La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. L'aristotelismo e le sue alternative
L'aristotelismo e le sue alternative
Durante la Rivoluzione scientifica l'organizzazione della conoscenza della Natura subì modifiche conseguenti ai considerevoli cambiamenti che investirono sia gli aspetti teorici sia la pratica delle ricerche scientifiche. L'aristotelismo scolastico aveva un ruolo dominante nell'istruzione e nelle istituzioni determinando l'intera 'geografia' di un sapere organizzato secondo un modello in cui le discipline erano concepite e strutturate gerarchicamente a partire da quelle superiori alla filosofia naturale, come la metafisica o la teologia, fino a quelle a essa subordinate, come i diversi tipi di storia o le matematiche miste. Questo modello di organizzazione della conoscenza, ben impresso in ogni persona istruita, tendeva a essere riprodotto anche nelle filosofie naturali che si proponevano come alternative a quella scolastica.
Nelle sue versioni cristiane, l'aristotelismo, secondo concezioni teologiche che potevano variare nelle diverse confessioni e nei diversi autori, descriveva e spiegava l'intero Universo, la sua relazione con Dio e, in modo implicito o esplicito, la posizione dell'uomo al suo interno. Come ogni altro sistema che ne avrebbe conteso l'egemonia, l'aristotelismo si fondava su quattro elementi portanti: una teoria della sostanza, una cosmologia, una teoria della causalità e un'epistemologia da cui discendeva una teoria del metodo. Nel modello aristotelico scolastico le sostanze, materiali e immateriali, che formavano il Cosmo erano composte di materia e di forma. La materia era suddivisa in cinque elementi; quattro per le sostanze terrestri (terra, acqua, aria e fuoco) e un quinto per le sostanze celesti (etere). Il Cosmo, finito e geocentrico, era formato da una serie di sfere concentriche composte del quinto elemento che trasportavano intorno alla Terra, centrale e immobile, le stelle, i pianeti, il Sole e la Luna. Mutamenti e moti erano regolati dalle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Il metodo della conoscenza scientifica era quello esposto negli Analitici secondi e in altre opere logiche, secondo cui dal particolare si risaliva ai principî e alle cause stabilendo, per mezzo di asserzioni universali, giudizi che potevano poi essere applicati al particolare.
Alla base di ogni sistema di filosofia naturale c'erano anche una o più 'metafore', modelli o immagini privilegiati che, nel caso delle differenti versioni dell'aristotelismo scolastico, potremmo definire anacronisticamente di contenuto e tenore 'biologico'. La Natura era considerata come una gerarchia di enti (o sostanze) differenziati qualitativamente, in cui ogni singolo individuo ricercava, nel corso di un'esistenza finita, il raggiungimento di finalità naturali. Il cambiamento naturale, opposto a quello causato artificialmente, era un processo finito volto alla realizzazione di finalità già presenti in potenza nell'individuo che vi era sottoposto. Questo valeva sia per la ghianda che cresce sulla quercia sia per il moto naturale della caduta di una pietra che, muovendosi, segue la tendenza naturale della sua pesantezza e ha come finalità la quiete nel punto più vicino possibile al centro della Terra, che è anche il centro del Cosmo. Nella filosofia naturale aristotelica, questo orientamento era legato alla mancanza di interesse per la pratica e la sperimentazione, in cui i processi naturali delle sostanze sono interrotti, distorti e forzati lungo traiettorie diverse dai percorsi naturali dei loro cambiamenti.
Per comprendere il ruolo di discipline scientifiche come l'ottica, l'astronomia o la descrizione di piante e animali nel sistema aristotelico, è necessario considerare lo statuto della filosofia naturale, della conoscenza metafisica e di quella matematica.
Secondo gli aristotelici, la filosofia naturale ha come oggetto ciò che cambia ed esiste indipendentemente da noi. Essa studia sia le sostanze che esistono in Natura sia le relazioni causali che le legano in un tutto ordinato, o Cosmo. La matematica, al contrario, ha come oggetto ciò che è immutabile ma non ha un'esistenza indipendente dalla nostra, in quanto le figure geometriche e i numeri ‒ diversamente da quanto riteneva Platone ‒ esistono solo nella nostra mente. Per questo, secondo gli aristotelici la spiegazione filosofica di una cosa riguardava questioni legate alla materia e alla causalità ed era completamente diversa da quella matematica i cui principî erano figure o numeri.
Semplificando il significato di un termine che sia gli aristotelici sia i filosofi successivi utilizzano in modo ambiguo, si può considerare la metafisica come lo studio di ciò che esiste indipendentemente da noi e non è soggetto al mutamento. Nel suo significato letterale di 'dopo la fisica', il termine indicava l'ampia e astratta analisi delle categorie costitutive utilizzate sia nella filosofia e nella matematica, sia nell'analisi della materia, della causa, dello spazio e del tempo, sia nelle questioni riguardanti lo statuto ontologico e la possibilità di conoscere questi concetti generali.
Le discipline che Aristotele e i suoi successori scolastici ritenevano subordinate alla filosofia naturale erano, innanzi tutto, le scienze matematiche 'miste' o 'subordinate', come l'ottica, l'astronomia e la meccanica (che riguardava lo studio delle macchine semplici). Esse occupavano una posizione intermedia tra la filosofia naturale e la matematica. L'indagine sulla natura fisica della luce e sulle sue proprietà fisiche, per esempio, riguardando principî di materia e causa, rientrava nella filosofia naturale. Al contrario, una scienza matematica mista come l'ottica geometrica, che studiava le linee dei raggi luminosi considerandole 'fisiche' invece che 'matematiche', e forniva spiegazioni matematiche dei fenomeni ottici, secondo Aristotele era una disciplina limitata poiché non poteva penetrare la natura fisica, le proprietà e il comportamento causale della luce.
La superiorità della filosofia naturale, da cui provenivano le spiegazioni che riguardavano la reale natura delle cose, costituiva un principio ben radicato quando, all'inizio del XVII sec., filosofi naturali ostili all'aristotelismo attribuirono un ruolo via via più importante sia alle matematiche miste sia alla conoscenza e alle spiegazioni matematiche. Gli autori scolastici più inclini all'innovazione avevano anch'essi iniziato già da tempo a mitigare l'emarginazione aristotelica della matematica. Gli sviluppi delle discussioni sorte verso la metà del secolo precedente nell'Università di Padova intorno alla certitudo mathematicarum (ossia intorno allo statuto delle dimostrazioni matematiche in rapporto alle dimostrazioni sillogistiche su cui, solamente, si fondava la scienza aristotelica) sono presenti nelle opere di autori scolastici come il gesuita Benito Pereyra (1535 ca.-1610), professore di fisica al Collegio Romano, che ne parla nel De communibus omnium rerum naturalium principiis et affectionibus (1576; la prima edizione, del 1562, aveva un titolo diverso), più volte ripubblicato durante il Seicento; Cristoforo Clavio (1537-1612), professore di matematica al Collegio Romano e curatore dell'edizione degli Elementi di Euclide prevalentemente adottata per l'insegnamento della matematica; Giuseppe Biancani (1566-1624), allievo di Clavio e professore di matematica all'Università di Parma, autore del fortunato trattato di cosmografia Sphaera mundi (1620) e di una De mathematicarum certitudine dissertatio, pubblicata nel 1615 in appendice agli Aristotelis loca mathematica.
L'astronomia geometrica costituisce un caso esemplare di matematica mista. Non riguardando i principî causali e materiali del moto planetario ma soltanto modelli geometrici utili per salvare le apparenze, essa era ritenuta priva del valore esplicativo della filosofia naturale. Gli elaborati strumenti geometrici dell'astronomia di Claudio Tolomeo ricadevano al di fuori di ogni plausibile interpretazione reale e quindi al di fuori di ogni spiegazione filosofico-naturale del Cosmo; tuttavia i concetti fondamentali impiegati erano chiaramente modellati sulla filosofia naturale aristotelica. Il Cosmo era finito; in esso la Terra occupava il centro, la regione celeste era distinta da quella terrestre ed era affermato il primato del moto circolare uniforme. Le connessioni tra questo modello astronomico-geometrico e la filosofia naturale aristotelica stabilivano un legame concettuale che, per quanto sottile, era nondimeno reale. Quando, nel tardo XVI sec. e nei primi anni del XVII, l'astronomia presentata da Niccolò Copernico (1473-1543) nel De revolutionibus orbium coelestium fu al centro di un acceso dibattito, essa non fu considerata un insieme di nuove ipotesi di calcolo ma un sistema che descriveva la reale struttura fisica e il reale regime causale del Cosmo: un'astronomia implicava una filosofia naturale non-aristotelica.
Per altre discipline miste i problemi non erano altrettanto complessi. L'ottica geometrica, per esempio, consisteva prevalentemente di diagrammi di raggi geometrici, delle loro regole di costruzione e di un insieme di problemi canonici come le proprietà degli specchi, la legge della rifrazione, la spiegazione dell'arcobaleno e di altri effetti ottici singolari. Per la loro spiegazione scientifica sarebbe stato possibile utilizzare qualsiasi teoria della materia: la 'propagazione delle specie' scolastica, il movimento degli atomi, la propagazione delle sostanze immateriali neoplatoniche, le tesi meccaniciste del passaggio di corpuscoli di luce, della propagazione di pressioni meccaniche o delle propensioni al moto in un mezzo. Soltanto più tardi, durante la fase critica della Rivoluzione scientifica, negli studi di ottica di Johannes Kepler (Ad Vitellionem paralipomena, 1604; Dioptrice, 1611) e di René Descartes (Dioptrique, 1637) si cercarono, da un lato, una più stretta interazione tra la teorizzazione dell'ottica e la soluzione dei problemi e, dall'altro, nuove spiegazioni naturali. Le nuove teorie filosofiche della materia e della causalità iniziarono a verificare più approfonditamente i dettagli tecnici dell'ottica geometrica, ed erano questi ultimi, a loro volta, a determinare l'esattezza delle tesi filosofiche.
Tra il 1590 e il 1650 si diffusero filosofie naturali alternative all'aristotelismo che provocarono il suo progressivo logoramento. Dopo la metà del XVII sec. la filosofia di Aristotele, nonostante avesse continuato a essere insegnata nella maggior parte delle università almeno per un'altra generazione, aveva perso la sua egemonia culturale. Le concezioni dominanti della Natura divennero quelle meccaniciste che, dopo un periodo di consolidamento e di istituzionalizzazione, furono modificate e parzialmente sostituite dalla dottrina postmeccanicista esposta nei Philosophiae naturalis principia mathematica di Isaac Newton pubblicati nel 1687, in cui assumevano un ruolo determinante il concetto di forza e un'entità causale immateriale: la gravità. Da questo punto di vista, la Rivoluzione scientifica può essere considerata più un vasto processo di cambiamento e trasformazione della filosofia naturale che lo scontro fra un aristotelismo scolastico 'medievale' e decadente e una nuova scienza 'moderna'.
Molti fra gli avversari dell'aristotelismo scolastico fondarono le loro dottrine su diverse forme di neoplatonismo, comprese quelle in cui erano presenti dottrine magiche, alchemiche ed ermetiche, e sostennero esplicitamente programmi utopici e irenici di riforma religiosa, sociale e intellettuale. Semplificando, si può ricondurre la maggior parte degli esponenti di queste tendenze alla 'filosofia chimica' e alla 'filosofia magnetica', differenziandole dalla filosofia meccanicista che, per quanto alternativa all'aristotelismo, forniva al tempo stesso una risposta alle minacce sociali, politiche, etiche e teologiche poste dalle altre.
Dalla seconda metà del XVI sec. fino all'inizio del XVII, l'aristotelismo scolastico, resistendo alle molteplici critiche che aveva subito durante il periodo della Riforma, si era rafforzato sia all'interno delle istituzioni controllate dai protestanti sia nella Chiesa cattolica militante uscita dal Concilio di Trento. Tra la fine delle due guerre di religione (1598) e lo scoppio della guerra dei Trent'anni (1618), la neoscolastica, protestante e cattolica, imponeva curricula sempre più rigidi che rivelavano la propensione di entrambe le parti alla ripresa delle ostilità nei luoghi in cui era sorto il conflitto sulla Riforma: Germania, Paesi Bassi e Francia.
La crisi politica e religiosa di questo periodo favorì la proliferazione dei programmi alternativi all'aristotelismo fra cui prevalse il meccanicismo. Gli uomini di cultura assunsero come imperativo la ricerca e l'affermazione di un 'vero' sistema della filosofia naturale, poiché ritenevano che il programma di ricerca 'corretto' per la conoscenza naturale avrebbe fornito il necessario supporto alla 'vera' religione e un insieme di direttive per il progresso della vita pratica e morale. Il fatto che non ci fosse consenso su quale fosse la vera religione determinava sia l'intensità degli scontri fra le diverse tendenze sia l'impossibilità di una loro conclusione definitiva.
Esisteva un'ampia gamma di filosofie naturali alternative a quella scolastica, ma in questa sede ci occuperemo solo dei sistemi maggiori e, in particolare, di quelli che, avendo un seguito ampio e influente, potevano rappresentare una concreta alternativa al programma di ricerca aristotelico-scolastico: la filosofia chimica, i cui maggiori esponenti furono i seguaci di Paracelso, Andreas Libau, Robert Fludd e Jan Baptista van Helmont; la filosofia magnetica di William Gilbert; la filosofia meccanicista di Galileo Galilei, René Descartes, Thomas Hobbes e Pierre Gassendi.
La filosofia chimica
La filosofia chimica, come molte delle alternative alla filosofia naturale aristotelica, attinse abbondantemente alle dottrine neoplatoniche riscoperte e studiate nel Rinascimento e nel XVI secolo. Essa condivideva con altre filosofie d'ispirazione neoplatonica la visione dell'Universo come un organismo: una gerarchia di parti diversamente animate, unificata da legami di potere spirituali e da corrispondenze. La conoscenza del linguaggio di tali corrispondenze poteva favorire il dominio sulla Natura, e il modo per penetrare questo codice era la partecipazione intuitiva, sostenuta da un adeguato stato etico e spirituale del soggetto conoscente. La conoscenza del codice delle influenze spirituali avrebbe permesso di manipolarle per ottenere effetti utili ed edificanti. Al soggetto umano conoscente erano riconosciuti un mandato e uno status speciale poiché, posto il sistema di corrispondenze tra l'uomo (il microcosmo) e l'Universo immenso (il macrocosmo), non solo gli uomini erano capaci di conoscere la Natura nella sua interezza, ma questa conoscenza si traduceva anche in livelli sempre più perfetti di autoconoscenza. Tuttavia bisogna notare che alcuni tra gli autori maggiormente influenzati da dottrine neoplatoniche, come per esempio Johannes Kepler, evitarono la dottrina del microcosmo-macrocosmo e la gamma di applicazioni magico-naturali che essa implicava.
Ciò che differenziava i vari programmi dei filosofi chimici era la relazione stabilita fra ontologia neoplatonica, ampiamente condivisa, e magia naturale. Tale differenziazione emergeva in particolare rispetto al contenuto e ai valori propri delle arti e delle pratiche chimiche e, specialmente, rispetto all'uso del sapere chimico nella medicina, che costituiva l'aspetto centrale della rielaborazione antiaristotelica della filosofia naturale proposta da Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, 1493-1541). Nella filosofia chimica il termine 'alchimia', che potrebbe indicare semplicemente la gamma delle arti chimiche terrene, fu rivestito dagli involucri magici e ontologici del neoplatonismo. L'alchimia, in questo modo, divenne il fondamento su cui si organizzarono i programmi di ricerca che dalla filosofia naturale si estendevano fino all'etica, alla metafisica e alla teologia e che inglobavano 'metafore', conoscenze e pratiche alchemiche. Robert Fludd, uno dei filosofi chimici più rappresentativi (autore dell'Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris, metaphysica, physica atque technica historia, pubblicata in due volumi fra il 1617 e il 1618, e della Philosophia Mosayca, pubblicata un anno dopo la sua morte, nel 1638), rivendicava la superiorità religiosa della propria filosofia su quella degli scolastici sostenendo che la sua interpretazione alchemica permetteva di comprendere la descrizione della Creazione esposta nella Genesi. Dio era un alchimista e la Creazione un processo alchemico. In questo caso, l'alchimia non era solamente identificata con nobili interessi etici e spirituali, sublimazione, per così dire, delle pratiche chimiche comuni, ma era individuata come la chiave della Natura e del destino umano.
Ricerche e progetti cui era associata l'alchimia esistevano anche al di fuori di sistemi filosofici interamente fondati su essa. Andreas Libau (Libavius, 1546 ca.-1616) fu uno degli autori che all'inizio del XVII sec. proposero un'alchimia sistematizzata dal punto di vista pedagogico e mirata alla diffusione e all'applicazione di un utile sapere chimico, in parte come reazione a un sistema filosofico alchemico di stampo paracelsiano pienamente sviluppato e altamente spiritualizzato. L'Alchymia che pubblicò nel 1606 offre un'esposizione sistematica e riccamente illustrata delle tecniche e degli esperimenti alchemici. Iniziative di questo tipo fornirono importanti strumenti di riferimento per la pratica e per la sistematizzazione delle conoscenze chimiche.
La filosofia magnetica
Gli inizi della filosofia magnetica si possono far risalire alla pubblicazione, nel 1600, del De magnete di William Gilbert (1544-1603), uno dei testi più influenti della filosofia naturale del tempo. Gilbert costruì il suo programma utilizzando ed estendendo sul piano metaforico l'importante lavoro sperimentale che aveva compiuto sul magnete e sul compasso magnetico. Debitore di una visione ontologica fondamentalmente neoplatonica, Gilbert fondava il suo nuovo sistema della Natura su una teoria in cui il magnetismo terrestre, considerato come un dato acquisito, costituisce una forma di potere quasi spirituale. L''anima' magnetica della Terra è responsabile della sua rotazione sull'asse e, allo stesso modo, poiché altri corpi celesti hanno 'anime' magnetiche, è possibile spiegare tutta una serie di moti celesti. L'obiettivo di Gilbert era sostenere una versione modificata del sistema cosmologico di Tycho Brahe (1546-1601) e conquistare la fama ponendo fine al dibattito copernicano. Per ottenere questo risultato, Gilbert non lavorò su questioni astronomiche o cosmologiche ma sulla struttura e sulla natura della Terra. Utilizzò e reinterpretò l'abilità pratica e la conoscenza di minatori e metallurgisti per sostenere che la magnetite costituisce la vera natura elementare della Terra, che questa è un gigantesco magnete sferico e che, poiché la forza magnetica, anche di un piccolo magnete, è immateriale e spirituale, la natura magnetica dell'intera Terra equivale a un'anima o intelligenza cosmica in grado di muoverla, o almeno di farla ruotare. Egli sosteneva che questa filosofia naturale mostrasse la vera natura della Terra, a differenza del superficiale mormorio degli aristotelici in merito a terra, acqua, aria, fuoco e alle loro qualità. Allo stesso modo, insisteva sul fatto che il suo sapere fosse fondato su una costante attenzione agli esperimenti riportati da artigiani e artisti, e che grazie a esso si sarebbero ottenuti risultati utili come la comprensione e l'uso migliore del compasso magnetico per la navigazione.
A differenza delle altre tradizioni, la filosofia magnetica non ebbe mai una vasta ed energica schiera di difensori singolarmente individuabili. Conosciuta e discussa dai membri di circoli eruditi e di istituzioni come il Gresham College in Inghilterra, essa ebbe un ruolo importante nei dibattiti della comunità scientifica europea per i suoi aspetti filosofico-naturali, tecnici e anche nautici. L'ampiezza del programma magnetico, che si estendeva dalla cosmologia al metodo, all'ontologia, all'interazione con le arti pratiche, coinvolse sia i numerosi sostenitori sia i non pochi oppositori in discussioni sorte intorno ai suoi aspetti specifici che ne mantennero viva l'immagine fino agli anni Sessanta del XVII secolo.
Abbiamo già parlato, a proposito dell'aristotelismo, del ruolo dei modelli e delle metafore in un sistema di filosofia naturale. Questi elementi possono provenire da differenti ambiti culturali: da professioni particolarmente apprezzate (è il caso degli ingegneri per l'affermazione delle metafore tratte dalla meccanica o dall'orologeria) oppure da presunti concetti guida di uno specifico campo del sapere naturale privilegiato dai seguaci di quel particolare sistema. Inoltre, poiché differenti programmi di filosofia naturale adottarono differenti modelli e metafore, essi incorporarono ed espressero alcuni valori e interessi a spese di altri. Un programma di filosofia naturale imponeva, attraverso curricula accademici o radicandosi in altre istituzioni rilevanti in campo politico, religioso o sociale, una certa immagine del genere umano e degli scopi delle sue attività.
La filosofia meccanicista
Nelle diverse forme di meccanicismo, il mondo era concepito come una macchina e descritto attraverso complessi di macchine semplici e automi. Le intricate funzioni dei congegni che esemplificano la concezione di questa Natura-macchina riguardavano unicamente la disposizione geometrica e il moto relativo delle parti, ma secondo tale concezione la Natura, per avviare e mantenere le sue attività, implicava un Dio trascendente, allo stesso modo in cui le macchine per muoversi avevano bisogno di forze motrici esterne. La filosofia meccanicista raccoglieva e veicolava diverse esigenze culturali, sociali e teologiche: da quelle tecnico-pratiche degli ingegneri e dei matematici dediti alle applicazioni della disciplina fino a quelle più intellettuali degli studiosi della tradizione meccanica archimedea, medievale e rinascimentale, e alle prospettive volontariste della teologia protestante e giansenista. Gli ingegneri univano spesso alle competenze tecniche e all'attività pubblica conoscenze e interessi filosofici che conferivano alla professione un nuovo statuto scientifico e sociale. Alcuni matematici erano dediti anche alla conoscenza pratica o alla sperimentazione con le macchine semplici, e gli studiosi di meccanica conoscevano ed elaboravano la loro disciplina utilizzando, oltre alle opere di Archimede e ai testi medievali dedicati alla scientia ponderum, i trattati cinquecenteschi in cui si tentava di ricavare dalla conoscenza meccanica una possibile scienza geometrica del moto. Il meccanicismo, inoltre, era adatto anche a inglobare l'enfatizzazione del volontarismo caratteristica dei protestanti (e, in ambito cattolico, dei giansenisti), secondo cui il genere umano e la Natura dipendevano totalmente dal libero volere del Creatore. Complessivamente, aderire al meccanicismo significava riconoscere un alto valore a un'ipotetica geometrizzazione della Natura, alla sperimentazione (una macchina si conosce smontandola e rimontandola) e a una qualche relazione volontarista tra Dio e il mondo.
I cambiamenti che investono una scienza, un'arte, o che implicano una nuova considerazione sociale per alcune figure professionali, possono avere importanti ripercussioni sulla costituzione di un determinato indirizzo filosofico naturale attraverso l'adozione o il rifiuto dei modelli o di alcune immagini privilegiate che essi veicolano. Come era già avvenuto nel caso dell'alchimia, che Paracelso aveva nobilitato ed esteso, per mezzo di metafore, fino a fondarvi un intero sistema filosofico, i rapidi cambiamenti che investirono la statica e la meccanica favorirono l'affermazione di immagini che provenivano da queste scienze nell'elaborazione delle concezioni meccaniciste. Se il meccanicismo adottava e perfezionava le spiegazioni ipotetiche avanzate e diffuse nell'élite culturale, la filosofia chimica capitalizzava le conoscenze provenienti dalle pratiche dei chimici. La filosofia magnetica, invece, veicolava l'idea di Gilbert secondo la quale, per la filosofia naturale, la via principale verso la verità era tracciata dagli sforzi congiunti di certi studiosi non scolastici e di alcune categorie di uomini pratici: navigatori colti, matematici sperimentali e persone che avevano fatto esperienze relative alla 'vera' natura della Terra e dei suoi elementi costitutivi.
I promotori delle nuove filosofie condividevano due atteggiamenti polemici nei confronti dell'aristotelismo scolastico: la rivalutazione delle arti pratiche e l'insoddisfazione per l'insufficienza delle risorse della filosofia scolastica a fronte di nuove esigenze intellettuali e pratiche. Nei primi decenni del XVII sec., accanto ai grandi ideatori e sistematizzatori delle nuove filosofie naturali ‒ meccanicista, magnetica e chimica ‒, c'era una moltitudine di scienziati e uomini di cultura che, pur condividendone le esigenze, non era in grado di elaborare pienamente modelli filosofici interamente nuovi e originali. La comunità scientifica europea era costituita da una ricca costellazione di personaggi le cui posizioni non erano in tutto e per tutto riconducibili ai sistemi elaborati dai maggiori esponenti delle nuove filosofie naturali; essi, infatti, lavorando in proprio, ne rivedevano e ne rielaboravano individualmente solo alcuni aspetti.
Per quanto si possa schematicamente affermare che, rispetto alla polemica sull'aristotelismo, esistessero soltanto aristotelici e antiaristotelici, le singole tradizioni erano ben lontane dall'essere internamente coerenti e omogenee. La rivalità era dominante e ognuna di esse era soggetta a dispute non solo con gli esponenti di altre tendenze, ma anche al suo interno.
Fra gli esponenti maggiori dei sistemi meccanicistici, per esempio, non c'era un pieno accordo su molti aspetti della dottrina, e l'affermazione del meccanicismo fu in certa misura rallentata dal dibattito fra i sostenitori dei diversi orientamenti. Nonostante l'importanza dei testi pubblicati fin dagli anni Venti del Seicento, la filosofia meccanicista si impose soltanto dopo il 1660 e una delle ragioni della sua lenta affermazione fu la mancanza quasi totale di consenso tra le dottrine di Galileo Galilei, René Descartes, Thomas Hobbes e Pierre Gassendi. Negli anni Venti e Trenta del Seicento erano stati pubblicati testi fondamentali come Il Saggiatore (1623) e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) di Galilei, gli Essais di Descartes (Dioptrique, Météores e Géométrie), stampati nel 1637 insieme al Discours de la méthode e, ancora, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze pubblicati da Galilei nel 1638. L'esposizione completa di un sistema filosofico meccanicista si ebbe, però, soltanto nel 1644, con la pubblicazione dei Principia philosophiae di Descartes.
Le polemiche
Una grande complessità di posizioni si riscontra anche nell'ambito della filosofia chimica. Alcuni luterani radicali tedeschi che si erano autodefiniti 'Rosacroce' e alcuni loro sostenitori, tra cui l'inglese Robert Fludd, dibattevano con altri filosofi chimici, come Andreas Libau, o neoplatonici, come Johannes Kepler, che avevano obiettivi per alcuni versi simili ma posizioni politiche e religiose o anche scientifiche completamente opposte. Il domenicano Tommaso Campanella (1568-1639), attento alle valenze religiose e politiche delle nuove filosofie, fu coinvolto, a sua insaputa, nella polemica: il suo editore Christoph Besold, dapprima legato agli ambienti da cui era sorto il movimento, espose le proprie critiche ai Rosacroce in un'appendice alla Von der Spanischen Monarchy (La monarchia di Spagna) del 1623. Una prospettiva più scientifica che politico-religiosa animò invece gli scritti dedicati da Kepler a respingere le critiche e il sistema rosacrociano di Fludd.
C'erano anche ulteriori complicazioni. In primo luogo, diverse tradizioni tendevano a stabilire alleanze contingenti su questioni particolari. Per esempio, sia Kepler sia Marin Mersenne (1588-1648) impugnarono la pericolosa e insensata filosofia naturale di Fludd, ma secondo prospettive filosofico-naturali e teologiche diverse: luterano attento alle tematiche neoplatoniche e pitagoriche, il primo; aristotelico aperto alle nascenti esigenze del meccanicismo, nonché teologo cattolico, il secondo. Le polemiche, tuttavia, potevano sorgere anche all'interno degli schieramenti. Andreas Libau e Robert Fludd, per esempio, rispetto ai Rosacroce si schierarono su posizioni opposte. Quando, all'indomani della divulgazione della Fama fraternitatis, il manifesto programmatico diffuso dai Rosacroce nel 1614, si avviò il dibattito sull'attendibilità del progetto che ‒ veicolato anche dalla Confessio fraternitatis del 1615 e dalle Chymische Hochzeit Christiani Rosenkreutz (Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz) pubblicate anonime nel 1616 da Johann Valentin Andreae ‒ coinvolse gran parte della comunità scientifica europea, Libau attaccò decisamente il movimento respingendone la dottrina fondata sull'armonia fra microcosmo e macrocosmo come anche l'uso della magia, della cabala e dei testi ermetici. Egli espose le sue critiche nell'Analysis confessionis fraternitatis de Rosea Cruce (1615) e nell'Admonitio de regulis novae rotae seu harmonicae spherae fratrum de societate Roseae Crucis iuxta famae editae indicem compresa nell'Appendix necessaria syntagmatis arcanorum chymicorum del 1615. Fludd si schierò, invece, in difesa dei Rosacroce pubblicando, nel 1616, l'Apologia compendiaria, ampliata l'anno successivo nel Tractatus apologeticus integritatem societatis de Rosea Cruce defendens.
Fludd fu anche al centro di altre polemiche, come quelle che lo contrapposero a Kepler, poi a Mersenne e, attraverso quest'ultimo, a Pierre Gassendi. Kepler aveva attaccato la filosofia di Fludd e in particolare la sua concezione dell'armonia del mondo in un'appendice degli Harmonices mundi (1619), cui Fludd aveva risposto nel Veritatis proscenium […] seu demonstratio quaedam analytica del 1621. Kepler replicò, a sua volta, aggiungendo al Prodromus dissertationum cosmographicum del 1621-1622 una risposta contro lo scritto di Fludd (Item eiusdem J. Kepleri pro suo opere Harmonices mundi, apologia adversus demonstrationem analyticam Roberti de Fluctibus, recita il sottotitolo). Di nuovo, Fludd contrattaccò con la Replicatio ad apologiam J. Kepleri contenuta nel Monochordum mundi del 1622. L'anno seguente, nelle pagine del vasto commento ai primi sei capitoli della Genesi, le Quaestiones celeberrimae in Genesim, Marin Mersenne confutò le opinioni di Fludd circa l'armonia del mondo (sulla scorta di Kepler) come anche le pericolose posizioni teologiche e le speculazioni cabalistiche ed ermetiche su cui si fondava il suo sistema. Fludd replicò al teologo con il Sophiae cum moria certamen e il Summum bonum (firmato da Joachim Frizius) del 1629. Mersenne affidò l'incarico di replicare al confratello François de La Noue e all'amico Pierre Gassendi che nel 1630 pubblicarono, rispettivamente, il Judicium de Roberto Fluddo e l'Epistolica exercitatio. Il dibattito si protrasse ancora con la pubblicazione, nel 1633, della Clavis philosophiae et alchymiae fluddanae, nella quale Fludd volle rispondere alle critiche di La Noue, di Gassendi e del loro ispiratore Mersenne.
Il giovane Descartes, verso la fine del secondo decennio del Seicento, poté interessarsi alle attività dei Rosacroce e insieme intraprendere, sotto la tutela di Isaac Beeckman (1588-1637), lo studio approfondito della matematica e dei risultati tecnici ottenuti dal 'neoplatonico' Kepler in materia di ottica e di meccanica celeste.
La competizione
Insieme al dispiegarsi della crisi della filosofia naturale, all'inizio del XVII sec., emerse da parte di alcuni la tendenza a elaborare una versione epurata e conciliante della propria filosofia allo scopo di conquistare il supporto programmatico all'interno e all'esterno dello schieramento di appartenenza. Il progetto di Francis Bacon, per esempio, esposto in opere come il Novum organum (1620; seconda parte della più ampia Instauratio magna), il De augmentis scientiarum (1623), e ancora nelle postume Sylva sylvarum e New Atlantis (pubblicate nel 1626), era costruito anche rielaborando posizioni filosofiche radicali e pericolose dal punto di vista politico e religioso adattate a un progetto di riforma radicale del sapere sotto il controllo dello Stato. Nel campo della filosofia chimica, Jan Baptista van Helmont (1579-1644) elaborò una filosofia naturale alchemica epurata dai potenziali eccessi ‒ religiosi, psicologici e politici ‒ del paracelsismo, ma senza sacrificarne l'attenzione all''esperienza' o all'approccio chimico verso la Natura. La tendenza verso una rielaborazione dello scetticismo che coniugasse al rifiuto del dogmatismo filosofico l'osservanza della teologia cattolica orienta la filosofia meccanicista di Gassendi.
Nel rivolgere l'attenzione alle rivalità fra le tradizioni di pensiero o interne a ognuna, bisogna anche considerare che tutti i contendenti riconoscevano di trovarsi in un 'dominio' culturale comune di stampo aristotelico da cui le diverse filosofie naturali traevano origine. Gli esponenti delle filosofie meccanicista, chimica e magnetica, pur rifiutando apertamente l'aristotelismo scolastico, continuavano per molti versi a dipendere dal lessico tecnico e dalla 'grammatica concettuale' che esso imponeva attraverso il sistema educativo. In altre parole, tutti i filosofi naturali disponevano di un insieme condiviso di regole per la costruzione e la difesa dei loro programmi di ricerca e per i loro attacchi contro i rivali. Prendere in considerazione questo punto aiuta a comprendere modalità e tecniche della contesa filosofica, l'emergere del meccanicismo e, in modo altrettanto importante, gli sviluppi successivi della filosofia naturale da cui si avviarono un graduale processo di differenziazione dagli altri campi del sapere e, contemporaneamente, un suo dissolvimento in discipline scientifiche più specifiche.
Ogni nuovo programma filosofico favoriva sviluppi e scoperte e provocava un rinnovamento nei procedimenti dimostrativi e nello sviluppo delle scienze 'subordinate' che incrementava il senso di competizione fra i diversi sistemi filosofici. Lo stesso aristotelismo poteva ancora, in concorrenza con i sistemi alternativi, fornire un orientamento concettuale per specifiche ricerche scientifiche avanzate. I concetti aristotelici continuarono a nutrire ricerche fisiologiche e anatomiche come quelle di William Harvey (1578-1657) che estendevano il programma profondamente aristotelico di 'anatomia comparata' condotto da Girolamo Fabrici d'Acquapendente (1533 ca.-1619) a Padova. Gli aristotelici intervennero attivamente nei dibattiti sulle scoperte sperimentali e sui nuovi strumenti scientifici fino alla metà del XVII sec. e oltre. Si è già parlato dell'opera di Gilbert e più avanti si esaminerà il modo in cui le scoperte naturali di Kepler relative all'ottica, all'astronomia e alla meccanica celeste furono avanzate tenendo conto, anche polemicamente, di prospettive neopitagoriche e neoplatoniche. La filosofia chimica non era priva di nuove pretese che apparivano piuttosto plausibili a molti contemporanei, come dimostra l'adozione delle cure iatrochimiche di Paracelso e più tardi delle novità introdotte da van Helmont (cui si deve una prima spiegazione del concetto di 'gas').
Oltre alla competizione nel compiere nuove scoperte, i sostenitori dei differenti programmi di ricerca erano impegnati anche nel tentativo di appropriarsi di quelle degli altri o di confutarle. Era una questione tattica: se una scoperta o una ricerca aveva un ruolo centrale all'interno di un programma rivale, allora bisognava appropriarsene, reinterpretarla oppure minimizzarne il ruolo e, in qualche modo, neutralizzarla. Così, Descartes si appropriò delle fondamentali scoperte della circolazione del sangue e dei movimenti del cuore esposte da Harvey nel De motu cordis (1628) modificandone profondamente l'originario impianto aristotelico e adattandole alla sua fisiologia meccanicista.
Fludd avallò la scoperta del suo amico Harvey secondo una prospettiva alchemica, ma ne rivestì il significato di connotazioni mistiche che solo i più fedeli seguaci della sua filosofia naturale poterono apprezzare. Nell'Anatomiae amphitheatrum del 1623 Fludd aveva spiegato che come nel macrocosmo, a causa del movimento circolare del Sole (sede dello Spirito Santo, da cui emanavano la luce e lo spirito vitale), allo 'spirito' veniva impresso un movimento circolare, allo stesso modo nel microcosmo del corpo umano il sangue, in quanto veicolava lo spirito vitale, doveva circolare. Tuttavia, a causa degli attacchi incrociati cui era sottoposta, la questione della circolazione del sangue restò al centro di un dibattito irrisolto. Gassendi, uno dei primi sostenitori del meccanicismo, fu comprensibilmente desideroso di respingere l'interpretazione di Fludd del significato della circolazione sanguigna, ma nella sua critica si spinse oltre, ristabilendo, contro Fludd e Descartes e sulla base di testimonianze anatomiche di prima mano, la teoria dei pori di Galeno nel setto del cuore. Per Gassendi la concezione galenica spiegava l'identità tra sangue venoso e arterioso, una tesi tipica di Harvey.
L'incontro strategico di Descartes con l'opera magnetica di Gilbert fornisce un esempio di quanto abbiamo esposto fin qui. Non volendo incrementare il numero degli esperimenti ideandone di nuovi, Descartes assimilò quelli di Gilbert senza aggiungere elementi originali. Gilbert utilizzava il magnete con lo scopo di fondare un nuovo sistema di filosofia naturale magnetica con chiare connotazioni neoplatoniche, che incorporasse e supportasse una versione modificata della cosmologia ticonica. Questo era il 'significato' originario dell'opera magnetica che Descartes assimilò, ricompose e sottomise alle prospettive del suo programma meccanicistico. Le riflessioni di Gilbert sul magnete costituivano un passo troppo importante sul piano della filosofia naturale per essere ignorate dagli oppositori. Così gli sforzi di Descartes erano volti a reinterpretare il lavoro sperimentale di Gilbert in termini meccanicisti piuttosto che a estendere il numero e la tipologia degli esperimenti sul magnetismo. Descartes ebbe cura di mantenere e far proprio l'elemento centrale del sistema di Gilbert, ovvero il significato 'cosmico' del magnetismo. Egli sostituì la cosmogonia di Gilbert e il ruolo vincolante della forza magnetica spirituale con la versione meccanicista di un Cosmo ancora magnetico, ma grazie all'effetto meccanico di una specie di atomi particolare per forma e dimensione che si muovono al suo interno e attraverso aggregazioni opportunamente configurate di 'materia sottile'.
Probabilmente, il livello più profondo di questa strategia fu raggiunto nel momento in cui entrarono in gioco intere discipline e le loro scale di valori. Abbiamo già visto come il meccanicismo fosse in un certo senso legato alla base metaforica di una scala di valori modellata sulla meccanica e sulle aspettative di coloro che la praticavano. In modo simile, la filosofia chimica dipendeva, per orientamento tecnico e valori, dalla nozione di un'alchimia spirituale e pratica al tempo stesso. In questa duplice forma l'alchimia espresse importanti aspirazioni morali e psicologiche: la ricerca di redenzione attraverso il sapere esoterico e il successo nelle attività pratiche. Questi aspetti erano parzialmente condivisi e furono certamente assimilati nei progetti filosofici di Bacon, di Descartes e dei loro successori nel corso del XVII secolo. Per i meccanicisti, la natura e il 'controllo' dell'alchimia erano una questione particolarmente strategica. I valori e gli scopi attribuiti all'alchimia dal paracelsismo e dalla successiva filosofia chimica erano assimilati, ripuliti da risonanze politiche e religiose e resi accettabili per élite intellettualmente progressiste ma socialmente conservatrici: un pubblico pronto ad accogliere la filosofia meccanicista. La stessa alchimia era spogliata delle sue valenze spirituali e ricondotta entro una teoria meccanicista della materia, mentre l'utilità sociale era ora raggiunta attraverso un metodo appropriato e risultati empirici piuttosto che per mezzo dell'intuito e della sapienza esoterici.
Questo stesso modello competitivo di produzione di nuovi esperimenti e dati scientifici, accompagnato da lotte all'interno delle differenti correnti tese a deviare, assimilare o interpretare le tesi altrui, si protrasse fino alla metà del XVII sec., un periodo che registra un interesse crescente per l'indagine sperimentale e per gli strumenti. Così, lo stupore suscitato dal 'barometro' di Evangelista Torricelli (1608-1647) e più tardi dalla pompa ad aria di Robert Boyle (1627-1691) non riguardò soltanto la costruzione e la trasmissione di uno strumento o la scoperta e la riproduzione di alcuni dati sperimentali, ma veicolò dibattiti sulla composizione della materia, sull'esistenza del vuoto e sul superamento della concezione aristotelica, tramandata nell'adagio scolastico natura abhorret a vacuo, attraverso l'uso di esperimenti e strumenti adeguati. I meccanicisti, gli aristotelici e gli ultimi eredi della filosofia chimica dibatterono sulla natura dei dati sperimentali, sul loro significato, sul funzionamento degli strumenti e, in ultimo, su cosa fossero realmente gli strumenti.
In termini moderni si potrebbe dire che le differenze tra le diverse correnti portarono a discutere sull'integrazione dei dati e degli strumenti nelle teorie e sulle conseguenze di entrambi sulle metateorie, ossia sulle filosofie naturali sostenute dai diversi protagonisti. Questa situazione ha due importanti conseguenze per l'analisi dei cambiamenti nell'organizzazione del sapere: una riguarda il metodo storico e l'altra è collegata agli sviluppi successivi del processo che stiamo descrivendo.
In primo luogo, se è senza dubbio vero che la scienza sperimentale proposta dai nuovi filosofi naturali si fondava su 'dati di fatto' ben provati, certi e ateorici, che potessero costituire la pietra di paragone di ogni argomento ‒ in quanto ottenuti attraverso procedimenti sperimentali ripetibili da altri scienziati ed eruditi ‒, bisogna anche considerare che tutto ciò non implicava l'improvviso spodestamento della vecchia filosofia naturale. Una simile frattura non avvenne alla metà del XVII sec., né più avanti. Ogni 'dato di fatto' poteva essere incorporato all'interno degli schemi interpretativi delle teorie aristotelico-scolastiche e, quanto più esso era considerato significativo e profondamente innovativo per la filosofia naturale, tanto più tendeva a essere spiegato e assimilato dagli esponenti dei vari schieramenti. La comunicazione verbale sui dati sperimentali era una caratteristica dei protocolli operativi delle accademie e delle nuove società scientifiche, eppure nella Royal Society e nell'Accademia del Cimento le discussioni circa le nuove teorie che i dati sperimentali dovevano supportare seguivano un preciso e importante impianto retorico che prevedeva anche confronti polemici fra diverse correnti di filosofia naturale in competizione tra loro o al loro interno.
Il secondo aspetto della situazione riguarda l'importanza assunta dalla sperimentazione per le conseguenze da essa gradualmente determinate sull'organizzazione del sapere e sulla dissoluzione della filosofia naturale in più specifiche e autonome discipline sperimentali. La rivalità che caratterizzava i rapporti all'interno delle diverse correnti e il confronto fra i sostenitori dei differenti indirizzi filosofico-naturali fornì un ulteriore impulso alla sperimentazione e alla ricerca di nuovi strumenti e attrezzature che caratterizzassero le varie tendenze. Questo rigoglio di attività, animato anche dalla competizione, determinò uno slancio verso la novità, la produttività e la fecondità. Quando, dopo il 1660, la filosofia meccanicista divenne la visione generalmente accettata, sostenuta da un'approssimativa retorica baconiana dell'esperimento, dell'utilità e del progresso (veicolata in primo luogo dai membri della 'baconiana' Royal Society), la competizione si spostò, in certa misura, dalle polemiche sui 'sistemi' filosofici all'impegno in domini particolari, di cui crescevano l'importanza e l'ampiezza, ove si richiedeva una competenza sempre più specifica nella realizzazione e nell'uso degli strumenti, e nella pratica sperimentale.
La rivalità fra i diversi indirizzi filosofico-naturali ebbe importanti ripercussioni sulle discipline esistenti e in particolare sulla matematica mista. Si è già detto che all'inizio del XVII sec., quando si intensificò la rivalità tra i differenti approcci, alcuni filosofi naturali ostili all'aristotelismo rivendicarono un ruolo più centrale per le spiegazioni matematiche nella scienza naturale, mentre alcuni autori scolastici iniziarono a riconsiderare l'emarginazione della matematica all'interno dell'aristotelismo. Questi cambiamenti, dovuti agli sviluppi della matematica mista e alla necessità della sua emancipazione dalla gabbia epistemologica in cui era stata relegata dall'aristotelismo, occupano una posizione centrale nell'organizzazione del sapere durante il XVII secolo. Ambiti della matematica mista in cui l'innovazione e l'approfondimento furono maggiori, come per esempio l'ottica e l'astronomia, diventarono terreno di discussioni e di polemiche tra le correnti filosofiche che implicavano un cambiamento sia in quelle particolari scienze subordinate sia nelle filosofie naturali che si contendevano i risultati ottenuti per mezzo di esse e discutevano il loro nuovo ruolo. Tutto questo favoriva il percorso che avrebbe condotto le discipline matematiche miste verso una relativa indipendenza dalla filosofia naturale.
Kepler, per esempio, si occupò di ottica geometrica e, partendo da una concezione neoplatonica della luce, ottenne brillanti risultati nella teoria della camera obscura, in quella della visione e, in certa misura, anche nella teoria della rifrazione e del telescopio. Emulando i risultati tecnici di Kepler, ma in disaccordo con la sua filosofia naturale neoplatonica, Descartes studiò l'ottica geometrica dal punto di vista della concezione meccanica della luce e conseguì come risultato una teoria generale delle lenti e una versione lineare e funzionale della legge della rifrazione. D'altra parte, aspetti essenziali del sistema meccanicista di Descartes furono modellati sulla base dell'esperienza acquisita a partire dal suo lavoro sull'ottica. Attraverso la pratica dell'ottica e il progresso delle rispettive filosofie naturali, Kepler e Descartes si mossero liberamente tra scoperte ottiche, espedienti tecnici, problemi teorici e pratici e teorie di vasta portata. In breve, l'ottica geometrica, concepita dalla filosofia scolastica come una matematica mista, sotto la spinta di questi impulsi si andava evolvendo in una disciplina dal carattere più marcatamente fisico e matematico, all'interno della quale le questioni che riguardavano la 'materia' e le 'cause' non erano più evitate. Per riprendere la terminologia dell'epoca, l'ottica stava diventando una disciplina 'fisico-matematica'.
L'esempio più noto del conflitto tra filosofie naturali che segna la Rivoluzione scientifica è il dibattito astronomico sulla teoria copernicana. Trattando la nozione aristotelica di matematica mista, si è notato che l'astronomia copernicana diventò una questione critica non in quanto insieme di 'finzioni' utili per i calcoli astronomici ma, piuttosto, per essere una teoria che formulava affermazioni 'reali' sulla struttura fisica del Cosmo e sulle cause che agivano al suo interno. Secondo le regole che abbiamo discusso sopra, questo voleva dire che il copernicanesimo 'reale' richiedeva, per sopravvivere, sempre e dovunque nuove filosofie naturali antiaristoteliche: non poteva esserci alcun copernicanesimo 'reale' senza un'appropriata filosofia naturale. Descartes fondò la verità della sua filosofia naturale sulla verità della sua versione di un copernicanesimo di tipo fisico. Lo stesso modello meccanico che, in ambito cosmologico, spiegava i vortici, poteva spiegare anche la teoria della luce cui si collegavano i brillanti risultati che egli aveva raggiunto nel campo dell'ottica geometrica. Questa sorta di collegamento biunivoco tra copernicanesimo 'reale' e filosofia naturale antiaristotelica è manifesto nelle teorie elaborate da Kepler sulle orbite planetarie, sulle cause fisiche del moto dei pianeti e sulla struttura dell'Universo copernicano. Come nell'ottica, la tendenza generale era ancora quella di procedere verso la considerazione fisica di determinate questioni astronomiche che Kepler faceva rientrare nella categoria di 'fisica celeste'. L'antica matematica mista dell'astronomia tolemaica si stava trasformando non solo come teoria particolare ma anche come genere, spostandosi lentamente verso le discipline fisico-matematiche e la meccanica celeste, un risultato raggiunto gradualmente e talvolta ostacolato che si affermerà soltanto con la completa ricezione dell'opera di Newton.
Rimane da trattare un ulteriore e decisivo progresso che connota questo periodo: la 'nuova scienza' meccanica di Galileo Galilei (1564-1642). Il suo significato è spesso frainteso e infatti, di solito, non rientra nello schema sin qui delineato dell'emergere delle discipline fisico-matematiche a partire dalla matematica mista. Ma a un esame più approfondito la scienza galileiana può essere fatta rientrare in ciò che si è detto a riguardo dei cambiamenti nell'organizzazione del sapere. Anzitutto, la meccanica di Galilei non fu una versione più semplice della fisica in seguito introdotta da Newton, quanto, piuttosto, un esempio unico di una nuova specie di meccanica classica e, in quanto tale, anche un caso esemplare di quelle discipline fisico-matematiche di cui si è discusso sopra.
La meccanica di Galilei si sviluppò certamente a partire dal dibattito filosofico e alla luce del programma e delle aspettative degli antiaristotelici cultori della scienza delle macchine semplici. Essa, infatti, rappresentava in qualche modo il punto di arrivo, lungamente desiderato, della ricerca di una scienza del moto e di una meccanica antiaristoteliche. Ma Galilei non era un filosofo sistematico e la sua meccanica più che offrire formule, metodi o algoritmi facilmente ripetibili era un ideale, o un'ispirazione per l'introduzione di nuove e autonome discipline fisico-matematiche. Si trattava di una scienza sui generis che consisteva in un edificio concettuale gerarchico in cui l'elaborazione teorica era strettamente legata agli esperimenti, reali o immaginari. La meccanica moderna, compresa anche la fisica celeste, diventerà la principale disciplina tra le scienze fisiche dei secc. XVIII e XIX, ma la scienza meccanica di Galilei ne fu soltanto un primo abbozzo. I filosofi meccanicisti che la accettarono lo fecero soprattutto sul piano retorico: né Gassendi, né Descartes, né Hobbes la integrarono nei loro sistemi.
Le ultime due generazioni del XVII sec. furono segnate dall'esaurirsi dei dibattiti sulla filosofia naturale che avevano segnato la prima metà del secolo e dalla nascita e diffusione di diversi tipi di filosofia meccanicista fusi, ciascuno in modo diverso, con una dottrina del metodo, approssimativamente riconducibile a Francis Bacon, che attribuiva alla scienza fondamenti empirici e sottolineava l'importanza dell'uso degli strumenti e i possibili benefici delle nuove scoperte sul piano tecnologico e sociale. Come si è visto, non esisteva un'ampia area di consenso tra la prima generazione di filosofi meccanicisti. In genere, tuttavia, il meccanicismo si era imposto ovunque e le differenze interne erano state superate grazie a protagonisti di spicco come Robert Boyle e Christiaan Huygens; la polemica tra Boyle e Hobbes, infatti, riflette l'insistente e sempre più inadeguata ambizione di quest'ultimo a conquistare l'egemonia all'interno del meccanicismo.
L'ampio consenso intorno a un'epistemologia e a un metodo che riflettevano singoli aspetti del pensiero di Bacon, Descartes e Gassendi, costituiva uno dei motivi dell'affermazione delle filosofie meccaniciste. Le spiegazioni scientifiche erano ricondotte alla materia, alla disposizione dei corpuscoli che la componevano e al loro movimento (anche se secondo diverse concezioni del moto), e stabilivano che i precisi modelli corpuscolari per mezzo dei quali era possibile illustrare particolari tipologie di fenomeni avevano soltanto carattere ipotetico e probabile. Seguendo la retorica baconiana, si enfatizzava la mera accumulazione di dati fattuali, ma l'obiettivo era di produrre spiegazioni meccaniciste dei fenomeni naturali. Questa visione permeava la versione convenzionale della filosofia meccanicista in Inghilterra e nell'Europa continentale verso la fine del XVII secolo. In questo contesto di ampie convergenze su aspetti epistemologici e metodologici, ma di profonda varietà e differenziazione nelle spiegazioni e nei modelli di tipo corpuscolare-meccanicista adottati, la retorica dei filosofi meccanicisti si spinse verso qualcosa che, in termini moderni, può essere definito come un moderato empirismo scettico, anche se la concezione corpuscolare e meccanicista della sostanza, su cui erano fondate le spiegazioni scientifiche, non fu mai abbandonata.
Se agli elementi di convergenza fra i diversi indirizzi meccanicisti si aggiungono l'adesione (con la possibile esclusione del circolo di Boyle) a un approccio matematico alla Natura e la riflessione baconiana sull'utilità e il progresso sociale, otteniamo la vulgata di un trionfo del meccanicismo sperimentale matematico e votato all'utilità. Tuttavia, le implicazioni legate a queste tre caratteristiche non si prestano a una tale semplificazione, che nasconde il fatto che la filosofia meccanicista fu sperimentale, matematica e utilitaristica in gran parte soltanto in senso retorico e velleitario. Essa puntava all'utilità ma i risultati in questo senso erano scarsi. L'aspetto sperimentale, inoltre, non era fondato su un metodo sperimentale efficace, trasmissibile e unico. Alla norma, imperativa e retorica di 'eseguire esperimenti' e all''appello ad affermazioni fondate' corrispondeva, nella pratica scientifica, una sperimentazione che variava a seconda del campo di applicazione.
Secondo gli aristotelici, la filosofia naturale non avrebbe dovuto fondarsi sulla sperimentazione né essere orientata verso vantaggi pratici, e neppure essere una disciplina matematica. Il fatto che la filosofia naturale ‒ vale a dire il meccanicismo che, nelle sue diverse forme, si era affermato praticamente in tutta Europa ‒ si definisse 'sperimentale' e 'matematica' implicava una profonda revisione del suo statuto all'interno dell'organizzazione disciplinare tramandata dall'aristotelismo scolastico, ed evidenziava che erano ormai operative nuove dinamiche culturali e sociali che avrebbero prodotto altri cambiamenti nell'organizzazione del sapere.
L'ulteriore riorganizzazione delle discipline scientifiche conseguente all'affermazione del meccanicismo sperimentale e corpuscolarista ebbe tre caratteristiche principali e correlate. In primo luogo, la filosofia naturale, nella sua versione meccanicista, si era sempre più differenziata sia dalle altre branche della filosofia, come la metafisica, l'etica e l'epistemologia, sia da una relazione diretta con la teologia. Essa si occupava sempre più di istanze pratiche, di sperimentazione e dell'osservazione di curiosità naturali, come anche di una retorica favorevole alla matematizzazione e all'utilità materiale. Ciò tendeva a dare al nuovo meccanicismo sperimentale un carattere più definito e un aspetto più moderno se confrontato con l'ecologia intellettuale del periodo del dominio filosofico aristotelico o con i sistemi filosofici rivali dell'inizio del XVII secolo. A un osservatore superficiale potrebbe sembrare che la 'scienza moderna' ebbe origine dalle macerie di una demolita cultura filosofica.
La situazione non è, in realtà, così semplice, innanzitutto perché l'affermazione del meccanicismo corpuscolare non fu lineare e univoca, ma segnata da articolazioni e differenziazioni profonde difficilmente riconducibili a una monolitica 'scienza moderna' e, secondariamente, perché la particolare conformazione del meccanicismo introdusse la filosofia naturale in un processo che nel volgere di circa un secolo la porterà a dissolversi in un ancor più grande insieme di discipline specialistiche autonome, differenziate sia intellettualmente sia praticamente. A partire dalla metà del XVII sec., cominciarono a emergere discipline più specialistiche per lo studio dell'ambiente terrestre e della sua storia che nel secolo successivo si sarebbero affermate come domini fondamentali della conoscenza naturale: nuove forme di storia naturale, di teologia naturale, e anche nuove teorie sulla struttura e la genesi della Terra. Queste discipline nascenti si fondavano sulla stabile egemonia ottenuta dal meccanicismo tardo seicentesco ma, al tempo stesso, presagivano il processo della definitiva scomparsa della filosofia naturale che sarebbe arrivato al suo compimento alla fine del XVIII secolo.
Durante il periodo dell'aristotelismo scolastico, la filosofia, includendo filosofia naturale, metafisica, etica, epistemologia e metodologia, mostrava una certa unità o almeno consisteva nella salda relazione di articolazioni reciproche. Inoltre, fatta eccezione per le sue forme più radicali, l'aristotelismo scolastico poteva supportare e assimilare la teologia e la religione professate da diverse confessioni cristiane. Fino alla prima metà del XVII sec. questa tendenza verso un sistema completo e unitario, compatibile con l'ortodossia teologica e religiosa, costituì l'asse del conflitto fra i diversi programmi di filosofia naturale. Le profonde innovazioni filosofiche del sistema meccanicista di Descartes, per esempio, riflettevano questa unificazione dell'attività filosofica. Nella versione originaria (senza considerare le varianti dei successori di Descartes), il cartesianesimo aveva una sofisticata metafisica dualista, si fondava su un metodo e un'epistemologia precisi, inglobava l'etica e, attraverso la fisiologia, si estendeva alla medicina. Le relazioni con la teologia erano chiarite all'interno della metafisica (per quanto, in realtà, la loro natura attraeva o respingeva i fedeli di diversi orientamenti teologici, sia cattolici sia protestanti).
Tuttavia, negli ultimi decenni del XVII sec., cominciò a esser chiaro che il perdurante ideale dell'unità della filosofia andava dissolvendosi poiché importanti settori si avviavano verso una relativa autonomia con l'emergere di discipline non più unite a un unico nucleo filosofico. Questo processo si riflette sul destino del sistema cartesiano. Nelle mani del suo ideatore, esso si presentava compatto e ricco di nuovi problemi come le relazioni tra menti immateriali, ontologicamente distinte, e corpi meccanici e corpuscolari; la natura e il fondamento della conoscenza del mondo naturale, meccanico-corpuscolare; la portata teologica di ogni versione del meccanicismo. Il dibattito suscitato da Marin Mersenne intorno alle Meditationes de prima philosophia (1641), da lui pubblicate su incarico di Descartes, rivela come gli interlocutori di Descartes quali, per esempio, Pierre Gassendi, Thomas Hobbes e Antoine Arnauld (1612-1694) tendessero a discutere problemi relativi alla metafisica dualista della materia e dell'anima, all'etica e all'epistemologia, al di fuori di questioni tecniche o di filosofia naturale. Le discussioni intorno a questioni epistemologiche, metodologiche, etiche o che riguardavano la concezione della sostanza cominciavano a manifestare il bisogno di relazioni fondate e tecnicamente informate fra la scienza e la filosofia naturale.
Questo processo è parimenti visibile se prendiamo in esame particolari categorie tradizionali come quelle di 'sostanza' e di 'causa' e consideriamo i cambiamenti intervenuti nel luogo e nello stile delle relative discussioni. Il meccanicismo corpuscolare aveva dissolto la nozione aristotelica di sostanza intesa come ciò che mantiene proprietà e comportamenti. Le proprietà che l'aristotelismo e il senso comune attribuivano alle cose materiali subirono una radicale scissione: nel mondo fisico potevano esistere soltanto la materia, i suoi moti e le loro combinazioni; le proprietà sensoriali e le qualità delle cose furono relegate alla mente umana. La riflessione epistemologica sempre più autonoma di filosofi inglesi come John Locke (1632-1704), George Berkeley (1685-1753) e, più tardi, di David Hume (1711-1776) avrebbe tratto le estreme conseguenze di questa tendenza. In larga misura il dibattito proseguì a prescindere da una stretta dipendenza dalla filosofia naturale e dagli sviluppi tecnici nelle scienze. Una simile evoluzione di autonomi interessi filosofici si ritrova anche nei dibattiti postcartesiani relativi alla causalità.
Per quanto riguarda il lento disgregarsi della filosofia naturale in una moltitudine di specializzazioni 'scientifiche', bisogna prendere in esame due sviluppi paralleli che contribuirono alla virtuale dissoluzione della disciplina unitaria e sistematica. In primo luogo, alcune tra queste discipline rappresentavano il compimento di un lungo processo di rinnovamento dell'antica matematica mista, preparato nel tardo XVI sec. e sollecitato dal conflitto tra le grandi scuole di filosofia naturale all'inizio del XVII secolo. Inoltre, molte delle nuove discipline erano sorte dal seno stesso delle nuove filosofie naturali, soprattutto corpuscolari e meccaniciste.
Per ciò che concerne l'evoluzione della matematica mista, si è visto come essa si emancipò dal ruolo che ricopriva nel modello aristotelico, in cui era considerata un sapere subordinato e inadeguato a fornire spiegazioni circa la realtà naturale. Nella prima metà del XVI sec., la matematica mista fu oggetto di dispute e indagini più accurate da cui si avviò il percorso verso una relativa autonomia. L'ottica di Descartes e Kepler, per esempio, avanzò contemporaneamente allo sviluppo dei loro sistemi di filosofia naturale. In seguito, durante il XVII sec., il processo di matematizzazione dell'ottica si estese da Kepler e Descartes a Hobbes, Huygens, Hooke, Newton e molti altri. All'epoca di Newton e Huygens un gran numero di nuovi fenomeni, questioni e applicazioni pratiche e strumentali finì per sollevare nuovi problemi. Si definì un dominio di competenza fisica e matematica in cui l'ottica si muoveva libera dalla stretta osservanza dei requisiti di ogni singolo sistema di filosofia naturale o anche della filosofia meccanicista dominante.
L'ottica di Newton è stata spesso mal interpretata alla luce di questa connessione: a volte è stata considerata come il punto di origine dell'ottica fisica, altre volte, in modo anche meno plausibile, come il modello operativo per lo sviluppo di altre scienze matematico-sperimentali, all'incirca come la meccanica di Galilei di cui si è parlato. Allo stesso modo di quest'ultima, infatti, l'ottica di Newton, pur costituendo un più ampio processo di formazione di una disciplina fisico-matematica relativamente indipendente, non implicava automaticamente l'inglobamento in altri domini empirici. E ciò avveniva nonostante essa fosse concepita all'inter-no di un modello particolare di filosofia naturale postmeccanicista ‒ caratterizzata da rinnovate nozioni di entità come la forza e l'etere ‒ più compatto e cristallizzato di quelli teorizzati da Kepler e Descartes.
Altri momenti chiave nel processo di emancipazione delle discipline che costituivano la matematica mista furono lo sviluppo della meccanica classica a partire da Galilei e della meccanica celeste che, dopo Kepler e l'affermazione del copernicanesimo 'reale', dovette confrontarsi con una serie di nuovi problemi, lungo un processo che avrebbe trovato una composizione nella sintesi newtoniana. Analoghi esempi potrebbero essere tratti da altre sezioni della matematica mista tradizionale come la statica e l'idrostatica che durante il XVII sec. si caratterizzarono come discipline fisico-matematiche.
La crescita e la trasformazione della matematica mista contribuì ad alterare la natura e il 'centro di gravità' della filosofia naturale. Le discipline fisico-matematiche emergenti che andavano differenziandosi dalla filosofia naturale iniziarono ad assorbire sempre più questioni che precedentemente rientravano in quest'ultima, e la filosofia naturale, a sua volta, si allontanò da campi del sapere come la metafisica, l'epistemologia e l'etica.
L'altro aspetto del processo di disgregazione della filosofia naturale in discipline più specifiche riguarda nuovi ambiti sperimentali non fondati sulle scienze subordinate classiche né matematizzati. Si tratta dello studio del calore, dell'elettricità, del magnetismo (al di là dell'opera di Gilbert), della pneumatica e del versante fisico della chimica incentrato tanto sulla manipolazione quanto sulle proprietà dei gas.
Gaston Bachelard e più tardi Thomas Kuhn hanno rivolto per primi l'attenzione agli aspetti storici ed epistemologici di tali sviluppi rilevando che queste scienze non sono nate dall'applicazione di un unico metodo scientifico in campi differenti. Essi hanno sottolineato, piuttosto, l'eterogeneità di questi studi, la loro dispersione nel tempo e l'idea che ognuno di essi stabiliva i propri criteri per una pratica scientifica fondata in parte su un approccio prescientifico ormai inaccettabile. Quanto a quest'ultimo aspetto, le tesi di Bachelard e Kuhn che invocano 'discontinuità' locali potrebbero essere ritoccate. Le nuove 'scienze sperimentali' si sono infatti formate dall'evoluzione della filosofia naturale dei secc. XVII e XVIII, non attraverso una serie di rivoluzioni e fratture. Le filosofie naturali si contendevano la spiegazione e il possesso di particolari strumenti, esperimenti e gruppi di fenomeni e, dal momento che programmi differenti avevano aree preferite di esplorazione sperimentale e di dimostrazione, la rivalità incoraggiava una proliferazione di contesti e un'intensificazione delle attività che si traducevano nella moltiplicazione di tesi, strumenti e pratiche.
La matematica mista, in seguito alla trasformazione che portò all'affermarsi di scienze fisico-matematiche autonome, si cristallizzò in costellazioni di pratiche le cui strutture concettuali si allontanarono progressivamente dalle loro fonti originali, ovvero dalle diverse filosofie naturali, e iniziarono ad assumere caratteristiche sempre più individuali. Questa stessa dinamica si sarebbe ripetuta per vari motivi nelle aree sperimentali emergenti di cui si è appena parlato. In primo luogo, tra i filosofi naturali c'era un consenso sempre più ampio intorno alla teoria newtoniana che, reintegrando le cause agenti non materiali, forniva qualche aggancio ai cultori delle discipline legate ai fenomeni elettrici, magnetici e pneumatici. In secondo luogo, la retorica del metodo sperimentale, con il suo imperativo per la sperimentazione a ogni costo, implicava una grande attenzione per discipline comunque incentrate sulla pratica sperimentale e sulle manipolazioni.
Il meccanicismo, che si era affermato e si era dato un metodo empirista (non privo di implicazioni retoriche e scettiche), favorì la costituzione di diversi ambiti disciplinari, la loro rivalità e la loro relativa separazione dalla filosofia naturale. Ogni ambito sperimentale potenziava i suoi apparati strumentali, incrementava le scoperte e i protocolli. Allo stesso tempo, i procedimenti esplicativi, che originariamente provenivano dalla filosofia naturale, diventavano sempre più modelli circoscritti, svincolati dal contesto più ampio della filosofia naturale.
Storici come Bachelard e Kuhn selezionano in modo arbitrario i momenti che ritengono il punto d'inizio delle singole discipline scientifiche, ma ciò che è realmente in questione è la dinamica a lungo termine all'interno della filosofia naturale. Lo studio del calore e quello dell'elettricità, per esempio, che alla metà del XVIII sec. rappresentavano corpi disciplinari ben definiti composti da teoria e sperimentazione ai quali si dedicava una classe definita di praticanti, nel secolo precedente era stato relegato ai margini dell'attività scientifica, e raramente dati sperimentali, strumenti scientifici e polemiche provenienti da queste aree tematiche erano affiorati nel dibattito filosofico. Fra queste due epoche si colloca il processo di acquisizione graduale di strumenti, risultati, procedure e tecniche di spiegazione provenienti dalle discipline specialistiche emergenti, di tipo sia fisico-matematico sia sperimentale, parallelamente alla presa di distanza dalla filosofia naturale e dalle polemiche attraverso cui quest'ultimo si andava esaurendo.
Un profondo rinnovamento riguardò anche la storia naturale e le scienze della Terra (e, con esse, la teologia naturale) che non avevano la stessa portata della filosofia naturale di tipo tradizionale ma, se confrontate, per esempio, con l'anatomia umana o l'ottica fisica, rientravano sorprendentemente nel suo raggio d'azione e nelle sue finalità. Gli approcci scientifici dominanti, cartesiano e newtoniano, influenzarono anche il loro sviluppo promuovendo, ancora una volta, la frammentazione della filosofia naturale in una costellazione di nuove imprese scientifiche. Modellandosi sulle moderne forme di acquisizione e di scambio di dati e informazioni scientifiche, queste discipline si arricchirono considerevolmente. La loro natura e gli argomenti trattati, inoltre, richiedevano il mantenimento di rapporti molto stretti, ampiamente dibattuti dagli autori che se ne occupavano, con la teologia e con i sistemi filosofici dominanti.
A partire dalla metà del XVII sec., il centro di questi sviluppi fu una storia naturale sobria, empirica e in qualche misura 'baconiana', che si diffuse con sorprendente velocità insieme alla filosofia meccanicista e scalzò definitivamente il tradizionale modello di 'storia naturale' di animali e piante risalente ad Aristotele e a Plinio. Alla base di questo modello era la convinzione che nel Cosmo ogni ente possedesse significati occulti e che la conoscenza della storia naturale implicasse quella del maggior numero di tali significati. Ogni specie di animale, per esempio, non rappresentava che un aspetto di una complessa ragnatela di metafore, simboli ed emblemi. Si trattava di un tipo di storia naturale che s'integrava con il neoplatonismo e con molte istanze della filosofia chimica. La nuova storia naturale rifiutò questo gioco di significati, privilegiando invece la raccolta di esemplari e i resoconti scientifici anche di carattere particolare. Contro la tradizionale proliferazione di segni e di simboli, gli storici naturali considerarono le parole come meri strumenti, segni convenzionali, e ritennero che il loro compito consistesse nella raccolta metodica di dati esposti utilizzando un linguaggio preciso, sobrio e non poetico. Alla luce di questo nuovo spirito, la Royal Society mise al bando il vecchio modo 'simbolico' di studiare la storia naturale.
Questi rinnovamenti influenzarono anche la teologia naturale. Tutto ciò che costituiva la Natura, le piante e gli animali con le loro caratteristiche e i loro comportamenti, era stato voluto da un Creatore, onnipotente e infinitamente saggio, per realizzare una perfetta armonia e utilità, a loro volta espressione della bellezza e della benevolenza del disegno divino. Bontà, utilità e armonia, chiaramente, erano determinate da un punto di vista umano (o, più precisamente, europeo e cristiano) poiché, nella Creazione, l''uomo' ricopriva un ruolo privilegiato nel completamento del disegno divino. La teologia naturale si conciliava con i valori della filosofia meccanicista ed entrambe, in successione, delinearono lo spazio culturale in cui si potevano inquadrare le scienze della Terra. Queste ultime non si concentravano sulla storia del Cosmo in genere ma su quella più specifica del nostro pianeta, ancora considerata coestesa con la storia dell'umanità, come insegnava la Bibbia. Il fatto che il libro della Genesi continuasse a sembrare una descrizione realistica alla grande maggioranza degli intellettuali non implicava in alcun modo una semplicistica interpretazione letterale del testo. Per quanto riguardava la storia umana e della Terra, la Bibbia conteneva verità che richiedevano ulteriori spiegazioni razionali ed empiriche che rientravano nell'ambito della filosofia naturale. Fornire tali spiegazioni era compito di discipline come la cronologia o la nascente critica biblica, di cui il Tractatus theologico-politicus, pubblicato anonimo da Spinoza nel 1670, costituisce una significativa testimonianza. Le nuove teorie convenzionali della Terra erano intese come tramite privilegiato delle spiegazioni filosofiche naturali che dovevano tracciare la storia della Terra in accordo con la Genesi contribuendo al chiarimento del significato del racconto biblico.
La Sacred theory of the Earth, pubblicata nel 1681 da Thomas Burnet, fu la prima delle nuove storie della Terra a seguire questo indirizzo. Burnet si distingueva dai suoi sempre più numerosi avversari e successori ‒ come John Woodward (1665-1728) o William Whiston (1667-1752) ‒ per tre aspetti fondamentali: seguiva la filosofia di Descartes piuttosto che quella di Newton; non teneva in dovuta considerazione l'accumulazione di dati che riguardavano la storia naturale, come per esempio la distribuzione dei fossili, delle forme del terreno e la stratigrafia; rifiutava l'idea armonica di una Terra creata divinamente e conservata provvidenzialmente dopo il Diluvio. Ancora una volta si andava verso una specializzazione di ricerche derivate dalla filosofia naturale che ne favorivano la dispersione e la frammentazione a discapito dell'antico imperativo di collegare la filosofia naturale alla teologia.
Fu l'intensificazione delle dispute e dei dibattiti della prima metà del XVII sec. ad avviare gli sviluppi, volontari o meno, che definirono una nuova organizzazione del sapere alternativa a quella di stampo aristotelico-scolastico. Ciò avvenne tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII sec., quando la filosofia naturale si allontanò da altre branche della filosofia e iniziò a trasformarsi in discipline e ambiti di indagine naturale derivati, più specialistici e semiautonomi. Le discipline che scaturirono da questo processo svilupparono complessi legami tra loro e con la religione, così come con l'attenuato ideale culturale di una comprensione unificata della filosofia naturale, avviandosi, attraverso la specializzazione, verso forme riconoscibili come moderne.
Bachelard 1965: Bachelard, Gaston, La formation de l'esprit scientifique, 9. ed., Paris, Vrin, 1965 (1. ed.: 1946).
‒ 1975: Bachelard, Gaston, Le nouvel esprit scientifique, 13. ed., Paris, PUF, 1975 (1. ed.: 1946).
Boschiero 2002: Boschiero, Luciano, Natural philosophising inside the late seventeenth century Tuscan court, "British journal for the history of science" (in corso di stampa).
Dear 1995: Dear, Peter, Discipline and experience. The mathematical way in the scientific revolution, Chicago, University of Chicago Press, 1995.
Galluzzi 1981: Galluzzi, Paolo, L'Accademia del Cimento. 'Gusti' del principe, filosofia e ideologia dell'esperimento, "Quaderni storici", 16, 1981, pp. 788-844.
Kuhn 1970: Kuhn, Thomas S., The structure of scientific revolutions, 2. ed., Chicago, University of Chicago Press, 1970 (1. ed.: 1962; trad. it.: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969).
Lenoble 1971: Lenoble, Robert, Mersenne ou la naissance du mécanisme, rist. anast., Paris, Vrin, 1971 (1. ed.: 1943).
Rossi 1970: Rossi, Paolo, Philosophy, technology and the arts in the early modern era, transl. by Salvator Attanasio, edited by Benjamin Nelson, New York, Harper & Row, 1970 (ed. orig.: I filosofi e le macchine (1400-1700), Milano, Feltrinelli, 1962).
Schuster 1990a: Schuster, John A. - Watchirs, Graeme, Natural philosophy, experiment and discourse in the 18th century: beyond the Kuhn-Bachelard problematic, in: Experimental inquiries. Historical, philosophical and social studies of experimentation in science, edited by Homer E. Le Grand, Dordrecht-Boston, Kluwer, 1990, pp. 1-48.
‒ 1990b: Schuster, John A., The scientific revolution, in: Companion to the history of modern science, edited by Robert Olby [et al.], London-New York, Routledge, 1990, pp. 217-242.
‒ 1997: Schuster, John A. - Taylor, Alan. B.H., Blind trust. The gentlemanly origins of experimental science, "Social studies of science", 27, 1997, pp. 503-536.
Shapin 1994: Shapin, Steven, A social history of truth. Civility and science in seventeenth-century England, Chicago, University of Chicago Press, 1994.
Taylor 1994: Taylor, Alan B.H., An episode with May-dew, "History of science", 32, 1994, pp. 163-184.