La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Psicologia e pneumatologia
Psicologia e pneumatologia
La disciplina della psicologia ha assunto tale nome nel XVI sec.: il termine, che nei testi di allora si trova in caratteri greci oppure traslitterato in latino, significa teoria o scienza dell'anima; ma la psicologia come disciplina è molto più antica. Se pensiamo a 'disciplina' come a una materia scolastica, ovvero come a un settore del sapere definito e sistematizzato, allora i primi a intraprendere la psicologia come studio dell'anima furono gli antichi Greci, per i quali essa era una branca della filosofia naturale aristotelica. La parola 'psicologia' deriva infatti dall'espressione λόγοϚ πεϱὶ τῆϚ ψυχῆϚ, che in greco significa letteralmente 'discorso razionale sull'anima'. Nel X sec. un'espressione analoga comparve anche nella lingua araba: ῾ilm al-nafs, la scienza dell'anima. Le forme moderne del termine 'psicologia' vennero introdotte nelle lingue europee, in particolare nel francese del Cinquecento e nell'inglese del Seicento. Tuttavia, essendo state le opere di Aristotele tradotte in latino ‒ la lingua utilizzata fino al XVIII sec. in tutte le università europee ‒ il più importante dei suoi trattati di psicologia è ancora oggi conosciuto con il titolo De anima, che del greco πεϱὶ ψυχῆϚ è appunto la traduzione in lingua latina.
Come si evince da questa breve premessa, la storia della psicologia in quanto disciplina è stata caratterizzata da una notevole variabilità terminologica. Ma il fatto che ‒ per un capriccio della storia ‒ la psicologia aristotelica sia stata conosciuta come studio de anima ha interrotto soltanto momentaneamente la continuità tra la terminologia antica e quella moderna: la diversificazione risale in realtà soltanto all'inizio dell'Età moderna. Nel XVII sec., lo studio dell'anima in quanto entità immateriale assunse infatti il nome di 'pneumatologia', ossia studio delle entità spirituali. In realtà, non senza una certa ironia, 'pneuma' significa in greco respiro o aria (la 'pneumatica' è oggi la fisica dei gas). Secondo la medicina galenica il pneuma era fatto di materia sottile ed era, quindi, spirituale nel senso in cui oggi una bevanda alcolica può essere chiamata 'spirito' (specialmente nei paesi di lingua anglosassone). Gli spiriti di cui si occupava la pneumatologia del Seicento erano entità immateriali o incorporee, quali gli angeli e Dio. In diverse altre lingue europee furono inoltre coniati nuovi termini per designare lo studio dell'anima o della mente, come il tedesco Seelenlehre (teoria o dottrina dell'anima), l'inglese e il tedesco anthropology e Anthropologie (lo studio dell'uomo in quanto corpo e anima) e ancora l'inglese theory o science of the mind (teoria o scienza della mente).
Ma il percorso terminologico può guidarci nella storia delle discipline soltanto fino a un certo punto. Alcuni ambiti hanno conservato un unico nome fin dal tempo degli antichi Greci e tuttavia il loro campo d'indagine si è andato modificando e delimitando nel corso dei secoli. È il caso per esempio della 'fisica', che ha la stessa radice della parola φύσιϚ, 'natura': fin dall'Antichità ci si è riferiti a questa disciplina con i termini fisica o fisiologia (quest'ultima designava inizialmente lo studio della Natura nella sua interezza e soltanto in seguito il suo significato si è ristretto ai processi vitali). Dall'Antichità fino al XVII sec., e a parte del XVIII, l'area della fisica includeva la Natura in ogni suo aspetto, quindi tutte le res della Natura e tutte le loro attività. Così definita, la fisica si occupava anche degli esseri umani dotati di un'anima e dunque di questa stessa anima in quanto principio di attività dell'animale uomo. Adottando la terminologia odierna si potrebbe dire che l'oggetto della fisica comprendesse tutto ciò che andava dalla fisica della materia alla psicologia, passando per la biologia. È stato soltanto sul finire del Settecento che il termine ha cominciato a essere comunemente utilizzato in un'accezione ristretta, che comprendeva la meccanica newtoniana e i campi di studio limitrofi dell'astronomia fisica (l'odierna astrofisica), della luce, del suono, del calore, dell'elettricità e del magnetismo.
A un analogo processo di delimitazione è andato incontro il campo della psicologia o degli studi de anima. Il termine 'anima' (o 'psiche') aveva originariamente un significato più ampio rispetto a quello che oggi gli attribuiamo. Rappresentava infatti un principio di attività presente in tutte le cose viventi, che governava e indirizzava tutti i processi vitali: l'anima era ciò che rendeva le creature vive, senzienti e pensanti. Aristotele attribuiva alle piante un'anima vegetativa, che ne regolava le attività di nutrizione, crescita e riproduzione. Riteneva che gli animali fossero provvisti, in più, di facoltà sensitive e motorie. Le capacità sensitive non si limitavano ai tradizionali cinque sensi, ma includevano anche 'sensi interni' quali l'immaginazione, la memoria e la virtù cogitativa, ovvero la basilare capacità di riconoscere ciò che si ha di fronte e di rispondervi adeguatamente. Infine, tra le entità naturali dotate di un corpo (eccezion fatta, dunque, per Dio e per gli angeli), soltanto gli esseri umani possedevano un'anima razionale e dunque le facoltà intellettive della conoscenza e della ragione. In altri termini, solamente agli esseri umani veniva attribuito un intelletto, che permetteva loro di cogliere la struttura intelligibile della Natura e, fin dove era loro concesso, anche di ciò che stava al di sopra di essa.
In quanto scienza dell'anima, la psicologia antica e medievale era scienza tanto della vita quanto della mente. Faceva anche parte della fisica, ma ciò non implicava alcuna tentazione materialistica o riduzionistica. L'ipotesi che la mente potesse essere totalmente corporea ‒ come suggerivano gli insegnamenti di Democrito, di Lucrezio e degli stoici ‒ era contemplata dal pensiero antico e da quello medievale, così come da quello rinascimentale. Tuttavia, come vedremo in seguito, il concetto di 'corporeo' non implicava necessariamente quello di 'materialistico', come lo si è poi inteso nell'Età moderna. In realtà nel sistema aristotelico l'essere umano era visto come qualcosa di essenzialmente corporeo, e la sua anima altro non era che il principio di attività di un'entità corporea, cioè dell'uomo considerato nella sua interezza. Questa teoria, che proponeva una combinazione di materia (ὕλη) e forma (μοϱφή), era nota con il nome di 'ilemorfismo'. Aristotele riteneva che tutte le sostanze naturali ‒ dalla terra alla roccia, all'uomo ‒ fossero costituite da una combinazione di forma e materia (ancora una volta con l'eccezione di Dio e delle altre forme pure). Per quanto riguardava le cose viventi, ognuna ‒ che fosse una pianta, un animale diverso dall'uomo (e dunque non razionale) o un uomo ‒ era definita dalla sua forma, che veniva chiamata anima. L'anima degli animali, uomo compreso, era considerata 'naturalmente incline' a farsi forma di un corpo. Dunque, l'anima dell'essere umano era essenzialmente la forma dell'entità corporea chiamata uomo: l'anima 'informava' di sé la materia del corpo umano.
Nel Seicento si svilupparono nuove teorie dell'anima. René Descartes propose un dualismo sostanziale mente-corpo. Tuttavia pur affermando che la mente (res cogitans) è una sostanza realmente distinta dal corpo (res extensa), tale teoria non trascurava né che la mente fosse di fatto 'sostanzialmente' unita al corpo, né l'importanza del ruolo che il corpo aveva per la vita e per il sentire dell'uomo. Alcune funzioni 'psicologiche' erano anzi ricondotte da Descartes alla sola attività del corpo. Thomas Hobbes sviluppò una concezione materialistica del corpo e della mente secondo la quale tutte le funzioni mentali, psicologiche e razionali erano riconducibili a un moto di particelle. Altre importanti teorie metafisiche del rapporto tra mente e corpo furono rappresentate dal monismo sostanziale di Baruch Spinoza e dal monadismo di Gottfried Wilhelm Leibniz, una forma di immaterialismo che è possibile in qualche modo avvicinare a quella che in seguito sarebbe stata proposta da George Berkeley (1685-1753).
Al di là delle teorie metafisiche, fisiche e psicologiche dell'anima o della mente in quanto tale, i fenomeni psicologici venivano studiati anche in un contesto più ampio. Se, come si è fatto a partire dall'Età moderna, escludiamo dal dominio della psicologia tutti i processi meramente riguardanti la sopravvivenza dell'organismo, quali la nutrizione e la crescita e i vari processi vitali, dell'insieme così ridefinito fanno parte la percezione sensoriale, l'immaginazione, la memoria, le passioni o emozioni, l'intelletto e la volontà. Benché fossero considerati dipendenti dall'anima e dunque inclusi nell'area della psicologia, fin dall'Antichità questi processi erano stati oggetto di studio anche di settori che esulavano dalla psicologia propriamente detta. La medicina esaminava infatti il funzionamento dei sensi e di altre facoltà conoscitive, quali l'immaginazione, la memoria e la volontà (un po' meno l'intelletto). Nei loro scritti i medici discettavano di passioni ed emozioni, specialmente delle loro cause, dei loro eccessi e dei possibili metodi per controllarle. In questo contesto, chi scriveva si basava sulle teorie dell'anima elaborate dalla fisica (nell'accezione più ampia del termine) e dalla filosofia naturale; utilizzava, in altre parole, le dottrine psicologiche riguardanti la percezione sensoriale e le passioni, ma applicava queste teorie a un campo d'indagine che raramente suscitava l'interesse dei filosofi della Natura, quello della patologia.
Anche i teologi si interessavano alle passioni. Pur basandosi sulle teorie e sulle descrizioni elaborate in seno alla filosofia naturale, inquadravano la questione nel contesto cristiano della perdita della grazia divina e del peccato insito nel genere umano (status naturae lapsae). Da Agostino in poi, i teologi ‒ come Tommaso d'Aquino e numerosi altri scolastici ‒ si erano vivamente interessati alle teorie della filosofia naturale, poiché esse potevano offrire un valido contributo alla comprensione del Creato, natura umana compresa. D'altro canto, alcune teorie teologiche delle passioni, come quella di Tommaso, entrarono a far parte e furono prese in seria considerazione dalla letteratura medica e filosofica. Le idee passavano infatti liberamente dall'uno all'altro dei diversi contesti all'interno dei quali ci si occupava di psicologia umana.
La metafisica e la teologia si chiedevano se fosse possibile dimostrare, in base al solo ragionamento e alle argomentazioni della filosofia naturale, l'immortalità dell'anima. Le opinioni erano discordi. Secondo alcuni, dalla presunta immaterialità e semplicità dell'anima discendeva necessariamente la sua immortalità. Altri sostenevano che essa, in quanto forma del corpo umano, fosse mortale, e che l'immortalità avrebbe potuto essere ammessa soltanto sulla base della fede o della dottrina religiosa. Tuttavia, dal V Concilio del Laterano, i filosofi cattolici avevano ricevuto l'ordine di dimostrare che l'anima era immortale mediante argomentazioni di tipo naturalistico. Pietro Pomponazzi ebbe non pochi problemi, quando nel 1516 affermò che si poteva giungere a conoscere l'immortalità soltanto per mezzo della fede. Quello della dimostrazione dell'immortalità dell'anima rimase un tema centrale del dibattito metafisico per tutto il XVII sec. e per gran parte del XVIII. Legata a esso era inoltre la questione dell'origine dell'anima o, meglio, del ruolo di Dio nell'origine di ciascuna vita umana: l'anima nasceva naturalmente nel corso di ogni procreazione, o era invece necessario in ciascun caso uno specifico atto di Creazione divina? Se per alcuni l'anima umana poteva essere trasmessa di padre in figlio, per altri essa doveva venire infusa da Dio al momento del concepimento. Il primo libro intitolato Psychologia (1594), scritto da Goclenius (Rudolph Göckel), professore di fisica, logica e matematica all'Università di Marburgo, era finalizzato principalmente a stabilire se l'anima fosse trasmessa mediante il seme dell'uomo oppure infusa da Dio.
Sempre al di fuori della letteratura de anima, nei trattati di ottica era studiata la psicologia della percezione sensoriale. L'ottica, definita come scienza della visione, includeva lo studio della luce, quello dell'anatomia e della fisiologia dell'occhio e del nervo ottico, nonché gli aspetti psicologici e gnoseologici della visione. Nel sistema aristotelico l'ottica non costituiva una branca della fisica, il cui approccio alle sostanze naturali era di tipo qualitativo, teso cioè a comprendere le nature e le essenze e a classificarne e descriverne le attività o facoltà. L'ottica veniva invece annoverata nell'insieme delle scienze matematiche, alle quali era ritenuta subalterna. Tuttavia, poiché si occupava della propagazione della luce in linea retta, essa la studiava in quanto fenomeno fisico, e non in quanto fenomeno matematico. Infatti, se era vero che i principî che governavano le linee rette appartenevano alla matematica, era anche vero che l'ottica li applicava a un oggetto naturale o fisico (la luce). In ogni caso, nel Medioevo come nel Rinascimento, l'ottica si occupava non soltanto della luce e delle sue proprietà fisiche e geometriche ma anche di ciò che oggi chiamiamo fisiologia e psicologia della visione. Particolarmente articolate erano, in questo ambito, le teorie che si rifacevano agli scritti di ottica dell'arabo Ibn al-Hayṯam (Alhazen, 965-1041 ca.), che il mondo occidentale latino aveva conosciuto grazie a Ruggero Bacone (1214 ca.-1292 ca.) e Witelo (1220/1230-1280 ca.). Fu specialmente attraverso i discepoli di Descartes che, nel corso del XVII sec., queste teorie cominciarono a comparire nei trattati generali sull'anima.
Al principio del Seicento si contendevano il campo diverse correnti di pensiero psicologico, che si rifacevano ad altrettante tradizioni teoriche. A partire da quella aristotelica si erano sviluppati tre indirizzi principali. I tomisti, quali i gesuiti Francisco Toledo (1532-1596), Antonio Rubio (1548-1615) e i commentatori del collegio gesuitico di Coimbra, ritenevano che l'anima razionale fosse la forma del corpo umano, e che questo si potesse considerare tale ‒ anziché un semplice ammasso di materia ‒ soltanto se 'informato' dall'anima. Gli scotisti, come il francescano irlandese John Punch (1603-1673), proponevano l'esistenza di una specifica 'forma della corporeità', che rendeva il corpo umano unitario e indipendente dall'anima razionale. Questa concezione permetteva di considerare l'anima razionale meno strettamente legata alla materia, e dunque di dare una spiegazione più efficace di come fosse possibile l'immortalità. Ma anche gli scotisti ascrivevano le facoltà vegetative, sensitive e conoscitive a un'anima razionale, che consideravano la forma dell'essere umano. Gli occamisti, infine, sostenevano che al corpo umano facessero capo diverse forme, specificamente proprie dei diversi tipi di tessuti (osseo, muscolare ecc.), delle facoltà che l'uomo aveva in comune con gli altri animali (per es., nutritive o sensitive) e infine della facoltà razionale o intellettiva. Gli occamisti 'pluralisti' però, come Francesco Piccolomini (1520-1604), professore di filosofia naturale a Padova, attribuivano le facoltà sensitive a un'anima organica che informava il corpo e ritenevano che la mente umana o anima intellettiva fosse una sostanza distinta dal corpo.
Posizioni diverse da quelle aristoteliche erano conosciute sia attraverso gli scritti di autori antichi o medievali sia propugnate da svariati pensatori contemporanei. La concezione platonica secondo la quale l'anima umana è una sostanza distinta dal corpo era illustrata nelle opere di Agostino. Diversi suoi seguaci, tra cui Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), avevano fatto propria la concezione platonica dell'anima come sostanza immateriale. Il filosofo e politico parigino Jean de Silhon sostenne (Les deux vérités, 1626) che l'anima umana fosse in sé una sostanza distinta dal corpo (quindi una forma pura, separata dalla materia, come gli angeli) e che soltanto in quanto forma del corpo fosse condizionata per pensare dalle immagini sensibili, non tuttavia a tal punto (ciò che è dell'anima delle bestie) da perdere le prerogative che le sono proprie in quanto anima. Silhon ritenne di provarlo, ricorrendo ad argomentazioni classiche, sulla base, per esempio, del contrasto tra volontà e passioni, o della possibilità di pensare a cose non sensibili. Il filosofo cosentino Bernardino Telesio parla, nel Libro V del De rerum natura (non senza oscillazioni tra le prime redazioni e la stesura definitiva del 1586), di una mente o anima incorporea e superaddita, unita (a Deo immissa) a un corpo naturalmente animato (ovvero, naturalmente sensitivo e motorio) da un'anima (e semine educta) corporea.
Non mancavano d'essere conosciute e dibattute anche le concezioni corporee dell'anima. Epicuro aveva affermato che l'anima era un corpo, benché fatto di una materia particolarmente sottile. Anche gli stoici consideravano l'anima un corpo sottile o pneuma, ed erano perfino addivenuti alla conclusione che Dio stesso fosse un essere corporeo. Galeno riteneva che i processi psicologici fossero ascrivibili a una materia molto fine, chiamata 'pneuma psichico' o 'spiriti animali', che infondeva di sé il cervello e i nervi. In tutti questi casi, l'anima o psiche o spirito era considerata alla stregua di un corpo di una speciale natura, separato e distinto dalla materia grezza di cui erano fatti i muscoli e le ossa.
Se le nozioni di anima organica o corporea ‒ o di psiche corporea, di pneuma psichico e di spiriti animali ‒ equiparavano l'anima a un particolare tipo di corpo, fine o sottile, i processi mentali erano considerati 'movimenti' o modificazioni di questa materia sottile. Nonostante la spiccata similarità terminologica, queste teorie non precorrevano il materialismo moderno. Il concetto di corporeo che proponevano va infatti interpretato con cautela, perché esse non intendevano ridurre il pensiero e le sensazioni a una mera questione di materia e movimento, come in seguito avrebbe fatto Hobbes. Erano certamente concordi nel ritenere che i corpi avessero un'estensione, ovvero occupassero lo spazio, e gli occamisti affermavano che la materia possedeva le sue 'forme della corporeità' e che era essenzialmente estesa. Ma tutto ciò non equivaleva a teorizzare, come invece avrebbero fatto i meccanicisti moderni, che le sole proprietà della materia fossero la grandezza, la forma (nel senso di figura) e il movimento. L'anima corporea od organica, così come la intendevano Epicuro, gli stoici, Galeno, gli occamisti pluralisti e Telesio, instillava nel corpo o nella materia qualità e facoltà attive. Il pneuma psichico, gli spiriti animali e l'anima organica erano permeati di sensitività la quale costituiva una facoltà attiva intrinseca nella sostanza corporea. Tali autori non tentavano di ricondurla al mero movimento locale o all'interazione di corpuscoli di materia. Oltre alla facoltà sensitiva, essi attribuivano ai nervi e ai muscoli speciali e animate forze motrici. Queste posizioni erano dunque in contrasto con il successivo tentativo meccanicistico di ridurre il funzionamento dei nervi ‒ e in generale le capacità di movimento degli animali ‒ alla pressione meccanica o a semplici forze di attrazione e collisione di particelle.
Le trasformazioni subite dai concetti di corpo e materia furono tra le più radicali del XVII secolo. Molti autori ritenevano che il numero delle facoltà o qualità attribuite al corpo andasse circoscritto. La riduzione più radicale fu operata da Descartes, che limitò le proprietà della materia a estensione e movimento. Al corpo negò persino la forza, e teorizzò che l'attività fosse una prerogativa delle menti e di Dio, il quale costituiva la causa ultima del movimento dei corpi. Kenelm Digby sostenne una riduzione quasi altrettanto radicale dei processi corporei, secondo la quale la materia era provvista solo di divisibilità, densità e moto locale. Altri, come Pierre Gassendi, Hobbes, Robert Boyle e John Locke, ritenevano che la materia fosse costituita da atomi o corpuscoli, ai quali attribuivano una forza motrice o conatus intrinseco. Altri ancora, come il medico inglese William Harvey e quello tedesco Daniel Sennert, seguitarono a ritenere che i corpi viventi fossero dotati di speciali facoltà animate. Nell'ambito dell'alchimia, della magia e della medicina, molti autori assegnavano principî di attività e plasticità all'intero regno naturale. Il medico Jan Baptista van Helmont moltiplicò il numero di spiriti attivi che regolavano il funzionamento del corpo, chiamandoli 'archei' e assegnandone uno a ciascun organo. Ancora al principio del Settecento, Georg Ernst Stahl avrebbe fatto propria una fisiologia animista.
La nuova e rivoluzionaria concettualizzazione del corpo come materia estesa, o materia meramente dotata di movimento, portò filosofi quali Digby, Hobbes, Descartes, Gassendi e i loro discepoli a privare il corpo umano di qualsiasi facoltà sensitiva o vitale e a considerarlo un'entità meramente materiale. Ciò significava che, per spiegarne le varie facoltà psicologiche o mentali, sarebbe stato necessario fare riferimento esclusivamente alle proprietà della materia in movimento, oppure, in alternativa, ricorrerre all'esistenza di una sostanza mentale separata e distinta. Hobbes adottò la prima strategia: poiché riteneva che i soli processi causali intellegibili fossero quelli relativi al moto della materia, egli concluse che la sensibilità e il pensiero degli esseri umani non potessero che avere la stessa origine. In particolare, egli credeva che la sensibilità avesse inizio con l'azione esercitata dai corpi esterni sugli organi di senso e quindi sui nervi e che il loro conseguente movimento provocasse a sua volta una pressione verso l'esterno da parte dell'organo centrale della sensibilità (la cui sede veniva localizzata nei suoi primi scritti nel cervello e in quelli successivi nel cuore). Tale pressione verso l'esterno avrebbe costituito la percezione o sensazione degli oggetti esterni. Così Hobbes, negli Elements of law natural and politics (1650), tentava una spiegazione 'fisiologica' della distinzione tra qualità primarie e secondarie (soggettive): "come nel caso di un concetto visivo, così anche per quanto riguarda i concetti che derivano da altri sensi, il soggetto cui ineriscono, non è l'oggetto, bensì il senziente [...]. Da ciò consegue anche che qualunque sorta di accidenti o qualità i nostri sensi ci inducano a pensare che esistano al mondo, in realtà non vi si trovano, ma sono solo sembianze ed apparimenti. Le cose che realmente si trovano nel mondo esterno sono quei movimenti, dai quali quelle sembianze sono causate" (Pacchi 1971, p. 30).
Per spiegare il ragionamento, Hobbes sottolineò il ruolo delle associazioni tra parole e immagini sensibili, e anche questi processi associativi furono da lui interamente ascritti al movimento materiale della sostanza corporea.
Descartes, Digby e altri sostenevano invece che alcuni processi mentali, quali la coscienza e le attività intellettive, non potessero essere ricondotti alla sola disposizione dell'organismo animale, quindi alla materia in movimento, ma che per spiegarli fosse necessario ammettere l'esistenza di un'anima immateriale. Coerentemente con la posizione meccanicistica questa forma di dualismo comportò la riduzione di molti processi 'psicologici' ad un livello puramente materiale. La celebre posizione di Descartes secondo cui le bestie non erano altro che macchine implicava che i loro processi psicologici fossero considerati meramente meccanici. Egli, insieme a molti altri, tentò di interpretare meccanicamente le varie funzioni dell'anima sensitiva. Questa concezione psicologica è illustrata nell'Homme, in cui il corpo umano è presentato in via ipotetica (je suppose) come 'una statua o macchina di terra' priva di anima e in cui vengono indicati i vari processi che potrebbero avere luogo negli animali.
La psicologia animale di Descartes era basata su un ipotetico circuito di feedback sensomotorio. Secondo questa formulazione, la forza motrice dei corpi derivava dal 'fuoco senza luce' (analogo a quello "che riscalda il fieno, quando lo si rinchiude prima che sia secco") che si trovava nel cuore. Entrando in quest'organo, il sangue si scaldava e si dilatava. Le particelle così eccitate attraverso le arterie giungevano al cervello dove, alla base della ghiandola pineale, venivano filtrate così da separare le più grosse dalle più piccole, cui Descartes, secondo la tradizione medica, dà il nome di spiriti animali. Tuttavia, diversamente da quelli galenici o di Telesio, questi spiriti erano di natura esclusivamente materiale. Essi fluivano quindi verso il basso, all'interno dei canali dei nervi che portavano ai muscoli, e facevano sì che questi ultimi si gonfiassero e si contraessero. Adeguatamente controllato il flusso degli spiriti, tali contrazioni potevano produrre un movimento o comportamento ordinato. Erano tre i fattori che, secondo Descartes, regolavano il flusso degli spiriti. Per prima cosa, la stimolazione delle fibre nervose sensitive ‒ concepite come una sorta di lunghi 'filamenti' inguainati dai nervi ‒ provocava l'apertura della bocca dei canali dei nervi e permetteva agli spiriti di entrare. In secondo luogo, il reticolo dei canali era organizzato in maniera innata secondo naturali e specifici circuiti di feedback sensomotorio. Il corpo umano era intrinsecamente fatto in modo tale che, per esempio, gli occhi si chiudessero all'avvicinarsi di una mano e che le gambe fuggissero di fronte a un lupo o a un qualsiasi altro animale pericoloso. Infine, l'esperienza passata, o meglio le precedenti modalità di flusso degli spiriti, facevano sì che alcuni di questi circuiti (o percorsi) risultassero facilitati rispetto agli altri. Secondo Descartes, era in questo modo che un cane diveniva avvezzo a ritrarsi quando il suo padrone prendeva in mano il bastone con cui l'aveva prima picchiato. Si trattava dunque di una forma di abitudine, o di apprendimento, sostenuta nel cervello animale da processi di natura meramente meccanica.
Descartes riteneva che gran parte del comportamento dell'uomo potesse essere compreso in maniera puramente meccanicistica. Alla fine dell'Homme egli elencò i fenomeni che credeva di essere riuscito a spiegare senza dover ricorrere alla nozione di anima. La lista includeva i processi vitali della digestione, della nutrizione e della crescita; la respirazione, il sonno e la veglia (considerati stati o processi corporei); la ricezione delle stimolazioni sensitive per mezzo dei sensi esterni; e infine i processi corporei che corrispondevano alla memoria, all'immaginazione, agli appetiti e alle passioni. Da questi stati puramente corporei originavano "i movimenti esterni di tutte le membra, che seguono così a proposito, tanto dalle azioni degli oggetti esterni che si presentano ai sensi, che dalle passioni e dalle impressioni che si incontrano nella memoria, da imitare il più perfettamente possibile quelli di un vero uomo" (OS, I, p. 154). La spiegazione di Descartes proseguiva così:
desidero che consideriate che queste funzioni seguono tutte in modo naturale, in questa macchina, alla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di quanto fanno i movimenti di un orologio o altro automa, in seguito a quella dei suoi contrappesi e delle sue ruote; per modo che non bisogna concepire in essa alcuna altra anima vegetativa, né sensitiva, né alcun altro principio di movimento e di vita che non sia il suo sangue e i suoi spiriti, agitati dal calore del fuoco che brucia continuamente nel suo cuore e che non è di natura altra da quella di tutti i fuochi che sono nei corpi inanimati. (ibidem)
Questa formulazione fa pensare ad autori come Galeno e Harvey, che avevano fatto del 'sangue' e dello 'spirito' le sedi primarie della vita e delle facoltà degli esseri senzienti, ma, diversamente da essi, Descartes escludeva qualsiasi forza vitale o facoltà sensitiva insita nel sangue o negli spiriti, cui attribuiva, quali uniche proprietà, la grandezza, la forma e il movimento.
La seconda metà del Seicento fu dominata da teorie meccanicistiche anche in ambito fisiologico. Quella cartesiana fu propugnata tra gli altri in Francia dal medico Louis de La Forge, in Inghilterra da Boyle e dal francese Antoine Le Grand, in Italia da Tommaso Cornelio, in Olanda da Theodorus Craanen dell'Università di Leida. Il medico inglese Thomas Willis riprese da Gassendi la concezione secondo la quale l'anima animale era una sorta di fuoco o fiamma, e il suo connazionale Walter Charleton, nel mettere a punto la propria fisiologia dei sensi e delle passioni, attinse tanto a Willis quanto ai lavori dei cartesiani. Al pari di Descartes, Willis e Charleton consideravano gli animali come macchine complesse e puramente materiali. Tuttavia, diversamente da lui (ma come Hobbes), prendevano in considerazione l'ipotesi che dalla materia in movimento potessero trarre origine anche le sensazioni vere e proprie.
Molti di questi autori, primi fra tutti Descartes e Digby, asserivano che tra le facoltà dell'uomo ve ne erano alcune che non potevano essere spiegate in maniera meccanicistica. Ciò valeva, in particolare, per l'abilità di esprimere i pensieri mediante il linguaggio, per la capacità di ragionare e per la coscienza stessa. Per dar conto di questi fenomeni, essi proposero l'esistenza di un'anima immateriale, costituita di una sostanza differente dalla materia e che non aveva in comune con essa alcuna proprietà. Se la materia era estensione ed era divisibile, la mente era invece pensiero ed era indivisibile. Non esisteva alcuna cosa materiale che fosse in grado di pensare, né alcuna cosa pensante che fosse di per sé materiale. Alcune cose meramente materiali svolgevano delle funzioni psicologiche, tra cui una forma di apprendimento, ma nessuna era capace di un vero e proprio 'pensiero', che in quanto tale si accompagnava sempre alla coscienza.
Secondo questa teoria, gli esseri umani erano naturalmente ed essenzialmente esseri compositi: consistevano infatti nell'unione di una mente e di un corpo. Che questi ultimi interagissero tra loro era dimostrato, secondo Descartes, dall'esistenza stessa della percezione sensoriale e del movimento volontario. I risultati di tale interazione erano rappresentati da tutte le esperienze sensitive, da tutti gli atti immaginativi, da tutti i ricordi coscienti la cui sede era nel cervello (separati e distinti, quindi, dai ricordi puramente intellettuali) e da tutte le 'passioni' esperite che avevano un fondamento corporeo.
Tuttavia, già i suoi contemporanei fecero notare a Descartes la difficoltà di spiegare l'unione e l'interazione tra mente e corpo una volta posta la loro distinzione reale. A questo proposito, verso la metà degli anni Quaranta del XVII sec., la principessa Elisabetta di Boemia, sua corrispondente, gli inviò una serie di acute osservazioni critiche. Alcuni discepoli di Descartes, quali La Forge e Nicolas Malebranche, risolsero questo problema negando che vi fosse un'interazione reale tra corpo e mente, sostenendo invece che gli stati delle due sostanze fossero 'aggiustati' direttamente dall'intervento causale divino (la stessa spiegazione veniva fornita a proposito della trasmissione del movimento nei corpi in collisione tra loro). Questa dottrina metafisica è nota con il nome di 'occasionalismo', poiché sosteneva che Dio modificasse gli stati della mente 'in occasione' di determinati movimenti del corpo e viceversa.
La posizione di Descartes, di Digby e dei loro discepoli non rappresentava l'unica forma di dualismo. Alcuni aristotelici adottarono la concezione dell'anima come sostanza separata dal corpo, senza però identificare il corpo con l'estensione. Un'ulteriore versione del dualismo fu quella proposta dal filosofo platonico di Cambridge Henry More (1614-1687), che inizialmente ritenne la propria posizione pressoché identica a quella di Descartes. In realtà, egli pensava che le menti o gli spiriti immateriali avessero un'estensione, ma che per quanto estesi fossero indivisibili, mentre il corpo era esteso e divisibile. More credeva di poter dare in questo modo ‒ attribuendo cioè al corpo e alla mente l'estensione ‒ una spiegazione più soddisfacente dell'interazione tra le due sostanze. Egli ascriveva tutti i movimenti della materia alla presenza di uno degli spiriti attivi tra i quali figurava anche un onnipresente 'spirito della Natura' che governava tutti i processi fisici, compresi la crescita e lo sviluppo delle piante. Inoltre, More attribuiva alle bestie un'anima individuale e non escludeva affatto che quella degli animali superiori potesse essere immortale. Considerava Dio uno spirito onnipresente e infinito, infinitamente esteso (ma indivisibile). Quando si rese conto delle discrepanze con la filosofia cartesiana ne divenne un accanito oppositore.
Sul finire del XVII sec. la nozione secondo la quale il pensiero e l'estensione appartenevano a domini concettualmente separati veniva accettata pressoché universalmente. Come corollario, il fisico e il mentale venivano considerati domini causali ed esplicativi chiusi. Tuttavia, anche se la distinzione concettuale ed esplicativa tra mente e corpo era largamente riconosciuta, molti autori finirono col respingere la tesi del dualismo sostanziale proposta da Descartes. Spinoza teorizzò un monismo della sostanza: nell'Ethica (1677) espose la sua articolata teoria della conoscenza e delle passioni o emozioni dell'uomo. Il suo monismo radicale faceva coincidere Dio con la Natura nella sua interezza; egli considerava il pensiero e l'estensione due attributi di un'unica sostanza: pur dovendo essere compresi e spiegati separatamente, i loro stati erano sostanzialmente identici e ordinati secondo sistemi causali paralleli.
Anche Leibniz adottò un monismo sostanziale, benché differente da quello spinoziano. Egli riteneva che il mondo creato fosse fatto di sostanze individuali chiamate 'monadi' che, come le anime immateriali, erano prive di estensione e indivisibili. Le proprietà fondamentali delle monadi erano mentali o psicologiche e consistevano nella percezione e nell'appetizione. Tutti gli stati o percezioni delle monadi individuali derivavano dagli stati o percezioni precedenti, secondo le leggi dell'appetizione e secondo un piano predeterminato al momento della Creazione (benché ciò non fosse ritenuto incompatibile con la libertà dell'uomo). Ciascuna monade rispecchiava o rappresentava in sé l'intero Universo dal proprio punto di vista. Gli stati delle varie monadi erano coordinati e corrispondenti l'uno all'altro grazie ai programmi stabiliti da Dio al momento della Creazione. Leibniz considerava i corpi 'fenomeni ben fondati', vale a dire rappresentazioni delle cose estese, raffigurate nelle percezioni delle monadi, senza un'esistenza distinta da queste stesse percezioni. Alcune monadi, le anime umane, erano provviste di coscienza (o appercezione), ma molte altre ne erano prive e possedevano il solo punto di vista della materia bruta (pur esperendo anch'esse una serie di rappresentazioni o percezioni interne). Leibniz spiegava l'interazione tra la mente dell'uomo e il suo corpo mediante la teoria dell''armonia prestabilita'. Al momento della Creazione, Dio metteva gli stati rappresentativi della monade che possedeva il punto di vista di uno specifico corpo umano in armonia con quelli programmati per la monade dell'anima umana che le sarebbe stata assegnata. Da quel momento in poi i due sistemi di percezioni avrebbero proseguito in armonia, senza che fosse necessario ipotizzare tra loro alcuna vera interazione causale.
Del problema del rapporto tra anima e corpo continuarono a discutere attivamente anche i filosofi della Natura del Settecento. Per i cartesiani, come Jacques Rohault (1620-1675) e Le Grand, il problema dell'interazione mente-corpo apparteneva ancora al dominio della fisica. Le Grand collocava nell'ambito della filosofia naturale anche lo studio della mente considerata in sé stessa. Ma nel corso del XVIII sec. qualcuno cominciò a separare la psicologia dalla filosofia naturale e a ritenerla una branca delle scienze naturali, connessa ma distinta dalla fisica (considerata come la scienza delle cose materiali). Newtoniani come Pieter van Musschenbroek (1692-1761), per esempio, consideravano la 'pneumatica' o scienza degli spiriti (immateriali) una branca della filosofia distinta dalla fisica, il cui campo d'indagine veniva limitato allo spazio e al corpo. A secolo inoltrato, Immanuel Kant (1724-1804) faceva della psicologia una delle due branche della dottrina della Natura, essendo l'altra la fisica (egli riteneva anche che la prima non avrebbe potuto diventare una scienza sistematica come la seconda). Erano ormai in molti a sostenere che la mente e il corpo avrebbero dovuto essere entrambi studiati empiricamente, senza che fosse necessario risolvere preventivamente il problema metafisico del rapporto tra i due. Fu Carl Schmid, un discepolo di Kant, a denominare questa posizione 'dualismo empirico'. Sviluppando tale approccio, nel corso dell'Ottocento la psicologia cominciò a servirsi ampiamente di tecniche derivate dalla fisica e dalla fisiologia per trasformarsi in una scienza naturale sperimentale.
Il tema filosofico delle passioni e delle emozioni era stato ampiamente trattato, fin dall'Antichità, nell'ambito della morale, della retorica, della filosofia naturale e della medicina. I relativi scritti erano giunti fino al XVII sec. e a essi occorreva fare riferimento. Tra gli antichi filosofi, Platone aveva suddiviso l'anima umana in tre parti: appetizione (anima concupiscibile o istinto), spirito (anima irascibile o emotività) e ragione (anima razionale o ragione). Egli non elaborò una vera e propria teoria delle emozioni, ma ricondusse i fenomeni cui in seguito sarebbe stato dato questo nome alle tre parti dell'anima: il desiderio era attribuito all'appetizione, l'ira allo spirito e l'amore intellettuale (come quello del bene divino) alla ragione. I neoplatonici come Agostino rimasero su posizioni analoghe. Aristotele parlò delle emozioni nel De anima, descrivendo l'appetizione e il desiderio dal punto di vista tanto sensitivo quanto intellettivo. Nella Retorica definì le emozioni (πάϑη) come "le cause per cui gli uomini mutano e differiscono nei loro giudizi e alle quali conseguono dolore o piacere" (1378a 21), e fece l'esempio dell'ira, della pietà e della paura. Se per Aristotele le emozioni erano necessarie per vivere bene, ed egli si limitava infatti a consigliare moderazione, gli stoici le consideravano invece percezioni false e fuorvianti, che era bene tenere il più possibile lontane. Essi miravano infatti al raggiungimento dell'indifferenza emotiva.
Al di là delle teorie antiche, al principio del Seicento la trattazione delle emozioni che esercitava la maggior influenza era quella di Tommaso d'Aquino. Egli parlò di passioni, con un significato più specifico rispetto a quello che oggi attribuiamo alla parola 'emozione'. Le passioni sono quelle emozioni che implicano una reazione passiva. Al contrario, Tommaso pensava che l'amore intellettuale e gli altri sentimenti fondati sull'intelletto traessero origine da una comprensione attiva, e dunque non li elencava tra le passioni, benché nel Seicento, come del resto ai giorni nostri, potessero essere considerati tra le emozioni. Al pari della maggior parte dei suoi predecessori, Tommaso riteneva che le passioni avessero tanto una componente conoscitiva quanto una appetitiva: nascevano infatti in seguito alla percezione di una determinata situazione, alla sua valutazione in termini di buono/cattivo e alla risposta appetitiva conseguente a questa valutazione (avvicinamento a ciò che è buono, allontanamento da ciò che è cattivo). Questa risposta appetitiva costituiva la passione vera e propria, che comportava un'espressione facciale spesso rivelatrice della passione sottostante e un'azione, quale potrebbe essere il correre via da qualcosa che viene percepito come un male. Le quattro passioni primarie erano suddivise in 'concupiscibili' (gioia, tristezza) e 'irascibili' (speranza, paura). Quelle del primo tipo corrispondevano a una reazione appetitiva diretta, suscitata dalla presenza di qualcosa di buono o di cattivo, come nel caso della gioia e della tristezza. Le passioni irascibili dipendevano invece dal grado di difficoltà esperito nell'avvicinarsi al bene o nell'allontanarsi dal male. La speranza poteva nascere quando si dubitava di riuscire a ottenere una cosa buona non ancora disponibile, la paura quando non si era certi di riuscire a evitare un male non immediatamente presente. Tommaso riconosceva inoltre l'esistenza di una risposta appetitiva intellettuale, che tuttavia non si poteva considerare una passione vera e propria in quanto era attiva: ne era un esempio l'amore che un essere umano poteva nutrire per Dio.
Il dibattito teologico, filosofico e medico sulle passioni e sulle emozioni proseguì per tutto il XVII secolo. I principali interrogativi erano i seguenti: le passioni e le emozioni sono naturali? Sono componenti essenziali perché si possa vivere bene e in salute? Come si può controllarle, quando causano sofferenza o annebbiano il giudizio?
Si attribuiva agli stoici l'opinione che le emozioni e le passioni fossero preternaturali (non naturali), che costituissero cognizioni false da cui rifuggire, delle quali la salute e la qualità della vita non avevano alcun bisogno, e che infine il metodo migliore per tenerle sotto controllo fosse il raggiungimento della piena comprensione intellettuale della loro insensatezza. La maggior parte degli studiosi del Seicento rifiutava questa posizione estrema e considerava le emozioni naturali, salutari e modificabili per mezzo dell'intelletto.
Il teologo inglese Edward Reynolds pubblicò nel 1640, su sollecitazione della principessa Elisabetta di Boemia, A treatise of the passions and faculties of the soule of man in cui esponeva una tassonomia delle passioni basata sulle opere di Tommaso d'Aquino. Come quest'ultimo, Reynolds riconosceva alle passioni una naturale bontà, orientata verso il bene del genere umano e contraria al male. Esse potevano tuttavia fallire l'intento se il giudizio e la valutazione della situazione in atto venivano offuscati dal predominio dei sensi sull'intelletto. Questa era la condizione in cui il genere umano si era venuto a trovare in seguito alla perdita della grazia divina: l'intelletto dell'uomo era come annebbiato e la valutazione basata sui sensi non più sorretta da una chiara comprensione. Soltanto grazie a uno sforzo era possibile migliorare la nostra comprensione e, quindi, dirigere nuovamente le passioni verso le loro funzioni naturali e benefiche di autoconservazione, propagazione della specie, incremento della perfezione e dell'ordine dell'Universo, guida dell'umanità e glorificazione del Creatore.
L'oratoriano Jean-François Senault propose nel De l'usage des passions (1641) una teoria secondo la quale le passioni erano aberrazioni non naturali, delle quali l'umanità caduta aveva tuttavia bisogno come sprone verso il bene. Egli respingeva le teorie che facevano nascere le passioni dal corpo o da una delle parti fondamentali dell'anima (come in Platone) o da reazioni concupiscibili e irascibili separate (come in Tommaso). Esse scaturivano invece da due fonti principali: erano, cioè, manifestazioni di un appetito sensibile verso il bene e di una tendenza ad allontanarsi dal male. Si trattava in ogni caso di forme di amore o di odio. Se l'intelletto degli uomini non fosse stato annebbiato, essi non avrebbero considerato l'amore e l'odio come passioni e ne avrebbero avuto invece una chiara percezione razionale, ma l'umanità caduta poteva avere soltanto una visione opaca del bene e del male. Secondo Senault, in altre parole, gli appetiti sensibili passivi sorti nella condizione del peccato non erano naturali per il genere umano e allontanavano il corpo dalla legge di Natura, legge che lo avrebbe governato se la mente fosse stata in grado di comprendere chiaramente il bene per via intellettiva.
Senault era d'accordo con gli stoici sul fatto che le passioni fossero legate al vizio, poiché derivavano dalla perdita della grazia divina. Non potevano dunque essere regolate adeguatamente in maniera naturale, ed era possibile vincerle davvero soltanto per mezzo della grazia. Si poteva, tuttavia, tentare di temperarle tenendo sotto controllo i desideri sensibili intensi, prendendo in considerazione le tribolazioni che abitualmente accompagnano la sottomissione alle passioni, riflettendo 'spassionatamente' sui possibili oggetti di passione per non farsi cogliere alla sprovvista dalle emozioni forti e infine studiando la natura delle passioni per imparare come contrastarne gli effetti. Una volta temperate, esse potevano essere guidate dalla ragione e servire da sprone all'azione e alla virtù dell'umanità caduta. Senault era dunque in contrasto con gli stoici quando questi sostenevano che le passioni avrebbero dovuto essere evitate: le reputava invece necessarie affinché gli uomini, nello stato di caduta, potessero condurre una vita buona. La pietà poteva condurre alla misericordia e alla carità, l'ira fortificare il perseguimento della giustizia, il desiderio di cose buone offrire un'immagine della carità divina, il dolore fungere da controparte naturale della penitenza. Senault considerava, in ultima istanza, le passioni come veri e propri germogli di virtù, ciascuno dei quali aveva la potenzialità di svilupparsi in questo modo.
L'interesse di Descartes per le passioni fu stimolato dai suoi scambi epistolari con la principessa Elisabetta di Boemia (corrispondente anche di Reynolds) negli anni Quaranta del Seicento e diede come risultato Les passions de l'âme, ultima sua opera pubblicata (1649). Egli, basandosi tanto sulla filosofia naturale quanto sulla medicina, sviluppò un'originale teoria secondo cui le passioni erano percezioni coscienti causate nell'anima dall'azione del corpo. Anche in questo ambito, ovviamente, egli fece valere il punto di vista meccanicistico riducendo l'anima sensitiva alle sue funzioni meccaniche. Nell'uomo così come nelle bestie, è l'attività corporea di per sé ‒ senza che sia necessario alcun intervento da parte dell'anima ‒ a svolgere le funzioni principali che Tommaso attribuiva alle passioni: la percezione sensoriale, la risposta nervosa alle caratteristiche positive o negative di una determinata situazione, e la risposta comportamentale, che si tratti di un'espressione facciale o di un movimento dell'intero corpo, come quello della pecora che fugge dal lupo. Anche negli esseri umani il movimento degli spiriti animali è sufficiente a provocare una risposta differenziale alla presenza di un pericolo o di uno stimolo benefico (quale il cibo, l'acqua o altri 'beni' potenzialmente utili al corpo). Soltanto quando veniva messo in moto un comportamento mediato dal cervello l'anima poteva sentire o esperire una passione, come la meraviglia, l'amore, l'odio, il desiderio, la gioia e la tristezza, che per Descartes rappresentavano le sei passioni primarie. Se un lupo entrava nel campo visivo, i nervi e il cervello venivano stimolati e facevano fluire gli spiriti animali in un modo tale da determinare l'atto del correre, sicché il corpo è indotto a fuggire "dalla sola disposizione degli organi e senza che l'anima vi contribuisca" (OF, II, p. 617).
Accanto a queste risposte di ordine meramente meccanico esistevano sentimenti dell'anima ‒ le passioni vere e proprie ‒ la cui funzione era quella di "[indurre e disporre] l'anima a volere le cose cui esse preparano il corpo; di modo che il sentimento della paura l'induce a voler fuggire, quello dell'ardimento a voler combattere e così via" (ibidem, p. 618). Che si trattasse esclusivamente di processi di tipo materiale (come nelle bestie), o che fosse implicata anche una risposta dell'anima, la funzione delle passioni era quella di indurre il comportamento a preservare il benessere del corpo. Non sempre, tuttavia, il sistema nervoso indicava all'animale o all'uomo la strada giusta, ed era per questo che poteva accadere che le bestie rimanessero intrappolate in reti o tagliole. L'uomo doveva dunque servirsi e farsi guidare dalla ragione e dall'esperienza, e apprendere inoltre a controllare e moderare le passioni. Diversamente da Tommaso, per il quale la comprensione razionale poteva sostituire e dunque controllare una passione, Descartes non ammetteva la possibilità che la volontà o l'intelletto potessero direttamente avere la meglio sui potenti processi nervosi: la volontà poteva impedire alle gambe di correre, ma non era assolutamente in grado di annullare il processo nervoso che provocava la paura. Riteneva invece possibile che le passioni intense venissero temperate per mezzo dell'immaginazione, grazie alla quale prendere in considerazione le possibili alternative comportamentali e prefigurarsi le conseguenze, per esempio di una fuga. Il timore della vergogna poteva allora ‒ processo corporeo contro processo corporeo ‒ contrastare l'impulso di fuga.
Oltre le passioni che avevano origine nel cervello e nei nervi, Descartes ne individuava altre, che potevano nascere dagli stati dell'anima. Quando questa era a conoscenza della presenza di qualcosa di buono o di cattivo, tale consapevolezza poteva provocare amore od odio, che a loro volta potevano produrre gioia o tristezza. In questi casi, la conoscenza della situazione da parte dell'anima poteva stimolare nel cervello un moto che suscitava a sua volta nell'anima le corrispondenti passioni. Ma, accanto alle passioni con fondamento corporeo, Descartes descriveva un insieme di sentimenti che chiamava 'emozioni' e che ‒ essendo indipendenti dall'attività cerebrale e sorgendo soltanto all'interno della mente ‒ erano come controparti delle sei passioni primarie. L'azione degli elementi in gioco poteva provocare gioia o tristezza mediante i processi corporei dei sensi o dell'immaginazione. Il fatto stesso che questo 'gioco' provocasse sentimenti poteva di per sé causare piacere, "e questo piacere è una gioia intellettuale, che può nascere così dalla tristezza come da tutte le altre passioni" (ibidem, p. 672).
Il tema delle passioni e delle emozioni rimase a lungo al centro della letteratura fisica e filosofica del XVII secolo. Il terzo, il quarto e il quinto libro dell'Ethica di Spinoza erano dedicati ai possibili metodi per comprendere e controllare le emozioni. Egli le considerava stati naturali del corpo e della mente, che di per sé stessi non erano né buoni né cattivi in senso assoluto. Il bene e il male andavano in ogni caso definiti in relazione alla conservazione del corpo e all'attività o chiarezza della mente. Le emozioni potevano derivare da percezioni chiare oppure confuse del benessere del corpo: le emozioni passive corrispondevano alle percezioni confuse, le emozioni attive a quelle chiare. Una lucida comprensione intellettuale permetteva all'uomo di sostituire le emozioni attive a quelle passive. La nozione di salvezza del genere umano proposta da Spinoza implicava la chiara comprensione di Dio e della Natura nella sua interezza. La libertà, l'amore e la comprensione diventavano in tal modo una cosa sola, e in tale stato la mente umana poteva raggiungere la percezione sub specie aeternitatis. Era questa la versione spinoziana dell'immortalità personale, benché personale non sembrasse e non implicasse affatto la persistenza dell'anima in quanto sostanza, dal momento che per Spinoza le 'anime' individuali erano semplicemente idee che rappresentavano un particolare corpo umano.
Malebranche si occupò di emozioni e passioni da un punto di vista filosofico e teologico. Egli operò una distinzione tra alcune inclinazioni naturali e le passioni propriamente dette (De la recherche de la vérité, Libri IV e V). Le prime dipendevano esclusivamente dall'anima: potevano assumere un corpo quale loro oggetto ma non erano generate da stati corporei. Tali inclinazioni conducevano al bene in generale, all'autoconservazione e all'amore per il prossimo. Come per Descartes, le passioni derivavano invece dall'unione di anima e corpo e tendevano alla conservazione di quest'ultimo. Esse erano state create da Dio proprio per guidare l'uomo verso l'autoconservazione naturale ma, a causa della loro natura sensibile, non davano del bene una percezione adeguata. L'uomo poteva esserne fuorviato e doveva dunque prendere provvedimenti per poterle moderare. Malebranche non accettava le teoria secondo la quale le passioni sarebbero nate in seguito alla perdita della grazia divina: credeva anzi che prima della caduta l'umanità avesse posseduto quel dominio delle passioni che in seguito aveva perduto. Rifiutava, in quanto innaturale e irraggiungibile, l'obiettivo stoico della soppressione delle passioni. Sosteneva anzi che lo stoico che non rispondeva allo schiaffo ricevuto sulla guancia non lo facesse grazie all'assenza di passioni, bensì a causa della presenza di una passione precisa, quella dell'orgoglio: era infatti orgoglioso di riuscire a frustrare fino in fondo l'aggressore fingendo di non provare alcunché. Malebranche proponeva, quale alternativa a un simile comportamento, l'autentica umiltà e il perdono cristiani.
Il XVII sec. fu affascinato dalle passioni e dalle emozioni. Alcuni autori, come Senault, le consideravano innaturali, benché necessarie perché l'umanità ormai priva della grazia divina potesse condurre una vita sufficientemente buona. Coloro che lavoravano nell'ambito della filosofia naturale, come Descartes, Hobbes, Digby, Willis e Charleton, reputavano invece le passioni o emozioni dell'uomo buone e naturali. Come abbiamo visto, Malebranche, sul fronte della teologia, asseriva che le emozioni esistevano già da prima della perdita della grazia divina. L'autoconservazione e la moltiplicazione del genere umano erano in generale valutate positivamente ed erano riconosciute l'importanza del corpo e il valore delle emozioni. Come Descartes affermò concludendo Les passions de l'âme, "solo [dalle passioni] dipende tutto il bene e tutto il male di questa vita" (OF, II, p. 702). Le passioni erano solitamente ritenute percezioni sensoriali confuse di ciò che era potenzialmente benefico o dannoso per il corpo, e veniva chiaramente riconosciuto il fatto che, in seguito agli eventi dell'infanzia, tali percezioni potessero venire strettamente associate a cose la cui valenza in tal senso era in realtà neutra. Descartes, per esempio, attribuiva il fatto di giudicare particolarmente attraente lo strabismo in una donna a un'infatuazione infantile avuta per una ragazza con tale caratteristica.
Le teorie dei sensi erano state veri e propri capisaldi della psicologia medievale e il XVII sec. diede loro una rilevanza ancora maggiore. La nuova filosofia intendeva sostituire alla dottrina aristotelica delle 'qualità reali' spiegazioni di tipo corpuscolare o meccanico delle qualità sensitive. Il contributo dei sensi e dell'intelletto alla conoscenza, e naturalmente i sensi e l'intelletto stessi, rappresentavano un tema centrale delle teorie gnoseologiche. Al di là delle teorie fisiche, metafisiche ed epistemologiche, suscitavano un grande interesse i processi psicologici sottostanti la percezione sensoriale, in particolare quella visiva. Questi anni furono infatti segnati da due importanti trattati sulla visione scritti da due dei maggiori filosofi del tempo: la Dioptrique (1637) di Descartes e l'Essay toward a new theory of vision (1709) di Berkeley.
La letteratura de anima si occupava dei sensi dal punto di vista qualitativo. In altri termini, l'indagine era focalizzata sui sensibili 'propri' e su quelli 'comuni', sull'ontologia delle qualità sensitive, sulla natura attiva o passiva dei sensi, sul rapporto tra le facoltà sensitive e quelle intellettive e sul ruolo dei sensi nel fornire il materiale di phantasmáta (rappresentazioni) o immagini su cui doveva basarsi ogni attività di tipo conoscitivo. Questi temi continuarono a essere discussi nell'ambito delle varie teorie che si proponevano quali alternative alla fisica aristotelica, e dunque nei lavori di Digby, Hobbes, Gassendi, Descartes, Sennert, Spinoza, Malebranche, Locke e degli ultimi cartesiani. Tutti questi autori consideravano tali argomenti appartenenti al dominio della teoria generale dell'anima, e dunque della fisica.
Era generalmente riconosciuto che l'oggetto proprio della visione fosse costituito dalla luce e dal colore. Ciò significava che il senso della vista rifletteva e discerneva per sua natura la luce e il colore. In merito al preciso rapporto esistente tra i due esistevano diverse teorie, una delle quali proponeva semplicemente che la luce fosse ciò che veniva trasmesso da un oggetto luminoso e il colore una proprietà delle superfici degli oggetti che modificava la luce in un modo che l'uomo era in grado di discernere sotto forma di colore. Le proprietà che erano conoscibili da più facoltà sensibili, quali la grandezza, la forma e il movimento (riconoscibili per mezzo del tatto come della vista) erano chiamate 'sensibili comuni'. L'ontologia della luce e del colore era inizialmente dominata dalla dottrina aristotelica delle qualità reali, secondo la quale il colore era una qualità reale degli oggetti che, in presenza di luce, veniva trasmessa come forma senza materia all'occhio e da qui, mediante il nervo ottico, al senso comune. Tale dottrina fu sostituita nel corso del XVII sec. da una nuova ipotesi secondo la quale il colore degli oggetti derivava dalla grandezza, dalla forma e dal movimento delle loro parti: queste impartivano un movimento di un determinato tipo alle particelle di luce, che esercitavano a loro volta un effetto di natura puramente meccanica sui nervi producendo in tal modo la sensazione del colore nella mente o nell'anima (o, nel caso di Hobbes, nel cervello o nel cuore). Anche in questo caso, rispetto alla nozione aristotelica secondo la quale le facoltà sensibili erano separate e distinte da quelle intellettuali, le opinioni si divisero. Per Descartes e i suoi discepoli, la sensazione corrispondeva a un particolare tipo di conoscenza, che veniva generata dall'interazione tra anima e corpo. Secondo Willis, Charleton e Locke la percezione sensoriale era distinta dalla comprensione ma rappresentava la fonte di tutte le idee sul corpo. I cartesiani sostenevano invece che l'intelletto aveva libero accesso alle idee innate o alle essenze delle cose, e che non aveva bisogno dei sensi per ottenere una qualsivoglia conoscenza dei corpi.
Nella tradizione aristotelica la trattazione dei sensi e del loro ruolo nella conoscenza era generalmente tenuta separata dalla letteratura che si occupava di ottica o delle teorie matematiche della visione. Secondo la definizione di Euclide, la scienza dell'ottica mirava all'analisi del percorso dei raggi di luce ‒ i 'raggi visuali' che egli credeva provenissero dall'occhio ‒ nella visione diretta così come nella visione rifratta (diottrica) o riflessa (catottrica). Nel Medioevo fiorì invece una tradizione di trattati di ottica in cui il punto di vista della filosofia naturale era incorporato nello studio geometrico della visione. L'autore più importante in questo ambito fu senz'altro Ibn al-Hayṯam, che elaborò una vera e propria teoria della visione con la quale unificava la fisica della luce e della sua trasmissione, la fisiologia degli occhi e dei relativi nervi, la psicologia della percezione visiva e diversi altri domini conoscitivi. Il suo lavoro segnò l'inizio dell'integrazione delle metodologie dell'analisi geometrica con la trattazione dei processi valutativi (rapidi e inavvertiti) e delle altre operazioni di ordine conoscitivo che sottendevano i normali processi visivi. L'opera di al-Hayṯam raggiunse il mondo occidentale latino e, quantomeno, era nota a Descartes e agli altri studiosi di ottica del Seicento. Nella Dioptrique Descartes incluse un'analisi geometrica della visione nella trattazione della percezione della grandezza e della distanza; lo stesso fecero Rohault e Le Grand nei loro trattati generali. Basandosi sulle teorie di al-Hayṯam, essi sostennero che la percezione della grandezza fosse una funzione dell'angolo visuale sotto cui l'occhio vede gli oggetti e della percezione, od opinione, sulla loro distanza. L'angolo visuale e la distanza percepita venivano combinati mediante un giudizio inconsapevole. Di conseguenza, questi autori ritenevano che la distanza di un oggetto potesse essere ricavata ‒ all'inverso ‒ dall'angolo visuale e dalla grandezza nota.
Nel contesto del XVII sec., si trattava soltanto di uno dei tanti casi in cui le considerazioni di ordine geometrico e matematico venivano inserite nel dominio della fisica o della scienza della Natura. Nella storia della psicologia, invece, queste teorie segnarono l'esordio di quella tendenza ad applicare metodi di analisi quantitativa e sperimentale che sarebbe stata ripresa sporadicamente nel Settecento, per fiorire pienamente nel secolo successivo.
La teoria della percezione visiva non è che un esempio dell'influsso che la psicologia del XVII sec. ebbe sul futuro sviluppo di questa disciplina. Anche la trattazione di altri temi, come il ruolo dell'attenzione nei processi conoscitivi (enfatizzato soprattutto da Malebranche), la struttura della memoria (un argomento importante tanto per la psicologia propriamente detta quanto per la retorica) e quella dei processi conoscitivi (in particolare il ruolo dei sensi, dell'immaginazione e dell'intelletto), produsse infatti un corpus teorico che avrebbe influenzato non poco le elaborazioni successive sulla psicologia. Complessivamente, l'interesse della teologia, della medicina e della filosofia naturale per le passioni contribuì molto a rendere continuativo lo studio del ruolo delle emozioni nell'economia della vita mentale e, più in generale, nelle norme di comportamento. In conclusione, il contributo principale del Seicento allo sviluppo della psicologia in quanto disciplina non fu rappresentato dalla rigida separazione cartesiana tra anima e corpo. La distinzione generale tra il sensibile, il cognitivo o l'affettivo e le funzioni puramente vitali o nutritive era stata riconosciuta in realtà già da molto tempo. La teoria di Descartes non fece che ridefinire il confine, proponendo un nuovo interrogativo sull'opportunità di attribuire ai corpi animali, meccanicisticamente concepiti, processi psicologici adeguati alla regolazione del comportamento. Descartes e Hobbes risposero entrambi positivamente, ridefinendo in tal modo il problema del rapporto tra anima e corpo e aprendo nuove prospettive alla riduzione dello psicologico (o di parte di esso) al materiale. Si tratta di interrogativi che, sorti nel XVII sec., sono ancora oggi motivo di discussione e dibattito. In questo senso possiamo ben considerarci gli eredi dell'Età moderna. Anche il fascino che lo studio del ruolo delle passioni e delle emozioni nella vita psicologica ha esercitato sul XX sec. può essere considerato in realtà un ritorno a uno dei temi più cari al Seicento.
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