La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. La nascita della matematica moderna: 1600-1700
La nascita della matematica moderna: 1600-1700
Costringere un movimento storico nell'ambito di un periodo predeterminato, come un secolo o un anno, è sempre un'operazione arbitraria e insicura: il procedere del sapere non si cura delle divisioni artificiali, ma ha un suo tempo e una sua dinamica interna. Eppure, quando si esamini lo sviluppo delle idee e dei procedimenti matematici, poche divisioni hanno un'efficacia maggiore di quella costituita dal passaggio dal XVI al XVIII secolo.
Il Cinquecento era stato il secolo dell'Umanesimo matematico e della formazione di una comunità internazionale. L'invenzione della stampa aveva impresso una fortissima accelerazione alla circolazione del sapere scientifico, favorendo l'acquisizione di un corpus di conoscenze comuni che aveva tramutato un insieme di letterati isolati in un gruppo di studiosi, i quali dagli stessi testi avevano acquisito un linguaggio comune. Pertanto era divenuto possibile contare su una base di conoscenze, condivisa dagli studiosi, sulla quale fondare la comunicazione, che, ormai, nell'opera a stampa aveva trovato un mezzo di diffusione di gran lunga più efficace del codice manoscritto.
Alla fine del secolo, dopo un'intensissima stagione editoriale, nella quale tutte le opere dell'Antichità classica erano state date alle stampe, il processo di assimilazione dei classici poteva dirsi concluso. Gli Elementi di Euclide, che avevano conosciuto un impressionante numero di edizioni a partire dal 1482, costituivano il linguaggio di base della matematica, noto e condiviso da tutti gli studiosi, sia che si cimentassero con uno qualsiasi dei problemi interni alla disciplina, sia che si servissero di essa per affrontare questioni poste dalle sue numerose applicazioni. Accanto a quest'opera fondamentale, erano ormai disponibili quelle dei geometri dell'Antichità: Archimede, Apollonio, Pappo, Diofanto, per non citare che i massimi.
Accanto a questo filone classico, il Cinquecento aveva assistito allo sviluppo parallelo dell'algebra, che aveva portato, tra l'altro, alla soluzione delle equazioni di terzo e di quarto grado; due tra i primi risultati, se non i soli, che andassero al di là dei limiti della matematica antica e medievale. Queste due discipline, algebra e geometria, erano state congiunte per tutto il Medioevo. La riscoperta dei classici, che pure aveva innalzato radicalmente il livello delle conoscenze e delle elaborazioni matematiche, aveva avuto l'effetto collaterale ‒ ma non secondario ‒ di separare l'algebra dalla geometria, fino ai limiti dell'incomunicabilità, tanto diverse esse risultavano per origine e per metodi. Questa separazione passava in molti casi anche attraverso gli stessi studiosi, specie quelli formatisi sui Classici. Alcuni, come Bonaventura Cavalieri, erano costretti a volte a confessare che "le operazioni algebraiche non le ho troppo alle mani" (Cavalieri a Rocca, 23 luglio 1643, in Giannantonio Rocca, Lettere, n. 86). Quando da una nuova fusione tra algebra e geometria scaturirà la matematica moderna, intere scuole a indirizzo classico, tra cui gran parte della matematica italiana, saranno emarginate dal corso principale di questa disciplina.
Nel momento in cui si apre il nuovo secolo, questo corpus di dottrine matematiche si è già rivelato più un ostacolo che un fattore di progresso, insufficiente a garantire lo sviluppo della scienza. Certo, nessuno pensava che si dovesse abbandonare la matematica classica e in particolare la geometria di Euclide che ne rappresentava il fondamento; al contrario, essa era considerata come un canone indiscusso di rigore, a cui si sarebbero riferite tutte le eventuali innovazioni. Quello che era messo in discussione era piuttosto il suo modellarsi sul problema particolare, la mancanza di canoni generali ai quali potersi riferire una volta per tutte e che consentissero di evitare il ricorso continuo alle analisi particolari e ripetute; un metodo, insomma, di validità generale e nel quale le singole proposizioni trovassero insieme collocazione e giustificazione. L'insistenza da parte di molti studiosi su un presunto 'metodo nascosto' di Archimede, che doveva trovare conferma tre secoli più tardi con la scoperta nel famoso palinsesto costantinopolitano di uno scritto con questo titolo, era un'esigenza metodologica più che un'ipotesi storiografica, un'esigenza dettata dalla sempre maggiore difficoltà a coniugare il progresso scientifico con il procedere dimostrativo della geometria classica.
La caratteristica principale della matematica seicentesca, al di là delle differenze tra le varie proposte che sono state avanzate, è appunto l'affermarsi di un metodo; la creazione di un quadro generale entro il quale da una parte si potesse rileggere in compendio l'intero corpus della geometria classica e dall'altra che servisse da riferimento per gli sviluppi ulteriori. Questo passaggio dal particolare al generale, dal risultato al quadro complessivo, è il tratto comune dello sviluppo della matematica nel Seicento.
Gli antichi avevano conosciuto soltanto oggetti nominati, fossero essi figure geometriche come il cerchio o il triangolo, o curve come la cissoide o la quadratrice. Di questi oggetti essi avevano studiato le proprietà, che avevano utilizzato per risolvere alcuni problemi reputati importanti. Se nelle loro indagini avessero visto l'azione di un procedimento generale e uniforme, non è chiaro. Certo questa consapevolezza, se pure c'è stata, non emerge dagli scritti che hanno lasciato; forse solo il Metodo di Archimede reca i segni di procedimenti, non a caso giudicati euristici, che andavano al di là del particolare problema in esame. I geometri del Seicento invece operano con classi generali: le figure piane e solide, le curve geometriche; su queste classi essi eseguono le loro dimostrazioni, che per essere generali risulteranno valide in ogni caso particolare.
Il primo passo importante in questa direzione, l'algebra letterale di François Viète, è insieme punto di arrivo di una ricerca che aveva impegnato i maggiori algebristi del Cinquecento e punto di partenza di nuovi sviluppi, o meglio condizione di un ulteriore progresso. Il Medioevo aveva acquisito dalla matematica araba un'algebra 'numerosa', in cui le equazioni trattate erano sempre date in termini numerici, e il metodo generale emergeva soltanto grazie all'uniformità degli algoritmi di soluzione. L'introduzione da parte di Viète di lettere per indicare sia le incognite (le vocali) sia i termini noti (le consonanti) di un'equazione, non era solo una tachigrafia per ridurre in formule enunciati verbali: in realtà il passaggio dai numeri alle lettere permetteva di trattare i problemi algebrici nella loro generalità. Emergevano così regolarità e proprietà delle equazioni altrimenti destinate a restare nascoste, come, per esempio, le formule di Viète che legano i coefficienti alle radici. Allo stesso tempo veniva allo scoperto una serie di regole algebriche, per esempio la proprietà distributiva del prodotto e le formule per le potenze di un binomio, che, seppure utilizzate tacitamente nell'algebra numerica, non erano mai giunte a essere oggetto di un enunciato esplicito. In questo modo, al di là dei risultati specifici ottenuti da Viète, si gettavano le basi algoritmiche dell'algebra moderna e venivano poste le premesse della sua utilizzazione in geometria.
Il passaggio dal caso particolare al quadro generale è ancora più sensibile nell'ambito della geometria classica, o meglio della sua parte 'archimedea', il calcolo di aree e volumi di figure geometriche e dei loro centri di gravità. I geometri greci, in particolare Archimede, avevano trattato questi problemi con un procedimento di approssimazione, noto con il nome di 'metodo di esaustione', che consisteva nell'approssimare dall'interno e dall'esterno la figura data con altre più semplici, di cui la misura (o il centro di gravità) fosse nota. Per esempio, nel caso del cerchio, Archimede dimostra che la differenza tra le aree dei poligoni circoscritti e inscritti può essere resa piccola a piacere, aumentando il numero dei loro lati. D'altra parte, le aree dei poligoni circoscritti e inscritti sono rispettivamente maggiori e minori di quella del triangolo che ha come base la circonferenza del cerchio e come altezza il raggio. Di qui, con una doppia riduzione all'assurdo, segue che l'area del triangolo è uguale a quella del cerchio. Supponiamo infatti che sia maggiore, e chiamiamo A la differenza tra le due. Prendendo il numero di lati abbastanza grande, è possibile fare in modo che la differenza tra l'area del poligono circoscritto e l'area di quello inscritto sia minore di A. Siccome l'area del poligono circoscritto è maggiore di quella del triangolo, quella del poligono inscritto sarà allora maggiore di quella del cerchio, una conclusione evidentemente assurda. Allo stesso modo si dimostra che l'area del triangolo non può essere minore di quella del cerchio, e quindi le due aree sono uguali. Il passo cruciale di questo procedimento, l'approssimazione dalle due parti con figure note, era ripetuto per ogni singolo teorema, senza nessun tentativo di ricavare dalla moltitudine dei singoli casi trattati un metodo generale che permettesse di compiere la dimostrazione una volta per tutte.
I contributi principali di Luca Valerio (De centro gravitatis solidorum, 1604) e, più tardi, di Bonaventura Cavalieri (Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota, 1635) vanno esattamente in questa direzione. Entrambi riconoscono che le figure chiamate da Valerio "in altera parte deficientes", figure monotone che vanno restringendosi dalla base verso il vertice, possono essere approssimate con figure composte di rettangoli, in modo che la differenza tra la figura circoscritta e inscritta possa essere resa minore di ogni grandezza data. In questo modo Valerio poteva dimostrare in un solo colpo tutte le approssimazioni necessarie per ottenere i risultati classici, perché ogni figura considerata poteva essere spezzata in un numero finito di figure monotone, a ognuna delle quali era possibile applicare il procedimento di approssimazione. Ciò fatto, Valerio dimostrava che due solidi le cui sezioni hanno sempre la stessa area hanno i centri di gravità ugualmente posti e Cavalieri proverà che, in questo caso, anche i loro volumi sono uguali. È il principio di Cavalieri, risultato che egli riteneva valesse addirittura per tutte le figure, senza alcuna restrizione. Le stesse figure monotone saranno al centro degli studi di Blaise Pascal (Lettre de A. Dettonville à M. de Carcavy, 1659) e di James Gregory (Geometriae pars universalis, 1668).
Sempre in questo filone ideale si può situare la Géométrie di Descartes, un'opera destinata a cambiare radicalmente l'aspetto e l'oggetto della matematica, e che non a caso viene spesso citata a favore dell'esistenza di rivoluzioni in matematica. Apparsa nel 1637 come una delle appendici al Discours de la méthode, la Géométrie può essere considerata, più di ogni altra opera, come lo spartiacque tra la matematica classica e quella moderna, il punto di partenza di un processo che dura tuttora. Diversamente da Cavalieri, che non riesce, a causa dell'eccessiva generalità delle figure considerate, a trovare un punto di equilibrio tra l'ampiezza dell'orizzonte e la maneggevolezza degli strumenti di indagine, Descartes individua perfettamente il livello di generalità nel quale operare con profitto: la classe delle curve 'geometriche', ossia dotate di un'equazione. Grazie ai metodi generali di indagine che stabilisce per queste curve, egli riuscirà a costruire per esse un calcolo algebrico che gli permetterà di uscire dalla gabbia del caso particolare e di risolvere una serie di problemi, come quello di Pappo e, soprattutto, il problema delle tangenti. Così la delimitazione del campo alle curve geometriche, lungi dal rappresentare una limitazione ideologica a priori, come spesso si sente ripetere, è la condizione necessaria perché si possa dispiegare un metodo generale di indagine. Le origini dell'interpretazione riduttiva dei contenuti e delle finalità della Géométrie sono chiarite nei saggi di Henk Bos del 1981 e del 1984. In essi si insiste a ragione sulla presenza nella Géométrie di un intero libro, il terzo, dedicato alla costruzione delle equazioni e all'esistenza, sin verso la metà del XVII sec., di un filone di ricerca attivo in questo campo ‒ anche se a nostro giudizio in posizione secondaria ‒; un indirizzo, questo, spesso ignorato dalla critica storica. L'interpretazione di Bos sembra meno convincente quando sostiene che sia questo il tratto principale della Géométrie, un giudizio che si è radicalizzato negli scritti successivi dello stesso e di altri.
Le discussioni sul problema delle tangenti e sui metodi per la sua soluzione, iniziate all'atto stesso della pubblicazione della Géométrie con una breve ma intensa controversia tra Descartes e Fermat, e le tensioni a cui il metodo era sottoposto nel tentativo di ampliarlo alle curve trascendenti (o 'meccaniche', come le chiamava Descartes) e soprattutto alle curve irrazionali, quelle cioè nella cui equazione entra un numero elevato di radicali, porteranno verso la fine del secolo all'invenzione del calcolo infinitesimale.
Nel frattempo, altre teorie erano sorte e si erano sviluppate, sia in virtù di dinamiche interne alla stessa matematica, sia per fornire nuovi strumenti agli scienziati e per dare un fondamento matematico ad altre discipline. Tra queste ultime, un posto di primo piano occupano i logaritmi, inventati da John Napier (Mirifici logarithmorum canonis descriptio, del 1614; la seconda edizione, del 1619, contiene anche la Mirifici logarithmorum canonis constructio) e indipendentemente da Joost Bürgi (Arithmetische und geometrische Progress-Tabulen, 1620), che resero possibile un'enorme accelerazione dei calcoli astronomici e conobbero immediatamente un grandissimo successo. In meno di un ventennio dalla pubblicazione dell'opera di Napier, appaiono numerosissime tavole di logaritmi che estendono e perfezionano quelle neperiane: in Inghilterra a cura di Henry Briggs (Arithmetica logaritmica, 1624), che introduce i logaritmi in base 10, in Germania con Benjamin Ursinus (Trigonometria cum magno logarithmorum canone, 1624) e Johannes Kepler (Chilias logarithmorum, 1624), in Italia per opera di Bonaventura Cavalieri (Directorium generale uranometricum, 1632) ed infine nei Paesi Bassi grazie ad Adrien Vlacq (Arithmetica logaritmica, 1628).
Sull'altro versante, quello della matematica pura, si situano le ricerche sulla teoria dei numeri, favorite dalla riscoperta di Diofanto e dalla elaborazione algebrica di Viète. Una nuova edizione degli Aritmetici di Diofanto, curata da Claude-Gaspard Bachet (Arithmeticorum libri sex, 1621), stimolerà l'attenzione di Fermat, grazie a cui la disciplina conoscerà i primi importanti progressi dopo l'Età classica. La tradizionale riservatezza di Fermat, che comunica i suoi risultati soltanto a una cerchia abbastanza ristretta di studiosi, è una delle principali cause del mancato sviluppo della disciplina, che è coltivata da pochi scienziati, tra i quali in Francia Bernard Frénicle de Bessy e Marin Mersenne e in Inghilterra John Wallis e William Brouncker.
Infine, a metà strada tra la matematica pura e le applicazioni, il calcolo delle probabilità, i cui primordi risalgono addirittura al Medioevo, trova una prima sistemazione nel De ratiociniis in ludo aleae di Christiaan Huygens (pubblicato in appendice alle Exercitationes geometricae di Frans van Schooten jr, 1657), il primo trattato moderno della disciplina. Ambedue questi filoni di ricerca troveranno pieno sviluppo solamente nel Settecento.
Oltre a queste correnti principali del pensiero matematico, il Seicento pullula di nuove idee e nuove proposte, spesso velleitarie e confuse, quando non decisamente sbagliate, ma a volte anche brillanti e innovative; esse però non giungono a cristallizzarsi e a determinare un vero progresso, sia per l'intrinseca difficoltà della materia, sia per la mancanza di appropriati strumenti tecnici. È questo il caso ‒ uno tra tanti ‒ di Pietro Mengoli, le cui brillanti idee sulle successioni e sul calcolo delle aree (Geometriae speciosae elementa, 1659) restano confinate in ambienti ristretti, e sostanzialmente ignorate, per poi riapparire, più di un secolo dopo e in un contesto radicalmente mutato, nella sistemazione di Augustin-Louis Cauchy.
Ma c'è un altro aspetto della matematica che gioca un ruolo determinante nel XVII sec.: quello di 'linguaggio della Natura'. Nel corso del secolo l'immagine galileiana del libro dell'Universo scritto in lingua matematica diventa prima un programma di ricerca e poi, con la definitiva affermazione del metodo scientifico moderno, un luogo comune, un discrimine tra chi pratica la scienza e chi è rimasto ancorato a metodologie e filosofie ormai superate, classificate tra gli errori. Nel migliore dei casi, ogni risposta non matematica a un problema di filosofia naturale è considerata imperfetta, una soluzione provvisoria che richiede ulteriori studi per divenire soddisfacente. Questo cambiamento radicale è illustrato magistralmente da un notissimo passo di Voltaire, nella prefazione all'edizione francese dei Principia di Newton, che vale la pena di rileggere:
Se ci fosse ancora qualcuno così assurdo da sostenere l'esistenza della materia sottile e della materia scanalata, da dire che la Terra è un Sole incrostato, che la Luna è trasportata nel vortice della Terra, che la materia sottile causa la pesantezza, e tutte queste opinioni romanzesche sostituite all'ignoranza degli Antichi, si direbbe: quest'uomo è cartesiano. Se credesse alle monadi, si direbbe: è leibniziano. Ma di chi conosce gli Elementi di Euclide non si dice: è euclideo; né di chi sa con Galileo qual è la legge con cui i corpi cadono, che è galileiano. Così in Inghilterra, quelli che hanno imparato il calcolo infinitesimale, che hanno fatto esperienze con la luce, che hanno imparato le leggi della gravitazione, non sono chiamati newtoniani. Solo l'errore ha il privilegio di dare il suo nome a una setta. (Principes mathématiques de la philosophie naturelle, p. VII)
Naturalmente, l'uso della matematica nelle scienze non è esclusivo del Seicento; esistevano anzi fin dall'Antichità alcune discipline completamente matematizzate che addirittura erano considerate parte della matematica, come l'ottica e la statica. Ma il processo a cui si assiste non è neanche lontanamente paragonabile a quanto era avvenuto nei secoli precedenti: qui non si tratta di affrontare geometricamente una parte o anche un'intera disciplina, ma è tutto il corpo delle dottrine scientifiche che è rivisto per essere adattato al nuovo metodo di indagine. Interi settori del sapere sono dichiarati obsoleti, così come sono abbandonate le divisioni tra i campi di indagine propri della filosofia e quelli delle matematiche, rompendo una tradizione millenaria di separazione tra la filosofia, che indagava le cause, e la matematica, che rendeva conto dei fenomeni.
Contemporaneamente, l'ingresso della matematica nella filosofia naturale provoca un rovesciamento della piramide del sapere. Il percorso naturale della filosofia andava dal Cosmo verso il fenomeno, in una scala che dalla considerazione dei primi principî, secondo i quali era organizzato l'Universo, si diramava verso le singole discipline e di qui alla spiegazione dei vari fenomeni interni a queste ultime. E tali fenomeni, più che per la loro rilevanza individuale, erano scelti affinché illustrassero meglio i principî generali da cui derivavano. La nuova filosofia matematica pone invece al centro della sua indagine il singolo fenomeno, che è studiato sia perché importante di per sé, sia perché da esso si attendono risposte che trascendano il caso particolare e che consentano di allargare lo sguardo sino ai confini della scienza. Ciò comporta, tra l'altro, la fine dell'unità: fine dell'unità di visione, perché questa non è più necessaria all'impresa scientifica; fine dell'unità di autore, che è sostituito da un autore collettivo e per molti versi anonimo. L'ultimo filosofo classico, costruttore di universi e di sistemi, è probabilmente Leibniz; dopo di lui sarà difficile, se non impossibile, attribuire in toto una filosofia a un autore singolo: nelle scienze matematiche e matematizzate l'autore è la comunità scientifica nel suo insieme.
Con l'ingresso dello scienziato collettivo, perdono interesse e valore le vicende e le credenze personali. Quello che conta non è ciò che lo scienziato crede o il sistema nel quale inserisce le sue ricerche, ma quello che di queste ultime la comunità accetta e conserva nella sua memoria collettiva. Kepler può ben avere una cosmologia intrisa di magia geometrica, può ben scrivere oroscopi o credere alle anime dei pianeti, quello che ha importanza sono le sue leggi che regolano l'astronomia planetaria. Le credenze alchemiche di Newton, se mai ci sono veramente state, vengono immediatamente espunte dalle teorie newtoniane dell'ottica e della gravitazione.
Segno tangibile dell'evoluzione della scienza, da ricerca isolata a impresa collettiva, sono le accademie che sorgono in tutta Europa nella seconda metà del XVII secolo. Le più importanti sono in Inghilterra, la Royal Society, fondata nel 1661, e in Francia, l'Académie des Sciences, che inizia la sua attività nel 1666. Anche altrove sorgono società scientifiche, ma spesso si dissolvono (come l'Accademia del Cimento a Firenze, attiva tra il 1657 e il 1667), o alternano periodi di attività ad altri di stasi. Accanto a queste accademie 'statali', non mancano numerose società private, che in alcuni casi ‒ il più famoso dei quali è quello della Royal Society, nata da un gruppo di scienziati che fin dal 1645 si riuniva presso il Gresham College ‒ si trasformeranno in accademie pubbliche. Contemporaneamente all'affermarsi delle società scientifiche, sorgono le prime di pubblicazioni periodiche, antesignane delle riviste scientifiche moderne. In alcuni casi si trattava essenzialmente di resoconti dell'attività delle accademie alle quali facevano riferimento; è questo il caso delle "Philosophical Transactions of the Royal Society", fondati da Henry Oldenburg nel 1665, o dei "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences". Altre riviste erano invece pubblicate privatamente, come il "Journal des Sçavans" che iniziò le sue pubblicazioni nel 1666. In Italia, il "Giornale de' Letterati", stampato dapprima a Roma dal 1668 al 1680, ha vita breve, per poi rinascere nel secolo successivo sotto varie forme e in varie città: Venezia, Modena, Pisa. Molto più importante fu l'influenza degli "Acta Eruditorum", pubblicati a Lipsia da Otto Menke a partire dal 1682. All'inizio gli "Acta Eruditorum", come anche il "Giornale de' Letterati", erano una raccolta di recensioni dei libri pubblicati in Europa. Tuttavia, in breve tempo, si trasformarono radicalmente e ‒ pur senza perdere del tutto il loro carattere enciclopedico ‒ divennero un luogo di pubblicazione di ricerche originali, in particolare riguardanti il nuovo calcolo infinitesimale di Leibniz, che nel 1684 vi pubblicò la sua famosa memoria che darà origine al calcolo.
Le riviste scientifiche determinano un radicale cambiamento nel modo di comunicare della scienza, provocando un'importante accelerazione nella circolazione del sapere, seconda soltanto a quella generata dall'invenzione della stampa. Dopo un breve periodo di indecisione, i risultati e le scoperte originali prendono sempre più la strada della pubblicazione immediata su riviste, a scapito della più lenta e faticosa elaborazione nei volumi che, da veicolo di comunicazione per le novità, diventano via via opere che concludono e riassumono ricerche già eseguite, ma i cui risultati si trovavano sparsi su differenti periodici, e scritti in vario stile e in varie lingue.
A sua volta, l'affermarsi di questo nuovo modo di comunicazione accentua il carattere collettivo dell'impresa scientifica: nessuno scienziato potrà dirsi l'unico autore di una nuova teoria alla quale hanno necessariamente contribuito un rilevante numero di studiosi di ogni parte d'Europa. Se i semi del calcolo differenziale vengono gettati con la pubblicazione della memoria di Leibniz del 1684, la costruzione del calcolo è un'impresa di tutta una comunità di studiosi: Newton, i Bernoulli, de l'Hôpital, Varignon, e via via una serie di autori disseminati nei principali paesi europei. Il risultato, come si diceva, è che la comunità scientifica si impone come autore collettivo, selezionando e filtrando i contributi dei singoli, ed eliminandone le parti che non passano il giudizio di conformità scientifica.
Via via che questa nuova organizzazione del sapere si afferma, sono accettate solo domande formulate in termini matematici, e che quindi ammettono risposte quantitative. Diventa così possibile dare una scienza del tutto nuova anche di soggetti antichissimi come il moto dei gravi, perché, come osserva Galilei nei Discorsi,
si erano trovate alcune proprietà di minore importanza, come per esempio che il moto naturale dei gravi si accelera di continuo; ma secondo quale proporzione avvenga questa accelerazione fin qui non si sapeva; nessuno infatti, che io sappia, aveva mostrato che gli spazi percorsi in tempi uguali da un mobile a partire dalla quiete seguono la proporzione dei numeri dispari dall'unità. Si era osservato che i proiettili si muovevano lungo una linea curva; ma che fosse una parabola, nessuno lo aveva provato. (EN, VIII, p. 190)
Di qui anche un nuovo ruolo per l'esperienza, che da osservazione, in cui il ruolo del soggetto è sostanzialmente passivo, diventa esperimento, un processo cioè di interrogazione mirata, finalizzato a dare risposte quantitative a domande precise. La nuova scienza che il Seicento crea è la fusione delle 'certe dimostrazioni e sensate esperienze'.
Simmetricamente, le necessità del 'filosofo geometra' richiedono una matematica che vada al di là dei limiti, che si rivelano subito troppo angusti, della matematica classica. Si crea così una spirale, in cui ogni progresso della matematica ne allarga il campo di applicazione permettendo di trattare fenomeni fisici altrimenti inavvicinabili e, viceversa, ogni volta che un nuovo settore scientifico è incluso nell'universo della geometria, richiede alla matematica un ulteriore progresso e un nuovo ampliamento di orizzonte.
Alla fine del secolo, i principî della filosofia naturale sono diventati ormai 'principî matematici'; gran parte della filosofia naturale ‒ l'astronomia, la meccanica, l'idrostatica, la scienza delle acque, addirittura il moto degli animali ‒ è entrata a far parte delle regioni della matematica.
Il ruolo della matematica nella Rivoluzione scientifica è stato spesso drasticamente sottovalutato, mentre uno spazio considerevole è riservato alla discussione delle nuove tendenze e delle nuove idee. È certo che senza nuove idee la ricerca non può che ridursi a ripetizione e commento di teorie sempre più antiquate; ma con le sole idee, senza un'adeguata elaborazione anche tecnica, si fa soltanto confusione. In un periodo effervescente come il Seicento, tutti hanno idee; pochi però riescono a dar loro una forma e un contenuto che ne assicuri la permanenza al di là di una stagione effimera.
Questo punto di vista storiografico ha due conseguenze spiacevoli. La prima è che viene frequentemente privilegiato il primo apparire di un concetto, spesso ancora in forma acerba ed embrionale, rispetto al momento del suo effettivo dispiegarsi: nella bottega delle idee si trovano solo le primizie. In questa storia delle idee, tutto avviene sempre 'prima': Barrow dimostra il teorema fondamentale del calcolo integrale, Fermat inventa la derivata e di conseguenza il calcolo differenziale, Pacioli calcola un logaritmo, Oresme dimostra le leggi che regolano il moto dei gravi, Cavalieri calcola gli integrali delle potenze. In questo risalire all'indietro è sempre più difficile fermarsi: la scoperta del teorema fondamentale del calcolo è stata anticipata e rivendicata a Torricelli; il preteso 'logaritmo' di Pacioli si trova esattamente uguale nelle Regoluzze di Paolo Dagomari (Paolo dell'Abbaco).
La seconda conseguenza è che si sopravvalutano gli scritti teorici e metodologici, rispetto alle scoperte scientifiche, e si preferiscono coloro che indicano come si dovrebbe procedere nel cammino del sapere scientifico rispetto a quelli che questo cammino percorrono effettivamente e faticosamente, quasi sempre lungo strade diverse da quelle che i primi pretendono di tracciare. Ma il progresso della scienza non passa che in piccola parte per la strada del metodo; esso si fonda in primo luogo sul lavoro, anche tecnico e laborioso, dello scienziato militante. Come diceva Edison, il genio è per il 5% ispirazione e per il 95% traspirazione.
Scrivere la storia della matematica del XVII sec., come di ogni altro periodo, significa soprattutto, e in primo luogo, esaminare le scoperte più significative e rilevanti dell'epoca, sia dal punto di vista dell'impostazione metodologica e dell'innovazione concettuale, sia da quello delle difficoltà inerenti ai problemi trattati e delle tecniche introdotte per superarle. Bisogna tenere ben presente che tra i due punti di vista non c'è né successione temporale, né dipendenza concettuale; al contrario, molto spesso una proposta metodologica si afferma soltanto quando sono stati creati gli strumenti per condurla a termine e una nuova idea è rilevante solo perché porta con sé le tecniche che permettono di farla uscire dal bozzolo e di condurla al grado di maturità necessario per dare dei frutti duraturi. In questa sorta di selezione naturale, solamente le idee che sono sorrette da tecniche adeguate sopravvivono; le altre, tutt'al più, possono dare testimonianza di un periodo di grande fermento, quale fu il Seicento, il secolo della fantasia e dell'invenzione.
Anche con questo criterio di selezione, che tiene conto solo dei reali progressi e trascura le velleità che non trovano esiti positivi, la matematica che il Seicento ci lascia in eredità è radicalmente nuova. Se per miracolo un matematico, come Viète o Stevin, si fosse risveglito nel 1699 e avesse cercato di mettersi al corrente delle ultime scoperte della sua disciplina, avrebbe avuto non poche difficoltà a capirne il linguaggio e i metodi. Il secolo che era sorto sotto il segno dei classici ritrovati nel testo e nello spirito, si chiude con la loro emarginazione dal corpo vivente della matematica. Il loro studio, che pure continua, cambia totalmente direzione; le opere di Euclide, di Apollonio, di Archimede ‒ cento anni prima ritenute le basi necessarie per intraprendere una ricerca nel campo delle matematiche ‒ all'alba del XVIII sec. diventano oggetto di studi eruditi, che mirano soprattutto a darne edizioni rigorose e corrette. Tutto un corpus di opere è spostato dal campo della matematica a quello della filologia e sostituito dalle discipline nate nel frattempo: la geometria analitica, il calcolo delle probabilità e soprattutto il calcolo infinitesimale; nuovi metodi e nuove tecniche che costituiscono ancora oggi la base della ricerca matematica.
Bortolotti 1947: Bortolotti, Ettore, La storia della matematica nella Università di Bologna, Bologna, Zanichelli, 1947.
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Duhem 1913: Duhem, Pierre, Études sur Léonard de Vinci, Paris, Hermann, 1906-1913, 3 v.; v. III: Les précurseurs parisiens de Galilée, 1913.
Vacca 1914-15: Vacca, Giovanni, Il primo logaritmo neperiano calcolato prima di Nepero, "Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino", 50, 1914-1915, pp. 290-292.