Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Duecento, le mutate condizioni sociali e politiche favoriscono nell’Italia dei Comuni l’affermarsi di una retorica volgare applicata al governo delle città che, richiamandosi al modello ciceroniano, ripropone alla riflessione europea un problema che diventerà centrale per l’umanesimo civile.
La tradizione antica dell’uso pubblico della parola, trasmessa al Medioevo dal De inventione, dalla Rhetorica ad Herennium e da opere come quella di Mario Vittorino, è presente sia alle concezioni pragmatico-argomentative della retorica, legate alla logica boeziana, di Guglielmo di Champeaux e delle scuole di Laon e Parigi, che alla pratica dei predicatori, teorizzata da Agostino (354-430) nel De doctrina christiana, da Ambrogio nel De officiis e indagata con strumenti retorici a partire da Alano di Lilla e dall’ars praedicandi. Ma è con le vicende storiche e politiche del Duecento italiano che si crea il contesto per una rilettura della retorica civile di stampo ciceroniano.
Nella società comunale ci sono luoghi e istituzioni, in particolare la figura del podestà professionale, in cui la parola è legata al governo della città. Le riflessioni sugli strumenti utili all’adempimento delle nuove funzioni comprendono anche l’utilizzo della parola, come nell’Oculus pastoralis, trattato sul comportamento del podestà del 1220 circa. In questi anni è infatti comune la grafia “rettorica”, con -tt- paraetimologica, che riconduce la parola a “rettore”, il reggitore delle città.
La comunicazione politica e giudiziaria nel Medioevo si serve, oltre che del discorso orale, dell’epistola. L’arte di comporre lettere fu a lungo un esercizio quotidiano appreso grazie all’imitazione di modelli e al ricorso a formulari, cui mancò una formulazione teorica e precettistica. Nel periodo tra l’XI e il XII secolo, con l’opera di Alberico da Montecassino e Adalberto Samaritano, diviene invece disciplina autonoma, ars dictaminis, applicando alla composizione di lettere le regole retoriche, in particolare la dottrina delle cinque parti dell’orazione per la scansione dei momenti dell’epistola.
A Bologna vengono fissati, a partire da Adalberto, i contenuti dell’ars, che si inserisce nel contesto degli studi giuridici, assieme all’ars notaria e alla pratica amministrativa, entrambe documentate dall’attività di Rolandino de’ Passeggeri. Accanto all’ars dictaminis si sviluppa poi l’ars arengandi o concionandi, dedicata ai discorsi pubblici, che, in forma teorica e di raccolta di modelli, interessa l’attività di Boncompagno da Signa, Guido Faba e Matteo de’ Libri. In Italia l’ars dictaminis, influenzata dalla scuola bolognese, si sviluppa in connessione con l’esercizio pubblico e politico della parola. In Francia, altro centro di sviluppo del dictamen, l’arte si lega invece agli studi grammaticali e a quelli sugli auctores, rientrando nelle trattazioni delle artes latine.
Tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, la riflessione morale sulla parola coinvolge predicatori, canonisti, moralisti e teologi, nel tentativo di approfondire il tema diversamente dalla tradizione patristica e monastica.
Il problema, legato alla dimensione pubblica del discorso, è svolto in un contesto laico e cittadino dal giudice Albertano da Brescia, che nel Liber de doctrina dicendi et tacendi offre un esempio di etica sociale, esponendo attraverso la dottrina delle circostanze le regole che governano le parole e i silenzi, con riferimenti anche ai discorsi pubblici. Il legame con l’etica è comune a tutte le riflessioni sulla retorica civile, che funziona solo “se sapienza sia presta, cioè se ella sia adiunta con eloquenzia” (Brunetto Latini, La rettorica, XIV, III). Il ruolo dell’etica per la formazione della retorica civile duecentesca sta anche nella valorizzazione della vita politica per l’uomo della tradizione aristotelica e ciceroniana, entrambe vive nel Duecento.
Brunetto Latini interviene a più riprese sul problema della retorica civile e nelle sue opere trovano sintesi, assieme ad alcune novità, le formulazioni precedenti. Brunetto si confronta col modello ciceroniano nella Rettorica e nel Tresor, scritte in Francia negli anni Sessanta del Duecento.
La Rettorica è il volgarizzamento commentato dei primi diciassette capitoli del De inventione di Cicerone. Si alternano parti in cui Brunetto traduce il testo latino e parti in cui interviene direttamente a spiegarne e integrarne la lezione con riferimenti all’ ars dictaminis. Il trattato si basa su una strutturazione del sapere che permette di definire il ruolo della retorica nell’ambito dell’arte di governo. Questa è parte della filosofia pratica che si esercita in fatti e in detti, questi ultimi oggetto della retorica. Riprendendo e attualizzando la prospettiva ciceroniana, Brunetto tenta una sintesi originale tra il testo antico e le acquisizioni medievali.
Se nella Rettorica le voci di Cicerone e di Brunetto rimangono divise, la vera sintesi si ha nel Tresor, enciclopedia in lingua d’oïl che tratta una vasta materia desunta da testi antichi e medievali, volgarizzati più o meno liberamente. Viene seguita una divisione dei saperi che, frutto della riscoperta di Aristotele dei secoli XII-XIII, divide l’opera in un libro di filosofia teorica e due di filosofia pratica, il secondo dei quali tratta della retorica e dell’arte di governo in Italia. Le varie branche della conoscenza intrattengono un rapporto di propedeuticità verticale che le fa convergere verso la “plus noble de nulle art dou monde” (Brunetto Latini, Tresor, I, I, 4), la scienza di governo, che le comprende tutte, retorica in primis. Si può così individuare il destinatario ideale nel podestà, primo tra quei laici alla cui edificazione l’opera è votata. La lingua francese assicura al libro una diffusione europea, accresciuta da numerosi volgarizzamenti.
L’interesse per la retorica civile porta Brunetto a volgarizzare tre orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro rege Deiotaro e Pro Marcello), mostrando un’inedita attenzione per quest’aspetto dell’attività di Cicerone, generalmente trascurato nel Medioevo.
L’applicazione civile della retorica si accompagna alla nascita della retorica in volgare, che si impone accanto a quella latina, ancora praticata da autori come Boncompagno da Signa. Sui due fronti del volgare italiano e della lingua d’oïl, l’attività di Brunetto Latini ha un ruolo essenziale, ma è parte di un movimento più ampio. Il giudice fiorentino Bono Giamboni (tra l’altro, volgarizzatore del Tresor) volgarizza, nel Fiore di Rettorica, una parte della Rhetorica ad Herennium, integrandola con estratti dal De inventione. Il trattato ha un fine divulgativo e s’impegna nella creazione di una terminologia tecnica in volgare, fornendo, assieme a Brunetto, un importante lascito lessicale alla tradizione successiva.
Anche il bolognese Guido Faba, nella Gemma purpurea e nei Parlamenta et epistole, offre modelli epistolari e oratori sia in latino che in volgare, a fronte dell’obbligo per i notai di saper leggere e scrivere documenti in volgare sancito dagli Statuti bolognesi del 1246. Nei Parlamenta et epistole uno stesso soggetto è variato stilisticamente, secondo la dottrina dei tre stili, e linguisticamente, in latino e in volgare.
La retorica civile duecentesca getta le basi dell’interesse per la dimensione pubblica della parola che l’umanesimo civile riprende nel contesto di una vasta mitografia repubblicana. Le riscoperte testuali e il mutato quadro generale di riferimento differenziano l’atteggiamento dei maestri medievali da quello degli umanisti. Questi ultimi, da Coluccio Salutati e Leonardo Bruni a Niccolò Machiavelli, hanno una consapevolezza maggiore e impostano secondo presupposti diversi un problema che affonda le sue radici nella cultura medievale, in particolare nel culto ciceroniano.