La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Alchimia
Alchimia
Agli inizi del XVII sec. l'alchimia è una disciplina in cui sono presenti orientamenti distinti, anche se in relazione l'uno con l'altro. Da un punto di vista storico, all'imponente eredità medievale si aggiungono ora le correnti alchemiche scaturite dal neoplatonismo ficiniano, dal paracelsismo ‒ all'interno del quale uno dei testi più importanti è la Basilica chymica (1609) di Oswald Croll, tradotta e pubblicata più volte durante tutto il secolo ‒ e infine dall'opera di Jan Baptista van Helmont (1579-1644). Grazie a questi arricchimenti, l'alchimia conquista una profondità e una dignità fino ad allora sconosciute. Da un punto di vista dottrinale, si possono distinguere vari tipi di alchimia: quella trasmutatoria (che mira a trasformare i metalli in oro); quella medica (che mira a prolungare la vita) e ‒ novità sorta nel Rinascimento ‒ forme di alchimia mistica che cercano di raggiungere, attraverso il lavoro alchemico o, al contrario, al fine di realizzarlo, l'illuminazione interiore, se non addirittura un contatto intimo con la divinità.
All'eredità medievale appartengono in particolare tutta l'alchimia pseudo-lulliana, la ricerca della quintessenza e quella dell'oro potabile, anche se le nozioni di quintessenza e di oro potabile erano state reinterpretate da Marsilio Ficino. Inoltre, poiché l'opera di Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim) aveva ripreso per suo conto gran parte dell'alchimia medica, nel XVII sec. quelle stesse nozioni possono essere ritrovate anche in un contesto paracelsiano. Infine, sebbene la nozione di quintessenza fosse originariamente limitata all'alchimia medica, essa fu gradualmente applicata anche in ambito trasmutatorio. Alcuni celebri trattati d'alchimia, come Le livre des figures hiéroglyphiques (1612), falsamente attribuito a Nicolas Flamel (1330 ca.-1418), benché pubblicati o addirittura composti nel corso del XVII sec., si basano esclusivamente su fonti medievali. Bisogna dunque vedere l'alchimia di quest'epoca come una disciplina proteiforme, fortemente diversificata.
A partire almeno dal XV sec., in tutte le lingue il termine 'alchimia' era spesso usato in una accezione negativa, come attestano, oltre alle definizioni date dai grandi dizionari, autori diversi quali Marsilio Ficino, Francesco Zorzi, Giovanni Agostino Panteo, Gérhard Dorn, Giovanni Battista Nazari, Blaise de Vigenère, Claude Dariot, Michael Sendivogius o Michael Maier; gli alchimisti, a partire dal Rinascimento gli preferirono spesso il termine 'chimica' (in latino chymia o chemia), ricalcato sul greco χυμεία o χημεία. I due termini, però, almeno fino alla metà del XVIII sec., in generale possono essere considerati equivalenti, tanto è vero che la monumentale antologia alchemica di Jean-Jacques Manget, pubblicata nel 1702, si intitola Bibliotheca chemica curiosa. Tuttavia, la chimica propriamente detta (che da Paracelso e fino alla metà del XVIII sec. è strettamente legata alla medicina), a partire dagli anni Sessanta del XVII sec., tende a separarsi gradualmente dall'alchimia trasmutatoria. Nella Chimia in artis formam redacta (1661), Werner Rolfinck respinge nettamente l'esistenza della pietra filosofale, della medicina universale e la realtà della trasmutazione, riducendo la chimica, attraverso negazioni successive, a "una parte della medicina appartenente alla farmaceutica, e che ne differisce solo per il nome". Una definizione simile si ritrova nel Cours de chymie (1667) di Pierre Thibault, certo influenzato dal Traité de la chymie (1663) di Christoph Glaser; inoltre Thibault, contrariamente a Rolfinck, sostiene la superiorità della chimica sulla farmacia e nella sua opera è assente qualsiasi teoria o traccia dell'alchimia in senso proprio. Il caso di Nicaise Le Febvre (1610 ca.-1669) è più complesso: nel Traicté de la chymie (1660), assegna alla chimica il compito di preparare i rimedi (definizione, questa, tutta paracelsiana) e si rifiuta di definirla come "l'arte delle trasmutazioni" o "delle separazioni", operazioni che ‒ egli afferma ‒ devono essere considerate effetti dell'arte, non il suo scopo. Malgrado questa distinzione, Le Febvre, per il quale l'arte chimica/alchemica è "antica quasi come la Natura stessa", si oppone a "quelli che [...] vogliono far passare la chimica per una scienza nuova". Egli eleva questa chimica al rango di una scienza fisica sperimentale in concorrenza con la fisica della Scolastica, e il posto che accorda allo "spirito universale, […] fonte e radice di tutte le cose", alla fine spinge a definire il suo trattato come una sorta di metafisica chimica, piuttosto che come una chimica sperimentale vera e propria. In definitiva, dunque, è nelle opere di Rolfinck e nel Cours de chymie di Nicolas Lémery (1645-1715) che bisogna cercare la separazione più netta tra un'alchimia denunciata come illusoria e una chimica fondata su principî esclusivamente materiali (lo spirito universale è scartato da Lémery in quanto principio metafisico). Sebbene subordinata alla medicina, la chimica è definita da Lémery come l'arte di decomporre i corpi misti. In quanto all'alchimia, essa prosegue il suo cammino fino agli anni Settanta del XVIII sec., continuando a essere coltivata da alcune tra le migliori menti dell'epoca.
Numerosi fattori spiegano il fiorire e il successo dell'alchimia nell'Età classica. Le corti principesche sono alcuni tra i luoghi privilegiati in cui essa è coltivata. Inoltre il suo inserimento nella società del XVII sec. passa sempre più per gli ambienti scientifici (accademici o universitari), ed essa stessa, a partire dalla fine del Rinascimento, si costituisce in una vera e propria respublica chemica, stabilitasi nel cuore della grande Repubblica delle Lettere. Del tutto a suo agio in ognuna delle diverse confessioni religiose praticate nel mondo cristiano, in certe occasioni essa può anche accompagnare diverse forme di libertinismo o addirittura sfiorare l'eresia. Tuttavia, durante il corso del secolo, la sua immagine si degrada poco a poco, al ritmo del progresso della ragione: è l'inizio di un lungo processo di discredito epistemologico e scientifico.
Il mecenatismo principesco
L'alchimista di corte è una figura antica quanto l'alchimia stessa. Solo alla fine del Rinascimento diversi principi intraprendono una politica culturale che lascia ampio spazio all'alchimia. Le loro corti dotte assumono allora il ruolo di accademie per questa disciplina ancora ai margini delle università; in Italia le più famose sono quella degli Este, dei Gonzaga e dei Medici, più tardi quella di Cristina di Svezia a Roma; in Francia quella discreta e operosa di Enrico IV, e, dopo la sua morte, di Maria de' Medici, di Luigi XIII e di diversi 'grandi' del regno. Dimostrarono uno spiccato interesse per l'alchimia lo stesso cardinale Richelieu e soprattutto Gaston d'Orléans, il fratello turbolento di Luigi XIII. In Germania, non si può non citare la corte di Maurizio d'Assia-Cassel, appassionato di alchimia medica e trasmutatoria. Un altro principe tedesco, Federico I, duca di Württemberg e conte di Montbéliard, finanzia a Stoccarda diversi laboratori: a lui è dedicato il celebre Theatrum chemicum (1602), monumentale antologia dell'alchimia medievale e paracelsiana. Il principe August von Anhalt o l'imperatore Rodolfo II d'Asburgo trascurano le loro funzioni per meglio dedicarsi all'alchimia e alle altre discipline da loro finanziate. Più avanti nel secolo, altri Asburgo, come l'imperatore Leopoldo I, saranno ancora appassionati di alchimia: attorno a lui graviteranno figure come Johann Joachim Becher (1635-1682), Johann de Monte-Snyder (1625 ca.-1670 ca.) o Christian Knorr von Rosenroth (1636-1689). In Inghilterra, oltre al duca di Buckingham, grande protettore dei seguaci inglesi di van Helmont, nel 1660 sarà il re Carlo II in persona a ricondurre dalla Francia il chimico/alchimista Le Febvre, ormai professore regio di chymistrie a Londra.
Le motivazioni di questi principi sono molteplici: la speranza di rinsanguare le casse del regno, o di guarire un male che la medicina ortodossa non sa curare; un utilitarismo che spinge a favorire gli aspetti più tecnici dell'alchimia ‒ arti del fuoco, giardini botanici, giacimenti minerari ‒ e che si traduce in un pragmatismo del tutto naturale in molti di loro. Concorrono inoltre la ricerca del prestigio (detenere segreti ignoti a chiunque altro, proteggere una scienza antica e misteriosa), se non addirittura, per certi principi, un gusto personale per il lavoro alchemico in laboratorio. A volte, il mecenatismo alchemico non è che un 'atto di disperazione politica' da parte di principi così coscienti della loro impotenza sul piano politico da rivolgersi all'alchimia per meglio investire le proprie energie (Moran 1991b). In altri casi alchimia e paracelsismo possono anche servire da contropoteri: se Richelieu sostiene il paracelsiano Théophraste Renaudot (1586-1653), lo fa, tra l'altro, con l'intenzione di ridurre il monopolio della Facoltà di medicina di Parigi. Uno studio più approfondito potrebbe permettere di tracciare un parallelo anche tra la figura di Gaston d'Orléans, politicamente ribelle, e il suo vasto mecenatismo alchemico (nel caso di Cristina di Svezia, questo tipo di parallelo si è rivelato però assolutamente privo di significato). Più in generale, il mecenatismo alchemico offre al principe un mezzo simbolico per affermare il proprio potere, opponendosi o eguagliandosi in questo modo a principi politicamente rivali: potrebbe essere questa la motivazione del mecenatismo alchemico di Enrico IV, contemporaneo e a volte concorrente di quello dell'imperatore Rodolfo II.
Alchimia, accademie e università
Nonostante la presenza dell'alchimia in numerose corti colte, o forse proprio a causa di ciò, la situazione degli alchimisti, specialmente in Germania e in Italia, era spesso precaria, perché soggetta alla volontà dei principi. Molti di loro condividevano con i dotti dell'epoca l'aspirazione alla costituzione di una Repubblica delle Lettere coerente e organizzata, e ciò, tra l'altro, spiega il prodigioso successo incontrato dal mito della Fratellanza dei Rosacroce negli anni che vanno dal 1611 al 1622. Studiosi come Marin Mersenne (1588-1648), preoccupati di una migliore organizzazione del sapere, reclamavano anch'essi la creazione di accademie per l'alchimia. Di fatto, l'Accademia dei Lincei fu una delle prime a includere nelle sue attività l'alchimia e il paracelsismo. Questo esempio è seguito più tardi nel resto d'Europa. In Inghilterra, la grande fioritura dell'alchimia paracelsiana ed helmontiana che accompagna la Rivoluzione puritana ha, tra le altre conseguenze, quella di includere nella Royal Society appena creata diversi studiosi interessati all'alchimia (alcuni erano tra i suoi membri fondatori). In Germania, dove la situazione era stata spesso paralizzata dalla guerra dei Trent'anni, il fiorire delle accademie frequentemente conferisce all'alchimia un ruolo quasi istituzionale; così l'Accademia dei Curiosi della Natura, fondata nel 1652, è un vero e proprio vivaio di alchimisti. Nel XVIII sec. questo tipo di accademie, molto sviluppate in Germania, sfocerà nella massoneria di tipo occultista. In Francia, l'Académie Royale des Sciences, ma anche l'Académie de Physique de Caen, erano in stretto contatto con la Royal Society, anche su argomenti alchemici. Temi alchemici erano oggetto di discussione anche nelle riunioni organizzate al Bureau d'Adresse da Théophraste Renaudot e in diverse accademie private, come quella di Mersenne e, soprattutto, quella di Pierre Michon Bourdelot (1610-1684). Le riunioni di Renaudot al Bureau d'Adresse, rappresentarono un modello per il gruppo animato da Samuel Hartlib (1600 ca.-1662) in Inghilterra, che costituì il nucleo di base su cui si fonderà la Royal Society.
Il mecenatismo dei principi non è solo la culla delle future accademie o, inversamente, l'ostacolo che ne stimola la formazione: è sempre all'iniziativa di un principe, Maurizio d'Assia-Cassel, che dobbiamo la creazione della prima cattedra universitaria di chimica o piuttosto di chymiatria, cioè di alchimia medica; istituita a Marburgo nel 1609, essa fu occupata dal matematico e medico Johannes Hartmann. Tale esempio, però, tarderà a diffondersi. Benché corsi di chimica/alchimia (sempre subordinata alla medicina) fossero stati tenuti all'Università di Jena nel 1613 e di nuovo nel 1628, solo nel 1641 fu creata una cattedra, che fu conferita a Werner Rolfinck. Nel 1648, per William Davisson, fu creato al Jardin du Roi di Parigi un corso di dimostratore di chimica. Altre cattedre furono poi create nelle Università di Lipsia e Utrecht (1668), Leida (1669), Erfurt (1673), Montpellier (1675), Altdorf e Wittenberg (1677), Oxford, Cambridge e Stoccolma (1683), Lovanio e Strasburgo (1685) e infine Helmstedt e Groninga (1688, 1696). In Italia, la prima cattedra di chimica sarà creata solo nel 1737 all'Università di Bologna. Parallelamente a queste cattedre ufficiali, sappiamo che l'alchimia era rappresentata all'interno dell'insegnamento di filosofia naturale a Harvard fin dagli anni Quaranta del XVII sec.; inoltre, alcuni corsi privati erano tenuti a Parigi da Jean Beguin nel 1608 e poi nel 1624. A partire dal 1630 i corsi furono tenuti da Étienne de Clave, che tra il 1624 e il 1629 insegnò anche nelle Università di Padova e di Mantova. Altri corsi semiufficiali come quelli di Jena erano tenuti a Leida e a Oxford nel 1659 e a Londra negli anni Sessanta. Già prima del 1648, anche il Jardin du Roi era uno dei luoghi in cui l'alchimia, qui subordinata alla medicina e legata alla botanica, era coltivata in maniera semiufficiale. Durante tutto il XVII sec., quindi, si sviluppa una tradizione di insegnamento dell'alchimia medica che spesso ottiene un riconoscimento ufficiale, contribuendo così a fondare una disciplina che solo nel XVIII sec. si distaccherà gradualmente dall'alchimia e soprattutto dalla medicina per diventare autonoma.
Se nel XVII sec. l'alchimia si propaga nelle accademie e viene insegnata perfino nelle università, è perché esistono su scala internazionale alchimisti organizzati in reti dalle maglie sempre più intrecciate. Queste reti, costituitesi fin dalla fine del secolo precedente, conoscono ormai un'espansione spettacolare. Come la grande Repubblica delle Lettere, questa vera e propria respublica chemica è strutturata da tutto un insieme di corrispondenze private, la cui caratteristica è di non limitarsi alla cerchia degli alchimisti, poiché questi spesso sono medici e quindi in contatto con il resto del mondo scientifico. Occorre ricercare le tracce di questa 'fratellanza' sia nella corrispondenza di Ole Worm, di Isaac de la Peyrère, di Cassiano Dal Pozzo, di Mersenne, di Henry Oldenburg, di Thomas Bartholin, di Oluf Borch (Borichius) o di Daniel Georg Morhof, sia in quella di Johann Hartmann, di Pierre Des Noyers o di Robert Boyle. Piccola repubblica nella grande, l'Europa alchemica è così in comunicazione costante con l'Europa dotta. Filosofi come Bacon, Gassendi, Descartes, Hobbes o Locke, astronomi come Johannes Hevelius, libertini come Cyrano de Bergerac non sono estranei a essa, benché questo terreno non sia affatto il loro ambito. In questo modo si comprende meglio l'incessante circolazione delle idee da un ambiente all'altro.
Alchimia e religione
Non essendo caratterizzata per sé stessa da alcuna forma specifica di religiosità, l'alchimia è sul terreno religioso ciò che di volta in volta ne fanno coloro che la praticano. Gli aspetti mistici delle dottrine di Robert Fludd, per esempio, che attingono del resto a tradizioni diverse, non costituiscono affatto un modello ricorrente. Ciò che fornisce a numerosi alchimisti del XVII sec. tinte di religiosità dalle sfumature molto variabili è, nella maggior parte dei casi, l'esegesi alchemica dei testi sacri o dei misteri cristiani cui essi si dedicano, o la coniugazione di diverse influenze: la cabala cristiana o ebraica, il Corpus hermeticum, l'opera di Ficino, quella di Giovanni Tritemio o di Heinrich Cornelius Agrippa, di Paracelso o di Jacob Boehme. Da questo punto di vista, l'alchimia di Cesare Della Riviera, di Sendivogius, autore del Tractatus de sulphure (1616), di Davisson, di Thomas Vaughan (Eugenio Filalete) o di Francesco Maria Santinelli è ancora da studiare.
Ci si può chiedere, però, se l'alchimia e il paracelsismo si siano sviluppati di preferenza nel contesto di una qualche particolare religione; infatti non si può non constatare la preponderanza degli alchimisti e dei paracelsiani protestanti. Questa dominante si spiega probabilmente con alcune analogie di ordine dottrinale tra la Riforma e il paracelsismo: in particolare, la rivolta cristiana contro il carattere pagano della cultura antica, il conseguente desiderio di riforma del sistema educativo e, forse, le analogie tra la dottrina calvinista dell'electus e la dottrina paracelsiana dell'adeptus, rafforzata da una lunga tradizione alchemica intorno al tema del donum Dei. Le stesse analogie valgono per il rapporto tra alchimia, helmontianismo e puritanesimo all'epoca della prima rivoluzione inglese. Allo stesso tempo, è evidente che il paracelsismo poteva anche sedurre, con il richiamo a una medicina profondamente cristiana, numerosi cattolici sostenitori della Controriforma, come Pierre-Jean Fabre. La stessa traduzione francese della Basilica chymica di Croll del 1624 è dedicata a una delle badesse che in quel periodo promuovevano il rinnovamento cattolico nei monasteri francesi sconvolti dalle guerre civili. In Italia, la maggior parte degli alchimisti del XVII sec. era ovviamente cattolica. Viceversa il successo del movimento rosacrociano e, più tardi, quello dell'alchimia ispirata da Boehme, come nel caso di Abraham von Franckenberg (1593-1652), sono strettamente legati allo spirito di tolleranza religiosa propria dell'opera teologica di Paracelso e del radicalismo spirituale della mistica tedesca cinquecentesca. Queste tendenze irenistiche si ritrovano più tardi nel corso del secolo, per esempio nell'ambiente degli ebraicizzanti Franciscus Mercurius van Helmont (1614-1699) e Christian Knorr von Rosenroth (1636-1689).
Ciò che invece emerge in modo molto chiaro, è l'unanimità con la quale, tra la fine del XVI e i primi trent'anni del XVII sec., le autorità religiose di qualsiasi provenienza condannano il paracelsismo e con esso certe deviazioni pericolose dell'alchimia. L'esempio tipico è rappresentato dall'alchimista luterano Andreas Libau, le cui tendenze antiparacelsiane coincidono perfettamente con quelle della Compagnia di Gesù. Nel 1600 Libau scrive: "Ai nostri giorni chi è platonico è mago e obbedisce alla superstizione, come attestano in modo evidente Giamblico, Proclo, Agrippa, Paracelso, Marsilio [Ficino], Pomponazzi e molti altri" (Gilly 1977, pp. 67-68). La Controriforma condivideva infatti con la Riforma la preoccupazione di distinguere chiaramente il sacro dal profano, ciò che discendeva dal cristianesimo e ciò che discendeva dal paganesimo, quanto apparteneva alle Scritture e quanto apparteneva solo alla letteratura antica. In questo ordine di idee, il neoplatonismo favoriva ogni tipo di ambiguità; l'aristotelismo, invece, consentiva al luteranesimo, seguendo Melantone, di separare l'ambito della fede da quello della scienza, fondando il primo sulle Scritture e il secondo su un umanesimo cristiano dominato dall'aristotelismo. Quest'ultimo, d'altra parte, permetteva al cattolicesimo post-tridentino di appoggiarsi a un edificio di provata solidità: il tomismo. Era lecito chiedersi che cosa potevano avere in comune queste due Chiese preoccupate di preservare la dottrina capace di garantire la loro unione, con un pensiero paracelsiano le cui forme più radicali e profonde conducevano invece a rifiutare qualsiasi Chiesa a vantaggio della Chiesa invisibile e dell'esperienza interiore, nel nome di un'aspirazione a unificare il mondo sensibile e il mondo celeste secondo un asse verticale ‒ replica esatta della scala di Giacobbe ‒ in cui il Verbo divino, illuminando e investendo l'essere con il suo potere creatore, doveva permettergli di dominare la Natura nel senso più largo del termine. Sicuramente niente di più dell'alchimia, che aveva, tra le tendenze più ricorrenti nel primo trentennio del XVII sec., quella di assimilare sistematicamente al proprio discorso la sostanza stessa delle Scritture, che era terreno riservato della teologia. L'irrigidimento dottrinale che caratterizzò la Controriforma cattolica non poteva che liquidare un paracelsismo e una forma di alchimia che, ognuno a suo modo, manifestavano velleità di Chiese alternative. Quanto al mondo riformato, esso si preoccupava ben poco di avallare tali forme di pensiero. Così il paracelsismo, ripreso fin dagli anni Quaranta da Jan Baptista van Helmont, continuava durante tutto il XVII secolo ‒ anche al di fuori dei circoli propriamente ecclesiastici ‒ a essere criticato, combattuto o diveniva oggetto di tentativi di conciliazione con il galenismo e l'aristotelismo. Il più celebre tra questi conciliatori rimane il medico alchimista Daniel Sennert (1572-1637).
L'alchimia stricto sensu poneva problemi differenti. Riconosciuta come lecita sul piano giuridico, essa era nondimeno considerata con molte riserve dai teologi della Compagnia di Gesù. Se sembrava irragionevole negare la possibilità teorica della trasmutazione, era discussa invece l'autenticità di numerose testimonianze di trasmutazioni, realizzate con successo: coloro che le confutavano, come Benito Pereyra (1535 ca.-1610), Gregorio de Valencia (1551-1603) o i redattori dei Commentarii del Collegio di Coimbra (1592), dichiaravano, in base all'esperienza, che la 'crisopea' era praticamente impossibile e ritenevano la sua ricerca "vana, nociva e dannosa". Coloro che credevano all'autenticità di queste testimonianze, come Martin Del Rio (1551-1608), concludevano che l'alchimia doveva essere riservata agli uomini pii, dotti e ricchi, altrimenti essa avrebbe condotto alla rovina o alla perdizione. Queste analisi, la maggior parte delle quali era stata formulata nel Medioevo, e che concordavano con quelle dei teologi protestanti, furono riprese durante tutto il XVII sec.; ciò ovviamente non impedì che, all'interno della Compagnia, un certo numero di padri gesuiti si dedicasse all'alchimia. La posizione di Athanasius Kircher (1602-1680), per certi versi molto ambigua, era tuttavia conforme alla linea generale della Compagnia: egli rifiutava l'alchimia trasmutatoria come un inganno del demonio, ma accettava tutto il resto della tradizione alchemica, insistendo sulle origini egiziane di questa scienza e sull'alchimizzazione dei simboli egiziani intrapresa all'inizio del secolo da Michael Maier. Agli occhi dei lettori frettolosi, Kircher poteva passare per un alchimista entusiasta, ma il suo rifiuto della trasmutazione suscitò critiche da parte di numerosi alchimisti della fine del XVII secolo.
La posizione della Compagnia di Gesù era insomma troppo ambigua per esercitare un'influenza precisa sul maggiore o minore credito accordato all'alchimia. Cionostante, nel corso del XVII sec. si assiste al progressivo attenuarsi di questo credito. Responsabili di questo fenomeno erano la crescente importanza accordata alla ragione e ai metodi razionali di conoscenza, in opposizione alle teorie paracelsiane e helmontiane della conoscenza acquisita per mezzo dell'illuminazione; il discredito che, parallelamente, finì per colpire l'idea stessa di immaginazione e la diffidenza suscitata per tale motivo dal concetto di entusiasmo negli ultimi trent'anni del secolo. Questa diffidenza accompagnò il fiorire di una chimica amputata delle sue ambizioni propriamente alchemiche. Incontriamo questa forma di diffidenza soprattutto in Francia ‒ anche se non trovò un'espressione unanime ‒, in Italia (ma va osservato che l'alchimia italiana del XVIII sec. è ancora oggi terra incognita) e in Inghilterra, dove la fisica newtoniana contribuì anch'essa a frenare rapidamente, se non a bloccare, lo sviluppo dell'alchimia. La Germania (intesa in senso largo e fino alla Russia) conservò a lungo nel XVIII sec. un numero molto elevato di eminenti difensori dell'alchimia.
La Spagna e il Portogallo conobbero una 'rivoluzione chimica' in ritardo, a partire dagli anni Sessanta del XVII sec., poiché i re cattolici avevano rigorosamente subordinato lo sviluppo scientifico all'ortodossia religiosa, inibendo fino ad allora ogni possibilità di reale diffusione del paracelsismo nella penisola Iberica. In realtà, sono date alle stampe varie edizioni di trattati di alchimia almeno fino al 1727, come la traduzione spagnola dell'Introitus apertus di George Starkey (Ireneo Filalete).
Più che in ogni altra epoca, gli alchimisti dell'Età classica cercarono di giustificare le loro dottrine trasmutatorie con speculazioni sulla teoria della materia. Sul versante più tradizionale, queste speculazioni potevano limitarsi a conciliare l'ilemorfismo aristotelico con la dottrina paracelsiana dei tre principî, come si vede, per esempio, in Libau, Beguin o Jean-Baptiste Morin (1583-1656). Sul versante vitalista, le speculazioni potevano attingere a diverse fonti: se la dottrina ficiniana dello spiritus mundi apriva prospettive più propriamente cosmologiche, l'idea dei semina rerum offriva possibilità di filosofie della materia molto diverse, da quella ispirata alla reinterpretazione neoplatonizzante di Paracelso, elaborata da Petrus Severinus (Peder Sørensen, 1540/1542-1602) nella Idea medicinae philosophicae (1571), a quella di Jan Baptista van Helmont, a partire dalla seconda metà del XVII sec., caratterizzata dalla nozione essenziale di fermentazione. Sul versante materialista, le speculazioni alchemiche potevano trovare il loro fondamento nell'idea paracelsiana dei tre principî (sale, zolfo e mercurio) costituenti di tutte le cose. Questa idea, come farà osservare Gassendi, apre direttamente la via all'analisi chimica della materia; due contemporanei di Gassendi, de Clave e Antoine de Villon, furono infatti condannati nel 1624 per aver voluto sostenere pubblicamente che ogni cosa al mondo (eccetto l'uomo) fosse costituita da cinque principî strettamente materiali isolabili in laboratorio, "ingenerabili e incorruttibili", e composti in ultima analisi di atomi. Egualmente, vediamo Mersenne tuonare alla stessa epoca contro quegli alchimisti inclini a fare della resurrezione dei corpi "un'azione altrettanto naturale della nascita di un pollo"; ciò rinviava agli esperimenti di palingenesi, cioè di resurrezione di una pianta a partire dai suoi sali, resi popolari dal paracelsiano Joseph Du Chesne (Quercetanus, 1544 ca.-1609), secondo cui la forma di ogni cosa sussisterebbe, permanente, nelle sue ceneri. Questi esperimenti (probabilmente fenomeni di cristallizzazione arborescente), riprodotti durante tutto il XVII sec., appassionarono gli studiosi e suscitarono ogni genere di spiegazione, in particolare di tipo corpuscolare. In realtà, furono proprio le ipotesi corpuscolari ad avere gli sviluppi più fecondi.
La dottrina ficiniana dello spirito universale o spiritus mundi
Tra le innovazioni principali dell'alchimia rinascimentale, una delle più influenti consiste nell'identificazione da parte di Ficino dello spiritus mundi, veicolo dell'anima del mondo, con la quintessenza e l'elisir degli alchimisti. Sostenitore di una visione del mondo risolutamente 'panvitalista', nel terzo libro del De vita (1489), Ficino postula che il mondo è vivente e, di conseguenza, dotato ovunque di un corpo e di un'anima. Il mondo è inoltre dotato di uno spirito, che è un intermediario necessario tra il corpo e l'anima; è in questo spirito che, secondo Ficino, risiede la virtù della vita e della generazione. Applicando questo modello al regno minerale, Ficino ne deduce che chiunque estragga, "per mezzo di una certa sublimazione al fuoco", lo spirito dai minerali, per esempio quello dell'oro, sarebbe in grado, applicandolo a qualsiasi altro metallo, di produrre nuovamente oro. Questo spirito è ciò che gli alchimisti hanno chiamato 'elisir', aggiungendo che proprio lo spirito tramite cui tutte le cose sono generate può essere chiamato 'quintessenza'. Identificando l'elisir e la quintessenza con lo spiritus mundi ('spirito del mondo', 'spirito universale'), Ficino apre la strada, inconsapevolmente, a una nuova dottrina alchemica destinata a un prodigioso successo fino al XVIII sec., non solo nel campo dell'alchimia, ma anche in quelli della medicina e della filosofia naturale: dopo avere infatti estratto dall'oro il suo spirito seminale ‒ specificazione metallica dello spiritus mundi ‒ si poteva applicarlo a un altro metallo per produrre di nuovo oro oppure cercare di utilizzarlo, allo stesso modo dell'oro potabile, come un elisir che rigenerasse la salute dell'uomo. Nel XVII sec., la dottrina dello spirito universale si sarebbe diffusa un po' ovunque in forme molto variabili (spesso identificata con la figura mitologica di Demogorgone, padre di tutti gli dei): la si incontra così in autori tanto diversi e influenti come Croll, Fludd, Clovis Hesteau (e non Jacques) de Nuysement (1550/1560 ca.-1623/1624), Fabre, Davisson, Vaughan, Le Febvre e Morhof; ciò non impedisce, ovviamente, che altri autori ‒ come Becher ‒ vi si opponessero con forza.
Confuso con l'anima del mondo in quanto essenza divina, o semplicemente concepito come un''istanza' della divinità, lo spirito universale poteva diventare un concetto religiosamente sospetto. Così il misterioso Andreas Orthelius, nel commento a Sendivogius, pubblicato a Erfurt nel 1624, identifica lo spiritus mundi alchemico con il Verbo divino, di cui afferma la presenza in forma incorporea in ogni essere creato; inoltre questo Verbo ‒ che è anche, per questo autore, lo spirito che galleggia sulle acque ‒ è espressamente identificato con la Trinità. Orthelius si colloca qui in una linea tutta paracelsiana di eresia pura e semplice, poiché mescola indistintamente un principio naturale e la divinità, ciò che era stato rimproverato a Croll o a Heinrich Khunrath (1560-1605). Vedremo qui di seguito come alcune dottrine alchemiche, in apparenza neutre, abbiano in alcuni casi fornito un appiglio alla censura delle autorità religiose.
Sendivogius e la dottrina del 'nitro aereo' o 'sale centrale'
Un'altra dottrina sorta nel Rinascimento, ma questa volta a partire da Paracelso, è quella del 'nitro aereo', primo presentimento dell'esistenza dell'ossigeno, il cui teorico più influente fu Sendivogius che, per un certo tempo, fu alchimista dell'imperatore Rodolfo II a Praga e occupò alcune cariche ufficiali sia alla sua corte sia presso il re di Polonia, per il quale lavorò come spia. Nel 1604 pubblicò, sotto il nome di Cosmopolita, un trattato destinato a un grande successo: De lapide philosophorum tractatus duodecim, al quale aggiunse nel 1616 un Tractatus de sulphure altero naturae principio, che ebbe la stessa fortuna. Sendivogius, che nel De lapide designa l'antimonio come materia della grande opera, sviluppa soprattutto l'idea di un 'nitro invisibile' diffuso nell'aria, vivificato dai raggi celesti e contenente il principio vitale senza il quale niente potrebbe crescere sulla Terra. Più precisamente, ogni corpo, secondo Sendivogius, possiede un centro che è il suo sperma o la sua semenza, da cui provengono tutte le sue qualità. Gli elementi stessi proiettano il loro sperma all'interno della Terra; questo sperma è, secondo Sendivogius, il 'mercurio dei filosofi'. Una volta digerito al centro della Terra, lo sperma elementare, chiamato anche 'sale centrale' o 'sal nitro', è condotto sotto forma di vapore, attraverso i pori della Terra, fino alla sua superficie dalla forza del 'Sole centrico', replica al centro della Terra del Sole celeste. Durante il passaggio si combina con lo 'zolfo filosofico', che si trova disperso all'interno della Terra, producendo qui un metallo, là un altro, secondo il calore e il grado di purezza dello zolfo che incontra. Ma se non incontra lo zolfo, si condensa alla superficie della Terra in "un'acqua che dà vita a tutte le cose". Quest'acqua che contiene lo sperma elementare ‒ o sal nitro, o mercurio filosofico ‒ impregnato delle virtù del Sole centrico, è attirata nell'aria, dove riceve la forza vitale proveniente dai raggi celesti. Caricata di questa forza vitale e del sal nitro, ricade sulla Terra sotto forma di pioggia o di rugiada, e il sal nitro, mescolandosi al grasso della terra ("pinguedini terrae": Genesi, 27, 28), vi produce non solo i fiori, ma tutte le cose. È in questa dottrina che bisogna cercare, tra l'altro, l'origine delle pratiche alchemiche fondate sulla raccolta mattutina della rugiada, tradotta in immagini dal famoso Mutus liber (1677).
L'influenza di Sendivogius fu profonda e durevole. Inoltre, la sua dottrina poteva facilmente combinarsi con molte altre, specialmente con quella dello spirito universale, come si vede in particolare in Vaughan, Kenelm Digby (1603-1665), e, precedentemente, in Nuysement, autore del Traictez du vray sel secret des philosophes, et de l'esprit universel du monde (1620). In questa pubblicazione Nuysement plagiava un'opera rimasta manoscritta, i Trois livres des éléments chimiques et spagyriques de l'esprit du monde, composta molto probabilmente verso il 1578-1580 dal medico Jean Brouaut (1535 ca.-dopo il 1603), che era un commento dettagliato della Tabula smaragdina, attribuita al mitico Ermete Trismegisto, alla luce della dottrina ficiniana dello spirito universale (Kirsop 1960). Rimaneggiandola, Nuysement vi integrò però l'essenziale dell'alchimia sendivogiana, come si può notare fin dal titolo del suo libro. Inoltre, il frontespizio, dovuto forse all'editore e non a Nuysement stesso (Traictez de l'harmonie et constitution generalle du vray sel [...] suivant le troisiesme principe du Cosmopolite), presenta il Traictez du vray sel come il proseguimento logico del Tractatus de sulphure di Sendivogius, pubblicato cinque anni prima, in cui si annunciava un terzo trattato sul sale che non vide mai la luce. Questa operazione editoriale garantì al Traictez du vray sel di Nuysement un pubblico di portata europea. D'altronde, ritroviamo la stessa combinazione di alchimia sendivogiana, dottrina ficiniana dello spiritus mundi ed esegesi testuale della Tabula smaragdina nell'opera di Johann Rudolph Glauber (1604-1670).
I semina, i fermenti e l'alkahest di van Helmont
Poco prima dei trattati di Glauber, nel 1648, fu pubblicato l'Ortus medicinae, opera postuma di Jan Baptista van Helmont, che diede un nuovo slancio al paracelsismo, da lui reinterpretato criticamente. L'opera riaccese la virulenta opposizione paracelsiana all'aristotelismo e alla medicina galenica e diede nuovo vigore sia all'importanza dell'immaginazione nei processi di trasformazione della materia, sia al ruolo capitale dell'illuminazione divina nell'acquisizione della conoscenza. Nella sua reinterpretazione critica di Paracelso, van Helmont attacca in particolare i tre principî, che secondo lui non sono affatto 'estratti' ma 'prodotti' dal fuoco, analogamente a come il fuoco produce il vetro. Non sono dunque corpi semplici ma corpi eterogenei. Per van Helmont, i veri principî di tutte le cose sono l'acqua e i semina (semenze invisibili, di natura spirituale e dotate di scientia, contenenti la forza vitale e organizzatrice di ogni sostanza), ed è da essi che i tre principî traggono origine (Newman 1994). Questi semina agiscono per mezzo di fermenti; van Helmont attinge la nozione di semina da Severinus, la trova confermata da Sendivogius e la utilizza per sostituire il concetto aristotelico di 'forma', invocando contro la tradizione scolastica anche le rationes seminales di Agostino. Tali fermenti permettono ai semina di trasmutare l'acqua elementare in tutte le sostanze del mondo sensibile, processo che van Helmont espone servendosi di una teoria corpuscolare della materia che non contraddice né indebolisce l'importanza primordiale del vitalismo nella sua opera. Infatti, il fermento, che ha la proprietà di dividere la materia nelle particelle che la compongono, comunica loro allo stesso tempo le caratteristiche seminali delle quali è portatore, trasmutando così la sostanza sulla quale esso agisce. Prima di giungere a questo stadio, è necessario, però, ridurre i corpi alla loro materia prima. Van Helmont assegna questo ruolo all'alkahest, o dissolvente universale, elaborando così una nozione destinata a un'immediata e notevole fortuna. Se l'alkahest, di cui egli riprende l'idea da Paracelso, è capace di ridurre i corpi alla loro materia prima, è perché van Helmont gli attribuisce tutte le qualità ‒ omogeneità, fissità, estrema sottigliezza delle particelle ‒ che lo Pseudo-Geber (attivo fra XIII e XIV sec.), al quale egli si ispira, attribuiva al mercurio, unico agente della trasmutazione dei metalli. A queste concezioni corpuscolari van Helmont, ricorrendo ad alcuni concetti fondamentali di Paracelso, sovrappone un ilozoismo che implica la nozione di archeus, principio direttore, contenuto nella semenza sotto forma di spirito e che comanda tutte le sue attività. A questa nozione si aggiunge anche l'idea, fondamentale in van Helmont, che nella generazione sessuata i semina sono prodotti dall'immaginazione del genitore sotto l'effetto del desiderio.
Le idee di van Helmont, non solo in alchimia ma anche in medicina, ebbero un'ampia diffusione e sollevarono polemiche a livello internazionale. Soprattutto in Inghilterra, il circolo di dotti riunito intorno a Hartlib le accolse con grande favore, e non è sorprendente vedere un corrispondente di Hartlib, Sir Cheney Culpeper (1601-1663), identificare nel 1645 la nozione helmontiana di spirito racchiuso nei corpi naturali con il concetto ficiniano di spirito universale, deduzione logica nell'ambito di due dottrine vitaliste. Per numerosi helmontiani inglesi, come John Webster (1610-1682), il vitalismo di van Helmont si combinò facilmente anche con il corpuscolarismo che sembrava offrire spiegazioni migliori delle trasformazioni della materia, rispetto a quelle date dal meccanicismo, sovente considerato in grado di spiegare solamente semplici aumenti di materia. I semina di van Helmont, quindi, furono spesso interpretati in termini corpuscolari, in modo tale da eclissare, se necessario, la nozione helmontiana di fermento.
L'opera di George Starkey alias Ireneo Filalete
Tra gli alchimisti influenzati da van Helmont, uno dei più autorevoli fu l'americano George Starkey (1628-1665), che elaborò intorno alla figura mitica dell''adepto' Ireneo Filalete una frode che contribuì ad assicurargli tre secoli di fama. Muovendosi all'interno e alla periferia dell'ambiente scientifico inglese (in particolare nella cerchia di Hartlib e dello stesso Boyle), Starkey acquisì una notevole abilità come sperimentatore e iatrochimico, negli anni passati in laboratorio alla ricerca dell'alkahest di van Helmont. Egli sviluppò una teoria trasmutatoria ispirata simultaneamente a van Helmont, all'alchimista medievale Bernardo di Treviri (XIV sec.) ‒ e per suo tramite allo pseudo-Geber ‒ e al paracelsiano tedesco Alexander von Suchten (1520 ca.-1590 ca.). Fedele al misticismo helmontiano, Starkey riteneva che solo un essere ispirato dall'illuminazione divina fosse in grado di discernere nel più segreto della materia la sua semenza nascosta. Per giungere a questa semenza, si doveva preparare in diverse tappe un amalgama di mercurio, di regolo d'antimonio e d'argento; questo amalgama era chiamato da Starkey il 'mercurio sofico' (filosofico) o 'mercurio animato'. Aggiunto all'oro, doveva penetrare nel cuore del nucleo del metallo, in cui risiedeva il fermento ‒ ossia la 'semenza invisibile' dell'oro ‒, liberarla e, tramite un processo di fermentazione, produrre la pietra filosofale: i semina dell'oro, maschi e ardenti, si sarebbero combinati, infatti, con la semenza femminile del mercurio filosofico in un 'matrimonio indissolubile' nel senso di van Helmont. Questa combinazione si sarebbe verificata con una mixtio per minima, intesa in un contesto vitalista, dando origine a un oro vivente, vegetativo, che doveva manifestarsi in una forma arborescente descritta con precisione da Starkey. Queste considerazioni si fondavano su una concezione corpuscolare piuttosto elaborata della costituzione dei metalli, tratta sia dallo Pseudo-Geber (per il quale il peso specifico dei metalli era tanto più grande quanto più piccole e compatte erano le loro particelle) sia dalla nozione helmontiana di materia, che implica un nucleo rivestito da diverse croste. Secondo Starkey, i metalli sarebbero composti da corpuscoli complessi che comprendono un nucleo denso e molto compatto di particelle attive, circondate da una o più croste porose e meno compatte. Questo modello permetteva di spiegare in termini fisici la sua dottrina trasmutatoria, fondata sulla sua concezione dei semina e dei fermenti.
Corpuscolarismo, atomismo e alchimia
Fin dall'inizio del XVII sec. la resistenza crescente alla filosofia naturale aristotelica aveva spinto i dotti a rivolgersi ad altre filosofie antiche, tra cui l'atomismo. Sebbene la figura dello Pseudo-Democrito alchimista non fosse che un nome simbolico privo di qualsiasi implicazione atomistica seria ‒ come si vede in Libavius quando lo invoca per sostenere l'antichità dell'alchimia ‒ è vero però che in quel periodo si osservano numerose posizioni favorevoli agli atomi nel contesto alchemico, in particolare quelle di Bacon, di de Villon e de Clave nel 1624 o di Jean d'Espagnet nell'Enchiridion physicae restitutae (1623), trattato tra l'altro nutrito di speculazioni neoplatoniche. Inoltre, a partire dalla fine del XIII sec. un filone di pensiero di tipo corpuscolarista attraversava numerosi testi alchemici influenti, grazie alla mediazione dello Pseudo-Geber. Questa tradizione, come abbiamo visto, continuerà fino al XVII secolo. Alchimisti e filosofi della Natura molto diversi tra loro come Sennert, van Helmont o Boyle ne subirono l'influenza, diretta o indiretta. Vi si mescolò spesso un vitalismo, esplicito o latente, che impedirà di ridurre il corpuscolarismo di un Gassendi o di un Boyle a un semplice meccanicismo. In realtà, bisogna ormai rinunciare all'idea di un'opposizione radicale tra meccanicismo e alchimia, poiché il corpuscolarismo assicura spesso il legame tra questi due ambiti della filosofia naturale dell'Età classica.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento, sulla scia delle tesi di Frances Amelia Yates, il ruolo dell'ermetismo nella Rivoluzione scientifica è stato oggetto di dibattiti spesso molto accesi. Il termine 'ermetismo' può essere inteso in due accezioni: come un insieme di concezioni neoplatoniche, magiche, astrologiche ed eventualmente alchemiche, espresse in modo molto vago e di cui è impossibile definire con precisione i contorni; oppure, più rigorosamente, come il 'corpo' di diverse dottrine attribuite a Ermete Trismegisto e trasmesse con il nome di Corpus hermeticum. A questo Corpus l'alchimia è del tutto estranea, sebbene il nome passe-partout di Ermete vi abbia giocato un ruolo non trascurabile e sebbene certi testi propriamente ermetici, come il Pimandro o l'Asclepius, fossero talvolta utilizzati da alcuni alchimisti. Ne consegue che l'eventuale ruolo dell'alchimia nella Rivoluzione scientifica non va confuso con quello dell'ermetismo come si è voluto intenderlo, cioè un gran guazzabuglio in cui l'alchimia era evocata solo raramente. Sono state dimostrate con certezza da Allen Debus la grande vitalità e la costante influenza del paracelsismo durante tutto il XVII sec. in numerosi campi. Resta però che l'alchimia, in quanto disciplina molto vicina all'ampia sintesi del paracelsismo (che inglobava anche diverse forme di magia naturale e di medicina), ma distinta da esso, è stata quasi sempre contrapposta, nelle valutazioni di cui è stata oggetto, a un'ipotetica chimica che sarebbe nata sul solco del cartesianesimo e del meccanicismo e illustrata in special modo nell'opera The sceptical chymist (1661) di Boyle. Ora le ricerche più recenti mostrano che questa distinzione in gran parte non è funzionale. Distinguere tra chimica e alchimia prima del XVIII sec. è praticamente impossibile, anche se alcune opere, pubblicate dopo il 1660, sembrano prefigurare questa distinzione. Il trattato The sceptical chymist, lungi dall'essere stato redatto contro gli alchimisti, mira a distinguere ‒ seguendo in ciò una tradizione alchemica secolare ‒ gli alchimisti volgari e 'tecnici' dai veri e propri 'adepti', gli autentici filosofi alchimisti. Inoltre Boyle condusse numerosi esperimenti in compagnia dello stesso Starkey, mostrando un interesse costante e, con gli anni, sempre più forte per l'alchimia trasmutatoria, fatto di cui rappresentano una testimonianza eloquente i manoscritti, la corrispondenza, oltre che alcune delle sue pubblicazioni. Quanto a Descartes, che pure si interessò all'alchimia soltanto limitatamente e con circospezione, la sua filosofia, più di ogni altra, non sembra incompatibile con l'alchimia; al contrario, essa fu percepita dai suoi contemporanei piuttosto come parallela e complementare. Un altro pilastro della Rivoluzione scientifica, Bacon, nonostante le sue ben note critiche all'assenza di metodo degli alchimisti, era convinto della possibilità della trasmutazione, che costituiva per lui un banco di prova della validità dell'atomismo democriteo. Oggi sappiamo che Isaac Newton condusse per tutta la vita ricerche alchemiche, adottando l'idea di Sendivogius, secondo cui ogni corpo visibile rinchiude in sé un centro seminale invisibile, ed è noto che riprese una parte delle sue concezioni alchemiche da Starkey, per elaborare la propria dottrina della composizione esatta della materia.
In conclusione, si commetterebbe un grave errore se si considerasse l'alchimia come monolitica: bisogna al contrario riconoscere in essa una disciplina composta di correnti molto diverse, aperta a numerose influenze. Gli esempi di Boyle e di Newton del resto mostrano chiaramente che bisogna guardare questa diciplina con occhio nuovo: non c'è infatti niente di contraddittorio nel fatto che Boyle abbia condotto ricerche alchemiche e si sia messo in luce allo stesso tempo come uno dei fondatori della chimica moderna. Egli era semplicemente un alchimista/chimico dell'Età classica, intendendo questi termini, per noi così ambigui, in tutta la loro ricchezza semantica: alcune delle sue attività appartenevano alla tradizione alchemica, altre aprivano la via alla chimica moderna. Boyle non è dunque sempre così 'moderno' come si è ritenuto, né l'alchimia sempre così 'antica' quanto si è creduto. Quest'ultima rappresenta oggi per lo storico delle scienze un campo di ricerca ancora poco esplorato, di grande fecondità, e di ricchezza sovente imprevedibile.
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