La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Galilei e la geometria del moto accelerato
Galilei e la geometria del moto accelerato
Tra l'impressionante numero di testi scientifici, anche altamente innovativi, pubblicati durante il XVII sec., i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638) di Galileo Galilei rappresentano forse l'opera che più delle altre testimonia del nuovo metodo scientifico, caratterizzato dalla fusione tra linguaggio matematico e indagine filosofica. Qui, per la prima volta si assiste a una compenetrazione profonda tra il linguaggio astratto della geometria e il procedere analogico e discorsivo della filosofia naturale che in quella trova la lingua di elezione. Si assiste qui alla creazione di una nuova disciplina, non più solamente speculativa e allo stesso tempo non ancora puramente deduttiva, che separandosi dal corpo della filosofia darà origine alla fisica moderna.
Di questo processo Galilei fu l'ideatore e il primo esecutore; i suoi Discorsi rappresentano la realizzazione di un indirizzo di ricerca che si era delineato fin dai primi studi sul moto dei gravi. Contro l'aristotelismo fossilizzato delle scuole, esso coniuga quanto ancora resta di vitale nella metodologia aristotelica con il metodo archimedeo di indagine matematica dei fenomeni fisici.
Il brano che esprime con maggiore efficacia il punto di vista galileiano, il più noto e ricordato, è quello famosissimo del Saggiatore: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto" (EN, VI, p. 232).
Si tratta di un brano emblematico del metodo galileiano, dove all'immagine consueta ma ancora efficace del libro della Natura, un topos del pensiero cinquecentesco, si sovrappone la novità della lingua matematica e delle sue figure geometriche, senza le quali non si può sperare di decifrarne la struttura.
Il passo del Saggiatore configura un programma di ricerca che Galilei non si limita a enunciare e a suggerire, ma che intraprende fin dai suoi studi giovanili; lungo un percorso tormentato che attraverserà tutta la vita dello scienziato pisano esso troverà la sua realizzazione appunto nei Discorsi. E se questi ultimi rappresentano al tempo stesso il culmine e il termine dell'impegno di Galilei, il programma scientifico che essi configurano si spingerà ben oltre, collegando le ricerche di quegli scienziati di formazione ed esperienza variegate, che vengono comunemente accomunati sotto l'etichetta di 'scuola galileiana'. Gran parte di queste ricerche traggono la propria origine dai Discorsi: Evangelista Torricelli scrive sul moto dei gravi e dei proietti, e perfeziona gli studi incompiuti di Galilei sulla teoria delle proporzioni e sulla forza della percossa; Giovanni Alfonso Borelli riprende tutti questi temi, aggiungendovi un trattato, pubblicato postumo, sul moto degli animali; Vincenzo Viviani e Alessandro Marchetti si rivolgono alla resistenza dei materiali (il secondo pubblicherà un trattato su tale argomento) e trovano in questi studi un'ulteriore ragione di litigio. Lo stesso Bonaventura Cavalieri, che pure non ha dato contributi significativi alla creazione della nuova fisica matematizzata, considerava il suo lavoro sugli indivisibili come parte integrante del programma galileiano, di cui avrebbe dovuto rappresentare lo strumento matematico d'elezione. Infine, unico a trarre ispirazione non dai Discorsi ma dal precedente Discorso [...] intorno alle cose, che stanno in sù l'acqua (1612), Benedetto Castelli con il suo Della misura dell'acque correnti (1628) dava inizio a quegli studi di idraulica, continuati da Famiano Michelini, Domenico Guglielmini, Giovanni Poleni, per non citare che alcuni degli autori grazie ai quali la scuola italiana ebbe un ruolo di primo piano per più di due secoli.
Le due nuove scienze di cui parla il titolo dei Discorsi sono la resistenza dei materiali, elaborata nelle prime due giornate, e la teoria del moto dei gravi, che occupa la Terza e la Quarta. Altre due giornate, la Quinta dedicata alla teoria delle proporzioni e la Sesta, sulla forza della percossa, non giunsero mai a un livello soddisfacente di elaborazione, e restarono manoscritte; saranno pubblicate solo dopo la morte di Galilei, considerate più un omaggio al maestro che un vero contributo al progresso della scienza. La resistenza dei materiali è in effetti scienza del tutto nuova, specialmente la trattazione matematica a cui è dedicata la Giornata Seconda, mentre la Prima è occupata da una serie continua di digressioni sugli atomi, il continuo, la forza di coesione, gli indivisibili e il vuoto. Nessuno infatti prima di Galilei aveva affrontato il problema di determinare il grado di resistenza dei materiali alla rottura, indipendentemente dal ricorso alle 'imperfezioni della materia', che venivano sovente invocate quando, specie nel passaggio dal modello alla macchina, "molte invenzioni riescono in piccolo, che in grande poi non sussistono".
Quanto alla scienza del moto, in particolare il moto dei gravi e dei proietti, classificarla tra le 'nuove scienze' può sembrare a prima vista uno dei paradossi di cui Galilei è maestro; forse tra tutte le scienze nessuna era più antica di questa, e aveva occupato per lungo tempo il proscenio delle discussioni filosofiche. Ancora una volta, la novità non sta nel soggetto trattato, quanto nel modo con cui viene affrontato, cosicché Galilei potrà a ragione aprire la Giornata Terza, nella quale passa bruscamente dal volgare al latino, rivendicando la novità della scienza a dispetto della vetustà del tema: "De subiecto vetustissimo novissimam promovemus scientiam" (EN, VIII, p. 190).
L'apparente paradosso è subito sciolto: certo, l'indagine sul moto è una delle più antiche, e su questo tema sono stati scritti molti ponderosi volumi, ma
si erano trovate alcune proprietà di minore importanza, come per esempio che il moto naturale dei gravi si accelera di continuo; ma secondo quale proporzione avvenga questa accelerazione fin qui non si sapeva; nessuno infatti, che io sappia, aveva mostrato che gli spazi percorsi in tempi uguali da un mobile a partire dalla quiete seguono la proporzione dei numeri dispari dall'unità. Si era osservato che i proiettili si muovevano lungo una linea curva; ma che fosse una parabola, nessuno lo aveva provato. (ibidem)
Non è un passaggio di poco conto, perché richiede l'abbandono di un metodo di ricerca universalmente accettato, quale l'indagine delle cause secondo l'autorità di Aristotele (o anche contro Aristotele, come avevano fatto altri prima di lui, ma sempre nell'ambito del metodo aristotelico di ricerca delle cause del moto). Al suo posto si abbraccia un metodo totalmente nuovo: la descrizione quantitativa dei fenomeni conformemente ai dettami della geometria.
Non si tratta, sia ben chiaro, di inserire alcune tecniche matematiche più o meno corrette in un impianto tradizionale; un'operazione, questa, di cui non erano mancati esempi nel Medioevo e nel Rinascimento. Tra gli altri, Giovanni Battista Benedetti (1530-1590) aveva utilizzato nei suoi opuscoli sul moto ragionamenti basati sulla teoria delle proporzioni, e prima di lui Niccolò Tartaglia (1500-1557) aveva introdotto alcuni metodi geometrici nella discussione della traiettoria dei proietti; tuttavia nell'uno e nell'altro caso questi elementi matematici erano soltanto uno, e non sempre il più importante, dei possibili argomenti utilizzati per sostenere la propria tesi. Anche quando la concatenazione dei ragionamenti era rigorosa, e ciò non avveniva sempre, essi erano inframmezzati da considerazioni di natura difforme: richiamo a una scienza comune e diffusa in Benedetti, a dati dell'esperienza in Tartaglia.
Lo stesso Galilei era passato per un approccio simile nei suoi studi giovanili sul moto, dove in un impianto che restava di stampo essenzialmente aristotelico (anche se le sue tesi divergevano in non pochi punti da quelle dello Stagirita) inseriva occasionalmente elementi geometrici, in particolare quando riprendeva i Galleggianti archimedei, o quando sulla scorta di un'analogia con la bilancia a braccia inclinate affrontava la discesa dei gravi su diversi piani inclinati. Ma mentre per Benedetti e per Tartaglia si trattava di uno stadio finale di elaborazione, per Galilei fu soltanto un punto di partenza: man mano che progrediva nella sua indagine i caratteri matematici si vennero via via accentuando, fino alla completa geometrizzazione dei Discorsi. Da questo punto di vista, il percorso di Galilei è una descrizione esemplare della via matematica verso la Rivoluzione scientifica, percorsa nei fatti e non enunciata a parole.
Anche per un altro verso la parabola galileiana rappresenta un esempio paradigmatico. Infatti se da un lato Galilei persegue fin dall'inizio della sua avventura scientifica il suo programma di geometrizzazione della Natura, dall'altro la matematica che egli possiede, ricevuta in eredità dalla scienza classica, è largamente insufficiente a condurre in porto anche parzialmente un progetto tanto ambizioso. Si genera così una situazione di tensione in cui la nuova filosofia geometrica urge e la matematica resiste; una situazione in cui la matematica è sollecitata a fornire metodi e strumenti nuovi e adeguati alle necessità derivanti dalla continua estensione dei campi di indagine. Da questa pressione sistematica la matematica uscirà completamente trasformata: nel volgere di un secolo si passerà dalle teorie e dalle tecniche della geometria classica ai metodi analitici della matematica moderna. La rivoluzione matematica del XVII sec. è allo stesso tempo fattore determinante ed esito della Rivoluzione scientifica.
L'approccio geometrico di Galilei è già compiutamente delineato all'inizio del nuovo secolo. Così nel 1602 egli può annunciare, scrivendo a Guidobaldo Dal Monte (1545-1607), di aver affrontato con successo la dimostrazione dell'isocronismo della caduta dei gravi lungo le corde di un cerchio con un estremo nel punto più basso, una legge che con perfetto stile geometrico egli fa discendere dalla proporzionalità tra velocità e momento della gravità, dimostrata negli scritti giovanili.
Questo punto merita un'analisi più attenta, poiché investe due aspetti delicati della meccanica galileiana: il momento della gravità e la velocità di un moto accelerato, quale è quello di caduta lungo un piano inclinato. Che il moto di discesa lungo un piano inclinato fosse più lento di quello di caduta libera era evidente a chiunque si fosse appena fermato a osservare. Dato che tutte le altre condizioni erano identiche, questo rallentamento non poteva venire che da una diminuzione della gravità del corpo dovuta all'azione del piano inclinato su cui poggiava. Una tale perdita di peso era però diversa da quella che aveva luogo quando il corpo si trovava immerso in un liquido. Infatti in questo caso si tratta di una vera diminuzione di gravità, dovuta alla spinta archimedea, come è testimoniato dal fatto che se il liquido è più pesante del corpo quest'ultimo sale; mentre nel caso del piano inclinato si tratta piuttosto di una diminuita efficacia della gravità, che rimane peraltro sempre la stessa. A questa efficacia Galilei dà il nome di momento della gravità, una grandezza che è misurata dal peso che occorre appendere a una carrucola per bilanciare quello sul piano inclinato. E siccome il rapporto tra questi pesi è uguale a quello tra l'altezza e la lunghezza del piano, avremo che il momento della gravità sul piano AB sta al momento totale, cioè al peso, come l'altezza AC sta alla lunghezza AB.
Di conseguenza, anche le velocità dei moti lungo l'inclinata e la verticale stanno tra loro come AC sta ad AB. Ma cosa sono queste velocità? Il termine è stato spesso interpretato nel senso di 'velocità uniforme', e in effetti ciò è probabilmente appropriato per gli scritti giovanili di Galilei, quando questi considerava l'accelerazione iniziale come un accidente, che nascondeva la vera natura del movimento. Ma già nella citata lettera a Guidobaldo il carattere del movimento è chiaramente accelerato, e la precedente interpretazione causerebbe seri problemi di coerenza. Né più adatta è l'interpretazione in termini di 'velocità media', un concetto che è estraneo alla terminologia galileiana, basata totalmente sulla teoria delle proporzioni. Si tratta invece con ogni probabilità di una 'velocità complessiva' del movimento, una quantità che ne esprime quantitativamente la maggiore o minore rapidità, e che per molti versi Galilei considera analoga alla velocità di un moto uniforme. È significativo a questo proposito che nella dimostrazione della legge delle corde ex mechanicis che inserisce nei Discorsi, Galilei passi dal rapporto tra le velocità (complessive) lungo due corde a quello tra gli spazi percorsi in tempi uguali invocando "la seconda proposizione del primo libro", cioè la teoria del moto uniforme; una proposizione che afferma che "Se un mobile percorre in tempi uguali due spazi, questi staranno tra loro come le velocità" (EN, VIII, p. 193).
Sul modo di confrontare tra loro queste velocità complessive Galilei non si esprime chiaramente, e specialmente nel primo periodo oscilla tra due modi che, sulla scia di un ben noto passaggio della Fisica di Aristotele, sembra considerare equivalenti: confrontare gli spazi percorsi in tempi uguali a partire dalla quiete, o alternativamente confrontare i tempi impiegati a percorrere lo stesso spazio, sempre a partire dalla quiete. Quando Galilei dimostra la legge delle corde, la scelta è stata fatta, e il primo modo si è imposto definitivamente: se due segmenti come AB e AC sono percorsi nello stesso tempo, le velocità stanno tra loro come gli spazi percorsi. E viceversa, se le velocità, cioè i momenti della gravità, sono proporzionali agli spazi percorsi a partire dalla quiete, questi saranno percorsi nello stesso tempo. Una volta chiarito questo punto, la dimostrazione della legge delle corde è solo una questione di geometria: siccome i momenti lungo AB e lungo AC stanno tra loro come AB sta ad AC, anche le velocità su AB e AC avranno lo stesso rapporto degli spazi AB e AC, che dunque saranno percorsi nello stesso tempo.
Siamo alle origini di quello che nei Discorsi Galilei chiamerà il metodo meccanico; un metodo che permette di confrontare moti che avvengono su piani diversi, purché avvengano nello stesso tempo, misurato a partire dalla quiete. Quando invece si vogliono confrontare moti a tempi diversi, come per esempio gli spazi percorsi da un grave nello stesso moto di caduta, il metodo meccanico rivela i suoi limiti e si dovrà ricorrere ad altri principî.
Perché questi possano emergere, è necessario abbandonare, o almeno mettere in disparte, le velocità olistiche. Queste ultime infatti erano legate a una concezione del moto come fenomeno compiuto, di cui esprimevano la maggiore o minore rapidità. In tale quadro, il movimento lungo un piano inclinato è un evento che si svolge in un determinato tempo, dunque con un inizio e una fine; il metodo meccanico permetteva di confrontare due eventi di questo tipo, purché i tempi di svolgimento fossero gli stessi. Quando invece si considerano movimenti a tempi diversi, in particolare gli spazi percorsi da uno stesso mobile in due intervalli di tempo, il moto è piuttosto un processo, che ha sì un inizio ma non una fine, e che è visto nel suo divenire. In questo caso non si può più parlare di una velocità del moto, ma di tante velocità a seconda degli istanti che si considerano.
Ora, mentre le velocità complessive erano misurate dallo spazio percorso in un dato tempo, queste velocità istantanee, che per definizione permangono solo per un istante, non producono nessun movimento misurabile; per poterle confrontare occorre prendere in esame effetti che si producano a loro volta in un istante. Galilei trova un criterio di confronto nella percossa, e un ambito concettuale nel momento della velocità: un corpo che si muove ha una certa velocità globale, ma quando percuote un ostacolo conta non tutta la velocità, ma soltanto quella nell'istante dell'urto.
Posate un grave sopra una materia cedente, lasciandovelo finché prema quanto egli può con la sua semplice gravità: è manifesto che, alzandolo un braccio o due, lasciandolo poi cadere sopra la medesima materia, farà con la percossa nuova pressione, e maggiore che la fatta prima co'l solo peso; e l'effetto sarà cagionato dal mobile cadente congiunto con la velocità guadagnata nella caduta, il quale effetto sarà più e più grande, secondo che da maggiore altezza verrà la percossa, cioè secondo che la velocità del percuziente sarà maggiore. Quanta dunque sia la velocità d'un grave cadente, lo potremo noi senza errore conietturare dalla qualità e quantità della percossa. (EN, VIII, p. 199)
Sono queste velocità istantanee, questi momenti della velocità, che misurano l'efficacia della velocità in ordine ai fenomeni di urto, che determineranno il moto di un grave cadente e che consentiranno di calcolarne gli spazi percorsi a tempi diversi.
L'ipotesi iniziale deriva direttamente dal legame tra velocità istantanea e percossa: se la percossa è tanto maggiore quanto maggiore è l'altezza di caduta, e se questa diversità delle percosse non può che venire dalle diverse velocità, allora l'ipotesi più naturale è che la velocità sia proporzionale alla percossa, e questa all'altezza, cosicché in ultima analisi la velocità istantanea di un corpo in caduta libera sarà proporzionale all'altezza della caduta. È appunto questo il 'principio indubitabile' ‒ anche se errato ‒ che Galilei presenta a Paolo Sarpi in una famosa lettera del 16 ottobre 1604:
Ripensando circa le cose del moto, nelle quali, per dimostrare li accidenti da me osservati, mi mancava principio totalmente indubitabile da poter porlo per assioma, mi son ridotto ad una proposizione la quale ha molto del naturale et dell'evidente; et questa supposta, dimostro poi il resto, cioè gli spazii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi, et per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come i numeri impari ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proporzione che si discosta dal principio del suo moto; come, v.g., cadendo il grave dal termine A per la linea ABCD, suppongo che il grado di velocità che ha in C al grado di velocità che hebbe in B esser come la distanza CA alla distanza BA, et così conseguentemente in D haver grado di velocità maggiore che in C secondo che la distanza DA è maggiore della CA. (EN, X, p. 115)
Anche se operano congiuntamente, le due ipotesi (percossa proporzionale all'altezza, percossa proporzionale alla velocità) che conducono al principio che Galilei considerava 'naturale ed evidente' non si situano sullo stesso piano concettuale. La prima infatti è un dato dell'esperienza, che si ricava da "tutte le esperienze che veggiamo negli strumenti e machine che operano percotendo, dove il percuziente fa tanto maggiore effetto, quanto da più grande altezza casca" (EN, VIII, p. 373); mentre la seconda è in un certo senso la definizione stessa della velocità istantanea, necessaria per la sua formalizzazione come grandezza geometrica. Infatti, quando la scoperta della corretta legge del moto (la velocità istantanea è proporzionale al tempo) lo costringerà ad abbandonare almeno una delle due ipotesi, egli rinuncerà alla prima pur di serbare la proporzionalità tra percossa e velocità: "Imperò che, essendo quello che perquote il medesimo, non può determinarsi la differenza e momento delle percosse se non dalla differenza della velocità: quando dunque il percuziente, venendo da doppia altezza, facesse percossa di doppio momento, bisognerebbe che percotesse con doppia velocità" (EN, VIII, p. 205).
Nella lettera a Sarpi, Galilei si limita a enunciare i suoi risultati, senza nemmeno accennare a una loro dimostrazione. È in un frammento (che per struttura e contenuto può ritenersi contemporaneo alla lettera a Sarpi) che compare per la prima volta la dimostrazione del teorema fondamentale, quello sulla proporzionalità tra gli spazi e i quadrati dei tempi. Il frammento inizia enunciando l'ipotesi della proporzionalità tra velocità istantanea e la distanza percorsa, ipotesi ripresa subito dopo in termini più formali: "Faccia la linea AK qualunque angolo con la AF, e per li punti C, D, E, F siano tirate le parallele CG, DH, EI, FK: e perché le linee FK, EI, DH, CG sono tra di loro come le FA, EA, DA, CA, adunque le velocità ne i punti F, E, D, C sono come le linee FK, EI, DH, CG. Vanno dunque continuamente crescendo i gradi di velocità in tutti i punti della linea AF secondo l'incremento delle parallele tirate da tutti i medesimi punti" (ibidem, p. 373).
Siamo ora al punto cruciale della dimostrazione: e cioè alla relazione tra le velocità istantanee, che con una significativa mutazione terminologica sono diventate i 'gradi di velocità', e la velocità del moto. Afferma Galilei:
In oltre, perché la velocità con la quale il mobile è venuto da A in D è composta di tutti i gradi di velocità auti in tutti i punti della linea AD, e la velocità con che ha passata la linea AC è composta di tutti i gradi di velocità che ha auti in tutti i punti della linea AC, adunque la velocità con che ha passata la linea AD, alla velocità con che ha passata la linea AC, ha quella proporzione che hanno tutte le linee parallele tirate da tutti i punti della linea AD sino alla AH, a tutte le parallele tirate da tutti i punti della linea AC sino alla AG. (ibidem)
Qui occorre fermarsi un momento, perché è questo uno dei punti centrali del metodo galileiano. Nel moto accelerato dunque abbiamo due tipi di velocità, ambedue variabili: il primo è rappresentato dalla "velocità con la quale il mobile passa una data linea", una velocità globale che gioca lo stesso ruolo della velocità complessiva del metodo meccanico; il secondo dai gradi di velocità. Il punto essenziale è che la velocità complessiva è composta di tutti i gradi di velocità acquisiti nei vari punti della linea in questione; i gradi di velocità (le velocità istantanee) sono in un certo senso i componenti infinitesimi delle velocità complessive, che rappresentano la loro 'somma'. In ogni caso i rapporti tra le velocità complessive sono uguali a quelli tra tutti i gradi di velocità che le compongono.
Per calcolare questi ultimi Galilei si rifà ai rapporti tra tutte le parallele e tutte le parallele, e da questi a quelli tra le aree dei rispettivi triangoli: "e questa proporzione è quella che ha il triangolo ADH al triangolo ACG, cioè il quadrato AD al quadrato AC. Adunque la velocità con che si è passata la linea AD, alla velocità con che si è passata la linea AC, ha doppia proporzione di quella che ha DA a CA" (ibidem).
Le analogie con il metodo degli indivisibili sono qui evidenti, ed è con ogni probabilità in questa dimostrazione di Galilei che si devono scorgere le origini della teoria di Cavalieri. Con una differenza: mentre Galilei si serve delle aree delle figure (in questo caso di figure elementari come i triangoli) per calcolare la 'somma' di tutte le linee, e quindi delle velocità istantanee, Cavalieri opererà un rovesciamento del punto di vista, utilizzando gli indivisibili per calcolare le aree e i volumi delle figure geometriche.
Ma torniamo a Galilei. Una volta ricavati i rapporti tra le velocità complessive (che stanno tra loro come le aree dei triangoli e dunque come i quadrati degli spazi percorsi, dato che le basi sono proporzionali alle altezze) si tratta di ricavare da questi le relazioni tra spazi e tempi. è qui che l'argomentazione di Galilei è più debole e che egli forza lo strumento matematico di cui dispone, la teoria delle proporzioni, per arrivare al risultato definitivo voluto. Infatti il brano prosegue: "E perché la velocità alla velocità ha contraria proporzione di quella che ha il tempo al tempo (imperò che il medesimo è crescere la velocità che sciemare il tempo), adunque il tempo del moto in AD al tempo del moto in AC ha subduplicata proporzione di quella che ha la distanza AD alla distanza AC" (ibidem). Si tratta di un ragionamento che contiene due errori: il primo nell'asserzione che le velocità sono inversamente proporzionali ai tempi, che è valida solo se gli spazi percorsi sono uguali, il che non avviene nel nostro caso; ed il secondo quando da questa 'contraria proporzione' fa seguire che il tempo va come la radice dello spazio. In ambedue i casi abbiamo a che fare con procedimenti retorici basati sull'equivoco tra linguaggio matematico e linguaggio comune. Dapprima il lettore (Galilei?) si convincerà che le velocità hanno proporzione contraria dei tempi sulla base non della teoria delle proporzioni ma dell'argomento che se cresce la velocità diminuisce il tempo; dopodiché si giocherà sul termine 'proporzione contraria' per fargli assumere un significato che gli è matematicamente ma non logicamente estraneo. Al termine di questa serie di salti mortali Galileo può affermare che "Le distanze dunque dal principio del moto sono come i quadrati de i tempi, e, dividendo, gli spazi passati in tempi eguali sono come i numeri impari ab unitate: che risponde a quello che ho sempre detto e con esperienze osservato; e così tutti i veri si rispondono" (ibidem, p. 374).
Non vi sono documenti che mostrino quando Galilei abbandona l'ipotesi errata di proporzionalità tra velocità e spazio per sostituirla con quella corretta della velocità istantanea proporzionale al tempo, ma quasi certamente questo passo era già compiuto nel 1610, quando lasciò l'Università di Padova per tornare a Firenze.
Non bisogna però credere che una volta riconosciuta la proporzionalità tra velocità e tempo la dimostrazione sia immediata. Al contrario, un'applicazione meccanica dello schema dimostrativo appena visto, con la sola sostituzione dell'ipotesi corretta a quella errata, porterebbe a concludere che le velocità complessive sono proporzionali ai quadrati dei tempi (e non a quelli degli spazi come in precedenza), e dunque, se si volessero applicare alle velocità complessive le leggi del moto uniforme (un'operazione questa, come abbiamo osservato sopra, che non doveva sembrare a Galilei così bizzarra come può apparire oggi), che gli spazi sono proporzionali ai cubi dei tempi. Ma anche senza introdurre le leggi del moto uniforme, resterebbe il problema di risalire dai rapporti tra le velocità complessive a quelli degli spazi, un passaggio per nulla evidente.
Non abbiamo scritti di Galilei a questo proposito; alcune tracce però si possono trovare, se non direttamente nei manoscritti galileiani, nell'opera di un autore molto vicino a Galilei, Bonaventura Cavalieri (1598 ca.-1647).
Il passo che ci interessa si trova nello Specchio ustorio, un'operetta che Cavalieri pubblica nel 1632. Dopo aver riportato dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, stampato nello stesso anno, la legge dei numeri dispari: "Se per esempio, un mobile andando verso il centro in una battuta di polso farà un braccio di spatio, nella seconda ne farà 3. nella terza 5. nella quarta 7. nella quinta g. e così di man in mano" (Lo specchio ustorio, p. 158), Cavalieri prosegue rappresentando geometricamente i successivi gradi di velocità di un grave cadente:
A questa medesima conclusione mi sono ancor'io sforzato di arrivare per altra via, dopo haverla sentita dal sudetto Sig. Galileo, considerando in un cerchio i gradi delle velocità, che, dalla quiete incominciando, vanno crescendo fino al massimo nel medesimo cerchio, rappresentandomi il centro il nullo grado di velocità, ò vogliamo dire la quiete, e le circonferenze, che si possono descrivere intorno al medesimo centro, i gradi delle diverse velocità, quali se li vogliamo prender tutti, conviene, che noi intendiamo dissegnati tutti i cerchi possibili à descriversi sopra quel centro. (ibidem)
Si noterà che l'ipotesi della proporzionalità tra velocità e tempo non compare qui esplicitamente, e soltanto più avanti si dirà che il raggio del cerchio rappresenta il tempo. In effetti, più che sulla proporzionalità tra velocità e tempo, Cavalieri pone l'attenzione sul fatto che ogni circonferenza corrisponde a un grado di velocità assunto dal mobile, cioè in ultima analisi su quel principio di continuità che a quel tempo era senza dubbio molto meno naturale di quanto sembri oggi, e sulla cui validità aveva alcuni anni prima interrogato lo stesso Galilei.
A questo punto Cavalieri introduce la velocità complessiva: "facendo la somma delle loro circonferenze, potremo dire di sapere la vera quantità di tutti i gradi di velocità, che intermediano tra la quiete, et il massimo grado in quel cerchio" (ibidem, p. 159). È significativo che la velocità complessiva non sia indicata con un termine apposito, ma sia denotata con la frase "la vera quantità di tutti i gradi di velocità". Ora il termine quantità rimanda immediatamente alla teoria delle proporzioni: ciò che ha quantità ‒ dice Cavalieri ‒ e che dunque ha proporzione con le altre grandezze cinematiche, non sono i gradi di velocità ma la loro 'somma' ossia, nella nostra terminologia, la velocità complessiva: una velocità che si ottiene sommando tutte le circonferenze, cioè tutti i gradi di velocità oppure, se si vuole, tutte le velocità istantanee. Il linguaggio di Cavalieri è qui molto crudo e diretto: parla esplicitamente di somma di tutti i gradi di velocità, un termine che egli stesso nella Geometria, e Galilei nei Discorsi, si preoccuperà di sfumare, usando termini come 'aggregato' o 'composizione'.
Ma come fare la somma di tutte le circonferenze? È qui che viene in soccorso la nuova geometria degli indivisibili che Cavalieri aveva elaborato alcuni anni prima, proprio a partire dalle riflessioni galileiane sulle velocità istantanee e i modi di comporsi di queste ultime. La proposizione IV del Libro VI della Geometria: "Due dati cerchi, o settori simili, stanno tra loro come tutte le loro circonferenze", trova qui la sua applicazione, grazie all'identificazione tra gradi di velocità e indivisibili:
Hora, perché questo pare cosa impossibile, cioè il sommare infinite circonferenze, io mi prevaglio dell'area dell'istesso cerchio, e ne cavo le proporzioni delle aggregate velocità, incominciando dal centro, ò dalla quiete, e procedendo fino alla circonferenza estrema, cioè fino al massimo; havendo dimostrato io nella mia Geometria, che qual proporzione hanno i cerchi frà loro, tale anco l'hanno tutte le circonferenze, descrittibili sopra il centro dell'uno, à tutte le circonferenze, descrittibili sopra il centro dell'altro, perciò se nel nostro cerchio, nel quale voglio misurare le aggregate velocità, con la distanza di un terzo del semidiametro, per essempio, descriverò un cerchio, la cui circonferenza mi rappresenti un tal grado di velocità; saprò che qual proportione ha il cerchio grande al piccolo, tale ancora l'haveranno tutte le circonferenze concentriche del cerchio grande à tutte le circonferenze concentriche del piccolo, cioè tutti i gradi di velocità acquistati nel trapassare dalla quiete al grado massimo, à tutti i gradi acquistati passando dall'istessa quiete al grado intermedio, che habbiamo preso, ma i cerchi sono tra loro, come i quadrati de' semidiametri, adunque anco dette velocità cresceranno secondo l'incremento de' quadrati de' semidiametri. (Lo specchio ustorio, p. 160)
Le velocità complessive stanno dunque tra loro come i quadrati dei raggi. A questo punto, come aveva fatto Galilei quasi trent'anni prima, Cavalieri compie una piroetta logica e conclude:
Ma con qual proporzione cresce la velocità del mobile, crescono anco li spatij decorsi dall'istesso mobile, come è ragionevole, poiché chi acquista altretanta velocità, quanta si ritrova havere, guadagna ancora forza di trapassare altretanto spatio, quanto faceva, e così nell'altre proportioni; adunque li spatij decorsi dal mobile, nel quale si vanno aggregando le velocità, saranno, come i quadrati de' semidiametri de' cerchi, ne' quali si possono considerare dette velocità, cioè come i quadrati de' tempi, quali intenderemo nel semidiametro del dato cerchio. (ibidem)
Ancora una volta abbiamo un passaggio matematicamente debole e infondato, che trova la sua giustificazione più nella conoscenza del risultato a cui si vuole pervenire che nell'uso di corretti procedimenti dimostrativi. Inoltre, a conferma di quanto dicevamo poco sopra, Cavalieri introduce il principio fondamentale del moto dei gravi, e cioè la proporzionalità tra gradi di velocità e tempi, solo alla fine della dimostrazione, e anche qui in maniera per niente esplicita, ma piuttosto identificando i tempi con i diversi raggi dei cerchi. Al punto che ci si potrebbe chiedere quanto Cavalieri avesse realmente compreso l'architettura della teoria galileiana della caduta dei gravi.
A parte queste considerazioni pur importanti, un altro punto ci sembra cruciale. Galilei, e poi Cavalieri con lui, è partito da un'ipotesi sulle velocità istantanee (i momenti della velocità), e ha sommato tutti questi gradi di velocità per ricavare la velocità (complessiva) del moto. Pochi decenni più tardi, basterà dotare ogni grado di velocità di uno spessore infinitesimo, rappresentante il tempo infinitamente piccolo dt in cui il grave possiede quel grado di velocità, e lo stesso schema darà immediatamente la conclusione corretta in quanto le aree dei triangoli di Galilei (e dei cerchi di Cavalieri) rappresenteranno non già le velocità complessive, ma gli spazi percorsi, che risulteranno così proporzionali ai quadrati dei tempi. Ma perché ciò possa avvenire, sono necessari alcuni profondi cambiamenti nella matematica soggiacente; in particolare occorrerà uscire dalle rigidità della matematica classica per introdurre, accanto alle grandezze rigorosamente codificate nella teoria delle proporzioni, altre grandezze quantitativamente ‒ ma soprattutto logicamente ‒ evanescenti, gli infinitesimi. Anche questo non è però sufficiente, perché la struttura della teoria delle proporzioni permette solo alcune operazioni algebriche e ne proibisce altre. In particolare, essa preclude la possibilità di moltiplicare e dividere grandezze eterogenee: come non è possibile dividere uno spazio per un tempo per ottenere una velocità (e abbiamo visto, anche se di sfuggita, quali difficoltà incontra Galilei nella definizione della velocità istantanea), così non si può moltiplicare la velocità per il tempo ‒ finito o infinitesimo poco importa ‒ per ottenere uno spazio. Quello che Galilei può fare è 'sommare' alcune velocità senza cambiare la natura della grandezza in gioco e sommando le velocità si può ottenere solo una velocità. Così le rigidità del linguaggio matematico ostacolano il dispiegarsi della teoria del moto.
C'è però un caso in cui la teoria funziona: quando i moti in esame si svolgono nello stesso tempo, dato che in questa situazione il rapporto tra le velocità è uguale a quello tra gli spazi. Le difficoltà del metodo di Cavalieri e di Galilei sorgono dall'aver confrontato moti che si compiono in tempi diversi; se ci si limita a moti in tempi uguali si giunge a un risultato corretto senza bisogno di avventurarsi in acrobazie logiche. Così in ultima analisi sia il metodo meccanico delle velocità proporzionali ai momenti, sia quello delle velocità istantanee soffrono della stessa limitazione, si possono cioè applicare solo a moti che si svolgono in tempi uguali. D'altra parte i due metodi hanno ambiti di applicabilità radicalmente distinti. Il metodo meccanico concerne moti lungo piani diversi ma che avvengono nello stesso tempo a partire dalla quiete; quello delle velocità istantanee confronta moti sopra un unico piano inclinato che si svolgono sì nello stesso tempo, ma non necessariamente a partire dalla quiete. Così mentre entra in difetto quando lo si voglia usare per valutare gli spazi percorsi a tempi diversi, come facevano Cavalieri e Galilei, esso si può utilizzare con profitto per dimostrare risultati che coinvolgano il confronto di moti a tempi uguali. Il più classico di questi è la 'legge dei numeri dispari': "gli spazii passati in tempi eguali dal mobile che, partendosi dalla quiete, va acquistando velocità conforme all'accrescimento del tempo, essere tra di loro come i numeri impari ab unitate 1, 3, 5" (EN, VIII, p. 211).
Per questo infatti basterà costruire il triangolo AFK, dove AF rappresenta il tempo e i segmenti CG, DH, ecc., sono le velocità istantanee, proporzionali ai tempi, e considerare intervalli di tempo uguali AC, CD, DE, EF. Se con Galilei ci serviamo dell'area delle figure corrispondenti per valutare le velocità complessive, avremo che la velocità complessiva nell'intervallo di tempo AC sarà data dall'area del triangolo ACG, quella nel tempo CD dall'area del trapezio CGHD, quella nel tempo DE dal trapezio DHIE, e così via. Ora il trapezio CGHD è triplo del triangolo ACG, il trapezio DHIE quintuplo, EIKF settuplo, e via dicendo. Pertanto le velocità complessive nei successivi intervalli di tempo stanno come i numeri 1, 3, 5, 7, … e dato che i tempi sono tutti uguali anche gli spazi percorsi stanno nello stesso rapporto.
Un ragionamento simile si ritrova nella corrispondenza tra Giovanni Paolo Casati e Giannantonio Rocca, quest'ultimo molto vicino a Cavalieri (Lettere d'uomini illustri del secolo XVII a Giannantonio Rocca, 1785). Invece Galilei preferisce confrontare il moto accelerato di caduta con un moto uniforme che si svolge nello stesso tempo; con velocità uguale alla massima nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a metà di quella massima nei Discorsi. Nel Dialogo siamo ancora nello schema delle velocità complessive: il moto uniforme si svolge con momenti della velocità sempre uguali al momento finale del moto accelerato, che riempiono un rettangolo con la stessa base e altezza del triangolo del moto accelerato; dunque la sua "massa di velocità viene ad esser doppia della massa delle velocità crescenti del triangolo, sì come esso parallelogrammo è doppio del triangolo" (EN, VII, p. 256), e doppio sarà lo spazio percorso. Nei Discorsi invece la velocità complessiva è sparita del tutto, e i due moti uniforme e accelerato vengono messi in relazione confrontando direttamente le loro velocità istantanee, da cui la necessità di dimezzare la velocità del moto uniforme in modo che nei due movimenti si percorra lo stesso spazio. Ciò avviene perché "gli stessi momenti di velocità sono consumati nel moto accelerato secondo le parallele crescenti del triangolo AEB e nel moto uniforme secondo le parallele del parallelogrammo GB; infatti quanto dei momenti manca nella prima metà del moto accelerato (mancano quelli rappresentati dalle parallele del triangolo AGI) viene supplito dai momenti rappresentati dalle parallele del triangolo IEF. Di conseguenza gli spazi attraversati nello stesso tempo dai due mobili sono uguali" (EN, VIII, p. 209).
L'abbandono del metodo delle velocità complessive non conduce dunque a una diversa sistemazione teorica, ma al riemergere di colorazioni dinamiche e causali dove prima esisteva solo la cinematica del moto accelerato. Le difficoltà di coniugare la realtà fisica con il linguaggio matematico, e in particolare l'inadeguatezza della teoria delle proporzioni che rappresentava per Galilei l'unico possibile strumento matematico per trattare grandezze fisiche, producono una teoria del moto in cui un passaggio chiave resta ancora incompiuto. Allo stesso tempo il metodo meccanico, necessario, come abbiamo visto, per trattare il moto sopra diversi piani inclinati, viene considerato in un secondo momento e per così dire condensato in un assioma: "i gradi di velocità che uno stesso mobile acquista su diversi piani inclinati sono uguali quando questi piani hanno la stessa elevazione" (ibidem, p. 205). Ambedue tali operazioni hanno come scopo l'eliminazione delle velocità complessive. Non si doveva trattare di un'operazione indolore, se ancora Torricelli nel suo trattato De motu mostrava di preferire il metodo meccanico a quello dei momenti della velocità; certo era un'operazione necessaria, dato che, nonostante i ripetuti tentativi di piegarle allo scopo, le velocità complessive avevano mostrato la loro inadeguatezza nel fondare una teoria coerente del moto di caduta dei gravi. Perché questa possa emergere in maniera compiuta sarà necessaria una profonda trasformazione della matematica soggiacente, con l'algebrizzazione della teoria delle proporzioni e l'ingresso di quantità infinitesime in geometria. Una rivoluzione di cui né Galilei né i suoi allievi saranno gli attori principali.
Giusti 1997: Giusti, Enrico, Gli scritti 'De motu' di Giovan Battista Benedetti, "Bollettino di storia delle scienze matematiche", 17, 1997, pp. 51-104.
Maccagni 1967: Maccagni, Carlo, Le speculazioni giovanili de motu di Giovanni Battista Benedetti. Con estratti dalla lettera dedicatoria della Resolutio omnium Euclidis problematum […] e con il testo delle due edizioni della Demonstratio proportionum motuum localium contra Aristotelem et omnes philosophos, Pisa, Domus Galilaeana, 1967.