒ cioè la descrizione minuziosa e scrupolosissima di strumenti, metodologie, risultati e fallimenti degli esperimenti ‒ risultasse noiosa e talora pedante.
La struttura burocratica della Royal Society e la semplicità, la buona educazione e la 'democrazia' che caratterizzavano il suo funzionamento avevano la stessa genesi sociale dello stile filosofico inglese. Per esempio, sia i visitatori italiani sia quelli francesi furono colpiti dal clima di correttezza che caratterizzava gli incontri della Royal Society e dalla complessità dei codici che regolavano sia quelle riunioni sia la certificazione di teorie e scoperte. Caratteristiche che in effetti erano piuttosto inusuali nella maggior parte delle rumorose e mal strutturate accademie del Continente. Come scrive Sorbière:
Non fanno attenzione alla gerarchia all'interno della loro associazione e il presidente siede a metà della tavola su di una sedia a braccioli [...] mentre tutti gli altri membri prendono posto dove gli pare e senza alcuna formalità; e se uno arriva in ritardo rispetto all'orario stabilito, nessuno vi fa caso, ma questi si limita a occupare il primo posto libero, così che chi sta parlando in quel momento non venga interrotto. Il presidente ha in mano un martelletto di legno che batte sulla tavola quando desidera imporre il silenzio. Gli altri membri gli si rivolgono a capo scoperto, finché egli stesso non concede loro, con un cenno, di rimettersi il cappello; e tutti hanno facoltà di esprimere in sintesi il proprio pensiero riguardo all'esperimento proposto dal segretario. Non c'è mai nessuno particolarmente ansioso di parlare, né chi si abbandoni a lunghi discorsi allo scopo di fare sfoggio della propria sapienza. Nessuno interrompe mai chi sta parlando, le divergenze d'opinione non vengono esasperate e non è permesso ricorrere a toni scortesi. Non ho mai visto nulla di più corretto, rispettoso e meglio gestito di questa associazione. (Relation d'un voyage en Angleterre, pp. 68, 69-70)
Il carattere burocratico e 'democratico' degli incontri della Royal Society, così come la sua facoltà di eleggere i propri funzionari, erano un segno della relativa indipendenza dell'istituzione dal re, la cui autorità legittimante era presente simbolicamente solo tramite la mazza reale posta accanto al presidente all'inizio delle riunioni. La considerazione di Sorbière sul fatto che il presidente, pur essendo uno dei membri dell'associazione, tenesse il cappello in capo quando si rivolgeva ai colleghi o veniva interpellato da uno di loro (che invece era tenuto a scoprire il capo), ben coglie in effetti il suo ruolo di rappresentante della persona ficta della corporazione, di colui che garantiva il corretto procedere dell'attività gestendo quotidianamente i problemi o, se necessario, battendo colpi con il suo martelletto come un giudice. Come ha notato Steven Shapin (1998), i rituali della corporazione della Royal Society erano simili a quelli del parlamento inglese.
Non erano solo i codici di comportamento e la produzione scientifica della Royal Society a riflettere la struttura sociopolitica dell'Inghilterra e del suo regime di potere, ma anche la stessa nozione di 'prova': il dato di fatto. Questo, infatti, non era un fatto puro e semplice, ma un tipo di prova costruita tramite un codice d'indagine preciso. Dovendo trattarsi di un elemento senza alcun legame con i sistemi filosofici dogmatici, era meno probabile che un dato di fatto desse luogo a dispute potenzialmente in grado di compromettere l'onore e la condizione dei gentiluomini coinvolti (in teoria o in pratica) nella sua elaborazione. Un dato di fatto poteva essere accettato proprio perché permetteva ai gentiluomini di comportarsi come tali nella sua costruzione. Aggiungendo un altro elemento all'analisi di questo tipo di prova scientifica condotta da Shapin e Schaffer (1985), si può dire che il dato di fatto era una forma di 'educazione concretizzata', una reificazione di rapporti sociali molto stretti governati da codici di comportamento, da questo punto di vista non molto diversi da quelli che nella società di corte si costituivano tramite segni di distinzione e di soggezione. L'immagine di sé e l'immagine del mondo erano due facce di una stessa medaglia. La concretezza del dato di fatto era il risultato della sua innocuità che permetteva a numerosi gentiluomini di osservare la scoperta, di discuterne educatamente e infine di approvarla. I dati di fatto erano un tipo di prova scientifica ben disciplinata, il prodotto di una buona coreografia rituale.
I codici di comportamento imposti dalla Royal Society non cancellarono le tensioni sulla ripartizione di prestigio e distinzione, ma offrirono canoni attraverso i quali nella maggior parte dei casi era possibile trovare un punto d'incontro. A lungo andare tale situazione permise di guadagnare qualcosa anche nel caso della crescita di prestigio di un concorrente. Per esempio, la certificazione collettiva di un 'dato di fatto' proposto da un membro dell'associazione da parte dei gentiluomini della Royal Society si basava sulla certezza che il loro prestigio in quanto corporazione di scienziati, e gentiluomini, traeva beneficio e forza dal loro riconoscimento al singolo scienziato di quel 'segno di distinzione' che gli conferiva autorevolezza scientifica. Allo stesso modo, se l'autore della scoperta non era un membro della Royal Society, l'approvazione da parte dell'associazione permetteva di acquistare un nuovo collaboratore, finendo così con l'allargare la rete di relazioni. Su una scala più vasta, il prestigio non era tolto a uno per essere attribuito a un altro, come forse sarebbe avvenuto in un contesto più limitato e più 'mercantilistico'. Il prestigio collettivo che circolava all'interno di tale modello 'aperto' aumentava a ogni nuova 'transazione' di scoperte, in un processo che presenta affinità strutturali con la produzione di ricchezza di un'economia capitalista. Tale processo venne favorito dal fatto che i rapporti interpersonali all'interno dell'associazione contribuirono a sviluppare quell'ampia rete di collaboratori necessaria a legittimarla in misura sempre crescente.
La distanza fisica dei corrispondenti dalla Royal Society consentiva inoltre di ridurre gli eventuali problemi legati ai codici formali di comportamento. I corrispondenti non dovevano essere necessariamente gentiluomini, poiché, con molta probabilità, non avrebbero mai preso parte personalmente alle attività dell'associazione e la loro competenza in sofisticate buone maniere legate al contatto fisico diretto era destinata a non essere messa alla prova. Norbert Elias (1983) ha sostenuto che l'economia borghese ha prodotto un ambiente nel quale il prestigio e la posizione sociale possono essere amministrati tramite un impersonale scambio di denaro anziché attraverso l'esibizione e il riconoscimento di segni di distinzione personali. In modo analogo la Royal Society diede vita a un processo in cui il principale riconoscimento dell'autorevolezza scientifica non era dato dai rapporti di clientela o dall'adattamento del proprio lavoro ai codici di distinzione di un principe (come quando Galilei battezzò le proprie scoperte astronomiche Pianeti Medicei), ma dallo scambio di scritti 'generici'.
Conclusioni
All'istituzione delle accademie scientifiche in Italia, Inghilterra e Francia nel XVII sec. seguì una discussione intorno ai codici formali di comportamento ai quali gli accademici avrebbero dovuto attenersi nel presentare, valutare e pubblicare le loro scoperte. Poiché la produzione di sapere di queste istituzioni si fondava sulla condivisione di dati, sull'analisi collettiva o sulla valutazione di relazioni ed esperimenti, il mancato rispetto di regole comuni da parte degli scienziati costituiva una minaccia alla condizione stessa di quel tipo di sapere. Anche in ambito filosofico il rispetto delle buone maniere era essenziale per la salvaguardia dei rapporti tra le accademie e i principi che offrivano loro protezione; tali rapporti, infatti, rischiavano facilmente di essere compromessi dalla pubblicazione, da parte di un accademico, di tesi controverse che avrebbero potuto suscitare polemiche. Era un problema serio perché i principi non si limitavano a sostenere le accademie a livello finanziario, ma ne garantivano anche l'autorevolezza scientifica.
Soltanto di recente gli storici della scienza hanno cominciato a prendere in considerazione il ruolo e l'importanza dei codici di comportamento nelle società scientifiche e, più in generale, le convenzioni sociali interne al mondo della cultura. Attraverso un quadro comparativo questi studi suggeriscono l'esistenza di una relazione tra le norme scientifiche locali e il regime di potere del principe all'interno del quale si sviluppavano.
In particolare, i codici di comportamento associati all'assolutismo politico plasmarono le 'condizioni di possibilità' di una serie di forme di comunicazione scientifica, come il modo di operare in quanto autore e le nozioni di prova scientifica. Tali codici non determinavano la verità o la falsità di specifiche tesi di argomento naturale, ma definivano il grado di legittimità con cui si presentava lo scienziato. Si può considerare la civiltà come un microprocesso ‒ nel senso foucaultiano ‒ con cui i regimi assolutistici plasmavano, attraverso una minuziosa disciplina, i loro sudditi e i loro discorsi, compresi quelli degli studiosi che operavano nelle accademie dei principi. Questo processo non fu privo di tensioni, né si limitò semplicemente a riprodurre il regime nel quale maturò. Com'è noto, il significato del termine 'suddito' cambiò nel corso del tempo. Benché si trovassero formalmente in una condizione di sudditanza nei confronti del principe, i filosofi naturali riuscirono alla fine a legittimare metodologie, discipline e istituzioni che più tardi sarebbero divenute emblematiche della libertà di pensiero moderna. I canoni della produzione scientifica e le forme di riconoscimento della paternità di teorie e scoperte dell'Accademia del Cimento, dell'Académie des Sciences e della Royal Society sembrano essere radicati nelle diverse modalità di comportamento e nei gradi di interdipendenza sviluppati nell'ampia costruzione delle buone maniere della società e della corte che ne rendevano possibile l'esistenza. Non tutte queste diverse forme di aggregazione sociale riuscirono a sopravvivere. Alcune sparirono insieme ai sistemi politici che le avevano plasmate, in un processo di mutamento sociale cui il mondo della cultura contribuì in modo determinante. Il fatto che le organizzazioni scientifiche odierne siano più simili alla struttura della Royal Society che non a quella delle prime accademie continentali rispecchia forse il fatto che i sistemi politici capitalistici moderni, in cui i principi o sono assenti o hanno un ruolo meramente onorifico, più che a Versailles o alla Firenze dei granduchi, somigliano all'Inghilterra parlamentare del XVII secolo.
Le moderne forme di comunità scientifica non si fondano all'origine sul sovvertimento dei processi attraverso cui la società di corte costruiva il potere e la distinzione sociale. È piuttosto seguendo i tempi, condizionati dalle opzioni e dalle risorse messe a disposizione dai vari regimi di potere, che le regole di comportamento della corte si estesero ad altri campi in diversa scala e attraverso gruppi sociali differenti.
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