La riforma del giudizio civile in Cassazione
Negli ultimi anni il processo civile italiano è stato sottoposto a numerosi e sostanziosi interventi di riforma, tutti sempre giustificati dall’“emergenza” e da finalità di sua accelerazione, snellimento, semplificazione. Anche l’ultimo degli interventi legislativi sul giudizio civile di cassazione – quello contenuto nella l. n. 197/2016, di conversione del d.l. n. 168/2016 – si inserisce nella stessa linea di tendenza, inaugurata già nel 2006 e seguita dai successivi interventi riformatori, tutti ispirati dall’esigenza di rafforzare la funzione nomofilattica della Corte e, al tempo stesso, renderne più veloce l’iter decisionale. Con inevitabili ricadute, tuttavia, sulla qualità delle decisioni assunte dalla nostra Corte della legittimità e, di conseguenza, sulla qualità della giurisdizione che essa è chiamata ad esercitare e sulla capacità persuasiva delle sue decisioni.
Pur nella diffusa convinzione che, per migliorare la situazione di grave crisi della giustizia civile italiana, servirebbe un piano ampio ed organico di interventi finanziari, di incremento del personale e di riorganizzazione delle strutture, piuttosto che continui e disorganici interventi di riforma della disciplina processuale, il nostro legislatore continua imperterrito a preferire questa seconda soluzione alla prima. Negli ultimi tempi, poi, ha deciso di rivolgere la sua attenzione al sistema delle nostre impugnazioni e, fra queste, in modo particolare al giudizio di cassazione, anche in considerazione dell’importanza che esso riveste ai fini della salvaguardia del principio di ragionevole durata del processo. Con il chiaro obiettivo, da un lato, di limitare il più possibile – pur nell’alveo costituzionale disegnato dall’art. 111, co. 7, Cost. – l’accesso a tale rimedio impugnatorio e, dall’altro lato, semplificare l’articolazione interna del procedimento da seguire e in questo modo cercare di velocizzare le decisioni da parte dellaSuprema Corte. È quel che è accaduto soprattutto a partire dal 2009, con la l. 18.6.2009, n. 69 e l’introduzione del “filtro di ammissibilità” dei ricorsi (art. 360 bis c.p.c.) e dell’«apposita sezione» (art. 376); nel 2012, con il d.l. 22.6.2012, n. 83 (conv. dalla l. 7.8.2012, n. 134) e la riformulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.; da ultimo, nel 2016, con la l. 25.10.2016, n. 197, di conversione del d.l. 31.8.2016, n. 168, e la previsione della generalizzata applicazione del procedimento «non partecipato» in camera di consiglio nella decisione dei ricorsi (nuovo art. 375 c.p.c.).
L’impressione è che il nostro legislatore, sotto l’«incubo»1 della «ragionevole durata del processo» è stato costretto ad affrontare il problema dell’incidenza che ha il giudizio di cassazione proprio sulla complessiva durata dei processi civili2. E, guardando esclusivamente a tale obiettivo concreto, ha puntato decisamente sul rafforzamento di alcune caratteristiche proprie del giudizio di cassazione, già presenti nella disciplina di tale rimedio impugnatorio, a detrimento di altre, che pure erano presenti nel profilo genetico della nostra Cassazione. Ha pensato bene, cioè, di orientare il giudizio di cassazione in una precisa direzione3, come se la nostra Cassazione assolvesse esclusivamente ad una funzione nomofilattica e non assolvesse anche – se non addirittura in maniera prevalente – ad una funzione di garanzia soggettiva per le parti. Ne è venuto fuori un deciso rafforzamento dello ius constitutionis a scapito dello ius litigatoris, pur in presenza di un testo come quello dell’art. 111, co. 7, Cost. rimasto invariato e nel quale non solo si riafferma la compresenza dei due profili, ma addirittura sembra – stando almeno all’interpretazione datane dai giudici costituzionali4 – che l’attenzione sia soprattutto rivolta ad assicurare la garanzia soggettiva del controllo di legittimità sull’operato dei giudici di merito. Si inseriscono perfettamente in questa linea di tendenza le modifiche normative che la l. n. 197/2016 ha introdotto nel codice di rito e che riguardano esclusivamente la disciplina del giudizio civile di cassazione.
Al di là delle perplessità che continua a suscitare l’utilizzo della decretazione d’urgenza in materia processuale, già evidenziate in altre sedi5, e nonostante la cattiva abitudine del Governo di omettere l’individuazione dei presupposti di necessità e urgenza pure imposta dall’art. 77 Cost., si tratta di un intervento che, a nostro parere, va ad incidere direttamente sulla qualità delle decisioni assunte dalla Corte e dunque sulla qualità della giurisdizione che essa è chiamata ad esercitare, incrinando la salvaguardia della fondamentale garanzia del contraddittorio fra le parti. E forse proprio per questo molto più rilevante sul piano squisitamente processuale6.
Ora, non è necessario aver un grande acume processuale per comprendere che in sede di esercizio della giurisdizione la buona qualità dei risultati dipende proprio dalle regole processuali che si seguono per ottenere le decisioni. Si tratta di considerazione talmente ovvia che lo stesso legislatore costituzionale nel riformare l’art. 111 della Costituzione ha tenuto ad esplicitare che la giurisdizione (quale che sia il suo contenuto e dunque anche quella di legittimità) «si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».È chiaro, dunque, che pensare di “semplificare” – coma ama dire oggi – le regole processuali senza che ne venga intaccata la qualità delle decisioni, e dunque la qualità della giurisdizione, è quanto meno da ingenui. Tanto più quando – come è accaduto, appunto, con la l. n. 197/2016 – la “semplificazione” delle regole processuali riguardi direttamente il giudizio in Cassazione.
Senza dubbio la più rilevante modifica introdotta dal legislatore del 2016 è la generalizzazione del procedimento camerale per la decisione dei ricorsi.
Prima di questa modifica, di norma la trattazione dei ricorsi in Cassazione avveniva in pubblica udienza davanti al collegio, mentre la trattazione in camera di consiglio era riservata alle sole ipotesi tipiche indicate dal co. 1 dell’art. 375 c.p.c. e in pochi altri casi (come per la trattazione dei regolamenti di giurisdizione e di competenza, ex art. 380 ter, e per la decisione sulla revocazione delle pronunce della stessa Cassazione, ex art. 391 bis). Va anche detto che, dopo l’introduzione nel 2009 della “sezione filtro”, il procedimento camerale poteva riguardare – sempre nei limitati casi di cui al co. 1 dell’art. 375 – sia la “sezione filtro”, sia le altre sezioni semplici. Ai sensi del co. 1 dell’art. 376, infatti, il primo presidente assegna i ricorsi (ad eccezione di quelli diretti alle Sezioni Unite) alla “sezione-filtro” perché verifichi «se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, primo comma, numeri 1) e 5). Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici».
Il quadro cambia notevolmente dopo le modifiche legislative del 2016.
In primo luogo, vengono escluse – dal co. 1 dell’art. 375 – alcune ipotesi che in precedenza erano sottoposte alla trattazione in camera di consiglio davanti al collegio. Si tratta, in particolare, delle ipotesi previste in precedenza dai nn. 2) e 3) di detta disposizione, e dunque le ipotesi nelle quali occorre ordinare l’integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell’impugnazione a norma dell’art. 332 ovvero che sia rinnovata; oppure provvedere in ordine all’estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia. Ebbene, queste ipotesi sono state eliminate dal co. 1 dell’art. 375, in quanto:
a) l’ordine di integrazione del contraddittorio (così come l’ordine di rinnovare la notificazione del ricorso ai sensi dell’art. 332 c.p.c.) è disposto sempre con decreto del primo presidente (o del presidente della sezione alla quale è assegnato il ricorso) (art. 377, co. 3, come modificato dalla l. n. 197/2016);
b) l’estinzione del processo (per rinuncia al ricorso o per altre ragioni) è disposta o «con ordinanza in camera di consiglio, salvo che [la Corte] debba decidere altri ricorsi contro lo stesso provvedimento fissati per la pubblica udienza» oppure con decreto dal presidente, ove non sia stata ancora fissata la data della decisione (art. 391, co. 1, come modificato sempre dalla l. n. 197/2016).
In secondo luogo, viene generalizzato il ricorso al procedimento camerale.
In proposito la norma chiave è il nuovo co. 2 dell’art. 375, a tenore del quale la Corte «a sezione semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare ovvero il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’art. 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio».
Ne deriva che, al di là dei casi di cui al co. 1 dell’art. 375 (pure ridotti dalla stessa l. n. 197/2016, come abbiamo visto, con l’eliminazione dei nn. 2 e 3), per i quali già in precedenza era prevista l’adozione del procedimento camerale per la decisione della Corte (inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall’art. 360, ovvero manifesta fondatezza/infondatezza del ricorso principale e dell’eventuale ricorso incidentale ed i regolamenti di competenza o di giurisdizione), la regola per il giudizio in Cassazione oggi è diventata la trattazione in adunanza camerale anche per tutti gli altri ricorsi, essendo riservata l’eccezione del procedimento ad udienza pubblica alle sole ipotesi:
i) in cui «la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare»;
ii) in cui «il ricorso sia stato rimesso [alla sezione semplice] dall’apposita sezione di cui all’articolo 376 [la «sezionefiltro»] in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio».
Sennonché, la l. n. 197/2016 non si è limitata a prevedere l’utilizzazione generalizzata del procedimento camerale per la trattazione dei ricorsi in Cassazione, ma ha inciso profondamente sulla stessa disciplina di tale procedimento, contenuta nell’art. 380 bis, come modificato dapprima nel 2001 e poi nel 2009. E vi ha inciso nelle disposizioni più garantiste per le parti, che avevano consentito di superare alcuni dubbi, anche di rilevanza costituzionale, che già all’epoca aveva suscitato tale disciplina.
Occorre ricordare, anzitutto, che, con la riformulazione dell’art. 375 nel 2001 (l. 24.3.2001, n. 89) e poi nel 2006 (d.lgs. 2.2.2006, n. 40) e l’inserimento nel codice dell’art. 380 bis, era stata introdotta anche la facoltà degli avvocati delle parti di essere sentiti, chiedendo di comparire all’adunanza camerale, oltre che di depositare memorie scritte almeno cinque giorni prima dell’adunanza. Ciò andava di pari passo con la scelta – compiuta con gli stessi interventi normativi – di ampliare l’utilizzazione del procedimento camerale nel giudizio di legittimità. L’allargamento della possibilità di trattare il ricorso con il procedimento camerale anche alle ipotesi della manifesta fondatezza/infondatezza venne bilanciato con la possibilità per gli avvocati delle parti di intervenire all’adunanza camerale e di interloquire direttamente con il collegio. Ciò, peraltro, – come già detto – pur mantenendo ferma la possibilità degli stessi di esercitare il loro diritto di difesa e di contraddittorio nella forma dello scambio preventivo di memorie scritte.
Fino all’intervento della l. n. 197/2016, dunque, non solo è stato assicurato l’esercizio del contraddittorio scritto fra le parti attraverso lo scambio delle memorie, ma questa garanzia era rafforzata anche dalla possibilità del contatto diretto delle parti con il collegio. Infatti, nel depositare le memorie, gli avvocati delle parti potevano chiedere di essere sentiti in sede di adunanza camerale con un’interlocuzione orale durante la trattazione che era sostanzialmente assimilabile alla discussione prevista per il procedimento in udienza pubblica.
Di conseguenza, la partecipazione all’adunanza consentiva alle parti non solo di ribadire davanti al collegio le ragioni già espresse in forma scritta nelle memorie depositate cinque giorni prima dell’adunanza, ma anche di replicare, eventualmente, alle ragioni espressa dalla controparte e dal p.m. nella loro memoria.
Tutto questo è venuto meno per effetto della l. n. 197/2016, sia perché è stato generalizzato il procedimento camerale – come abbiamo visto – attraverso la riformulazione del co. 2 dell’art. 375, sia perché, modificando l’art. 380 bis (e l’art. 380 ter) e introducendo il nuovo art. 380 bis.1, è stata esclusa la possibilità di partecipazione dei difensori delle parti all’adunanza camerale ed è stato imposto ad essi di interloquire esclusivamente attraverso lo scambio delle memorie scritte da presentare non oltre dieci giorni prima dell’adunanza, nel caso del procedimento camerale davanti alla sezione semplice (art. 380 bis.1), e non oltre cinque giorni prima dell’adunanza, nel caso del procedimento davanti alla “sezione-filtro” (art. 380 bis) o nel caso del camerale per la trattazione dei regolamenti di giurisdizione o di competenza (art. 380 ter).
In un sol colpo, dunque, la soluzione che garantiva il contraddittorio e il diritto di difesa, prima prevista dall’art. 380 bis (scambio di memorie scritte e possibilità di interlocuzione orale con il collegio), e che era servita – nel 2006 – per tacitare i dubbi che l’estensione della procedura camerale per decidere nel merito i ricorsi (sia pure di manifesta fondatezza/infondatezza) aveva fatto sorgere.
Sempre al fine di perseguire la massima semplificazione possibile del giudizio civile in Cassazione, la l. n. 197/2016 ha anche modificato il secondo periodo del co. 1 dell’art. 376 c.p.c., prevedendo che «se, a un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione [sezione-filtro] non ravvisa tali presupposti [cioè, quelli di cui ai nn. 1 e 5 dell’art. 375, co. 1], il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice». In questo caso, tuttavia, la modifica normativa tutt’altro che chiara nella sua formulazione. Occorre, anzitutto, rammentare che, nella sua formulazione previgente, il co. 1 dell’art. 376 prevedeva che «se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici». Con la nuova formulazione, invece, è lo stesso presidente della “sezione-filtro” che procederà con decreto a rimettere gli atti alla sezione semplice, senza che la causa ritorni al primo presidente. Un indubbio risparmio di tempi. E tuttavia, proprio per la sua poco chiara formulazione, la disposizione solleva qualche perplessità e ha fatto emergere divergenti interpretazioni.
Stando al testo della disposizione, infatti, sembrerebbe che, mentre la valutazione circa la non sussistenza dei presupposti indicati dai nn. 1 e 5 del co. 1 dell’art. 375 (inammissibilità del ricorso, manifesta fondatezza o infondatezza dello stesso) debba essere demandata alla “sezione-filtro”, invece alla rimessione alla sezione semplice possa provvedere il presidente della stessa sezione «omessa ogni formalità». Non è affatto chiaro, di conseguenza, se l’iniziativa del presidente debba essere necessariamente successiva alla valutazione compiuta dal collegio della “sezione-filtro” – come sembra ricavarsi dalla prima parte della disposizione – oppure possa prescinderne come sembrerebbe ricavarsi dalla seconda parte della stessa disposizione («il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice»).
È evidente che, ove si optasse per la prima soluzione come ci sembra ovvio, vista la funzione che lo stesso art. 376 attribuisce a tale sezione («il primo presidente … assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375, primo comma, numeri 1 e 5») – la semplificazione introdotta dalla nuova disposizione sarebbe abbastanza ridotta, ma apprezzabile. Si salterebbe, infatti, l’ulteriore ritorno della causa al primo presidente della Cassazione perché provveda nuovamente ad assegnarla alla sezione semplice. Non si comprenderebbe, tuttavia, per quale ragione all’esito della valutazione della “sezione-filtro” di insussistenza dei presupposti di cui all’art. 375, co. 1, nn. 1 e 5, non debba essere lo stesso collegio con ordinanza a rimettere gli atti alla sezione semplice, in applicazione dell’art. 380 bis, co. 3.
Ove, invece, si affermasse la seconda opzione interpretativa7, l’innovazione sarebbe abbastanza rilevante, perché di fatto si riconoscerebbe allo stesso presidente della cd. “sezione-filtro” il potere di valutare, senza il coinvolgimento del collegio, l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione del “filtro”.
E questo in evidente contrasto con quanto stabilito nel primo periodo dell’art. 376, co. 1, circa appunto le funzioni della cd. “sezione-filtro”. La scelta fra la prima e la seconda opzione interpretativa, peraltro, è destinata ad avere conseguenze anche sul procedimento da applicare per la decisione del ricorso davanti alla sezione semplice. Ed infatti, come abbiamo visto, il co. 2 dell’art. 375 esclude che possa applicarsi il procedimento camerale davanti alla sezione semplice in due soli casi: ove il ricorso presenti una questione di diritto «di particolare rilevanza» oppure il ricorso sia stato rimesso alla sezione semplice dalla cd. “sezione-filtro” «in esito alla camera di consiglio, che non ha definito il giudizio».
Ebbene, tenendo conto di ciò, è evidente che, solo se si optasse per la prima soluzione interpretativa sopra prospettata, questa disposizione sarebbe destinata a trovare applicazione.
Diretta conseguenza della soppressione della facoltà per i difensori delle parti di chiedere di partecipare all’adunanza in camera di consiglio davanti al collegio la modifica apportata all’art. 390, co. 1, c.p.c. relativamente al termine finale entro cui può intervenire la rinuncia al ricorso (principale o incidentale).
Prima della l. n. 197/2016 la parte poteva rinunciare al proprio ricorso principale o incidentale «finché non [fosse] cominciata la relazione all’udienza [o all’adunanza in camera di consiglio] o [fossero] notificate le conclusioni scritte del pubblico ministero nei casi di cui all’articolo 380 ter». Nella nuova formulazione dell’art. 390, invece, è specificamente previsto che, in caso di procedimento in camera di consiglio ex art. 380 bis (davanti alla “sezione-filtro”) o ex art. 380 bis.1 (davanti alle sezioni semplici), la rinuncia al ricorso possa intervenire «sino alla data dell’adunanza camerale», mentre, in caso di procedimento camerale nei casi di cui all’art. 380 ter (nei casi di regolamento di giurisdizione o di competenza), il termine ultimo per rinunciare al ricorso continua ad essere dato dal momento della notificazione delle conclusioni scritte del p.m.
Dalle modifiche è interessata anche la disciplina della discussione in pubblica udienza di cui all’art. 379 c.p.c.
Prima dell’intervento della l. n. 197/2016, infatti, l’art. 379 prevedeva che «all’udienza il relatore riferisce i fatti rilevanti per la decisione del ricorso, il contenuto del provvedimento impugnato e, in riassunto, se non vi è discussione delle parti, i motivi del ricorso e del controricorso.
Dopo la relazione il presidente invita gli avvocati delle parti a svolgere le loro difese. Quindi il pubblico ministero espone oralmente le sue conclusioni motivate. Non sono ammesse repliche, ma gli avvocati delle parti possono nella stessa udienza presentare alla Corte brevi osservazioni per iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero».
Ora, invece, – stando a quanto prevede l’art. 379 – all’udienza, dopo una succinta relazione da parte del consigliere designato come relatore, «il presidente invita il pubblico ministero a esporre oralmente le sue conclusioni motivate e quindi i difensori delle parti svolgono le loro difese», mentre non sono ammesse né repliche, né il deposito delle «brevi osservazioni per iscritto» sulle conclusioni del pubblico ministero. Le une e le altre, infatti, risultano del tutto inutili, visto che, essendo stato anticipato l’intervento del pubblico ministero e l’esposizione delle sue motivate conclusioni, le parti potranno avanzare oralmente eventuali repliche. Va anche ricordato che, dopo la riscrittura dell’art. 76 dell’ordinamento giudiziario (da parte dell’art. 81 d.l. 21.6.2013, n. 69, convertito dalla l. 9.8.2013, n. 98), nei giudizi civili in Cassazione il p.m. interviene e conclude in tutte le udienze dinanzi alle Sezioni Unite e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla “sezione-filtro” dell’art. 376, co. 1 (sempre che si ammetta la possibilità della pubblica udienza anche davanti alla “sezione-filtro”.
Infine, il legislatore del 2016 ha provveduto a riscrivere l’art. 391 bis c.p.c. per adeguarlo, da un lato, alla necessità di sganciare dalla disciplina della revocazione delle pronunce della Cassazione il ben diverso strumento della correzione degli errori materiali e di calcolo delle sentenze o delle ordinanze della Cassazione8 e, dall’altro lato, per conformare a quanto previsto dall’art. 327 c.p.c. il termine lungo per la revocazione delle sentenze della stessa Cassazione in esso previsto. Quanto alla correzione degli errori materiali e di calcolo, la Corte costituzionale, con la sent. 18.4.1994,
n. 119, aveva rilevato l’illegittimità costituzionale dell’apposizione di un termine decadenziale per la proposizione dell’istanza di correzione di tali errori9. La l. n. 197/2016 ha preso atto di ciò ed ha apportato le opportune correzioni all’art. 391 bis.
Di conseguenza, ora esso prevede che «La correzione può essere chiesta, e può essere rilevata d’ufficio dalla Corte, in qualsiasi tempo». Sebbene con una formulazione non chiarissima, la voluntas del legislatore sembra essere quella di ammettere che l’errore materiale o di calcolo idoneo alla correzione della sentenza o dell’ordinanza (senza limitazione alcuna: con la riforma del 2016, infatti, è venuto meno il richiamo alle sole ordinanze ex art. 375, nn. 1, 4 e 5)10 possa essere rilevato anche d’ufficio dalla Corte. La nuova disposizione, tuttavia, non chiarisce in che modo la Corte possa pervenire al rilievo ufficioso dell’errore materiale o di calcolo e soprattutto se essa possa addirittura attivare d’ufficio il procedimento per provvedere alla correzione di tale errore. Per come formulata, la disposizione sembrerebbe alludere sia alla possibilità che la Corte, pur attivata su istanza di parte per la correzione o per la revocazione di suoi provvedimenti, rilevi anche d’ufficio la presenza, nel primo caso, di ulteriori errori rispetto a quelli segnalati dalla parte oppure, nel secondo caso, di vizi della pronuncia non qualificabili come errori di natura revocatoria, ma come errori materiali o di calcolo, sia alla possibilità che essa si attivi anche senza istanza di parte per procedere a tale correzione11. E questo, proprio in considerazione del fatto che il rimedio della correzione degli errori materiali nulla ha a che vedere con i rimedi impugnatori.
Nell’un caso come nell’altro l’iniziativa ufficioso impone, comunque, l’instaurazione del contraddittorio, ai sensi del co. 3 dell’art. 384 c.p.c., nei confronti delle parti del giudizio al quale si riferisce il provvedimento sottoposto a correzione12. Circa, poi, la disciplina da seguire per la pronuncia sulla correzione degli errori materiali e di calcolo, i co. 2 e 3 dello stesso art. 391 bis aggiungono che «sulla correzione la Corte pronuncia nell’osservanza delle disposizioni di cui all’articolo 380 bis, primo e secondo comma» e che «sul ricorso per correzione dell’errore materiale pronuncia con ordinanza». Non è chiaro, di fronte al dettato normativo, se qui – nel richiamare il modello camerale dell’art. 380 bis – solo per un difetto di coordinamento il legislatore abbia omesso di richiamare anche il secondo modello di procedimento camerale quando l’applicazione dell’art. 391 bis riguardi pronunce delle sezioni semplici oppure l’intenzione del legislatore, o se, piuttosto, fosse quella di estendere solo in questo caso il modello camerale dell’art. 380 bis anche alle sezioni semplici. La prima pronuncia della Cassazione che ha fatto applicazione del nuovo art. 391 bis si è posta il problema e l’ha risolto nel senso che la maggiore articolazione del contraddittorio consentita dal secondo modello (quello dell’art. 380 bis.1, «porta a superare il dato strettamente letterale del rinvio operato dall’art. 391 bis e a ritenere pertanto applicabile l’iter procedurale di cui all’art. 380 bis.1»13. Quanto, invece, al termine per proporre la revocazione, il previgente testo dell’art. 391 bis prevedeva che essa potesse essere proposta «entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa». Presentando, così, un evidente difetto di coordinamento con la nuova disciplina generale sul termine cd. lungo per proporre le impugnazioni introdotta nel 2009 nell’art. 327 c.p.c., che ora prevede sei mesi dalla pubblicazione della sentenza e non più un anno, ove la sentenza non sia stata notificata alla controparte. Per superare tale difetto di coordinamento la l. n. 197/2016 ha modificato l’art. 391 bis, riducendo a sei mesi la precedente previsione di un anno.
Alla luce delle importanti modifiche che il legislatore del 2016 ha introdotto nel giudizio davanti alla Corte di cassazione, tre ci pare che siano i profili più problematici che da esse emergono. E attengono più precisamente alla loro idoneità a salvaguardare la ragionevole durata del giudizio in cassazione, il principio del contraddittorio, il principio della pubblicità dei giudizi.
Un primo profilo problematico è strettamente legato alla generalizzazione del procedimento camerale e alla possibilità – prevista dal co. 2 dell’art. 375 – che detto procedimento non si applichi quando il ricorso presenti, a detta della sezione semplice al quale è stato assegnato, una «questione di diritto di particolare rilevanza».
Mentre l’impostazione precedente – stante la limitata applicazione del procedimento camerale alle sole ipotesi individuate dal co. 1 dell’art. 375 – consentiva (ha consentito finora) ai giudici di Cassazione di individuare agevolmente le ipotesi da trattare con l’uno piuttosto che con l’altro procedimento, la nuova formulazione del co. 2 dell’art. 375 – oltre a travolgere in un sol colpo una tradizione secolare che ha accompagnato il giudizio in Cassazione – rischia di rivelarsi un boomerang proprio sul piano della riduzione dei tempi di trattazione dei ricorsi, e dunque della salvaguardia della ragionevole durata del giudizio di legittimità. Non si può trascurare, infatti, che – al di fuori del caso in cui il ricorso da decidere da parte della sezione semplice sia stato rimesso dalla cd. “sezione-filtro” in esito alla procedura camerale – ai fini della scelta fra procedimento a pubblica udienza e procedimento camerale tutto ruota intorno alla rilevata presenza di una questione di diritto, sulla quale è chiamata a pronunciarsi la Corte, di «particolare rilevanza». Un presupposto, cioè, dai contorni a dir poco evanescenti, non essendo chiaro se la «particolare rilevanza» debba essere valutata ai fini dell’esercizio della funzione nomofilattica della Corte14 o solo sul piano “interno” della controversia15. E dunque, nella realtà i vantaggi che potrebbero ottenersi dalla celerità del procedimento camerale e dalla forma del provvedimento che lo conclude potrebbero essere quasi totalmente vanificati dal dispendio di energie implicato dalla necessità di una preventiva delibazione del ricorso al fine di stabilire se lo stesso e le censure con esso mosse implichino oppure no questioni di «particolare rilevanza». Con il forte rischio che – proprio in considerazione della indeterminatezza del criterio richiamato dal co. 2 dell’art. 375 – in camera di consiglio il collegio ritenga che i motivi e le questioni proposti, re melius perpensa, affrontino questioni di «particolare rilevanza» ed il ricorso, di conseguenza, debba essere dirottato verso il procedimento in udienza pubblica. Determinando, di fatto, un inevitabile allungamento dei tempi di definizione dello stesso, che pure, in teoria, dovrebbero beneficiare dal generale ricorso all’uso del procedimento camerale16.
Non v’è dubbio, infatti, che, laddove la valutazione compiuta dal relatore, circa l’opportunità di trattazione del ricorso in camera di consiglio, non dovesse essere condivisa da collegio della sezione semplice, la conseguenza inevitabile dovrebbe essere che lo stesso ricorso sia rimesso alla trattazione in pubblica udienza. E questo – rilevato il silenzio sul punto dell’art. 380 bis.1 – in applicazione analogica del co. 3 dell’art. 380 bis, che disciplina la stessa ipotesi per il procedimento camerale davanti alla “sezionefiltro”17.
Un secondo profilo problematico della nuova disciplina riguarda – a nostro parere – proprio le modifiche che sono state apportate al procedimento camerale, nella sua triplice articolazione (davanti alla “sezione-filtro”: art. 380 bis; davanti alla sezione semplice: art. 380 bis.1; per i regolamenti di giurisdizione e competenza: art. 380 ter). Esse, infatti, non appaiono pienamente al di sopra del dubbio che vadano ad incidere le garanzie costituzionali del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti (artt. 24 e 111 Cost.). E questo, per due concorrenti ragioni. La prima ragione è legata al modo attraverso il quale gli artt. 380 bis e 380 bis.1 prevedono che si realizzi l’interlocuzione fra consigliere relatore e parti circa la proposta del primo di optare, nella decisione del ricorso, per il procedimento camerale.
Dalla formulazione degli artt. 380 bis e 380 bis.1 emerge con evidenza che nell’un caso come nell’altro l’opzione a favore del procedimento camerale viene assunta attraverso un provvedimento tutto interno ai rapporti fra consigliere relatore e presidente, senza alcuna rilevanza esterna, e le parti vengono informate della soluzione proposta dal relatore solo attraverso la notificazione o la comunicazione del decreto di fissazione dell’adunanza. Esse, cioè, non hanno alcuna possibilità di conoscere le ragioni sulle quali lo stesso consigliere ha basato la sua proposta e di interloquire (esercitando con pienezza il contraddittorio) su di esse. Possibilità che, invece, in precedenza era garantita proprio dalla relazione del consigliere relatore con l’esposizione di tali ragioni, prevista dal previgente art. 380 bis. Né si può dire che, trattandosi di atto “interno”, su di esso non è necessario instaurare il contraddittorio con le parti18, essendo evidente che in questo caso la “sostanza” della proposta del consigliere relatore riveste rilevanza “esterna”, in quanto la scelta per la decisione camerale è conseguenziale ad una ben precisa valutazione del ricorso o dei ricorsi che sono stati sottoposti al suo esame.
Ebbene, proprio la presenza di questa “sostanza” aveva indotto lo stesso legislatore, fino alla l. n. 197/2016, a ritenere che la valutazione del relatore circa l’opportunità di avviare il ricorso alla trattazione camerale dovesse essere esplicitata nella relazione del consigliere assegnatario del ricorso (una sorta di “ordinanza opinata”)19, da notificarsi alle parti. Di conseguenza, l’opzione a favore del procedimento camerale, insieme alle ragioni che la giustificavano, era correttamente esternalizzata e sottoposta al contraddittorio delle parti, le quali proprio utilizzando la relazione erano in grado di “aggiustare” le proprie difese attraverso le memorie scritte e poi mediante l’eventuale partecipazione all’adunanza davanti al collegio.
La l. n. 197/2016 inopinatamente – come detto – sopprime la relazione del consigliere relatore nel momento stesso in cui amplia l’utilizzazione del procedimento camerale, ora esteso dalle ipotesi di inammissibilità, manifesta fondatezza/infondatezza a tutte le ipotesi in cui il ricorso non presenti «questioni di diritto di particolare rilevanza».
Resta il fatto che nell’un caso come nell’altro, per favorire l’accelerazione del giudizio civile in Cassazione, le ragioni a sostegno dell’opzione per il procedimento camerale non sono affatto esplicitate alle parti, le quali sono costrette a difendersi “al buio” per contrastare, a seconda dei casi, l’inammissibilità o la manifesta fondatezza/infondatezza del ricorso o la convinzione del relatore che il ricorso non presenti questioni di diritto «di particolare rilevanza». Senza che abbiano la possibilità di “aggiustare il tiro” e calibrare meglio le proprie difese in sede di adunanza, essendo per loro ormai preclusa la facoltà di parteciparvi.
Se così è, siamo in presenza di ragioni, eventualmente rilevate anche d’ufficio dal relatore e sulla base delle quali la Corte probabilmente deciderà il ricorso, ma rispetto alle quali le parti potrebbero non aver avuto modo di esercitare appieno il loro diritto al contraddittorio.
Ed è davvero singolare, oltre che sintomatico della superficialità con la quale opera negli ultimi tempi il legislatore in materia di processo civile, che sia proprio la disciplina processuale sul ricorso in Cassazione nucleo essenziale del «giusto processo regolato dalla legge», come insegna la nostra Corte costituzionale20 a non garantire appieno il contraddittorio paritario fra le parti, caposaldo di qualsiasi sistema processuale. Tanto più se si considera che, nel disciplinare la medesima soluzione per il giudizio penale in Cassazione, l’art. 610 c.p.p. prevede che, dopo l’assegnazione del ricorso per la decisione in camera di consiglio dell’«apposita sezione» (la cd. “sezione filtro”, la settima sezione penale), «la cancelleria dà comunicazione del deposito degli atti e della data dell’udienza al procuratore generale ed ai difensori … L’avviso contiene l’enunciazione della causa di inammissibilità rilevata». Facendo così emergere anche il dubbio di ragionevolezza con riferimento alla scelta operata, per l’identica situazione, con riferimento al rito civile21.
Né, d’altro canto, l’incisione del contraddittorio può essere sanata successivamente, in sede di adunanza camerale davanti al collegio. La lettera degli artt. 380 bis e 380 bis.1 (ma anche dell’art. 380 ter), infatti, chiarisce come sia precluso ai difensori non soltanto di chiedere di essere sentiti, ma perfino di partecipare, comparendo, all’adunanza davanti al collegio, la quale, di conseguenza, sarà regolata dall’art. 276, co. 1, c.p.c.22 In realtà, non si può non rilevare che proprio la soppressione dell’obbligo del consigliere relatore assegnatario del ricorso di depositare in cancelleria «una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia» (art. 380 bis, co. 1, nella sua previgente formulazione) – relazione, notificata alle parti insieme al decreto di fissazione dell’adunanza (art. 380 bis, co. 2, nella sua previgente formulazione) – avrebbe dovuto coerentemente orientare il legislatore a consentire agli avvocati delle parti di partecipare, su richiesta, all’adunanza camerale, al fine di ristabilire l’“incrinata” pienezza del contraddittorio. Conclusione, questa, alla quale potrebbe pervenirsi in sede applicativa nonostante il tenore letterale degli artt. 380 bis e 380 bis.1 (e dell’art. 380 ter), accedendo ad un’interpretazione costituzionalmente conforme delle nuove disposizioni sul procedimento camerale in Cassazione, che consenta di superare i dubbi di illegittimità costituzionale che esse fanno emergere.
Infine, l’evanescente presupposto («particolare rilevanza della questione di diritto») richiamato dal co. 2 dell’art. 375 al fine di orientare nella scelta fra procedimento camerale o in pubblica udienza fa dubitare della conformità della soluzione adottata dal legislatore con i principi affermati sia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con riferimento all’art. 6, § 1, CEDU (oltre che all’art. 6 del Trattato UE, che ha recepito l’art. 47 della Carta di Nizza), sia dalla nostra Corte costituzionale, con riferimento all’art. 101, co. 1, Cost., circa la necessità del rispetto del principio della pubblicità nell’esercizio della giurisdizione e l’eccezionalità della trattazione in camera di consiglio. Ed infatti, in più di un’occasione la Corte di Strasburgo ha affermato che le procedure «in camera di consiglio» si pongono in contrasto con l’art. 6, § 1, CEDU, che tutela le persone soggette a giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo scopo dell’art. 6, § 1, della CEDU, ossia l’«equo processo»23.
La stessa Corte europea ha, d’altra parte, ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad es., il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possano giustificare che si faccia a meno di un’udienza pubblica. Tuttavia, l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata del giudizio, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa» e certamente non – come oggi prevede il co. 2 dell’art. 375 c.p.c. – dall’assenza di una «particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare».
Del resto, è lo stesso art. 6, § 1, CEDU a prevedere che «la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».
Sulla stessa lunghezza d’onda si è posta la nostra Corte costituzionale, la quale ha ribadito anche di recente24 le sue affermazioni del passato secondo le quali la «pubblicità del dibattimento è garanzia di giustizia, come mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità» ed è «coessenziale ai principi ai quali, in un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, deve conformarsi l’amministrazione della giustizia che in quella sovranità trova fondamento»25.
Vero anche che gli stessi giudici costituzionali, con riguardo proprio al giudizio in Cassazione (sia pure in sede penale, in materia di applicazione di misure di prevenzione), hanno ritenuto che «a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta». Ed hanno concluso, quindi, che «i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle Corti di appello o alla Corte di cassazione»26. Sennonché, anche a voler tener conto di quest’ultima eccezione al principio di pubblicità del giudizio che i nostri giudici costituzionali ammettono, essa appare difficilmente compatibile con l’attuale previsione del co. 2 dell’art. 375 c.p.c.27, visto che esso consente di applicare in maniera generalizzata il procedimento camerale per la trattazione dei ricorsi civili in Cassazione sulla base della sola valutazione di insussistenza, nel ricorso da decidere, di una questione di diritto di «particolare rilevanza». Senza distinguere in alcun modo né fra ricorsi che pongono solo questioni di diritto o anche questioni di fatto (ex art. 360, n. 4 e 5, c.p.c.), né fra ricorsi che abbiano ad oggetto provvedimenti pronunciati all’esito di giudizi di merito trattati in pubblica udienza oppure no.
1 Verde, G., Il processo sotto l’incubo della ragionevole durata, in Riv. dir. proc., 2011, 505 ss.
2 In proposito v. la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2016 del Primo Presidente della Cassazione (Roma, 26 gennaio 2017), in cortedicassazione.it.
3 Lo evidenzia anche il Primo Presidente della Cassazione, ma come elemento qualificante della riforma (v. Canzio, G., La riforma del giudizio civile di Cassazione. Una introduzione, in penalecontemporaneo.it).
4 V., in particolare, C. cost., 15.1.1970, n. 1; C. cost., 5.7.1971, n. 173; C. cost., 13.1.1972, n. 29; in tempi più recenti, C. cost., 28.7.2000, n. 395; C. cost., 9.7.2009, n. 207. Sull’inquadramento dato dai giudici costituzionali al ricorso per cassazione, pienamente conforme, del resto, agli esiti del dibattito in Assemblea Costituente, rinvio a Carratta, A., La Corte costituzionale ed il ricorso per cassazione quale “nucleo essenziale” del «giusto processo regolato dalla legge»: un monito per il legislatore ordinario, in Giur. it., 2010, 627 ss., a commento proprio dell’ultima pronuncia della Consulta.
5 Carratta, A.D’Ascola, P., Riforma del processo civile nel d.l. 69/2013, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, 490.
6 Per una valutazione complessivamente critica del nuovo intervento legislativo v. il documento presentato dalla Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Ampliamento del procedimento camerale in cassazione, in Foro it., 2016, V, 354. V. anche, sempre in chiave critica – oltre a chi scrive (Carratta, A., Le più recenti riforme del processo civile, Torino, 2017, 8 ss.) – Punzi, C., La nuova stagione della corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, in Riv. dir. proc., 2017, 1 ss.; Sassani, B., Da Corte a Ufficio Smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”, in Judicium.it; Scarselli, G., Il nuovo giudizio di cassazione per come riformato dalla legge 197/2016, in questionegiustizia.it; Id., In difesa della pubblica udienza, in Foro it., 2017, V, 30 ss.; Costantino, G., Note sulle «Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione», ibidem, 7 ss.; Dalfino, D., Il nuovo volto del procedimento in Cassazione, nell’ultimo intervento normativo e nei protocolli di intesa, ibidem, 2 ss.; Damiani, F.S., Il nuovo procedimento camerale in Cassazione e l’efficientismo del legislatore, ibidem, 23 ss.
7 In questo senso, ci pare, Campese, E., Il nuovo giudizio camerale civile di cassazione, in Foro it., 2017, V, 17 ss.
8 La profonda differenza tra correzione degli errori materiali e revocazione per errore di fatto delle sentenze della Cassazione è messa in evidenza dalla Cass., 17.1.2003, n. 657, che ne desume la non convertibilità tra i due procedimenti.
9 L’assoggettamento ad un termine anche dell’istanza di correzione era una delle incongruenze che conseguivano all’inopportuna riconduzione di due iniziative diverse ad una disciplina comune; come se anche il rimedio della correzione rivestisse il carattere dell’impugnazione.
10 Il riferimento al n. 1, originariamente non previsto, andava incluso in forza di C. cost. n. 207/2009, cit.
11 A questa conclusione sembra pervenire anche, in sede di prima applicazione, Cass., 21.2.2017, n. 4496, la quale ha rilevato che «la correzione dell’errore materiale di ufficio non può prescindere comunque da un atto formale di impulso da parte del presidente della sezione che ha emesso il provvedimento in cui è ravvisato l’errore materiale, in estrinsecazione di una generale potestà ordinatoria a lui facente capo e nell’esercizio – ulteriore o prorogato – della stessa potestà decisionale prima espletata dal Collegio che il provvedimento aveva reso, riconducendosi l’attività sostanzialmente amministrativa di correzione dell’errore a guisa di ammennicolo appunto alla stessa attività giurisdizionale originaria in base alla quale è stato reso il provvedimento viziato da errore materiale».
12 Così anche la citata Cass. n. 4496/2017, che, infatti, avendo rilevato d’ufficio l’errore materiale, ha pronunciato ordinanza interlocutoria, disponendo che essa venga notificata ai procuratori delle parti costituite e fissando alle parti i relativi termini ai sensi del co. 3 dell’art. 384.
13 Cass., 25.7.2017, n. 18278.
14 Così sembrano orientarsi Cass., 3.4.2017, n. 8615; Cass., 6.3.2017, n. 5506; Cass., 1.8.2017, n. 19115.
15 Su quest’ambiguità del dettato normativo v. anche Carratta, A., Le più recenti riforme, cit., 16 ss.; Panzarola, A., La Cassazione civile dopo la l. 25 ottobre 2016 e i c.d. Protocolli, in Nuove leggi civ., 2017, 284 ss.; Briguglio, A., Le nuove regole sul giudizio civile di cassazione: per i casi normali e per i casi a valenza nomofilattica. La scelta “fior da fiore” di una Suprema Corte ristretta nei limiti dell’art. 111 Cost., in Giust. civ., 2017, 306 ss.; Scarselli, G., In difesa della pubblica udienza, cit., 30 e ss.; Consolo, C., La Cassazione e il suo nuovo volto “gianuario” (doppio ma, infine, disambiguato), in Corr. giur., 2017, 589 ss.
16 Secondo un questionario sulle prassi applicative della seconda sezione civile (in cortedicassazione.it) il rapporto tra pubblica udienza e adunanza camerale è di uno a tre con un’aspettativa di raggiungere il rapporto di uno a due.
17 In questo senso anche Cass., 6.3.2017, n. 5533; in senso contrario, tuttavia, Cass., 23.3.2017, n. 7605; Cass., 5.4.2017, n. 8869, secondo le quali, anche laddove il collegio non dovesse condividere la valutazione compiuta dal relatore, comunque la decisione sul ricorso dovrebbe essere assunta in camera di consiglio.
18 Così l’orientamento finora seguito dalla Cassazione (v. Cass., 10.1.2017, n. 395; Cass., 2.3.2017, n. 5374; Cass. n. 5506/2017, cit.; Cass. n. 8615/2017, cit.; Cass., 9.8.2017, n. 19761).
19 Picardi, N., L’ordinanza opinata nel rito camerale in Cassazione, in Giusto proc. civ., 2008, 322 ss.; Punzi, C., La nuova stagione, cit., 10; Panzarola, A., La Cassazione civile dopo la l. 25 ottobre 2016, cit., 284 ss.
20 Così la già citata C. cost. n. 207/2009.
21 Nel senso che proprio la diversa formulazione dell’art. 380 bis c.p.c., rispetto all’art. 610 c.p.p. per il rito penale, escluda la necessità di esplicitare nel decreto presidenziale di fissazione dell’adunanza le ragioni che sorreggono la proposta del relatore ed imponga, invece, la sola indicazione che lo stesso abbia ravvisato un’ipotesi di inammissibilità o manifesta fondatezza/infondatezza del ricorso, Lombardo, L., Il nuovo volto della Cassazione civile. A proposito della l. 25 ottobre 2016 n. 197, in questionegiustizia.it. È evidente che questa conclusione potrebbe condividersi solo se si escludesse che essa vada ad impattare su principi di rilevanza costituzionale. Ma – per quanto detto nel testo – non ci pare che sia così.
22 Tuttavia, nel senso che la Corte non possa rifiutare di sentire il pubblico ministero e le parti che chiedano di essere sentiti, Costantino, G., Note, cit., § 5.
23 V., in particolare, C. eur. dir. uomo, 13.11.2007, Bocellari e Rizza c. Italia; C. eur. dir. uomo, 8.7.2008, Perre e altri c. Italia; C. eur. dir. uomo, 10.4.2012, Lorenzetti c. Italia, tutte in materia di applicazione degli artt. 666, co. 3, e 678, co. 1, c.p.p., a proposito del procedimento in camera di consiglio davanti al tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza. Le stesse disposizioni, peraltro, sono state poi dichiarate incostituzionali da C. cost., 5.6.2015, n. 97 proprio nella parte in cui non consentono «che il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme dell’udienza pubblica». Per la medesima conclusione con riferimento agli artt. 666, co. 3, 667, co. 4, e 676 c.p.p., v. C. cost., 15.6.2015, n. 109.
24 C. cost., 12.3.2010, n. 93; C. cost., 21.5.2014, n. 135.
25 Così C. cost., 2.2.1971, n. 12, in Giur. cost., 1971, 83 ss., con nota di G. Zagrebelsky.
26 C. cost., 11.3.2011, n. 80.
27 Nel senso che la soluzione non sia in contrasto con il principio costituzionale di pubblicità dei giudizi Cass. n. 395/2017, cit.; Cass., 22.2.2017, n. 4541; Cass. n. 5506/2017; Cass. n. 8615/2017, cit.; Cass. n. 19761/2017, cit.; nello stesso senso anche Amoroso, G., La cameralizzazione non partecipata del giudizio civile di cassazione: compatibilità costituzionale e conformità alla Cedu, in Foro it., 2017, V, 41 ss.; Lombardo, L., Il nuovo volto, cit., 10. Invece, nel senso del testo, Costantino, G., Note, cit., 9; Scarselli, G., In difesa, cit., 30 e ss.; Dalfino, D., Il nuovo volto, cit., 2; perplesso anche Punzi, C., La nuova stagione, cit., 10; Irti, N., Le due Cassazioni civili (in difesa della motivazione), in Contr. e impresa, 2017, 11 ss.