La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Collezionismo e viaggi scientifici
Collezionismo e viaggi scientifici
Nell'ultimo quarto del XVI sec. il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi scriveva: "et io ancora sono stato quasi per tutta l'Italia et sue isole, et in Francia et in Spagna dimodoche posso dare notitia di molte [piante], che da altri non siano state descritte, non ritrovandosi cosa, che apporti più utilità, che il fare viaggi in diversi tempi, conservando, et descrivendo l'istoria di ciascuna cosa, che si ritrova. Et se il leggere dà tanta utilità a i studiosi, dieci volte più ne dà la peregrinatione" (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. Aldrovandi 70, f. 64r-64v). Si tratta di un passo sotto molti aspetti emblematico, perché in esso vengono limpidamente enunciati alcuni dei principî più nuovi e importanti che avevano iniziato a guidare lo studio della Natura nel Rinascimento. La scoperta di un nuovo mondo e, più in generale, le esplorazioni geografiche, rivelando l'esistenza di animali, piante e minerali sino a quel momento sconosciuti, avevano contribuito non poco a far maturare in scienziati come Aldrovandi la piena consapevolezza di non poter seguitare a basare la conoscenza della realtà naturale esclusivamente sugli scritti degli autori antichi. Le opere di Aristotele, Teofrasto, Dioscuride o Plinio, ricche com'erano di informazioni, continuavano certamente a rappresentare dei punti di riferimento fondamentali, ma non era più possibile accettare supinamente tutte le descrizioni in esse contenute. Al contrario, era assolutamente necessario procedere a un'accurata verifica di tali opere, provvedendo da un lato a scoprire e correggere i numerosi errori presenti e dall'altro a dar notizia di tutti quegli esseri animati e inanimati delle terre lontane ("che in Europa non si trovano") ovviamente ignorati dalla scienza antica. Si trattava di un'operazione di vasta portata che per gli studiosi cinquecenteschi poteva essere condotta correttamente a termine solo vedendo direttamente ‒ "co' proprii occhi", per dirla ancora con Aldrovandi ‒ le "cose di natura". Dunque se il "leggere" rappresentava il fondamentale momento di partenza della ricerca, era poi il viaggio, la "peregrinatione", che consentiva di espandere quella stessa ricerca entro margini di certezza e di pervenire "in cognitione de infinite cose non descritte da alcuni antichi né moderni" (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. Aldrovandi 91, f. 539v).
Il compito dello scienziato, che aveva l'occasione di visitare terre scoperte di recente o comunque paesi la cui fauna e flora erano scarsamente conosciute, consisteva però non soltanto nell'osservare e nel descrivere con precisione le varie forme della realtà naturale, ma nel portare con sé, al momento del ritorno, una testimonianza della loro esistenza e del loro aspetto; in poche parole, affinché un viaggio fosse ritenuto pienamente fruttuoso era necessario che si concludesse con il trasferimento, nello studio o nel museo di colui che lo aveva compiuto, del più alto numero possibile di reperti o di raffigurazioni di animali, piante e minerali. La collezione infatti consentiva al naturalista sia di proseguire le ricerche e di condurre le proprie osservazioni all'interno delle mura domestiche, sia di offrire ai tanti colleghi sparsi sul territorio europeo nuovi materiali su cui lavorare, rendendoli quindi partecipi, in modo documentato, delle scoperte fatte nel corso del viaggio. Pezzi raccolti o raffigurati in terre lontane costituivano pure facilmente oggetto di doni fatti ai principi che si dilettavano di storia naturale e dai quali lo scienziato tentava o sperava di ottenere favori e protezione. Anche se non mancarono casi in cui si cercò di mantenere il più possibile segreto ‒ e, quindi, non sfruttabile da altri ‒ ciò che si era visto e si era raccolto, si dava però comunemente per scontato che un naturalista dovesse condividere ampiamente i frutti del suo viaggio. Giuseppe Casabona (1535 ca.-1595), botanico di origine fiamminga al servizio dei granduchi di Toscana Francesco I e Ferdinando I, accingendosi a compiere una missione nell'isola di Creta, non mancò di rassicurare la comunità degli studiosi e dei cultori di storia naturale riguardo alla prassi di pronta comunicazione dei risultati che avrebbe adottato al ritorno; in una lettera del 1589, per esempio, egli pregò il collega tedesco Joachim Camerarius di informare "tutti gli nostri amici, particolermente quelle della professione, et Principe amice nostre" del fatto che tale "fatica" era da lui affrontata "al servitio de tutti loro" (Olmi 1991, p. 26).
Se gli scienziati, nel corso del viaggio, si impegnavano fortemente nella raccolta di esemplari reali o disegnati, era anche perché questi avrebbero poi rappresentato la prova indispensabile e tangibile dell'esattezza di ogni descrizione scritta relativa alla realtà naturale della terra visitata. Esprimendo la speranza di essere incaricato dal sovrano di Spagna di guidare una missione scientifica in America, Aldrovandi indicava tra gli scopi che essa avrebbe dovuto prefiggersi quello della raccolta e conservazione di "animali e piante et altre cose inanimate […] acciò si verificasse e toccasse con mano che tutto ciò che avessimo scritto non fusse menzogna" (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. Aldrovandi 91, f. 539v).
Nel corso del XVI sec. furono relativamente numerosi i viaggi dei naturalisti verso le aree mediorientali e l'Egitto (pensiamo a quelli di Pierre Belon e di Prospero Alpino), mentre si rivelò molto più difficile ottenere il sostegno necessario per raggiungere la meta più agognata, cioè quel nuovo mondo in cui ogni tassello della realtà naturale si manifestava come "cosa rara et pellegrina". Erano già disponibili, è vero, numerosi resoconti su questa terra da poco scoperta, nei quali venivano pure presi in considerazione piante e animali (come quelli di Gonzalo Fernández de Oviedo, Francisco Lopez de Gómara e del gesuita José de Acosta), ma, anche se largamente utilizzati, erano giudicati insoddisfacenti dagli scienziati, perché scritti da autori che non avevano la necessaria competenza e che quindi avevano finito per descrivere la Natura solo 'accidentalmente'. Del tutto eccezionale fu, negli anni Settanta, il caso di uno studioso come Francisco Hernández (1517-1587), messo da Filippo II di Spagna a capo di una spedizione che aveva il preciso obiettivo di effettuare una ricognizione accurata della fauna e della flora messicane. Dal viaggio il medico spagnolo riportò, oltre a un resoconto scritto e a vari reperti, migliaia di raffigurazioni di essenze vegetali, animali "et altre cose indiane nove"; la notizia dell'esistenza di una documentazione di tal fatta, ritenuta quanto mai affidabile per le qualità della persona che l'aveva raccolta, si diffuse rapidamente e inevitabilmente in tutta Europa. I principali naturalisti (Aldrovandi, L'Écluse, Camerarius) cercarono di avere notizie più precise su questo materiale e, in particolare, si diedero da fare per ottenere copie delle figure, sia di quelle fatte eseguire direttamente da Hernández sia, successivamente, di quelle presenti in un compendio steso dal napoletano Nardo Antonio Recchi.
Nel corso del XVII sec., grazie alla più agguerrita politica di espansione coloniale intrapresa da tutte le principali potenze europee, alla crescita degli scambi commerciali e a una più marcata consapevolezza da parte degli apparati statali dei vantaggi economici che si potevano ricavare dalla promozione della ricerca scientifica, per i naturalisti le occasioni di intraprendere viaggi su lunga distanza crebbero notevolmente. Più in generale, si andò anche consolidando una concezione del viaggio in paesi stranieri come strumento di conoscenza e inarrivabile esperienza educativa; una concezione limpidamente espressa nel 1625 da Francis Bacon in uno dei suoi Essayes: "Il viaggiare, nei più giovani, fa parte dell'educazione; negli adulti, fa parte dell'esperienza" (SEH, VI, 360). Il pellegrinaggio medievale, costituito da fedeli diretti ai luoghi sacri o, più tardi, da studenti-chierici che si spostavano da una università all'altra, venne sostituito da un movimento, per lo più laico, globalmente finalizzato all'acquisizione del sapere al di fuori delle sedi istituzionali e di un'intensità prima sconosciuta. Nelle Instructions for forreine travell pubblicate nel 1642 e dirette a coloro che intendevano recarsi all'estero, l'inglese James Howell non esitò a definire il viaggio "una Accademia itinerante, una vera e propria scuola peripatetica" (p. 13).
Anche se, come vedremo, fra Grand Tour e collezionismo vi fu un legame assai stretto, l'entrata nelle raccolte degli oggetti più rari e ammirevoli dipese soprattutto, ovviamente, da viaggi nei continenti extraeuropei o nelle terre più periferiche d'Europa. Non necessariamente tali viaggi erano intrapresi dagli stessi proprietari dei musei: esemplare fu, per esempio, il comportamento dello speziale inglese James Petiver (1663-1718), che in virtù di un'impressionante rete di corrispondenti da lui creata (comprendente medici, chirurghi, diplomatici, religiosi, marinai, ecc.) entrò in possesso di un'enorme quantità di reperti provenienti da tutte le parti del mondo. Frequente fu, comunque, il caso di grandi collezionisti e studiosi della Natura che potevano vantarsi di aver visitato almeno un paese lontano e poco conosciuto. Particolarmente fruttuoso, oltre a quelli compiuti a Parigi, nei Paesi Bassi e ad Algeri, fu per John Tradescant il Vecchio il viaggio effettuato nel 1618 in Moscovia; il figlio, anch'egli di nome John, che continuò a incrementare la già ricca raccolta paterna di cui pubblicò il catalogo (Musaeum Tradescantianum or a collection of rarities, preserved at South-Lambeth neer London, 1656), attraversò tre volte l'Oceano Atlantico per raggiungere la Virginia.
Un altro grande collezionista inglese, il medico Hans Sloane, si recò nel 1687 in Giamaica e fu proprio grazie ai reperti riportati da quel soggiorno di quindici mesi che la sua raccolta, destinata a diventare una delle più famose d'Europa, registrò un primo, notevole incremento. Oltre a circa ottocento specie di piante e a vari animali, la raccolta di Sloane comprendeva un elevato numero di raffigurazioni di esemplari della flora e della fauna eseguite dal reverendo Garret Moore, un disegnatore appositamente ingaggiato sul posto. Il medico inglese cercò anche di trasportare in patria alcuni animali vivi (tra cui un coccodrillo, un'iguana e un serpente), ma tutti morirono nel corso della navigazione. Questo viaggio, compiuto quando Sloane era ancora piuttosto giovane, rappresentò un'esperienza fondamentale nella sua vita e nella sua attività di studioso. Tutti i lavori da lui dati successivamente alle stampe furono finalizzati a rendere note le osservazioni compiute nelle Indie Occidentali: alcuni resoconti pubblicati sulle "Philosophical Transactions", un catalogo delle piante che crescevano in Giamaica (1696) e infine una storia naturale di quest'isola e di quelle vicine in due volumi (A voyage to the islands Madera, Barbados, Nieves, S. Christophers and Jamaica with the natural history of the herbs and trees, four-footed beasts, fishes, birds, insects, reptiles, etc. of the last of those islands, 1707-1725).
Tra i paesi europei fu probabilmente l'Olanda, grazie alla forte espansione coloniale promossa e sostenuta dalla Compagnia delle Indie Orientali e dalla Compagnia delle Indie Occidentali, quello in cui la ricerca naturalistica ricevette, pur indirettamente, il maggior impulso dai viaggi oltremare. In dura competizione con il Portogallo, la Spagna e l'Inghilterra, gli Olandesi spinsero i loro vascelli sempre più lontano, tanto che già all'inizio del secolo, nel 1606, uno di essi, il Duyfken, al comando di Willem Jansz, raggiunse Capo York in Australia.
La Compagnia delle Indie Occidentali
Più simile a una vera e propria spedizione scientifica che a un semplice viaggio appare il trasferimento al di là dell'Atlantico del conte Giovanni Maurizio di Nassau-Siegen, che andò ad assumere, fra il 1637 e il 1644, il governo della colonia olandese nel Nord-est del Brasile. Al seguito del nobile vi erano artisti come Albert van der Eeckhout e il paesaggista Frans Post e studiosi come il medico Willem Pies e l'astronomo, cartografo e zoologo Georg Markgraf. Grazie agli sforzi congiunti di tutti costoro (agevolati dalla possibilità di usufruire di una sorta di centro di ricerca impiantato dal conte di Nassau-Siegen, costituito da uno zoo, un giardino botanico e un osservatorio astronomico) fu realizzata, da un punto di vista tanto scientifico quanto iconografico, un'accurata ricognizione della realtà naturale della terra sudamericana. Frutto delle indagini di Pies e Markgraf fu, una volta avvenuto il rientro in Olanda e dopo, peraltro, che il secondo era morto nel corso di un successivo viaggio in Africa, la pubblicazione, a spese del conte di Nassau-Siegen, di una Historia naturalis Brasiliae; quest'opera costituì talmente a lungo un fondamentale strumento di consultazione per i naturalisti europei da spingere Joseph Banks a portarne una copia con sé quando, nel 1768, si imbarcò sull'Endeavour, per seguire James Cook che affrontava il suo primo viaggio. Riferendosi in particolare alle sostanze, perlopiù vegetali, dotate di poteri terapeutici che costituivano l'oggetto del suo principale interesse, Pies, nella prefazione al lettore, forniva alcune informazioni sul metodo di lavoro adottato, vantandosi anche di aver contribuito a rendere più chiara la descrizione degli esemplari tramite le figure: "Tutte le cose degne di osservazione, appartenenti a questo ricchissimo teatro di natura e che sono state o scoperte da me o comunicate a noi dai primitivi abitanti, io le ho esaminate e sperimentate, e con tutta la possibile diligenza e onestà ho distinto il vero dal falso e le sostanze salutari da quelle dannose. Infine ho aggiunto di esse le immagini realizzate dal vivo da un pittore che ha vagato con me attraverso luoghi disabitati" (Historia naturalis Brasiliae, "Benevolo lectori").
Oltre allo stesso Markgraf, tra gli autori degli studi dai quali furono tratte le oltre 400 incisioni presenti nell'opera vi era certamente van der Eeckhout, artista che realizzò anche una serie di straordinari dipinti a olio di grandi dimensioni, che raffiguravano sia frutti tropicali sia indios brasiliani, meticci e neri inseriti nel loro ambiente naturale. Questi ritratti, nel loro complesso giudicati da molti studiosi come una documentazione etnografica assolutamente oggettiva e realistica (da mettere cioè sullo stesso piano delle raffigurazioni di animali e piante dello stesso van der Eeckhout), in realtà si discostano notevolmente dagli schizzi eseguiti dal pittore in Brasile e dunque rappresentano piuttosto una rielaborazione di ciò che era stato effettivamente osservato. A mezza via tra il documento scientifico e l'invenzione artistica, devono essere visti come una delle più evidenti testimonianze della percezione che gli europei avevano dei popoli 'primitivi' e, più in generale, della realtà dei paesi esotici.
Quando rimise piede sul suolo olandese, il conte di Nassau-Siegen era in possesso di una straordinaria quantità di reperti, disegni, dipinti e altri manufatti con i quali arredò in modo spettacolare la sua dimora all'Aia (Mauritshuis), facendone una domus cosmographica. Negli anni successivi, egli donò una parte assai consistente di questi 'tesori' a Federico Guglielmo, elettore del Brandeburgo (1652), a Federico III di Danimarca (1654) e a Luigi XIV di Francia (1679). Tale dispersione contribuì, assieme alla Historia naturalis Brasiliae, a diffondere nella cultura europea sia gli esiti del capillare lavoro di documentazione realizzato oltreoceano, sia, più in generale, una certa immagine della realtà brasiliana, elaborata dall'équipe del nobile olandese. Il processo di assimilazione fu non poco favorito dall'immediata utilizzazione (particolarmente evidente negli arazzi tessuti dai Gobelins per il Re Sole) delle raffigurazioni di indigeni, animali e piante eseguite da van der Eeckhout e dagli altri artisti, come modelli per sviluppare temi decorativi grandemente apprezzati.
La Compagnia delle Indie Orientali
Anche nell'ambito dell'espansione militare e commerciale della Compagnia delle Indie Orientali si crearono numerose e importanti occasioni di sviluppo per la ricerca e il collezionismo naturalistici. Ciò fu dovuto in parte al fatto che, pur non assumendo alcun impegno diretto nella promozione dell'indagine scientifica, la potente istituzione olandese era comunque interessata al reperimento di piante medicinali, se non altro per ridurre i costi dell'importazione dalla patria. Entrato come militare al servizio della Compagnia nel 1656, Hendrik Adriaan van Reede tot Drakestein, un nobile originario di Utrecht, partecipò alla conquista del Malabar, sulla costa occidentale dell'India, a danno dei Portoghesi. Divenuto comandante della regione, egli, grazie all'aiuto di un folto gruppo di collaboratori (comprendente medici, speziali, disegnatori e persino studiosi bramini), avviò e concluse in breve tempo, alla metà degli anni Settanta, un dettagliato studio della flora locale, senza trascurare la raffigurazione dei vari esemplari. Fondamentale fu l'assistenza di un missionario italiano dell'Ordine dei carmelitani scalzi, padre Matteo di San Giuseppe, al secolo Pietro Foglia, che mise a disposizione dello studioso olandese le sue cognizioni di botanica e, più in particolare, i fogli sui quali, nel corso del suo lungo soggiorno in Oriente, aveva raffigurato a inchiostro numerose piante, annotando anche le loro proprietà medicinali. Tornato in Olanda, van Reede diede immediatamente inizio alla pubblicazione del materiale raccolto. Nel 1678 uscì ad Amsterdam il primo dei dodici volumi in folio dell'Hortus Indicus Malabaricus, opera portata a termine solo nel 1693, quando van Reede era già morto. Illustrato da grandi e spettacolari tavole, l'Hortus contiene la descrizione di ben 740 piante, fornendo per ognuna precise informazioni quali il nome locale, l'habitat, la distribuzione, il periodo di fioritura e di fruttificazione.
Nato nella Germania centrale, anche Georg Everhard Rumpf (Rumphius) lavorò per la Compagnia delle Indie Orientali, prima come militare e quindi nel settore amministrativo-commerciale, stabilendosi nell'isola di Ambon, nell'arcipelago delle Molucche, dove rimase sino alla morte. Pur non cessando mai di assolvere ai suoi doveri professionali, che ovviamente gli impedivano di condurre la ricerca in modo sistematico, e nonostante dal 1670 fosse diventato pressoché cieco a causa del glaucoma, Rumpf fu in grado di produrre un'eccezionale mole di lavoro. Dall'inizio almeno degli anni Sessanta egli cominciò a raccogliere notizie sulla fauna e soprattutto sulla flora locali, provvedendo anche, sino al manifestarsi della grave malattia agli occhi, a disegnare personalmente i vari esemplari. Il frutto delle sue osservazioni, un testo illustrato quasi pronto per la pubblicazione, andò distrutto in un incendio nel 1687 e quindi lo studioso fu costretto, negli anni successivi, a farlo riscrivere, dettandolo ad amanuensi, e a commissionare di nuovo le figure. Dopo altre disavventure, il nuovo manoscritto, grazie anche all'interessamento del governatore generale in Batavia, Johannes Camphuys, fu recapitato ad Amsterdam negli ultimi anni di vita di Rumpf. Alcuni decenni dopo Johann Burmann, professore di botanica allievo di Herman Boerhaave, provvide ad associare al testo originale in olandese la traduzione latina, e tra il 1741 e il 1750 un consorzio di editori pubblicò l'opera in sei volumi intitolata Herbarium Amboinense (Het Amboinsche Kruid-boek); un settimo volume, l'Auctuarium, uscì nel 1755. Si trattava di un lavoro poderoso, corredato da quasi 700 tavole, con la descrizione di circa 1200 specie di piante che, secondo l'autore, crescevano non solo ad Ambon, ma anche in altre isole quali Banda e Giava.
Mentre componeva l'Herbarium, Rumpf portò a termine un altro importante lavoro, D'Amboinsche Rariteitkamer (Gabinetto di rarità di Ambon), che venne pubblicato dopo la sua morte, nel 1705. Dedicato alla descrizione di crostacei, molluschi e minerali, nelle intenzioni dell'autore doveva essere ‒ come dimostrano l'attenzione per l'animale vivente e il suo habitat ‒ uno studio di storia naturale e non un semplice catalogo di conchiglie e altre rarità esotiche. Di fatto il volume, grazie al superbo apparato illustrativo, finì probabilmente per riscuotere un grandissimo successo fra i collezionisti olandesi ed europei, fra quei tanti 'amatori' e 'virtuosi' che, ancora in quel tempo, non risparmiavano fatiche e denaro per arricchire, soprattutto di conchiglie, i loro cabinets di curiosità.
Rumpf, per motivi di studio, possedeva naturalmente una propria raccolta, per lo più di conchiglie, messa insieme nell'arco di molti anni. Nel 1682 fu costretto però a venderla a Cosimo III de' Medici, granduca di Toscana, che una quindicina d'anni prima aveva visitato due volte l'Olanda e ad Amsterdam aveva ispezionato con entusiasmo vari gabinetti, acquistato numerosi oggetti (o tentato invano di acquistare, come nel caso della collezione di insetti di Jan Swammerdam) e stabilito probabilmente quei contatti che più tardi gli avrebbero consentito appunto di trasferire a Firenze i reperti appartenenti allo studioso di Ambon.
Tedesco come Rumpf e come lui costretto a cercare un lavoro fuori dai confini della patria fu un altro instancabile esploratore della natura orientale, Engelbert Kaempfer (1651-1716). Dopo aver studiato in particolare medicina, a Danzica, Cracovia e Königsberg, egli si recò a completare la sua preparazione all'Università di Uppsala, dove insegnava il famoso Olof Rudbeck. Probabilmente per motivi economici interruppe gli studi, accettando un impiego presso la corte svedese e divenendo segretario di una legazione diretta a Mosca e in Persia. Già nella fase iniziale del viaggio, come risulta anche dal suo diario, Kaempfer non mancò di osservare, annotare e disegnare, oltre ai costumi dei popoli, vari fenomeni naturali. Una volta giunto a Ispahan e terminata la missione, egli non fece ritorno con i compagni svedesi, ma entrò nel 1684 al servizio della Compagnia olandese delle Indie Orientali come chirurgo. In questa veste fu inviato in Giappone, passando per il Golfo Persico, l'India, Batavia (Giava) e il Siam. In tutte le località attraversate, ma soprattutto in Giappone, studiò la flora e la fauna (disegnando centinaia di piante), erborizzò, prese nota del clima, stabilì le posizioni geografiche e si interessò dei metodi di cura della medicina orientale, inclusa l'agopuntura. Intrapreso il ritorno nell'autunno del 1692, Kaempfer raggiunse l'Olanda l'anno successivo e si iscrisse immediatamente alla Facoltà di medicina dell'Università di Leida, laureandosi nel 1694, dopo aver pubblicato la tesi in cui trattava di fenomeni medici e naturalistici osservati nel corso dei suoi viaggi. Rientrato quindi a Lemgo, sua cittadina originaria, si dedicò alla professione medica e al riordino del numeroso materiale raccolto in Asia. Più tardi, nella prefazione degli Amoenitatum exoticarum politico-physico-medicarum fasciculi V, egli avrebbe scritto di essere tornato in patria "non ricolmo di merci e di guadagni, come fanno di solito i reduci, ma di carte sulle quali avevo registrato notizie esotiche che mi ero procurato in vari paesi con molta fatica, spesa e pericolo". Nel 1712 riuscì a dare alle stampe quest'opera, che comprendeva ampie sezioni dedicate alla botanica, tra le quali va ricordata quella sulla palma da datteri. Pur ascrivendo a proprio merito l'inserzione di numerose figure, "senza il cui chiarimento e aiuto le cose esotiche molto difficilmente possono essere comprese", nella prefazione Kaempfer manifestò tutto il suo rammarico per l'opera dell'incisore che era stato incapace di riprodurre fedelmente i disegni originari.
Morendo, il medico tedesco lasciò molte osservazioni manoscritte che avrebbero dovuto formare il contenuto di altri libri, nonché una collezione di reperti orientali. Tutta questa documentazione fu acquistata da Hans Sloane, grazie al cui interessamento il mondo della cultura poté avere a disposizione altri risultati delle fatiche di Kaempfer. Nel 1727 il collezionista inglese fece pubblicare infatti, dopo averne commissionato la traduzione, The history of Japan, opera che apparve successivamente anche in francese e olandese, in varie edizioni.
Maria Sibylla Merian
Pur se realizzato alla fine del secolo, almeno un altro viaggio scientifico, che ebbe come base di partenza sempre l'Olanda e si concluse al di là dell'Oceano Atlantico, merita di essere ricordato, anche perché ne fu protagonista una donna. Quando Maria Sibylla Merian (1647-1717) decise di imbarcarsi con la figlia, godeva già di una certa notorietà tanto in campo artistico, quanto in quello naturalistico. Nata a Francoforte sul Meno, figlia, sorella e poi moglie di noti incisori e pittori specializzati nel genere dell'illustrazione scientifica, questa donna singolare iniziò sin dall'età di tredici anni a osservare e studiare i bruchi e gli insetti, esercitandosi via via a raffigurarli. Tra il 1675 e il 1680 pubblicò un'opera in tre parti, corredata di incisioni di fiori, ma fu decisamente il campo dell'entomologia quello che maggiormente attrasse il suo interesse. Nel 1679, "dopo un lungo e scrupoloso studio" e dopo aver tenuto i bruchi "sotto osservazione per cinque interi anni", diede alle stampe a Norimberga un piccolo volume contenente 50 incisioni e dedicato alle metamorfosi delle farfalle europee, al quale fece seguito, nel 1683 a Francoforte, una seconda parte con un identico numero di tavole. Nel 1685, per motivi religiosi e a causa di disaccordi con il marito, si trasferì in Olanda, stabilendosi poi nel 1691 ad Amsterdam, dove la sua straordinaria abilità fu universalmente riconosciuta e le raffigurazioni naturalistiche a olio e acquerello da lei prodotte divennero grandemente ricercate da studiosi e collezionisti. Ma il successo non significava tutto: proprio quell'inesauribile entusiasmo che spingeva la Merian a studiare con amore la vita degli insetti e la sua ansia di acquisire sempre più profonde conoscenze la resero consapevole della limitatezza di nozioni sulle piccole creature che, numerose, popolavano le foreste delle terre d'oltremare. Per lei non aveva senso, era anzi impossibile, raffigurare senza prima aver attentamente osservato. Cercò di ovviare alle sue lacune, secondo quanto avrebbe confessato più tardi, visitando le più importanti collezioni esistenti allora ad Amsterdam, quali quelle del borgomastro Nicolaas Witsen, uno dei direttori della Compagnia delle Indie Orientali oltre che strenuo promotore dei viaggi di esplorazione e di ricerca, di suo fratello Jonas Witsen, del famoso professore di anatomia e botanica Frederik Ruysch, di Levin Vincent. Numerosi furono gli insetti, provenienti da ogni parte della Terra, che poté vedere, e tuttavia permaneva in lei un profondo senso d'insoddisfazione, perché non riusciva a cogliere in essi la vita, a capire come si generassero e si evolvessero, "per quale ragione i bruchi diventassero crisalidi e in qual modo ulteriormente si trasformassero" (Metamorphosis insectorum Surinamensium, "Ad lectorem"). Né migliori risposte a tali interrogativi potevano provenire dai reperti che la Merian conservava nella propria raccolta. Da qui la decisione, assolutamente inconsueta per una donna di quei tempi, di partire, nel giugno del 1699, per il Suriname, la colonia sudamericana dalla quale provenivano i bruchi e le farfalle che più aveva ammirato, seppur privi di vita, in Olanda. Due anni durò il soggiorno nella terra "calda e umida" al di là dell'Atlantico, durante i quali condusse ricerche fin dentro la foresta che si estendeva attorno a Paramaribo, raccolse esemplari, allevò bruchi per meglio osservare la loro trasformazione ed eseguì schizzi di ciò che andava vedendo. Rientrata ad Amsterdam, carica di piante e di reperti animali essiccati e sotto spirito, eseguì gli acquerelli su pergamena che sarebbero serviti come modello per le 60 incisioni su rame del sontuoso volume, in olandese e latino, Metamorphosis insectorum Surinamensium, uscito nel 1705.
Amsterdam, il mercato del mondo
Come risulta abbastanza evidente dagli accenni fatti alle visite ai musei da parte di Cosimo III de' Medici e della Merian, grazie alle navi che giornalmente scaricavano 'curiosità' provenienti da ogni angolo della Terra l'Olanda e Amsterdam in particolare pullularono, nel XVII sec., di collezioni quanto mai ricche anche da un punto di vista naturalistico. Oltre a grandi raccolte pubbliche, come quelle annesse ai teatri anatomici e quelle ‒ che costituivano una spettacolare e propagandistica manifestazione della potenza e della ricchezza olandese ‒ allestite nelle sedi delle due Compagnie delle Indie, in ambienti che presentavano, appesi alle pareti, mappe e paesaggi delle località in cui erano state stabilite basi commerciali, erano decine quelle private appartenenti a mercanti, medici, speziali e artisti. Fra questi ultimi vi era anche Rembrandt, che usava la sua collezione per fini tanto professionali quanto di promozione sociale e che tra i vari naturalia possedeva conchiglie, pelli di leoni, corna e piume di uccelli.
Le Compagnie delle Indie tolleravano benevolmente e anzi talvolta favorivano quelli, fra i loro dipendenti, che in contrade lontane dedicavano parte del loro tempo allo studio della Natura e alla raccolta di reperti, anche perché dalla fine del XVI sec. appariva chiaro che dall'importazione di curiosità e rarità esotiche si potevano ricavare eccezionali vantaggi economici. Non solo gli studiosi e i collezionisti locali, ma pure quelli di tanti altri paesi europei si resero ben presto conto che l'Olanda era il paese dove era possibile trovare l'introvabile, entrare in possesso dell'oggetto più strano o più agognato, procurarsi ogni tipo di animale, pianta o minerale. Anche sotto questo aspetto Amsterdam divenne probabilmente il più fornito e frequentato mercato del vecchio continente, "il mercato del mondo, e la bottega delle rarità di tutto l'Universo", come la definiva un entusiasta visitatore francese, Jean Le Laboureur (1623-1675) nell'Histoire et relation du voyage de la royne de Pologne (p. 70). Tra i tanti viaggiatori-collezionisti che non persero l'occasione di arricchire in quella città il proprio cabinet, vi fu, nel 1641, l'inglese John Evelyn che, dopo essere entrato in possesso di mappe e atlanti, acquistò in un negozio specializzato "alcune conchiglie e curiosità Indiane" (Diary and correspondence, ed. 1906, p. 19). Anche più avanti nel tempo, nel 1722, allorché si presentò la necessità di rifornire di reperti l'Accademia delle Scienze di Bologna da lui poco prima fondata, il conte Luigi Ferdinando Marsili si mise in viaggio per l'Olanda, il paese in cui, tra l'altro, si stava preparando l'edizione a stampa di alcune sue importanti opere di storia naturale.
Come abbiamo visto, non pochi dei personaggi che si dedicarono allo studio della Natura in paesi lontani lo fecero dopo aver lasciato l'Europa per motivi completamente diversi: militari, politici, professionali o commerciali. Ma nel XVII sec. vi fu un'altra categoria di viaggiatori, anch'essi divenuti tali per ragioni non scientifiche, il cui contributo allo sviluppo delle conoscenze naturalistiche fu tuttavia costante e di grande rilevanza. Si trattò di una parte, difficilmente quantificabile con precisione ma comunque assai consistente, dei missionari, dei tanti religiosi che non esitarono ad affrontare pericoli e disagi per diffondere il messaggio evangelico fra i popoli pagani dell'Asia, dell'Africa e dell'America. Moltissimi furono coloro che inviavano regolarmente in Europa, ai loro superiori, a studiosi e collezionisti, informazioni sulla realtà naturale dei territori in cui si trovavano a operare, reperti e raffigurazioni di piante e di animali. È sufficiente scorrere, per esempio, le pagine dell'Istoria botanica (1675) di Giacomo Zanoni, soprintendente dell'Orto pubblico di Bologna, e leggere i vari ringraziamenti ivi contenuti, per rendersi facilmente conto che la stesura dell'opera sarebbe stata forse impossibile senza gli aiuti massicci ricevuti da missionari dell'Ordine dei carmelitani scalzi e dai cappuccini. Zanoni aveva avuto innanzitutto la fortuna di entrare in possesso di numerosi disegni di piante inviati in Italia da quel padre Matteo di San Giuseppe di cui si è messa in rilievo l'assistenza fornita a van Reede nel Malabar. Altre figure, ragguagli, piante e semi ricevette inoltre, solo per fare alcuni nomi, dal carmelitano Valerio di San Giuseppe, missionario apostolico in Persia e India, dai cappuccini Michel Angelo Guattini, Dionigi de Carli e Stefano da Ravenna che si trovavano in Brasile, e da Giovanni Antonio Cavazzi, missionario in Congo. Un altro assiduo fornitore di materiali esotici, a vantaggio soprattutto di alcuni dei più importanti naturalisti inglesi, fu il gesuita Georg Joseph Kamel (1661-1706), originario della Moravia, che, stabilitosi a Manila, oltre a svolgere opere di carità si dedicò allo studio della fauna e particolarmente della flora delle Filippine. Da lui Sloane ricevette numerose piante e insetti e così pure Petiver.
In molti religiosi, certamente, si manifestò soltanto un'attenzione curiosa nei confronti della Natura che li circondava nelle terre lontane e il loro contributo alla conoscenza naturalistica si limitò appunto all'invio di insoliti reperti ai collezionisti europei. Non pochi, però, furono i missionari che svolsero, in modo per così dire professionale, approfondite indagini scientifiche, pubblicando i risultati delle loro osservazioni. Ricordiamo, a titolo di esempio, il gesuita polacco Michael Boym, autore di una Flora Sinensis uscita a Vienna nel 1656 che fu, tra l'altro, assieme al padre Martino Martini, la fonte privilegiata da cui Athanasius Kircher trasse informazioni per la stesura della China illustrata (1667).
In alcune occasioni i religiosi ricevettero in patria l'incarico ufficiale di svolgere indagini scientifiche in paesi lontani. Fu questo il caso delle missioni dei gesuiti dirette in Siam, India e Cina a partire dal 1685, sponsorizzate dalla corona francese per il tramite dell'Académie des Sciences che fornì numerosi strumenti matematici e astronomici (Guy Tachard, Voyage de Siam, des pères jésuites envoyéz par le roy aux Indes, et à la Chine, 1686, e Second voyage du père Tachard et des jésuites envoyéz par le roy au royaume de Siam, 1689). Nonostante le notevoli disavventure in cui incorsero, i gesuiti furono in grado di far pervenire all'Académie i risultati di varie osservazioni, che furono in parte pubblicati sui "Mémoires". Occorre peraltro sottolineare che non ci si limitò a utilizzare, sotto il profilo scientifico, religiosi che si apprestavano a lasciare comunque il continente europeo per andare a svolgere opera di evangelizzazione. Delle competenze che molti di loro potevano vantare nel settore naturalistico ci si avvalse infatti anche in modo più diretto. Le ricerche condotte da Charles Plumier, dell'Ordine dei frati minimi, sulla flora e la fauna dell'America tropicale furono effettuate per ordine di Luigi XIV, che riteneva potessero arrecare dei vantaggi per l'agricoltura. Di quanto aveva osservato e disegnato nel corso di tre viaggi, lo studioso francese diede conto in vari libri, a partire dalla Description des plantes de l'Amérique (1693), corredata di 108 tavole incise.
Resta, infine, da accennare a tutti quei missionari che pubblicarono opere volte a illustrare molto in generale tutto ciò che avevano visto nel corso dei loro viaggi e che tra i vari aspetti trattati non trascurarono quello naturalistico. Di questo tipo furono l'Itinerarium orientale (1649) del padre Filippo della SS. Trinità, Il viaggio nelle Indie Orientali (1672) di Vincenzo Maria di S. Caterina da Siena, carmelitano scalzo come l'autore precedente, e l'Istorica descrizione de' tre regni Congo, Matamba, et Angola (1687) del già citato Giovanni Antonio Cavazzi. In questi testi la descrizione si sofferma compiaciuta sugli aspetti più meravigliosi della realtà naturale, anche per la finalità apertamente dichiarata dagli autori di far pervenire il lettore in "cognitione del Creatore per mezzo delle creature", come scrive Filippo della SS. Trinità nel prologo dell'Itinerarium orientale e di mettere in evidenza "la sapienza, ed il potere del Creatore, che con un sol'atto di volontà, seppe […] riempire l'Universo d'individui, e specie tanto fra sé differenti, e dissimili", come scrive Vincenzo Maria di S. Caterina da Siena nel Viaggio nelle Indie Orientali (ed. 1683, p. 355). Nonostante gli autori assicurassero di aver visto direttamente ogni cosa riportata, o di averla sentita narrare "da persone degne di fede", alcuni animali e piante sono presentati con caratteristiche assolutamente improbabili e stravaganti, modellate sui fantastici racconti della tradizione antica e medievale. D'altra parte lo stesso grandissimo interesse del pubblico europeo per gli esseri e i fenomeni strani o mostruosi dei paesi esotici doveva costituire un incentivo a operare, per quanto inconsapevolmente, una deformazione della realtà, a insistere nel presentare ‒ per usare le parole finali del titolo della fortunatissima opera di padre Filippo in traduzione italiana ‒ "molti casi maravigliosi" appunto "degni della curiosità di chi legge". Nelle pagine dei loro libri questi missionari si soffermano a descrivere il pesce-donna, i serpenti che nascono "nelli reni" delle persone e "crescendo poco a poco cingono tutto il corpo" (Itinerarium orientale, ed. 1666, p. 412), gli straordinari poteri dell'"unghia" di un animale africano pressoché simile alla nordica alce, i "buoi marini" che non solo "escono dal mare, e vanno a pascolare ne' prati", ma dei quali si dice pure che "a poco a poco diventano terrestri, e ch'il pelo loro cresce" (ibidem, p. 416).
Di fronte all'incalzante e massiccia affluenza di dati e reperti dai continenti extraeuropei si manifestò sempre più evidente, nel corso del XVII sec., la necessità di controllarla e indirizzarla. Poiché ogni viaggio in paesi lontani rappresentava comunque un'impresa di non poco conto, occorreva assolutamente evitare che esso si trasformasse in un'occasione interamente o parzialmente sprecata per la ricerca scientifica. Tale obiettivo poteva essere centrato innanzi tutto cercando di disciplinare la curiosità e la libertà di scelta dei viaggiatori, che, regolarmente attratti dagli aspetti più insoliti e meravigliosi della natura esotica, finivano sovente per fare gli stessi resoconti e per riportare in patria gli stessi reperti. Fu certamente durante il XVIII sec. che si affermò l'uso di fornire a coloro che si apprestavano a partire, o che già si trovavano nelle colonie, indicazioni su che cosa osservare e che cosa raccogliere, anche se consistenti testimonianze di tale uso appaiono evidenti già dalla metà del secolo precedente. Prima di mettersi in viaggio per la Cina, i gesuiti della missione francese sopra ricordata fecero una visita all'Académie des Sciences per sapere quale genere di osservazioni relative alla storia naturale e in particolare alle piante l'Académie medesima si attendesse da loro. Ma non ci si limitò a fornire, come in quel caso, indicazioni verbali: l'esigenza di raggiungere un pubblico più vasto e di fare del più alto numero possibile di viaggiatori degli utili collaboratori della ricerca spinse gli studiosi a dare alle stampe alcune istruzioni, nelle quali furono anche segnalati gli strumenti di cui equipaggiarsi e si affrontò lo spinoso problema della conservazione dei reperti. In questo genere di pubblicazioni si impegnarono, in Inghilterra, scienziati e collezionisti come Robert Boyle, John Woodward e James Petiver.
Tavola I - L’ITINERARIUM ORIENTALE DI FILIPPO DELLA SS. TRINITÀ
Per conoscere nuovi aspetti della Natura e per formare o arricchire una collezione, raggiungere paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America non era certo l'unica via, anche se indubbiamente era la più promettente di risultati e novità. Anche immediatamente al di là dei confini della propria patria, se non addirittura all'interno di essi, attraverso l'esplorazione di territori poco battuti e di raccolte, era possibile fare scoperte e acquisire informazioni. Ricchi di risultati, particolarmente per la formazione di un erbario, furono i viaggi compiuti nella penisola iberica e in altri paesi europei da Joseph Pitton de Tournefort, che peraltro nel 1700 avrebbe raggiunto anche le isole greche e l'Oriente, facendosi accompagnare da quell'eccellente ritrattista della Natura che fu Claude Aubriet. Anche il botanico inglese John Ray, durante il soggiorno nei Paesi Bassi, in Germania, in Italia e in Francia, non perdeva occasione sia di compiere erborizzazioni, sia di visitare musei alla ricerca di reperti particolarmente interessanti da studiare (Observations topographical, moral, and physiological; made in a journey through part of the Low-Countries, Germany, Italy, and France, 1673).
Utili per persone che già avevano scelto di dedicarsi interamente alla ricerca naturalistica, il soggiorno all'estero e l'ispezione delle collezioni erano altrettanto fruttuosi per i giovani che stavano ancora studiando per conseguire competenze professionali. Da lungo tempo, certo, era riconosciuta l'importanza dei viaggi per la formazione di un medico, ma per il danese Thomas Bartholin l'epoca in cui viveva aveva reso tale importanza ancor più evidente, come scrive nel De perigrinatione medica (1674): "Nel nostro secolo sembra che i medici conseguano tali straordinari vantaggi dal viaggio, che nessuno può difendere l'autorità di chi fra essi non si sia recato fuori dalla patria. Infatti, sebbene nel proprio paese ciascuno abbia in abbondanza gli strumenti necessari alla formazione del medico, tuttavia tali strumenti devono essere rafforzati o accresciuti dal confronto con quelli di fuori" (pp. 9-10). Ai suoi due figli e al nipote, che si apprestavano a compiere un viaggio di istruzione all'estero, egli consigliò particolarmente la visita agli ospedali e alle collezioni di storia naturale:
Porteranno moltissimo aiuto alla pratica dell'anatomia […] i nosocomi che sono accessibili nelle città più importanti e consentono di trovare nei cadaveri di coloro che sono morti di malattia una facile via alla conoscenza della parte colpita e allo scoprimento delle cause del morbo. Allo stesso fine tendono i musei di cose naturali, esistenti un po' ovunque, specialmente quelli che mostrano ai visitatori scheletri di adulti e di bambini, strumenti chirurgici, animali esotici, frutti peregrini e una scelta varietà di semi, metalli, minerali, pietre e altre cose che servono all'attività del medico. (ibidem, p. 12)
Anche per chi, come i giovani gentiluomini, intraprendeva il Grand Tour solo per completare la propria generica educazione, senza cioè alcuna ambizione o progetto di tipo professionale, le visite alle collezioni costituivano momenti di fondamentale importanza. Essendo perlopiù enciclopediche, dedicate cioè all'arte e alla Natura (o, meglio, alle curiosità dell'arte e della Natura), le raccolte seicentesche offrivano infatti, a chi anche per breve tempo le esplorava, la possibilità di acquisire rapidamente ‒ ancorché in modo superficiale ‒ una quantità straordinaria di nozioni in tutti i campi. Grazie alle collezioni, che regolarmente mettevano in mostra numerosi oggetti provenienti dalle terre più lontane, il viaggio di istruzione in uno o più paesi europei si trasformava in una sorta di viaggio nel mondo. Il 'virtuoso', o l'aspirante tale, senza aver intrapreso tragitti faticosi e carichi di pericoli e anzi, rimanendo entro i rassicuranti confini della 'civiltà', non solo aveva modo di vedere, oltre a vari manufatti, le produzioni naturali dell'America, dell'Asia e dell'Africa, ma aveva anche la garanzia che tali produzioni, essendo già state ritenute meritevoli dell'esposizione in un museo, rappresentavano delle sicure e straordinarie rarità, che, come tali, avrebbero costituito argomento di dotte conversazioni con altri virtuosi al rientro in patria. La meticolosa catalogazione della realtà naturale in foreste e deserti, il difficile adattamento ai climi torridi, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, che caratterizzavano i viaggi di tanti studiosi, esploratori e missionari, restavano ignoti al curioso gentiluomo, il quale però, grazie agli sforzi immani di tutti costoro, poteva restare in attesa che davanti al suo sguardo si materializzassero animali, piante e minerali, per lui, in fondo, interessanti solo perché insoliti e provenienti da lontani e misteriosi paesi di cui forse ignorava perfino l'approssimativa posizione geografica.
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